Monfalcone, 
                  l'anarchia e l'esperanto 
                Ci sono molte tracce tematiche che possiamo riconoscere nella 
                  storia degli anarchici a Monfalcone (Gorizia). Com'è 
                  logico, il “caso Monfalcone” rappresenta un esempio 
                  concreto di questioni attinenti la storia del movimento operaio 
                  e dei movimenti popolari del Novecento. Antimilitarismo, solidarietà 
                  di classe, sindacalismo di azione diretta, antifascismo militante, 
                  spontaneismo e organizzazione, anticlericalismo e internazionalismo 
                  sono temi ricorrenti. 
                  Il movimento anarchico monfalconese opera in modo preminente 
                  all'interno del Cantiere Navale Triestino, fondato nel 1908 
                  da capitalisti asburgici, dove incrocia i lavoratori di diverse 
                  provenienze, in modo particolare istriani del Litorale, sloveni 
                  del Carso, coloni della campagna italiana, friulana e anche 
                  veneta nella variante bisiaca, la parlata del territorio monfalconese. 
                  Il fatto che le componenti alloglotte preminenti, quindi friulani 
                  e sloveni, evitino l'inurbamento conservando una dimensione 
                  di pendolarismo con la campagna fa sì che il movimento 
                  anarchico monfalconese si esprima inevitabilmente in lingua 
                  italiana. 
                  Una vena internazionalista però percorre l'intera storia 
                  dell'anarchismo monfalconese e si esprime nella lingua internazionale 
                  esperanto. 
                  L'esperanto (Speranza) è la lingua internazionale neutrale 
                  proposta nel 1887 dal medico e poliglotta ebreo Ludovico Lazaro 
                  Zamenhof, vissuto nella parte occidentale dell'Impero zarista 
                  (oggi Polonia). Dal decennio successivo al 1895 l'Esperanto 
                  si diffonde in Europa occidentale, in maniera particolare in 
                  Francia. Anche l'Austria-Ungheria – a cui all'epoca appartiene 
                  Monfalcone – ne conosce una precoce diffusione soprattutto 
                  grazie al viennese Alfred Hermann Fried. La sua attività 
                  prolifica viene riconosciuta a livello mondiale tanto che nel 
                  1911 gli viene consegnato il Premio Nobel per la pace. 
                  La lingua elaborata da Zamenhof trova precoce diffusione anche 
                  negli ambienti anarchici del Litorale Austriaco tanto che 'Esperanto' 
                  è lo pseudonimo usato da un corrispondente da Pola della 
                  prima serie di “Germinal” - il giornale anarchico 
                  di Trieste tuttora esistente - del 1907. Anche a Monfalcone 
                  è attivo un Circolo Esperantista perlomeno dal 1912, 
                  come emerge dai comunicati che appaiono sul giornale “Il 
                  Socialista Friulano”. L'anarchico Cobau (talvolta citato 
                  come Cobal o Kobal) è uno dei principali animatori del 
                  Circolo essendone segretario. 
                  Dopo la parentesi bellica, in cui anarchici e pacifisti vengono 
                  internati o diventano profughi, a fine giugno 1920 si costituisce 
                  a Monfalcone, con buon numero di aderenti, il Circolo Libertario 
                  di Coltura che prende il nome di Caffè Esperanto e che 
                  probabilmente ha collocazione all'interno delle istituzioni 
                  operaie socialiste visto che presso l'Archivio del Comune di 
                  Monfalcone non sono presenti atti a riguardo (né commerciali, 
                  né edilizi). Di questa parentesi di storia degli esperantisti 
                  libertari monfalconesi non ci sono altre tracce. La loro memoria 
                  è stata cancellata o occultata da anni di violento fascismo 
                  e da una guerra atroce. 
                  Finita la guerra un'altra generazione di anarchici si affaccia 
                  a Monfalcone ma la costante dell'interesse per l'esperanto rimane. 
                  Anarchico e principale attivista esperantista è Vittorio 
                  Malaroda che insegna la lingua internazionale agli operai del 
                  cantiere e traduce e scrive poesie in esperanto. Malaroda è 
                  uno dei due rappresentanti italiani della Sennacieca Asocio 
                  Tutmonda (Associazione Anazionale Mondiale – SAT – 
                  un'associazione esperantista indipendente mondiale) ed è, 
                  a fine anni '70, tra gli organizzatori della Conferenza 
                  degli esperantisti di Alpe Adria (comprendente Carinzia, Stiria, 
                  Slovenia e il territorio del Friuli Venezia Giulia). 
                  Malaroda non subisce la perquisizione della sua abitazione dopo 
                  la strage di piazza Fontana come invece accade a Mario Candotto, 
                  altra figura di anarchico ed esperantista che in seguito si 
                  avvicinerà al PCI. Durante la perquisizione a casa di 
                  Candotto quando i carabinieri trovano una scatola contenente 
                  la corrispondenza internazionale in esperanto vanno in fibrillazione. 
                  La repressione riesce nell'intento di scardinare la presenza 
                  libertaria e le strade di anarchici ed esperantisti si separano 
                  con la morte di Malaroda avvenuta nel 2003. 
                  Una storia quasi sconosciuta, quella degli anarchici esperantisti 
                  monfalconesi, che ci rivela un ambiente formato da persone coerenti 
                  con il proprio internazionalismo e spirito libertario. 
                 Luca Meneghesso 
                 
