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               storia 
                  
                Gli anarchici italiani (1943-1968) 
                  
                di Pasquale Iuso  
                    
                È stato uno dei quattro coordinatori del Dizionario Biografico degli Anarchici Italiani. Docente all'università di Teramo, 
ora pubblica con BFS edizioni “Gli anarchici nell'età repubblicana. Dalla Resistenza agli anni della Contestazione.” 
                  Ne pubblichiamo qui l'introduzione.
                   
                  
                     
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                      |   Carrara, 15-19 settembre 1945 - Primo congresso  della Federazione anarchica italiana  | 
                     
                   
                 
                 
                  Perché manca una sintesi 
                  sull'anarchismo italiano dal dopoguerra agli anni della contestazione? 
                  A fronte di una serie di studi e ricerche più recenti 
                  che hanno colmato lacune importanti, viene da pensare che tale 
                  situazione sia derivata dalle vicende che hanno contraddistinto 
                  il movimento fra la Guerra di Spagna e la Resistenza, e da quella 
                  crisi iniziata pochi mesi dopo la sua ricostituzione poi aggravatasi 
                  nel corso degli anni che vanno dal 1949 al 1968-69, allorquando 
                  visse una fase di ripresa, rispetto alla quale troviamo un nuovo 
                  interesse di studio collegato soprattutto alla stagione dei 
                  movimenti. 
                  Una sorta di parentesi sembra, dunque, aver segnato la storia 
                  dell'anarchismo e degli anarchici? Una parentesi sostanzialmente 
                  definita all'interno di un lungo intervallo, nel corso del quale 
                  tutto sembra ricondurre a un'incapacità di fondo nel 
                  rispondere ai mutamenti degli scenari, ai nuovi problemi posti 
                  dai processi di modernizzazione e dalla trasformazione radicale 
                  della società italiana iniziata con la ricostruzione 
                  lungo l'asse del modello americano e occidentale, e giunta al 
                  suo apice con il boom economico e con la crisi della metà 
                  degli anni Sessanta. Tutti elementi che, di fatto, avrebbero 
                  ingabbiato il movimento e le sue problematiche in una sorta 
                  di incapacità diffusa di porsi i giusti quesiti ma, soprattutto, 
                  di trovare risposte adeguate ai problemi che gli si ponevano 
                  di fronte: il ruolo e il peso dei partiti, il pluralismo sindacale 
                  e il suo essere espressione della rappresentanza politica, la 
                  repressione e la violenza (occulta e palese), che stavano disegnando 
                  il profilo dell'Italia repubblicana. 
                  Alle analisi spesso acute e alle conseguenti proposte, ai tentativi 
                  di rilancio e agli sforzi organizzativi, al manifestare un dissenso 
                  acceso, ma certo minoritario, e al contrapporsi alla logica 
                  del bipolarismo, gli anarchici sembrano non riuscire a rispondere. 
                  Eppure non fu così; gli studi dedicati a questo o a quell'aspetto, 
                  sottolineano la crisi di un movimento e della sua capacità 
                  di azione e di consenso. Infatti da queste analisi, che si concentrano 
                  su realtà locali, su episodi centrali dell'anarchismo 
                  italiano dopo il 1945 (la Federazione anarchica italiana, il 
                  ruolo di «Umanità Nova», i Gruppi anarchici 
                  di azione proletaria), o su singoli esponenti (come Giovanna 
                  Caleffi Berneri, Armando Borghi, Gigi Damiani, Pier Carlo Masini, 
                  oppure su sindacalisti come Alberto Meschi, Attilio Sassi, Umberto 
                  Marzocchi e Gaetano Gervasio), emergono molteplici elementi 
                  di riflessione che spingono verso una diversa valutazione di 
                  quegli anni che, attraverso una prima e non certo completa ricostruzione, 
                  sembrano arricchirsi, inducendo verso l'osservazione di un periodo 
                  all'interno del quale (fra sconfitte, crisi e tentativi di rilancio) 
                  gli anarchici italiani si confrontano e si scontrano. Certo 
                  non rappresentano più, in termini quantitativi, quel 
                  movimento che aveva segnato con rilievo la storia politica e 
                  sociale a cavallo fra l'Ottocento e il Novecento, fin dentro 
                  il fascismo, ma sono ancora quegli uomini e quelle donne che 
                  lanciano una sfida, certo di minoranza, alla nuova società 
                  nata dalla Resistenza, che si stava definendo nell'impianto 
                  repubblicano. 
                  Seguendo questa linea ricostruttiva, sembrano emergere gli sforzi 
                  interni ed esterni, i tentativi di aggiornare la prassi e la 
                  teoria, l'impegno contro le censure e nelle lotte (la condanna 
                  della Spagna franchista, l'antimilitarismo, la difesa delle 
                  vittime politiche), le scelte organizzative, i dibattiti e gli 
                  scontri, la difesa della tradizione; tutti elementi che ci segnalano 
                  una ricchezza culturale e di analisi, per certi versi anticipatorie 
                  di anni a venire, di lotte classiste e di trasversalismo sociale, 
                  di richiesta di maggiori diritti e di difesa dell'individuo, 
                  di unità sindacale e di autonomia dei lavoratori, che 
                  non possono far liquidare questi decenni come un periodo vuoto. 
                  Al contrario, sembrano essere anni nel corso dei quali un movimento 
                  progressivamente ridotto nei numeri e nel peso sociale, attraversa 
                  esperienze che ne contraddistinguono la vicenda anche nei primi 
                  decenni repubblicani, nel corso dei quali la partecipazione 
                  dei giovani e la ripresa degli anziani paga il prezzo a una 
                  difficile e incerta attualizzazione rispetto alla nuova realtà 
                  economica, sociale e istituzionale. Non è un caso che 
                  il contrasto generazionale tra vecchi e nuovi militanti, si 
                  ripresenta in modo quasi costante, spingendo il movimento a 
                  trovare nuova forza e diffusione nella stagione dei movimenti, 
                  lungo la quale molti degli elementi dibattuti negli anni che 
                  la precedono (dall'educazionismo alla nuova sessualità, 
                  dal rifiuto di ogni delega, alla lotta contro ogni forma di 
                  autoritarismo, dal controllo sociale alla ricerca della piena 
                  libertà individuale e culturale di espressione) si ritrovano 
                  e si diffondono1. 
                