                 
                  Elisée Reclus, l'Etna 
                  e le sofferenze sociali 
                Per due secoli interi, il Settecento e l'Ottocento, l'Etna, 
                  il maestoso vulcano che sovrasta Catania, ha attratto costantemente 
                  viaggiatori curiosi e insigni studiosi di scienze della terra, 
                  nonché geografi da tutto il mondo. Tra questi ultimi 
                  uno dei più appassionati nell'affrontare il vulcano, 
                  puntualissimo nella relazione descrittiva della sua esperienza, 
                  fu Elisée Reclus. Reclus, lo studioso, già noto 
                  nella sua patria, la Francia, per i suoi trattati scientifici 
                  e per le idee politiche (con Bakunin e Kropotkin era stato tra 
                  i fondatori del movimento anarchico internazionale), a causa 
                  delle quali era stato in esilio per ben dodici anni, nel 1865 
                  partiva per la Sicilia, per osservare da vicino caratteristiche 
                  e attività del vulcano più famoso d'Europa. Del 
                  suo viaggio nell'Isola darà conto lo stesso anno con 
                  uno scritto dal titolo “La Sicile et l'éruption 
                  de l'Etna en 1865. Récit de voyage” pubblicato 
                  dalla rivista “Le Tour du Monde”, volume VIII (1865), 
                  e dalla “Reveu deux Mondes”, July 1, 1865. Approdato 
                  a Palermo, allo studioso francese tocca constatare come il malgoverno 
                  borbonico abbia lasciato ferite ancora aperte e profonde: grande 
                  è infatti l'incuria dei beni pubblici e la miseria in 
                  cui versa il popolo. Stessa situazione lo studioso trova a Messina: 
                  ambedue le città gli sembrano bisognose di vigorosi interventi 
                  per uscire dalla precarietà che caratterizzava quel momento 
                  storico post unitario. Catania, invece, gli appare più 
                  operosa ed economicamente florida. Ma il suo interesse preminente 
                  non è né sociologico, né economico, ma 
                  scientifico e guarda con occhio indagatore all'Etna e alla natura 
                  circostante. Per giorni, Reclus visita antri, lave sedimentate, 
                  balzi e valli dell'Etna, dai piedi alle cime del monte, accompagnato 
                  da una guida d'eccezione, Giuseppe Gemmellaro, il fratello dello 
                  scienziato catanese Carlo Gemmellaro, considerato uno dei migliori 
                  conoscitori sia dei percorsi che delle caratteristiche del vulcano. 
                  Lo scienziato francese annota scrupolosamente le sue osservazioni 
                  e le sue deduzioni, disegna gli elementi di più grosso 
                  interesse scientifico visti, descrive con oculatezza percorsi, 
                  flora, fauna, natura, cause ed effetti dell'eruzione, con impeto 
                  documentario e analitico ma al contempo poetico: tanto che il 
                  suo scritto eserciterà una forte suggestione sul grande 
                  scrittore Julius Verne, amico ed estimatore di Reclus («J' 
                  ai toute l' oeuvre d' Elisée Reclus, je professe une 
                  grande admiration pour Elisée Reclus») e gli suggeriranno 
                  parecchie pagine del suo romanzo “Mathias Sandorf”. 
                  Reclus continua il suo giro dell'isola, interessandosi anche 
                  ai fenomeni vulcanici delle isole Eolie: osserva con acume e 
                  descrive l'attività dello Stromboli. Ma, seppure venuto 
                  per indagare la terra siciliana principalmente ai fini della 
                  crescita delle conoscenze naturalistiche e geografiche, l'indole 
                  antiautoritaria e libertaria dello scienziato viene fuori e 
                  in un paio di passi del suo resoconto descrive le lacrime e 
                  il sangue che hanno provocato i detentori del nuovo potere italico. 
                  Schiavi della macchina 
                A Centorbi (l'attuale Centuripe) in visita alla miniera di zolfo, 
                  Reclus vi si inoltra dentro, per le gallerie dall'atmosfera 
                  soffocante e dall'aria irrespirabile. All'interno «le 
                  volte sono basse e tagliate in modo irregolare; pesanti pilastri 
                  digrossati dal piccone sostengono il soffitto: vaghi luccicori 
                  che compaiono e scompaiono al riflesso vacillante delle lampade 
                  sorgono qua e là dalla profondità delle ombre; 
                  un momento s'intravvedono dei corridoi che sembrano infiniti, 
                  poi queste lunghe prospettive svaniscono in un batter d'occhio 
                  e lo sguardo cerca invano di scandagliare le tenebre: si sentono 
                  rumori strani, singulti, sospiri provenienti dal ripercuotersi 
                  degli echi lontani». Sono gallerie piene di acqua sulfurea 
                  e che vanno drenate, per evitare che allaghino tutto, con pompe 
                  di prosciugamento, azionate da «poveri operai, coperti 
                  soltanto da un grembiule come gli isolani dell'Oceania, e tuttavia 
                  bagnati di sudore che girano incessantemente le manovelle delle 
                  pompe. 
                  Durante otto lunghe ore, questi uomini, appo i quali ogni intelligenza, 
                  ogni sforzo vitale si porta necessariamente verso le braccia, 
                  non sono altra cosa che le appendici muscolari dell'implacabile 
                  macchina. Questa gira, gira senza posa, e senza mai fermarsi 
                  solleva le acque che risuonano nei tubi di metallo: essa solo 
                  sembra vivere, e gli atleti che si succedono di otto in otto 
                  ore non sono che semplici meccanismi: lungi dal dominare la 
                  macchina che mettono in moto, son essi i suoi schiavi'. Ad Augusta 
                  vede i coscritti partire per il continente 'poveri contadini 
                  mal vestiti, che per la maggior parte sembravano tristi, abbattuti 
                  e spauriti come bestie selvatiche, prese di recente al laccio. 
                  Sulla spiaggia, donne, fanciulli e vecchi facevano segni di 
                  saluto, torcevasi le braccia, mandavano grida di disperazione, 
                  inviavano raccomandazioni supreme a questi fratelli, a questi 
                  figli che loro strappava la terribile coscrizione». 
                  Erano solo «giovani soldati condannati ad un servizio 
                  che per essi era la deportazione» scrive Reclus, che subito 
                  dopo vede un drappello di galeotti «intrattenersi amichevolmente 
                  coi gendarmi che li accompagnavano. Dalle catene in fuori si 
                  sarebbe detto fossero camerata, ai quali il destino aveva assegnato 
                  parti diverse, ma non meno onorevoli l'una dall'altra. La più 
                  perfetta uguaglianza regnava fra i guardiani e i prigionieri: 
                  ridevano insieme, si raccontavano storielle, si davano reciprocamente 
                  nomi familiari, si ricambiavano i sigari e le pipe. I gendarmi 
                  non se la prendevano con questi poveri diavoli per alcune disgrazie 
                  e peccatucci, e dal loro lato i briganti accettavano la loro 
                  sorte con una rassegnazione filosofica, e sembravano dire fra 
                  loro ch'essi non erano da meno dei loro interlocutori». 
                  Con la visita a Siracusa, al «paesaggio greco che la circonda» 
                  e alle azzurrine acque del fiume Ciane, si conclude l'itinerario 
                  siciliano di Reclus. Tornato in patria si dedicherà all'elaborazione 
                  teorica dell'anarchismo, che cominciava a mettere radici in 
                  tutta Europa, e all'azione politica diretta (partecipando tra 
                  l'altro alla Comune parigina nel 1871). Questo tuttavia senza 
                  trascurare gli studi geografici, in un lungo e fruttuoso girovagare 
                  per il mondo. Nel 1878 lo scienziato anarchico venuto dalla 
                  Francia farà ritorno in Sicilia. Sta ultimando la sua 
                  imponente “Nuova Enciclopedia Universale”, commissionatagli 
                  dall'editore Hachette - che vedrà la luce in dieci volumi 
                  - e parlerà ovviamente ancora della Sicilia. Di Palermo 
                  dirà della presenza della “maffia” - e sarà 
                  il primo geografo a scriverne - di come crea e gestisce il suo 
                  «territorio illegale» nella città, delle 
                  ragioni sociali della violenza criminale. In generale, affermerà 
                  la necessità che la geografia si occupi di territorio 
                  ma anche di economia e società, ponendo così le 
                  basi dell'eco-geografia moderna. 
                  Un precursore che fece della Sicilia il suo laboratorio personale 
                  per gettare lo sguardo oltre la natura, soffermandosi sulle 
                  sofferenze sociali che affliggevano il sud d'Europa. 
                 Silvestro Livolsi 
                 
                 
                  Appunti di viaggio/ 
                  Nepal, non solo Kathmandu 
                Kathmandu non è il Nepal, come Roma non è l'Italia 
                  e Parigi non è la Francia. 
                  Il Nepal per me sono le montagne, Kathmandu è... Kathmandu. 
                  A me Kathmandu ricorda la ruota della vecchia Mercedes Benz 
                  mentre Bentivoglio ed Abatantuono stanno viaggiando in “Turné'” 
                  (G. Salvatores, 1990), ma soprattutto Kathmandu a me ricorda 
                  Sarajevo. 
                  A Sarajevo sono coesistite tre etnie, pacificamente, per secoli: 
                  i bosniaci (musulmani), i serbi (ortodossi), e i croati (cattolici). 
                  Sarajevo ha rappresentato un esempio di coesistenza, purtroppo 
                  distrutto dall'artiglieria serba agli inizi degli anni novanta. 
                  In Nepal sono censiti ufficialmente più di 100 gruppi 
                  etnici. I famosi sherpa sono tra i meno popolosi. I newar, i 
                  tamang, i tibetani e gli stessi sherpa differiscono considerevolmente 
                  per lo stile di vita, l'abbigliamento ed i riti religiosi. A 
                  Kathmandu i gruppi etnici vivono vicini, molto vicini. 
                  Nel Nepal, a seconda della provienenza, si parla il Maithili, 
                  Bhojpuri, Tharu, Avadhi, Rajbanshi, Hindi, Urdu, Tamang, Nepal 
                  Bhasa (Newari), Magar, Rai/Kiranti, Gurung, Limbu, Bhote/Sherpa, 
                  Sunuwar, Danuwar, Thakali, Satar, Santhal ed altre lingue minori. 
                  Un tamang ed un newari non si capiscono se parlano le proprie 
                  lingue. A Kathmandu tutti devono parlare nepalese. 
                  Nima, il tizio nepalese che ci ha aiutato ad organizzare il 
                  trekking all'Everest BaseCamp ci ha detto che un tempo, quando 
                  lui era giovane (30 anni fa), eri conosciuto in base alla famiglia 
                  alla quale appartenevi, adesso è meno importante. Tutto 
                  si fonde, tutto si mischia, e paradossalmente tutto s'acutizza. 
                  In Nepal si va dagli 80 mt vicino alle rive del Gange agli 8848 
                  mt del monte Everest in soli 147,181 km2. Quindi, 
                  sebbene di dimensioni piccole, questo paese offre casa a diverse 
                  etnie, religioni, tradizioni, culture. A Kathmandu è 
                  tutto concentrato a 1.300 mt. 
                
                   
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                    |   Kathmandu (Nepal)  | 
                   
                 
                 
                  Quanto vale uno sherpa 
                Lo stipendio mensile di un nepalese è di circa 400 dollari 
                  al mese. Circa 5000 dollari all'anno è lo stipendio di 
                  uno sherpa. Gli sherpa lavorano per le spedizioni alpinistiche 
                  per 5 mesi all'anno, due in primavera e tre in autunno. Il lavoro 
                  degli sherpa sull'Everest consiste nell'attrezzare la via di 
                  salita e preparare, oltre al campo base, i campi 1, 2, 3 e 4, 
                  in modo che gli “scalatori” trovino tutto pronto 
                  al loro arrivo. A seguito dei fatti del 18 aprile 2014, in cui 
                  16 sherpa sono morti sulla cascata di ghiaccio del Khumbu, travolti 
                  da una valanga mentre assicuravano le corde tra il campo base 
                  e il campo1, gli sherpa sono scesi a Kathmandu per rivendicare 
                  nuovi, e più robusti diritti. Come per esempio quello 
                  d'incrementare l'indennità in caso di morte: era di 7.000 
                  dollari adesso è diventata di 10.000 dollari, in pratica 
                  poco più di due anni d'aiuti economici alla famiglia 
                  in caso di morte della fonte di reddito. 
                  Ciò che però fa “sorridere”, a denti 
                  stretti, i non sherpa è che tra le rivendicazioni c'è 
                  stata anche quella di 3 seggi del parlamento d'assegnare a rappresentanti 
                  sherpa. Inquietanti segnali di una convivenza che potrebbe risultare 
                  difficile. 
                  Dal 2006 il Nepal ha sancito la fine dell'unico Stato fondato 
                  sulla religione induista. Oggi il Nepal è uno stato laico. 
                  Potere politico e religioso sono distinti. Ciò nonostante 
                  la componente spirituale è importante, fondamentale, 
                  se si vuol tentare di capire questo paese. 
                  A Kathmandu le religioni sono un casino. Ci sono i buddisti 
                  e gli induisti che s'intrecciano e in alcuni casi si mischiano 
                  come a Swayambhunath (il tempio delle scimmie), dove il tempio 
                  buddista è di fianco a quello induista, e i riti si mischiano 
                  come le raffigurazioni. Anche se la maggioranza della popolazione 
                  professa l'Induismo (80%), il Buddismo è l'altra religione 
                  importante (10%), in particolare è la religione della 
                  corrente tibetana Vajrayana. Il Nepal del nord ha subito molto 
                  l'influsso e l'immigrazione dal Tibet, in particolare a seguito 
                  della repressione cinese. A Kathmandu quando cambi via, o piazza, 
                  passi da un tempio Buddista dove si rullano i cilindri dei mantra, 
                  ad uno induista dove si fanno le puja. Comunque entrambi purificano 
                  l'anima. 
                  Nima è sherpa, quindi buddista, e ci dice che in un piccolo 
                  paese nei pressi di Kathmandu recentemente la comunità 
                  buddista ha chiesto d'erigere un tempio, gli induisti si sono 
                  opposti. Un po' come a Cantù, nella ricca Brianza, dove 
                  i musulmani trovano la resistenza dei cattolici che scoprono 
                  la loro dimensione religiosa quando diventa una questione politica, 
                  di presunti diritti. Paese che vai, difficoltà a superare 
                  le diversità che trovi. 
                  Nima ci spiega che non c'è niente di magico nella convivenza 
                  tra buddismo e induismo, è semplicemente una questione 
                  geografica. Il buddismo sta in montagna, l'induismo sulle rive 
                  dei fiumi, quindi a valle. Fin che si rispetta la geografia 
                  non c'è problema. Beni, una collega di Nima, ci tiene 
                  a sottolineare che è la politica a creare i problemi, 
                  la gente, anzi, le genti possono coesistere pacificamente. 
                  La comunità musulmana è in crescita, la si stima 
                  intorno al 5% della popolazione. Beni ci rassicura che i buddisti 
                  e gli induisti sono pronti ad includere le feste di rito islamico 
                  nel calendario nepalese, ma poi sottovoce precisa che i musulmani, 
                  come i cristiani, non sono geograficamente definiti. Li si trova 
                  in montagna come sulle rive dei fiumi. 
                  Tra le cose da visitare a Kathmandu c'è il tempio di 
                  Pashupatinat, dove quotidianamente, a tutte le ore, si assiste 
                  al rito funebre induista della cremazione sulle rive del Bagmati, 
                  fiume sacro per gli indù nepalesi. Fa impressione, per 
                  i colori, per i sadhu, per la cerimonia. L'induismo è 
                  così lontano dalle usanze occidentali, così incomprensibile. 
                  Quello che sconvolge è la miscela. La miscela tra animali/uomini, 
                  igiene/ascetismo, folclore/purezza, musica/silenzio, pubblico/privato. 
                  Nel tempio indù ci sono mucche che girano libere. Le 
                  mucche sono magre, sporche, e si nutrono della spazzatura. La 
                  difficoltà a comprendere questo mondo per un occidentale 
                  può essere descritta con il paradosso svizzero: sebbene 
                  la mucca da queste parti, in Nepal, sia un animale sacro, se 
                  io fossi una mucca non avrei dubbi, certo di finire prima o 
                  poi sul tavolo di qualche macellaio, preferirei passare i giorni 
                  della mia vita in qualche alpeggio in Svizzera. 
                  Salendo all'Everest BaseCamp, ho assistito, nel monastero buddista 
                  di Tengboche, a 3800 mt, alla cerimonia del pomeriggio: 2 ore 
                  nelle quali i monaci hanno cantato, suonato e proclamato litanie, 
                  tutto questo rigorosamente seduti nella posizione del loto. 
                  Buddismo ed induismo hanno la stessa origine, ma fanno riferimento 
                  a mondi diversi, e si proiettano sulla società in modo 
                  completamente diverso, un esempio per tutti: nel buddismo non 
                  ci sono le caste. A Kathmandu buddismo ed induismo si mischiano, 
                  pur mantenendo le differenze. 
                