                   
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                    |   Carrara, 15-19 settembre 1945 - Un'altra immagine  del primo congresso della Federazione anarchica italiana  | 
                   
                 
                Recente accresciuto interesse 
                Per addentrarsi in un segmento così particolare della 
                  storia dei movimenti politici, non si può non fare anche 
                  un richiamo ai diversi problemi che pone in termini metodologici 
                  e di ricostruzione. Sotto moltissimi punti di vista e in tutte 
                  le diverse fasi in cui è suddivisibile la vicenda del 
                  mondo libertario italiano2, emerge 
                  in modo chiaro come esso non possa essere inteso e ricostruito 
                  come una tradizionale storia di una organizzazione politica, 
                  perché è stata la sua stessa natura che ha creato 
                  la differenza: tendenze individualistiche, spiccate personalità, 
                  volontà di agire in modi talvolta scollegati, processi 
                  riorganizzativi, esperienze regionali e provinciali specifiche, 
                  motivazioni e lotte particolari collegate a contesti diversificati 
                  specie nei mesi della guerra in Italia3, 
                  sono alcuni degli elementi e dei possibili motivi di diversità 
                  che si ritrovano nel secondo dopoguerra. 
Tale frammentazione si ripresenta nella lettura delle fonti. Queste ripropongono le variegate realtà dell'anarchismo italiano nei primi decenni della Repubblica, che, a loro volta, si riflettono nella composizione sociale e politica del movimento: se, quindi, tale ricchezza da una parte è utile per dar conto delle articolazioni e sfaccettature dell'anarchismo, dall'altra fa sorgere non pochi ostacoli nella ricerca di comuni denominatori, quindi di scelte da parte di chi ne vorrebbe ricostruire le vicende. 
                  La documentazione dal punto di vista interno, appartiene almeno 
                  a sei tipologie principali: le carte e i periodici, elementi 
                  indispensabili per lo studio dei movimenti libertari4; 
                  le pubblicazioni appartenenti alla pubblicistica del movimento; 
                  le biografie; i resoconti congressuali che vanno tuttavia intesi 
                  non vincolanti, bensì integrativi delle varie tendenze 
                  presenti; le testimonianze dirette e indirette5. 
                  Documentazione varia, quindi, che permette di far emergere – 
                  nella sua formazione e progressiva stratificazione – la 
                  diversificazione e l'articolazione del movimento stesso e, con 
                  questo, le difficoltà di ricondurlo a un comune denominatore 
                  (rappresentato almeno nella primissima fase dalla Fai). Dal 
                  punto di vista esterno nella documentazione permane la questione 
                  altrettanto tradizionale delle carte provenienti da quegli archivi 
                  che si “occupavano” degli anarchici per un fatto 
                  quasi istituzionale: Ministero degli Interni e Direzione Generale 
                  Pubblica Sicurezza su tutti. 
Un cenno merita infine lo stato della ricerca rispetto al periodo repubblicano. Solo in anni recenti sembra essere nuovamente cresciuto l'interesse verso questo segmento della storia dei movimenti politici. In quello che tuttora è un panorama parziale rispetto alla ampiezza delle indagini possibili, hanno inciso molti elementi. Parlare del movimento anarchico italiano significa innanzitutto ricordare – prima di ogni definizione – il suo protagonismo nella società italiana nel corso dell'Ottocento e del Novecento, e non ridurlo a un movimento politico marginale. 
Parlare degli anarchici italiani, nel secondo dopoguerra, significa – oltre a tracciare il profilo di un movimento destinato a scemare come importanza rispetto ai decenni precedenti, quindi non rapportabile in modo diretto con quel periodo – sgombrare il campo da tradizionali stereotipi o dalla ricorrente impressione di non essere più un movimento. Gli anarchici ponevano il singolo come momento centrale della loro attività e della loro propaganda, in funzione dei diritti e del valore che lo stesso aveva nella società contemporanea in tutti i suoi aspetti e al di là delle differenziazioni di classe: individuo, interclassismo, lotta per i diritti, la giustizia, la pace e contro la guerra, le ideologie totalitarie e gli imperialismi, congiunti con una forte dimensione etica e umanitaria sono alcuni degli elementi che lo continuano a caratterizzare tanto quanto i diversi tentativi di attualizzarlo, recuperando la sua dimensione di classe in senso sempre più anticomunista. 
Parlare di movimento anarchico nella seconda metà del 900, inoltre, significa tenere in conto che le sue organizzazioni (o meglio sarebbe dire i suoi tentativi di giungere a una forma organizzativa coerente con gli ideali), i suoi congressi, i suoi uomini non riescono singolarmente a rappresentarne la complessità. FAI, FLI, GAAP, GIA, GAF, FAGI, così come i gruppi locali e regionali, in certi momenti rappresentano altrettanti modi di interpretare, aggiornare e rendere concreta la pratica anarchica e libertaria. Di conseguenza parlare di una sigla, di un gruppo o di un singolo militante, non significa parlare del movimento nella sua interezza e complessità, ed è per questo che, con questo lavoro, non si vuole tracciare la “storia” degli anarchici, bensì “una” delle possibili storie. 
Con queste caratteristiche, gli anarchici italiani dopo il secondo conflitto mondiale non potevano allontanarsi facilmente dalla tradizione e dalla loro storia: Malatesta, la Spagna, il fascismo, la Resistenza e le sue speranze, la libertà dei popoli, la frenetica attività giornalistica e di propaganda, il dibattito e lo scontro dialettico, le polemiche, appartengono fino in fondo alla loro vicenda negli anni della Repubblica, e non poteva essere altrimenti. Fu un limite? Fu errato, nei momenti più critici dei rapporti interni, riferirsi ai programmi malatestiani degli anni Venti, rifiutando in parte di procedere verso un aggiornamento, considerato troppo facilmente un pericoloso deviazionismo verso il comunismo? La risposta non può che essere duplice. 
                  Probabilmente no perché si riuscirono a confermare e 
                  mantenere chiare le origini, i metodi, gli obbiettivi; con il 
                  risultato di disegnare un quadro dove rintracciare un filo conduttore 
                  da seguire nella sua evoluzione e trasformazione dalle origini 
                  al fascismo e poi nell'Italia repubblicana; un filo conduttore 
                  che nel secondo dopoguerra – sull'onda delle analisi di 
                  Camillo Berneri e Luigi Fabbri, poi riprese, tra gli altri, 
                  da Giovanna Caleffi Berneri e da Cesare Zaccaria attraverso 
                  quell'importante esperienza che fu «Volontà»6 
                  – modifica l'anarchismo «da movimento politico sociale 
                  con agganci classisti, a movimento politico culturale con agganci 
                  a-classisti»7. 
Probabilmente si, perché in uomini come Pier Carlo Masini o in esperienze come la FLI e in parte gli stessi GAAP, pur giudicati fratture insanabili, portavano alla luce un malessere diffuso, legato alla marginalizzazione e depauperamento, cui cercavano di rispondere con tentativi di ricerca e apertura di un rinnovato spazio politico, che non poteva non portare – nel contesto di quei decenni – a una qualche contaminazione. 
                 Quattro 
                  periodi  
                I connotati polemici più frequenti rimasero comunque 
                  quelli sulle deviazioni filo marxiste, quelli di tipo organizzativo/antiorganizzativo, 
                  e quello sindacale stretto fra “entrismo” nella 
                  CGIL e scelta autonoma, il tutto calato all'interno di un movimento 
                  che si trovava di fronte problemi inesistenti nei decenni precedenti: 
                  il sistema dei partiti e la loro progressiva occupazione del 
                  potere alla ricerca e al mantenimento del consenso, il pieno 
                  dispiegarsi di una società di massa centrata sul sistema 
                  economico industriale di tipo fordista, il confronto ideologico 
                  bipolare e la contrapposizione fra est e ovest, fino agli anni 
                  del boom economico (con le radicali e contraddittorie trasformazioni 
                  della società italiana), e poi nel decennio dei movimenti 
                  con l'inizio della crisi economica e della strategia della tensione, 
                  hanno rappresentato altrettanti scenari con i quali gli anarchici 
                  hanno dovuto prima confrontarsi e poi operare, attraversare 
                  crisi e scissioni, per tentare ogni volta di definire un proprio 
                  percorso e una propria attualizzazione. 
                  Un quadro del tutto nuovo, che li vede costretti fra un rivoluzionarismo 
                  tradizionale e la necessità di percorrere strade diverse. 
                  Tra le speranze rivoluzionarie resistenziali e le delusioni 
                  legate alla stabilizzazione istituzionale e sociale dell'immediato 
                  dopoguerra, tra la pressione ideologica e l'isolamento, tra 
                  le crisi interne e la pervasività della rappresentanza 
                  partitica e sindacale, il movimento (e con esso le diverse sigle 
                  che apparvero in quegli anni) riuscì ad attraversare 
                  questi decenni. Mentre alcune questioni ebbero una risposta, 
                  altre rimasero periferiche non perché non importanti, 
                  ma perché non riuscì a trovare un terreno attraverso 
                  il quale affrontarle. 
                  Tra queste certamente il punto di partenza del movimento nel 
                  dopoguerra; quel congresso di Carrara del 1945 (città 
                  che accolse, forse sintomaticamente, il IX congresso giusto 
                  venti anni dopo, in un contesto interno, nazionale e internazionale 
                  profondamente mutato nelle speranze e nelle aspettative del 
                  dopoguerra) nel corso del quale, sopite dal clima euforico di 
                  quei giorni, emergeranno le diverse esperienze e le differenti 
                  impostazioni che i militanti avevano elaborato negli anni della 
                  dittatura, al confino e durante la guerra. Esperienze e anime 
                  rapportabili – semplificando – a quell'area individualista, 
                  profondamente diffidente se non avversa, a ogni ipotesi o tentativo 
                  di centralizzazione e di organizzazione che non fosse giustificabile 
                  in base alla tradizione e alla storia del movimento, e a quell'area 