                   
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                    |   Kathmandu (Nepal)  | 
                   
                 
                 
                  Consigli per viaggiatori intraprendenti 
                Kathmandu ti entra nelle orecchie, con i clacson, nei polmoni, 
                  con lo smog, negli occhi, con i colori dei vestiti e delle spezie. 
                  Ci sono tre cose che suggerirei di fare a Kathmandu, intendo 
                  fuori dai doveri del turista: 
                  1. Bere i lassi in piazza Pote Bazaar. 
                  2. Fare una corsa con un bus di linea. 
                  3. Perdersi nel quartiere a sud di Durbar Square. 
                   
                  1. Quando mi sono messo in fila per bere il lassi con i locali 
                  a Pote Baazar, il tizio che lo vendeva, sorridendo, con un vistoso 
                  incisivo d'oro, quindi un tipo ¨brillante¨, mi ha chiesto: 
                  “How far is your hotel?”. Finito di bere questo 
                  nettare, ha aggiunto “Run! Run!”. Sono tornato a 
                  bere il nettare dal tizio brillante ogni volta che potevo. 
                  2. Bhaktapur è una città ad un'ora di bus da Kathmandu. 
                  Meravigliosa, da starci una notte. Ogni bus di linea è 
                  gestito da un autista pazzo, e da un ragazzino che sta sulla 
                  porta d'ingresso a riscuotere soldi, gridare contro gli altri 
                  automobilisti, far salire le persone alle fermate. Nel viaggio 
                  di ritorno il ragazzino non aveva più di 10 anni, con 
                  gli occhi svegli e furbi di chi si deve arrangiare sin da piccolo. 
                  3. Perdersi nei quartieri malfamati è un dovere di ogni 
                  viaggio che si rispetti. Se vuoi capire un posto devi andare 
                  dove la gente vive veramente. Così è stato in 
                  ogni città che ho visitato. A Kathmandu ho camminato 
                  per un paio d'ore senza parlare, registrando nella memoria immagini 
                  di una vita impossibile, tra miseria e sporcizia. Mentre camminavamo 
                  i bambini sorridendo ci prendevano le mani per accompagnarci 
                  per un tratto di strada, in cambio volevano una caramella o 
                  semplicemente un saluto. Uno di loro ha chiesto di comprargli 
                  un vocabolario nepalese/inglese, glielo abbiamo comprato. Io, 
                  certo che lo avrebbe rivenduto dopo qualche minuto, Chiara, 
                  convinta che lo avrebbe usato per imparare l'inglese. Poco importa, 
                  in entrambi i casi è stato utile ad una causa importante. 
                  Sono seduto su una poltrona sfondata in un caffè a vicino 
                  a Durbar Square a Kathmandu, ho ordinato un tè al ginger, 
                  mentre riordino gli appunti di un viaggio che ci ha permesso 
                  di camminare per 14 giorni nella valle del Khumbu, fino ad arrivare 
                  all'Everest BaseCamp (#glueverest). Sto provando a contare quante 
                  tazze di tè ho bevuto in questo viaggio, impossibile. 
                  Il tè al ginger sta al Nepal come quello alla menta sta 
                  al Marocco. 
                  Guardo dal vetro del caffè e vedo il casino di questa 
                  città. Viviamo un'epoca dove tutto si mischia, si confonde, 
                  si miscela. Kathmandu rappresenta una delle tante miscele di 
                  questo mondo, patrimonio dell'umanità che dovremmo imparare 
                  a preservare, prima che, come Sarajevo, la diversità 
                  diventi disuguaglianza. 
                 Gianluca Luraschi 
                 