                  tendenzialmente organizzativa, propensa a un aggiornamento teorico 
                  dell'anarchismo, alla luce delle trasformazioni intervenute 
                  nella società, nelle sue strutture economiche e nelle 
                  relazioni istituzionali e internazionali. Lo stesso per quegli 
                  orientamenti dichiaratamente classisti che l'anarchismo tentava 
                  di recuperare ed esaltare, di contro all'altrettanto importante 
                  orientamento a-classista e sostanzialmente aperto, del movimento 
                  e del pensiero, considerato un suo imprescindibile valore aggiunto, 
                  che allontanava gli anarchici da ogni pericolo di deviazione 
                  partitica. Tutte vicende che stavano pagando il prezzo a una 
                  storia precedente: la dittatura fascista e la Guerra di Spagna. 
                  Con quella sconfitta e poi con la Seconda guerra mondiale, l'anarchismo 
                  quasi perde per intero una generazione di militanti, con la 
                  conseguenza che a Carrara nel 1945 si confronteranno coloro 
                  che avevano vissuto quegli anni (ormai invecchiati e fortemente 
                  provati), coloro che vissero in larga parte al confino fascista, 
                  con coloro che avevano intercettato l'anarchismo percorrendo 
                  altre strade e, tra queste, l'esperienza resistenziale. 
                  L'arco di tempo che prendiamo in considerazione può così 
                  essere suddiviso in quattro periodi. Il primo dal 1943 al 1948 
                  nel corso del quale gli anarchici, dalle carceri e dal confino, 
                  entrano nella Resistenza, vivono speranze ed esperienze anche 
                  molto diverse fra loro, o riprendono la loro attività 
                  con forti specificità locali (la Sicilia, la Calabria, 
                  la Sardegna, la zona di Canosa di Puglia, il Lazio e poi il 
                  Nord della guerra partigiana), giungendo a una struttura organizzativa 
                  che diviene in quel momento il punto di riferimento anche di 
                  chi non vi si riconosceva e presto si sarebbe staccato (la Federazione 
                  libertaria italiana). Il secondo, dal 1949 al 1955: terminati 
                  gli slanci iniziali, le iniziative e la presenza nella società 
                  italiana scemano velocemente, schiacciate fra la crisi interna, 
                  la pressione internazionale, ma anche quella operata dai sistemi 
                  di rappresentanza parlamentare, partitica e sindacale. Il rinchiudersi 
                  in sé stesso del movimento, tuttavia non può esser 
                  visto solo a causa del contesto esterno; la proposta dei gaap 
                  colpisce duramente, e anche se il sistema federativo rimane 
                  in piedi, gruppi e federazioni incontrano sempre maggiori difficoltà 
                  a penetrare nei mutamenti che stanno intervenendo. Il terzo 
                  periodo abbraccia gli ultimi anni Cinquanta, caratterizzandosi, 
                  in una situazione di forte riduzione quantitativa, per i tentativi 
                  di rilancio derivati da un primo cambio generazionale: Scelba, 
                  i fatti d'Ungheria, i nuovi scenari interni a ridosso del boom 
                  economico permettono una qualche ripresa, stimolando la ricerca 
                  di un coordinamento delle forze per una efficace presenza e 
                  attività nel tessuto sociale. 
                  Il quarto copre gli anni Sessanta, fino all'inizio della strategia 
                  della tensione; una scelta non casuale, che vuole rappresentare 
                  una cesura nella storia del movimento. In questi anni vengono 
                  a soluzione alcune delle istanze che assai lentamente erano 
                  maturate negli anni precedenti. I militanti più giovani, 
                  dopo la separazione dalla FAI dei Gruppi di iniziativa anarchica, 
                  si rendono formalmente autonomi, non solo raccogliendosi nella 
                  Federazione anarchica giovanile italiana o nei Gruppi giovanili 
                  anarchici federati, ma riescono a trasferire su un piano più 
                  vasto, quello spirito di iniziativa che sembrava essere disperso, 
                  permettendo, complice il clima e gli stimoli che provenivano 
                  dal mondo giovanile italiano ed europeo, una significativa ripresa. 
                  Sono gli anni in cui tornano alle cronache, facendo scoprire 
                  agli italiani che gli anarchici non erano personaggi ottocenteschi, 
                  scomparsi con la fine della dittatura. Sono anni in cui il movimento 
                  conosce divisioni e scissioni, che ne lacerano nuovamente il 
                  debole tessuto, con rinnovate polemiche sul concetto e sulla 
                  pratica dell'organizzazione, ma al cui fondo permane il peso 
                  delle scelte non effettuate negli anni Cinquanta. Scissioni 
                  e divisioni che ritroveranno un punto di congiunzione allorquando 
                  le strumentalizzazioni politiche, i depistaggi e la violenza 
                  della strategia della tensione, riporteranno gli anarchici a 
                  riflettere in tutte le loro componenti. 
                
                   
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                    |   Carrara, 16 maggio 1965 - Inaugurazione del monumento  ad Alberto Meschi,  opera dello scultore Ezio Nelli  | 
                   
                 
                Ferrovieri, minatori, cavatori 
                Un quadro destinato a produrre una frammentazione, che non 
                  può tuttavia essere considerato come una caratteristiche 
                  propria degli anni repubblicani, ma piuttosto appartenere alle 
                  vicende o alle riflessioni degli anarchici (del loro essere 
                  dei militanti particolari) che, nel loro essere conflittuali 
                  e dialettici, sviluppano con forza questa peculiarità 
                  destinata a emergere nella radicale trasformazione che parte 
                  con gli anni Cinquanta. Vicende che di volta in volta si riescono 
                  a identificare nella contrapposizione fra organizzatori e antiorganizzatori, 
                  individualisti e collettivisti, fautori di una maggiore rigidità 
                  organizzativa in funzione del mutamento del contesto postbellico 
                  e coloro che si volevano mantenere nel solco della tradizione, 
                  fra classisti e a-classisti e, quindi, fra coloro che vedevano 
                  non solo nel rapporto con il mondo operaio ma anche nell'attività 
                  sindacale (seppure con alcune caratteristiche precise e distinte 
                  dal sindacalismo riformista), un terreno sul quale si doveva 
                  sviluppare in pieno l'azione, e coloro che – basandosi 
                  di fatto su un aclassismo dell'idea anarchica – non vedevano 
                  una esclusività di questo agire, anzi – sotto certi 
                  aspetti – consideravano il terreno sindacale come pericoloso, 
                  portatore di influenze negative per l'idea. 
                  Il mondo del lavoro e l'organizzazione sindacale, prima unitaria 
                  e poi divisa lungo l'asse dell'appartenenza partitica e delle 
                  logiche della Guerra fredda. Ecco un altro di quei temi ricorrenti, 
                  intrecciati con la storia del movimento. Se è vero che 
                  negli anni del dopoguerra e nei primi decenni repubblicani non 
                  si può parlare di anarco-sindacalismo, che termina negli 
                  anni del fascismo (tra il 1925 e il 1936) così come hanno 
                  evidenziato Maurizio Antonioli e Giampietro Berti, è 
                  altrettanto vero che un filo conduttore, una minoranza, uno 
                  spazio limitato per il sindacalismo di origine anarchica, si 
                  rintraccia nel dopoguerra e nella Repubblica. Anche se non possiamo 
                  più parlare di un'area dell'azione diretta come negli 
                  anni liberali, è vero che in alcune categorie e aree 
                  geografiche, quelle tracce persistono ed emergono. Come ha sottolineato 
                  Giorgio Sacchetti, ferrovieri, minatori e cavatori mantengono 
                  – per le particolarità del loro lavoro – 
                  una difficile assimilabilità da parte delle sigle confederali8. 
                  Aree e settori che riescono a esprimersi con difficoltà 
                  all'interno della Cgil, ma esistono a livello territoriale e 
                  federale. Un sindacalismo di tipo libertario che cerca poi di 
                  rendersi autonomo attraverso timidi e difficili tentativi (perché 
                  ostacolati dall'interno dello stesso movimento anarchico) di 
                  ricostituire l'Unione sindacale italiana. 
                  Per il movimento nel suo complesso, lungo questo tortuoso percorso, 
                  rimanevano tratti di strada comuni, impostazioni similari ma, 
                  soprattutto, rimaneva una strenua difesa di sé stessi 
                  nel ribadire la propria identità e la propria memoria. 
                  È questa una caratteristica imprescindibile nell'affrontare 
                  sia la ricostruzione delle vicende che hanno segnato la storia 
                  degli anarchici italiani nel dopoguerra, sia nell'analizzarne 
                  le caratteristiche e i punti di riferimento. Il rapporto che 
                  si crea e viene mantenuto con i propri simboli identitari, i 
                  propri riferimenti culturali e teorici, con quegli spunti che 
                  solo una memoria profondamente radicata può produrre 
                  e permettere di ripresentarsi, è sorprendente. Nasce 
                  così un patrimonio complesso, ma anche un vero e proprio 
                  sistema di riferimento e di valori, all'interno dei quali con 
                  difficoltà potevano trovare ospitalità esperienze 
                  diverse, che conducevano a prospettive di mutamento di impostazione 
                  teorica in grado di modificare le radici. Fu un punto di debolezza? 
                  Probabilmente si nella parabola percorsa dal movimento nella 
                  seconda metà del Novecento; certamente no per la compattezza 
                  di tracce e simboli, documenti impalpabili fatti di passione 
                  e di partecipazione, beni materiali e immateriali che vanno 
                  a comporre un quadro ricco e variegato. 
                  Che questi riferimenti alla memoria, all'identità e alla 
                  storia siano uno dei punti di partenza anche per la ricostruzione 
                  fattuale e del pensiero (al pari degli scontri e delle scissioni), 
                  viene confermato da molti aspetti. La stampa innanzitutto; tutta 
                  la pubblicistica periodica utilizza continuamente i riferimenti 
                  alla propria tradizione e storia. Lo stesso accade nelle conferenze 
                  e nei dibattiti, sul ricorrente tema del «chi sono e che 
                  cosa vogliono gli anarchici» e, ancora, nelle celebrazioni 
                  e nelle ricorrenze (su tutti quelle di Pietro Gori, Errico Malatesta, 
                  Luigi Fabbri, Gaetano Bresci, la Comune di Parigi, la Guerra 
                  di Spagna) che rappresentano veri e propri momenti di reciproco 
                  riconoscimento e conferma, derivato – come giustamente 
                  affermato – dalle più o meno pesanti forme di repressione 
                  che gli anarchici avevano subito, ma considerato anche una delle 
                  forme di propaganda più efficaci, per combattere lo stereotipo 
                  di un anarchismo solo velleitario e inconcludente [...] affermazione 
                  orgogliosa d'identità e appartenenza a una comunità 
                  antagonista e internamente solidale, caratterizzata da propri 
                  rituali ed eroi9. 
                