                 
                  Storia della menzogna politica: 
                  il Tav e le streghe 
                Si può scindere il Governo delle genti dalla gestione 
                  politica dalla repressione? La risposta è presto detta: 
                  no. Uno degli strumenti privilegiati dal Potere di ogni tempo 
                  per annullare il dissenso è l'uso brutale del braccio 
                  secolare. Questa è una verità lampante, testimoniata 
                  dalla Storia stessa, ma sorprendentemente spesso dimenticata 
                  dai più. 
                  Eppure la violenza non può essere perpetrata senza proporne 
                  una giustificazione; il Potere costruisce delle cornici narrative 
                  all'interno delle quali la sua verità appare legittima 
                  e perciò l'uso della forza diventa doveroso. Le altre 
                  versioni dei fatti sono invece marginalizzate, dichiarate eretiche, 
                  sovversive, pericolose. La storia è piena di organizzazioni 
                  massive del consenso effettuate per giustificare i metodi brutali, 
                  le violenze arbitrarie, le torture e le segregazioni perpetrate 
                  dagli inquisitori di turno, sempre impuniti dietro la cataratta 
                  di omertà che copre gli occhi di chi guarda e passa. 
                  Tutti i soprusi del Potere si realizzano all'interno di una 
                  costruzione autoreferenziale della verità, in cui la 
                  sua versione dei fatti viene strategicamente messa in scena 
                  senza nemmeno un grande impegno nel renderla verosimile. Del 
                  resto esistono dei portavoce delle parole del Potere, deputati 
                  all'invenzione di artifici che ne aumentino la credibilità 
                  e pongano il sigillo dell'autorità. 
                  In tutti i casi è però vero che la repressione 
                  effettuata si indirizza verso un nemico considerato pericoloso 
                  per via dei valori che esso incarna, estranei a quelli che invece 
                  guidano i capi. Ogni epoca ha perciò la sua pletora di 
                  dissidenti accusati, violentati, sfruttati e ridicolizzati. 
                  E il Potere si dedica a marginalizzarli e colpirli con un'applicazione 
                  che ha del sorprendente. La storia ripete attentamente i suoi 
                  copioni e a volte la constatazione della sua ridondanza provoca 
                  un brivido; è in momenti simili che l'osservazione degli 
                  incessanti ricorsi del tempo porta a dubitare dell'esistenza 
                  di un suo fine positivo, visto che a ripetersi sono spesso e 
                  volentieri le sue parti più disgustose. 
                  Uno dei più noti esempi delle persecuzioni di nemici 
                  creati ad arte è rappresentato da quello, proverbiale, 
                  effettuato contro la cosiddetta “stregoneria”. Agli 
                  albori dell'epoca moderna, in quel XVI secolo scosso da guerre 
                  di religione e dai primi vagiti dell'economia di mercato che 
                  iniziava allora a muovere i suoi primi passi all'interno dei 
                  nascenti Stati nazionali, si assistette in Europa ad un'ondata 
                  di processi nei confronti di una categoria ben precisa di persone, 
                  cosiddette “streghe” e “stregoni”. Appartenenti 
                  a gruppi rurali dispersi nelle campagne, pare poco probabile 
                  che costituissero un culto con pratiche comuni. È molto 
                  più verosimile che con tale etichetta gli inquisitori 
                  identificassero un vasto coacervo di donne e uomini dediti ad 
                  un cristianesimo sincretico contenente ancora forti elementi 
                  di paganesimo, di cui l'adorazione di un dio cornuto è 
                  l'aspetto più famoso, contenutisticamente folkloristico 
                  ma anche storicamente controverso. Streghe e stregoni finirono 
                  in questi anni al centro di quella che oggi chiameremmo una 
                  “campagna diffamatoria” assieme a molte altre categorie 
                  di individui che occupavano i margini della società – 
                  vagabondi, malati, folli, prostitute – tutti di lì 
                  a poco confinati tramite leggi repressive fintamente caritatevoli 
                  negli hôpitaux di cui Michel Foucault ci narrò 
                  la storia in un suo fondamentale libro. 
                  “Legittime” persecuzioni 
                Come si sa il Potere innalzò una macchina persecutrice 
                  tremenda nei confronti di costoro, costituita da inquisizioni, 
                  torture, processi nettamente sproporzionati rispetto alla gravità 
                  dei pretesi “reati”. Uno stuolo di giuristi si era 
                  adoperato per legittimare la campagna diffamatoria costruita 
                  appositamente, composta da riletture in negativo di vecchie 
                  leggende e trasformazioni concettuali tese ad individuare una 
                  malvagità inesistente nelle pratiche magiche. Riti che 
                  tempo prima non erano oggetto di nessuna forma di stigmatizzazione, 
                  semmai di divertenti scene da commedia, assunsero una luce fosca 
                  e inquietante, inventata di sana pianta al fine di giustificare 
                  una persecuzione. 
                  «Si hanno prove che, nell'imminenza del Rinascimento, 
                  non è vero che la magia e la stregoneria fossero realtà 
                  accette [...]. Solo un secolo dopo e per mezzo della violenta 
                  propaganda dei monaci mendicanti la fantasia delle streghe diventò 
                  credenza di tutto un popolo», propaganda effettuata attraverso 
                  libri come la Demonomania di Jean Bodin e i più antichi 
                  Malleus maleficarum dei domenicani Jacob Sprenger e Heinrich 
                  Kramer e Formicarius di Johannes Nider. È interessante 
                  valutare a questo punto le motivazioni che “il procuratore 
                  di Belzebù” Bodin addusse per giustificare i processi 
                  perpetrati sulle streghe, che ovviamente, in quanto procedimenti 
                  decisamente inusuali per il diritto, dovevano essere condotti 
                  secondo modalità straordinarie, fuori dalle righe. «Le 
                  leggi pagane et divine riconoscono molte cose come certe, et 
                  impossibili per natura, et nondimeno possibili contra tutti 
                  i corsi ed ordini della natura»; del resto, se così 
                  non fosse, se non potessero cioè accadere dei fatti soprannaturali 
                  estranei all'arbitrio delle leggi fisiche, come i malefici e 
                  le stregonerie, nemmeno potrebbero esistere i miracoli e dunque 
                  Dio non sarebbe onnipotente. L'ordinario corso della natura 
                  può, secondo Bodin, venire sospeso da chi possiede le 
                  forze adatte. Dio o il Diavolo o chi da essi è ispirato 
                  – un santo o una fattucchiera – possono operare 
                  oltre le leggi di natura, e non ammettere questa possibilità 
                  significa inficiare l'onnipotenza divina. Dunque l'inquisitore, 
                  davanti a simili fatti, sarà costretto a sospendere l'ordine 
                  razionale del suo agire – e di quello dei suoi processi. 
                  «“Dove c'è pericolo et necessità et 
                  cosa essorbitante, che non bisogna fermarsi altrimenti alle 
                  regole di ragione, ma per contrario è procedere giustamente 
                  secondo la ragione lasciando l'ordine di ragione”. V'è 
                  cioè, a suo [di Bodin] parere, una ragione/legge divina 
                  che obbliga la ragione umana anche a sragionare, quando ne sia 
                  il caso, ed eliminare i suoi nemici che, del resto, costituiscono 
                  una minaccia anche dell'umana convivenza civile». 
                  Illiceità della sospensione della ragione 
                Esistevano quindi, ed esistono con ogni apparenza tutt'oggi, 
                  alcune circostanze particolari in cui per l'onesto magistrato, 
                  in ottemperanza alle necessità particolarmente pressanti 
                  indotte dalle circostanze – la salvaguardia della civiltà 
                  cristiana da pericolose sette demoniache, oppure ai nostri giorni 
                  l'indispensabile costruzione di un treno ad alta velocità 
                  tra Torino e Lione – è lecito sospendere l'uso 
                  della ragione e condurre un processo che non rispetti alcuna 
                  garanzia degli accusati, tramutati senza colpo ferire in mostri. 
                  Ma «un processo ai mostri a sua volta è 
                  consapevolmente mostruoso (e condotto da mostri).». 
                  È in realtà un processo speciale, addirittura 
                  un “non-processo”, data l'illiceità delle 
                  premesse da cui esso parte. E tali sono le motivazioni che trasformano 
                  mostruosamente – nel senso latino della parola 
                  monstrum: colui che deve essere mostrato, esposto, con 
                  il fine di essere additato dal pubblico – il danneggiamento 
                  di un compressore in un atto terroristico le cui ripercussioni 
                  cadono sull'Italia intera. Si tratta di vera e propria alchimia: 
                  un reato di bassa lega viene tramutato in quello supremo, il 
                  più vicino all'essenza stessa del Male. La stessa parola 
                  “terrorismo” evoca immediatamente scenari catastrofici, 
                  immagini strazianti, attori diabolici e perciò gli accusati 
                  di un reato simile possono lecitamente essere tenuti dietro 
                  le sbarre in condizioni di detenzione inumane. Peccato che “terrorismo” 
                  – a ragione, ma come abbiamo detto in questo caso il suo 
                  uso è sospeso ad maiorem Status gloriam – 
                  dovrebbe essere considerata l'offesa sopra civili inerti, non 
                  quella contro un inanimato compressore in un cantiere. Per convalidare 
                  queste ipotesi persecutorie alle Demonomanie e ai Mallei 
                  Maleficarum si sostituiscono oggi le parole di giornalisti 
                  asserviti al governo, sempre pronti a convalidare la sua indiscutibile 
                  versione dei fatti. 
                  Cambiano i tempi, ma persistono gli orrori dell'inquisizione. 
                  Si ripete incessante il sacrificio al Moloch del Potere, 
                  che in ogni momento e luogo ingoia uomini e donne con l'unico 
                  fine di mascherare le proprie motivazioni: ricchezza e brama, 
                  perversa e sadica volontà di disporre della vita altrui 
                  come materia inerte. 
                 Valerio Morosi 
                 Le citazioni e molti spunti sono prese dal vecchio ma ancora 
                  affascinante libro di Luciano Parinetto Streghe e Politica, 
                  IPL, 1983; il libro di Foucault citato è ovviamente Storia 
                  della follia nell'età classica, Rizzoli 1976. Per 
                  approfondire l'argomento stregoneria consiglierei anche il classico 
                  di Carlo Ginzburg Storia notturna. Una decifrazione del sabba, 
                  Einaudi 1989, mentre di tutta la vastissima letteratura sulle 
                  menzogne a cui il potere ci ha abituati nella sua narrazione 
                  quotidiana fatta di mass media invasivi e spudorate alterazioni 
                  della verità un agile quanto approfondito compendio è 
                  La fabbrica del falso di Vladimiro Giacché, Derive 
                  Approdi 2011. 
                 
                 
                  Quelle scatolette di “merda d'artista” 
                  che hanno cambiato l'arte 
                Arriva sì con un anno di ritardo dalla ricorrenza dei 
                  cinquant'anni dalla morte di Piero Manzoni (Soncino 1963- Milano 
                  1963), ma l'antologica di Palazzo Reale (“Piero Manzoni 
                  1933-1963”, ha chiuso il 2 giugno, catalogo-Skira) voluta 
                  dal comune di Milano ricompensa ogni disappunto o mancanza verso 
                  questo artista che, nell'arco di una stagione brevissima, ha 
                  cambiato l'arte e il modo di fare arte non solo nel nostro Paese. 
                   Nelle 
                  centotredici opere scelte dai curatori Flaminio Gualdoni e Rosalia 
                  Pasqualino di Marineo (nipote dell'artista) c'è tutta 
                  la parabola artistica ed esistenziale di un innovatore controverso 
                  che, dopo Burri e Fontana, ha indicato alle avanguardie una 
                  diversa strada da percorrere. C'è stata un'arte prima 
                  di Manzoni, ma una volta che è passato lui sulla “scena” 
                  nulla è stato considerato come precedentemente. 
                  Manzoni ha sorpreso e scandalizzato per la sua eccentricità 
                  e stravaganza, ma la sua finalità non era quella di dare 
                  scandalo, piuttosto dare del suo lavoro l'idea di una ricerca 
                  sempre più filosofica e concettuale. Infatti, come si 
                  può vedere dalla prima sala dell'esposizione milanese, 
                  da giovanissimo segue un tracciato di principi psicoanalitici 
                  e di automatismi espressivi e gestuali riconosciuti nel Movimento 
                  Nucleare, ma presto si allontana dal nuclearismo di Bay e Dangelo 
                  per passare a lavorare sulle famose superficie bianche degli 
                  “Achrome” (e siamo intorno al 1957), radicalizzando 
                  il teorema del concettualismo e ponendosi domande del tipo “Perché 
                  non liberare questa superficie? Perché non cercare di 
                  scoprire il significato illimitato di uno spazio totale, di 
                  una luce pura ed assoluta”? 
                  Per il Nostro l'opera d'arte in primis è un'idea, un 
                  pensiero, per cui non conta quello che si vede in essa ma quello 
                  che non si vede. Secondo il suo punto di vista un manufatto 
                  artistico non ha niente da comunicare, dipende tutto da chi 
                  lo realizza o ne è fruitore nel provare a creare con 
                  esso un rapporto. Dopo gli “Achrome”, Manzoni supera 
                  la bidimensionalità del quadro con quelle “Linee” 
                  di carta inchiostrate e nascoste in cilindri le quali, assumendo 
                  una profondità tutta spaziale, concretizzano l'idea di 
                  “un flusso vitale e infinito” ed agevolano un fare 
                  arte in totale libertà. Non si può pensare di 
                  allestire un'antologica su Piero Manzoni e non considerare la 
                  centralità che hanno poi avuto nella veloce parabola 
                  dell'artista “Il fiato d'artista” catturato in palloncini 
                  di plastica, le “Uova sode” pronte per essere mangiate 
                  ed impresse da impronti digitali o le “Sculture viventi” 
                  (corpi nudi di donne) che vengono firmate dall'artista ed accompagnate 
                  da un certificato di autenticità. 
                  Ma l'icona che ha marchiato il Manzoni avanguardista e rivoluzionario 
                  è sicuramente la leggendaria serie di scatole di “Merda 
                  d'artista”. Nel maggio del 1961 Manzoni sigilla in novanta 
                  “boites” per conserva di alimenti 30 grammi dei 
                  suoi escrementi. Sebbene l'intento dell'artista sia economico, 
                  e, quindi, di vendere le proprio feci a parità del prezzo 
                  dell'oro al grammo, “Merda d'artista” provoca reazioni 
                  ironiche e perplesse, lo scrittore Dino Buzzati sentenzia: “questi 
                  barattoli le cui intenzioni ironiche rivoluzionarie non bastano 
                  a riscattare la volgarità e il cattivo gusto di stampo 
                  goliardico”. Finché Manzoni è in vita lo 
                  scandalo pubblico della “Merda d'artista” viene 
                  tenuto in naftalina, ma scoppierà nel 1971, quando Germano 
                  Celant alla Galleria D'Arte Moderna di Roma curerà la 
                  prima retrospettiva dedicata a Manzoni. Le piccole scatole di 
                  latta con gli escrementi scateneranno reazioni forti e scomposte, 
                  tant'è che persino un deputato presenterà un'interrogazione 
                  parlamentare per chiedere le dimissioni della direttrice dello 
                  spazio romano, rea di aver sperperato denaro pubblico per promuovere 
                  una mostra che degrada i valori dell'arte. Così Manzoni 
                  diventerà il genio (e il mito) irriverente e sfrontato 
                  alla maniera di Duchamp con il suo orinatoio, ma come spiega 
                  lo stesso Flaminio Gualdoni nel libretto appena uscito per Skira 
                  “Breve storia della Merda d'artista” “l'opera 
                  di Manzoni continua a interessarci, intrigarci, irritarci, perché 
                  si regge su un'ambiguità insanabile, tra mistico e corporeo, 
                  tra alto e basso, tra rivalità e morte. Tra oro e merda”. 
                 Mimmo Mastrangelo 
                 