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Carrara, 31 agosto - 3 settembre 1968, congresso  internazionale anarchico. Intervento di Daniel  Cohn-Bendit, gli è accanto Alfonso Failla  | 
                   
                 
                Quanti militanti, federazioni, gruppi? 
                Dalla Resistenza al dopoguerra, da Carrara a Bologna e fino 
                  ai congressi e agli incontri della FAI, dei GAAP e poi delle 
                  altre sigle, gli anarchici non si astengono dall'impegno nella 
                  pubblicazione dei loro periodici. Le scarse risorse finanziarie 
                  non impediscono la nascita di giornali e riviste che pongono 
                  il loro accento sulle questioni della ricostruzione, della trasformazione 
                  della società, della violenza dello Stato, dalle crisi 
                  internazionali che rischiano di portare il mondo a un conflitto 
                  globale, dal fascismo spagnolo al neofascismo italiano, dalla 
                  lotta per l'indipendenza, contro il colonialismo, il militarismo 
                  e ogni forma di autorità laica ed ecclesiastica, il movimento 
                  non si ferma; al contrario si sforza e chiede a tutti i suoi 
                  militanti non solo di partecipare ma di impegnarsi nella raccolta 
                  di fondi, nel diffondere le pubblicazioni, nel non disperdere 
                  le energie, di concentrarsi sul rapporto con la popolazione, 
                  puntando a smascherare le tattiche dei partiti e quelle delle 
                  organizzazioni sindacali che, di fatto, attraverso deleghe e 
                  programmi, svuotavano le spinte innovatrici e condizionavano 
                  le scelte; e non si astengono dalla faticosa e complessa analisi 
                  della teoria e del pensiero, con lo scopo di cercare un rilancio, 
                  in una società profondamente cambiata, individuando come 
                  la sinistra italiana e il PCI in particolare (con tutti i riferimenti 
                  all'URSS, allo stalinismo e al togliattismo), non potesse essere 
                  il riferimento o il modello. In questo senso il tracciato della 
                  stampa anarchica e libertaria, al di là delle profonde 
                  differenze che si possono osservare, sembra da subito assumere 
                  il ruolo di centro di contro-informazione che non distoglie 
                  la sua attenzione dall'evoluzione della situazione italiana 
                  nelle sue diverse accezioni e componenti. Un movimento che era 
                  rinato, fra contraddizioni ed equilibri precari, e che si impegnava 
                  ora nel far conoscere, nel dare la sua lettura e interpretazione 
                  dei grandi avvenimenti e delle grandi scelte che in quegli anni 
                  gli italiani stavano compiendo o si apprestavano a fare, e che 
                  punta sulla chiarificazione interna, ma anche sulla comunicazione 
                  esterna, sul raggiungere tutti coloro che vedevano nella Resistenza 
                  e nella fine della dittatura fascista, la concreta possibilità 
                  di trasformare la società e gli italiani in un qualcosa 
                  che superasse i decenni di estraneità, di marginalizzazione, 
                  di estromissione dalle decisioni e dalla crescita economica 
                  individuale e collettiva. Erano certamente obbiettivi che il 
                  movimento e i suoi giornali non potevano raggiungere facilmente, 
                  ma sono gli elementi che contraddistinguono la sostanza e lo 
                  spirito delle decine di iniziative che costellano quella storia. 
                  Ma quanto era esteso il movimento in termini di militanti, federazioni 
                  e gruppi. Il dato è in questo caso del tutto incerto 
                  per una serie di motivi direttamente connaturati alle caratteristiche 
                  teoriche, pratiche e organizzative dello stesso, ma anche dal 
                  suo modo di essere e dal suo modo di mantenere legami, contatti 
                  e collegamenti. Più volte si è tentato di definirne 
                  la dimensione quantitativa e i risultati sono ancora lungi dall'essere 
                  raggiunti. Se negli anni del Casellario politico centrale si 
                  riuscì ad avere una dimensione perlomeno orientativa, 
                  almeno rispetto a coloro che incapparono per diversi motivi 
                  nella repressione della polizia o nei sospetti di aver compiuto 
                  chissà quale misfatto, o di essere in procinto di compierlo, 
                  nel dopoguerra la situazione muta. Vuoi per la tradizionale 
                  attenzione e riservatezza che induceva a non lasciar tracce 
                  né elenchi, vuoi per l'estrema flessibilità organizzativa, 
                  il dato quantitativo rimane di complessa definizione. Qualcosa 
                  di più preciso si può fare rispetto a gruppi e 
                  federazioni. La fine della dittatura, pur tra accortezze e resistenze, 
                  permette a molti circoli e militanti di riunirsi e di formare 
                  delle singole realtà locali, protagoniste sul proprio 
                  territorio o a livello regionale di iniziative e proposte, che 
                  li facevano emergere dalla penombra nella quale erano da sempre 
                  stati costretti. 
                  Sicuramente il movimento italiano del dopoguerra riprende vigore 
                  e numeri in quelle aree che lo avevano visto nascere e diffondersi 
                  negli anni dell'Italia liberale prefascista. Toscana, Lazio, 
                  Liguria, Marche, Lombardia, Emilia Romagna, Puglia, Campania 
                  e Sicilia sono le regioni dove rinasce con più forza 
                  negli anni repubblicani, ponendo al centro la tradizione ma 
                  anche le diverse esperienze compiute nei mesi dell'occupazione 
                  nazifascista al Centro-Nord e della liberazione angloamericana 
                  al sud; entra però subito in una crisi ventennale, che 
                  lo vedrà scemare in termini quantitativi e spingerà 
                  alcuni a chiedersi se esisteva ancora. Sono gli anni che vanno 
                  dalla fine del 1949 ai movimenti del decennio Sessanta, all'interno 
                  dei quali, da una posizione di minoranza, si tenta di aprire 
                  nuove strade lungo le quali le polemiche e gli scontri personali 
                  si legano fortemente al frazionarsi del movimento, al suo articolarsi 
                  lungo percorsi differenti che non hanno più al centro 
                  la FAI, ma un arcipelago all'interno del quale si sviluppa la 
                  sua storia. 
                  La frantumata esperienza resistenziale e del periodo della Liberazione, 
                  il venir meno del paletto dell'antimilitarismo e del rifiuto 
                  della guerra (cedimento iniziato con la Guerra di Spagna e definitosi 
                  lungo i mesi della partecipazione alla lotta armata, più 
                  tardi tornato ad essere uno dei punti imprescindibili dell'agire 
                  e del pensare libertario), la questione della partecipazione 
                  alle amministrazioni locali, come alla battaglia elettorale 
                  referendaria e costituzionale; l'incontro/scontro con la difficile 
                  costruzione della democrazia repubblicana in un clima di fallimento 
                  dell'epurazione e di contestuale occupazione del potere da parte 
                  dei partiti; la contaminazione con movimenti pacifisti anche 
                  di area cattolica; il complesso e delicato incontro teorico 
                  e pratico con la dissidenza a sinistra del PCI, i “salti 
                  generazionali” che per gli anarchici segnano la propria 
                  storia (il primo nel 1943-49, il secondo a ridosso del biennio 
                  1968-69); la contraddizione e la frattura che si genera tra 
                  la provenienza del militante anteguerra (artigiano o operaio 
                  professionale) e l'operaio massa del modello economico fordista/industrialista; 
                  le resistenze che si incontrano ad aggiornare la teoria la prassi 
                  che – di fatto – provocano laceranti fratture; le 
                  difficoltà che incontrano coloro (su tutti Pier Carlo 
                  Masini) che tentano un'elaborazione intellettuale profonda dell'anarchismo 
                  (che non casualmente si scontra con coloro che provenivano da 
                  una periodo storicamente diverso, come Armando Borghi), tale 
                  da renderlo in grado di partecipare alla nuova società, 
                  sono alcuni degli elementi che entrano in gioco all'interno 
                  e attorno alle sigle del movimento, di cui la FAI (certo la 
                  più nota) è una ma non l'unica espressione. 
                  Il lavoro che presentiamo è, per questi motivi, parziale 
                  non riuscendo (e non volendo) racchiudere le tante diversità 
                  del movimento. Vuole invece essere la sintesi di una storia 
                  solo parzialmente ricostruita; una delle storie degli anarchici 
                  che è tale per i diversi e molteplici approcci che la 
                  stessa vicenda e il movimento racchiudono in loro stessi. Me 
                  ne scuso, soprattutto per non essere riuscito a contenerla, 
                  e aver dimenticato certo molte cose, per concentrarmi su altre 
                  che – nella mia chiave di lettura –ho ritenuto più 
                  interessanti, prodotto di scelte non facili ma necessarie, adatte 
                  a percorrere una strada iniziata molto tempo fa.
                  Pasquale Iuso
                 Note 
                 