                 
                  Considerazioni dopo il corteo NoTav 
                  a Torino il 10 maggio 
                Il 10 maggio scorso Torino è stata attraversata da una 
                  riuscitissima manifestazione NO TAV* contro la detenzione di 
                  quattro giovani compagni accusati con un accanimento fuor di 
                  misura di essere dei terroristi a causa del loro impegno nel 
                  movimento NO TAV e in generale contro la repressione. Una di 
                  quelle situazioni che rendono visibile il fatto che esiste un'area 
                  politica, sociale, culturale refrattaria all'omologazione, un'area 
                  che raccoglie, accanto a penne grigie o bianche come colui che 
                  stende queste note, molti giovani vivaci e combattivi. Insomma, 
                  anche dal punto di vista esistenziale, una situazione gradevole, 
                  una riprova del fatto che, come si diceva una volta, l'amor 
                  mio non muore. 
                  Il caso ha voluto che facessi un pezzo di corteo col compagno, 
                  e mio compaesano di sindacato, Stefano Capello, uomo nel contempo 
                  analitico e melanconico, che è riuscito pure in un contesto 
                  così favorevole all'entusiasmo o almeno all'ottimismo 
                  a cogliere un motivo, appunto, di melanconia e mi ha fatto rilevare 
                  come si viva in tempi che permettono mobilitazioni generali, 
                  come appunto quella alla quale partecipavamo, ma non vede un 
                  livello adeguato di mobilitazione della working class 
                  nelle aziende e sul territorio, con l'effetto che mentre noi 
                  ogni tanto adorniamo le piazze con cortei vivaci, colorati, 
                  comunicativi nella società passa la precarizzazione radicale 
                  del lavoro, la liquidazione delle residue libertà sindacali 
                  e consimili nefandezze praticamente senza colpo ferire. 
                  Assumendo come corretta la valutazione di Stefano, ed io convengo 
                  con lui per l'essenziale, ne conseguirebbe che una serie di 
                  mobilitazioni, da quella NO TAV a quella per la casa e il reddito, 
                  che si sono sviluppate in questi ultimi mesi, pur essendo assolutamente 
                  da condividersi e da sostenersi, lascerebbero senza risposta 
                  l'esigenza, ammesso vi sia, di azione e di organizzazione dei 
                  lavoratori. 
                  Sul piano metodologico si potrebbe obiettare che una cosa sono 
                  i movimenti sociali generali a difesa del territorio, per il 
                  reddito e la casa ecc. ed altro è l'organizzazione dei 
                  lavoratori, ma è anche vero che il movimento dei lavoratori 
                  sul quale scommettiamo non è altro rispetto ai processi 
                  di autorganizzazione sociale e non si limita alla pur necessaria 
                  difesa del salario, ma propone una radicale trasformazione sociale. 
                  
                  Le conseguenze di un passato recente 
                In ogni caso la domanda su quali sono le condizione per una 
                  ripresa di iniziativa dei lavoratori in relazione con i movimenti 
                  sociali resta aperta. Proviamo ora a fare un passo, non troppo 
                  lungo, indietro: 
                  - il 10 gennaio 2014 CGIL-CISL-UIL hanno stilato con Confindustria 
                  (e poi con Confservizi) un accordo che lega il godimento dei 
                  diritti sindacali – per fare un solo esempio quello di 
                  presentare candidati alle elezioni delle Rappresentanze Sindacali 
                  Unitarie - alla firma di un accordo che prevede la cosiddetta 
                  “esigibilità” degli accordi di carattere 
                  economico e normativo che verranno firmati in futuro. In concreto 
                  ciò vuol dire che un sindacato firmatario di quest'accordo 
                  non potrà, ad esempio, indire uno sciopero contro un 
                  contratto che ha visto la firma della “maggioranza” 
                  sindacale. Per non tediare i lettori, per quanto riguarda le 
                  modalità di misurazione della “maggioranza”, 
                  basta dire che è blindata. D'altro canto un sindacato 
                  che non firmerà l'accordo verrà spazzato via dalle 
                  aziende dove non potrà contare su di una presenza particolarmente 
                  forte e combattiva, con il risultato di rischiare di ridursi, 
                  per quanto riguarda le aziende, ad una serie di ridotte isolate; 
                  - all'inizio di maggio è stato approvato il cosiddetto 
                  Job Act che praticamente rende il lavoro precario libero dai 
                  pur limitati vincoli sinora esistenti dato che sarà possibile 
                  assumere reiteratamente lavoratori precari sino ad un (presunto 
                  visto che basta licenziare ed assumere dopo dieci giorni per 
                  dilatare i termini) tetto di trentasei mesi e che cadono diversi 
                  obblighi sinora previsti come la “formazione”, peraltro 
                  storicamente inesistente, dei lavoratori precari e la giustificazione 
                  sulla base di ragioni produttive della necessità di assumere 
                  precari. Se si tiene conto che nel primo anno di funzionamento 
                  della precedente legge sul reclutamento, quella legata al nome 
                  del ministro Elsa Fornero, il 70% delle assunzioni è 
                  avvenuta per lavori precari, è facile immaginare cosa 
                  avverrà dopo la liquidazione di vincoli che, come ricordavo, 
                  il precedente governo aveva ritenuto di porre. Anche in questo 
                  caso non mi dilungo in una disamina della legge, ritengo avere 
                  sufficientemente chiaro che permette una precarizzazione radicale 
                  della working class. 
                  Si tratta di due misure apparentemente non in relazione fra 
                  di loro, la prima è un accordo di carattere corporativo 
                  fra sindacati dei padroni e dei lavoratori che in una logica, 
                  appunto, corporativa vale per tutti piaccia o meno, nel secondo 
                  caso è una legge imposta da un governo che si fa vanto 
                  del suo essersi emancipato da una relazione troppo stretta con 
                  i sindacati e con confindustria. 
                  In realtà, se esaminiamo le cose in maniera più 
                  attenta, ci rendiamo conto che il gruppo parlamentare del PD 
                  che controlla la commissione lavoro della Camera e del Senato 
                  è però espressione organica proprio di CGIL-CISL-UIL 
                  cosa che riconduce a maggior modestia le pretese di Renzi di 
                  essere svincolato da tutto e tutti. 
                  Qual è, di conseguenza, l'effetto combinato di due misure 
                  che per certi versi ricordano il celebre aforisma di François 
                  de La Rochefoucauld secondo il quale “L'ipocrisia è 
                  un omaggio che il vizio rende alla virtù” giacché 
                  sembrerebbero rendere più esplicito e brutale un potere 
                  della burocrazia sindacale e del padronato già per l'essenziale 
                  esistente? 
                  Fatto salvo che quando i gruppi dominanti abbandonano una maschera 
                  ed esercitano il loro potere con meno infingimenti, significa 
                  che ritengono di essere in condizione di farlo e che non vale 
                  la pena di pagare dazio; credo che sia evidente che in questo 
                  modo, per un verso, si punta a ripulire le aziende da ogni presenza 
                  sindacale scomoda e, per l'altro, dal garantire il dispotismo 
                  padronale su lavoratori precari che si vedranno privati finanche 
                  della possibilità di ricorrere ai tribunali del lavoro 
                  contro le “esagerazioni” padronali. 
                  Se questo è il quadro, il sindacalismo di base rischia 
                  seriamente, visto che è ragionevole supporre che, con 
                  i dovuti aggiustamenti, l'accordo verrà assunto da altre 
                  associazioni padronali, di diventare una sorta di sindacalismo 
                  di ultima istanza esterno rispetto alle aziende e ridotto ad 
                  organizzare settori marginali della società e della working 
                  class. 
                  Proviamo a ricapitolare, nei luoghi del lavoro, come si suol 
                  dire, l'asticella si alza. Organizzare un sindacato combattivo 
                  è tendenzialmente sempre più difficile, una working 
                  class in discreta parte precaria, in altra parte coinvolta da 
                  crisi aziendali, per una discreta componente composta da lavoratori 
                  senza diritti, stenta a riorganizzarsi. Nello stesso tempo lotte 
                  non organizzate sindacalmente non si danno in misura degna di 
                  nota con l'unica, importantissima, eccezione dei lavoratori 
                  immigrati che operano nel settore strategico della logistica 
                  sulla quale una riflessione approfondita va fatta. 
                  Si tratta in una fase come questa di riorientare l'azione tenendo 
                  conto di un contesto che chiede un incremento importante dell'iniziativa 
                  generale delle organizzazioni radicali dei lavoratori che in 
                  qualche modo devono – mentre resta essenziale il radicamento 
                  aziendale e categoriale - puntare alla costruzione di un tessuto 
                  organizzativo che sappia tenere assieme collettivi di lavoratori 
                  e movimenti della società in una prospettiva meno angusta 
                  dell'attuale. 
                 Cosimo Scarinzi 
                 * Vedi: Maria Matteo “Torino, 10 maggio. 
                  Il sole oltre i blindati” in Umanità Nova 
                 