                  - Sulla decisiva questione generazionale nella storia dell'anarchismo 
                    italiano e sul mancato ricambio dopo la sconfitta in Spagna 
                    che «segna la tragedia della rivoluzione» e la 
                    fine del movimento nato a Saint-Imier si esprime Giampietro 
                    Berti sottolineando come il dopoguerra aveva posto gli anarchici 
                    in una posizione di «isolamento». Si sarebbero 
                    dovuti aspettare gli anni Sessanta «perché una 
                    inaspettata saldatura tra le vecchie e le nuove generazioni» 
                    lo avrebbe condotto ancora una volta (in una situazione completamente 
                    diversa rispetto al passato) a essere visibile nella società. 
                    G. Berti, Il pensiero anarchico dal settecento al novecento, 
                    Manduria-Bari, Lacaita, 1998, pp. 41-48. Sul tema dell'anarchismo 
                    negli anni della Repubblica rinvio sempre a Id., Libertà 
                    senza rivoluzione. L'anarchismo fra la sconfitta del comunismo 
                    e la vittoria del capitalismo, Manduria-Bari, Lacaita 
                    Editore, 2012, al cui interno Berti, analizzando il percorso 
                    dell'anarchismo tra l'Ottocento e il Novecento, sottolinea 
                    come l'anarchismo abbia vissuto tre fasi di cui l'ultima, 
                    iniziata nel secondo dopoguerra, si sia caratterizzata per 
                    la perdita di quasi tutti gli «originari caratteri popolari», 
                    di fatto sostituiti dalla parziale rigenerazione libertaria 
                    ed esistenziale iniziata alla fine degli anni Sessanta. Su 
                    tale lettura cfr. anche Id. Alcune considerazioni critiche 
                    sul movimento anarchico italiano nel secondo dopoguerra, 
                    in Giovanna Caleffi Berneri e la cultura eretica di sinistra 
                    nel secondo dopoguerra, a cura di F. Chessa, Reggio Emilia, 
                    Biblioteca Panizzi, Archivio Famiglia Berneri-Aurelio Chessa, 
                    2012, pp. 9-16. 
                  
 - Per una definizione del concetto di “anarchia” 
                    e “libertario” cfr. P.C. Masini, Le parole 
                    del Novecento, Pisa, BFS, 2010, pp. 47-50 e 109-113. 
                  
 - Cfr. ad esempio le vicende siciliane: G.L. Romano, Moti 
                    rivoluzionari nel ragusano. Dicembre 1944-gennaio 1945, 
                    Ragusa, Punto L, 1998; Rivolte e memoria storica. Atti 
                    del convegno 1945-1995, le sommosse contro il richiamo alle 
                    armi cinquant'anni dopo, Ragusa, Punto L, 1995; G. Cerrito, 
                    La rinascita dell'anarchismo in Sicilia, Genova, rl, 
                    1956. 
                  
 - Nel dopoguerra oltre «Umanità Nova» e 
                    il «Bollettino interno» della FAI, furono pubblicati 
                    ed ebbero una distribuzione significativa per l'intero movimento, 
                    tra gli altri, «Volontà», «Il Libertario», 
                    «Gioventù Anarchica», «L'Impulso», 
                    «L'Agitazione», «L'Adunata dei Refrattari». 
                    Cfr. L. Bettini, Bibliografia dell'anarchismo. Periodici 
                    e numeri unici anarchici in lingua italiana pubblicati in 
                    Italia (1872-1971), Firenze, Edizioni cp, 1972. 
                  
 - I. Rossi, La ripresa del movimento anarchico italiano 
                    e la propaganda orale dal 1943 al 1950, Pistoia, RL, 1981; 
                    P. Feri, Il movimento anarchico in Italia 1944-1950, 
                    Roma, Quaderni della FIAP, 29, 1978; A. Dadà, L'anarchismo 
                    in Italia: fra movimento e partito, Milano, Teti Editore, 
                    1984. Sugli archivi non posso non rinviare all'ottimo lavoro 
                    di L. Balsamini, Fragili Carte. Il Movimento Anarchico 
                    nelle biblioteche, archivi e centri di documentazione, 
                    Manziana (Roma), Vecchiarelli Editore, 2009. Un volume all'interno 
                    del quale non solo viene sistematizzato il patrimonio cartaceo, 
                    ma viene disegnata qualitativamente e quantitativamente quella 
                    ricchezza documentale attraverso la quale si sviluppa la storia 
                    del movimento. 
                  
 - Una «straordinaria esperienza culturale», «punto 
                    di raccordo europeo e di fecondo dialogo tra libertari e sinistra 
                    eretica», nelle sue pagine «trova spazio l'Italia 
                    minoritaria degli anni anni Cinquanta (G. Salvemini, L. Borghi, 
                    A. Olivetti, A. Tasca, A. Capitini, I. Silone, E. Rossi, M. 
                    Zoebeli, don L. Milani) oltre che tutta una serie di militanti 
                    libertari e anarchici». G. Sacchetti, Eretici e Libertari. 
                    Il Movimento anarchico in Italia (1945-1973), «Diacronie. 
                    Studi di storia contemporanea», gennaio 2012. Su «Volontà» 
                    cfr. Giovanna Caleffi Berneri e la cultura eretica..., 
                    cit. 
                  
 - G. Berti, Prefazione a Giovanna Caleffi Berneri. Un seme 
                    sotto la neve. Carteggi e scritti dall'antifascismo in esilio 
                    alla sinistra eretica del dopoguerra (1937-1962), a cura 
                    di C. De Maria, Reggio Emilia, Biblioteca Panizzi, Archivio 
                    Famiglia Berneri-A. Chessa, 2010, p. x. 
                  
 - G. Sacchetti, Lavoro, democrazia, autogestione. Correnti 
                    Libertarie nel sindacalismo italiano (1944-1969), Roma, 
                    Aracne, 2012. Secondo Sacchetti si può individuare 
                    una periodizzazione del sindacalismo libertario nel dopoguerra 
                    che ha come punti di riferimento la fondazione della cgil 
                    unitaria; le scissioni sindacali e la Guerra fredda; il 1956; 
                    e infine da Piazza Statuto (1962) all'Autunno caldo. Vale 
                    in questo senso rinviare anche a G. e G. Gervasio, Un operaio 
                    semplice. Storia di un sindacalista rivoluzionario anarchico 
                    (1886-1964), Milano, Zero in condotta, 2011. 
                  
 - M. Ilari, Parole in Libertà. Il giornale anarchico 
                    Umanità Nova (1944-1953), Milano, Zero in condotta, 
                    2009, pp.11-12 e p.159. 
                
  
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