                 
                  Dal Festival del cinema a Cannes, 
                  riflessioni in disordine 
                Nell'attanagliante atmosfera glamour del Festival per antonomasia, 
                  si fa presto a dimenticare che un film possa farti male. Il 
                  Cinema é ancora capace di far tremare anche le più 
                  stabili fondamenta morali e intellettuali: interrompere la nostra 
                  convinzione Don Quixottiana di sapere cosa veramente succede 
                  intorno a noi. 
                
                   
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                    |   Simav, l'eroina. Filmmaker in Eau Argentée  | 
                   
                 
                Mi sono fatto proprio male quest'anno. Ho iniziato col botto, 
                  nel senso straziante del termine. Ho visto infatti Eau Argentée 
                  –Siria Autoritratto. Un insieme di video strappati 
                  da youtube, pezzi di un mosaico apocalittico che rappresenta 
                  la Siria dall'inizio della rivoluzione fino ad ora... probabilmente. 
                  Probabilmente perché io, di definitivo, non voglio dire 
                  più nulla. 
                  Spinto dalla poesia narrante del regista Ossama Mohammed, mi 
                  trovo tra tanti formati video di telefonini e videocamere amatoriali, 
                  e divento partecipe di torture e morti di decine, centinaia 
                  di siriani. 
                  Ero presente? Assolutamente no, ben protetto dalla mia poltrona 
                  rossa. Però ho visto gli ultimi attimi delle vite di 
                  molti ribelli, la loro dignità calpestata da uno stivale 
                  pro-Assad, o il loro passato rappresentato da un'istantanea, 
                  di un bimbo che fu...ora solo uno dei tanti “martiri”. 
                  Mohammed ci porta nel suo mondo, di esule che non può 
                  più stare in Siria, e allora attinge a 1001 testimonianze 
                  per raccontare anche la sua. Ma soprattutto quella di Simav, 
                  testarda eroina kurda che documenta con la sua telecamerina 
                  un inferno a cielo aperto, Homs, dove è nata e cresciuta. 
                  Lei non se ne va. Non si copre il volto. Ma filma...filma qualsiasi 
                  cosa. Filma la morte dei suoi vicini, il quartiere in macerie, 
                  orde di bambini vittime delle bombe mattutine e gli animali 
                  domestici ridotti a fiere dantesche senza zampe, che mangiano 
                  l'un l'altro. 
                  É tutto vero: è successo. La camera non 
                  è abbellimento, è testimonianza che filtra solo 
                  una volta: da realtà a video. Non è informazione, 
                  è memoria in immagine. Si può ancora interpretare, 
                  certo, ma ciò non toglie la potenza amorale di un proiettile 
                  che perfora il cranio di un uomo bendato. 
                  “Assad è il tuo dio, bacia la suola di questo stivale.” 
                  E intanto la rivoluzione ristagna, anche ideologicamente. E 
                  Simav risponde aprendo una scuola, perché “non 
                  possono mettere anche i nostri cervelli sotto assedio, vero 
                  bambini?” 
                  Allora si impara. Si impara nonostante la morte sia sempre compagna 
                  di banco: gli alunni diminuiscono – o perdendo la vita, 
                  o semplicemente perché gli adulti non vogliono che i 
                  propri bimbi vengano educati da una donna senza il velo. 
                  “...La rivoluzione mangerà i suoi stessi figli.” 
                  E a me, cosa resta da fare? Questo è il più grande 
                  problema. Piango, mi viene da vomitare, mi sento inutile. E 
                  il film finisce. Mi rimane l'amaro di bile, e penso ai fratelli 
                  siriani che lottano e muoiono in nome di una Siria - per tutti. 
                  Rimango inerte. Quello che so vale nulla. Un pacchiano sentimento 
                  socratico che mi rende solo cosciente dell'entità della 
                  parola 'guerra'. L'atrocità dell'uomo sull'uomo non si 
                  ferma se voltiamo pagina. Allora scrivo qui, di getto, invitando 
                  noi tutti, prima di soluzioni, a vivere immediatamente nello 
                  spirito di Simav. 
                 Nicolò Comotti 
                 P.S: Ossama Mohammed mi ha detto che ne ha visti di miracoli 
                  durante la rivoluzione Siriana. Uno tra questi, per lui, è 
                  stato vedere Garcia Llorca citato su un cartello: La libertà 
                  che ami sopra di tutti, la libertà sono io, io che dono 
                  il mio sangue, che è il tuo sangue ed il sangue di tutte 
                  le creature. 
                  
                 
                
                   
                    Villaggio 
                        Ecologico di Granara 
                        Granara Festival 2014 
                        dal 2 al 10 agosto 
                      Granara 
                        di ieri è un villaggio contadino sull'Appennino 
                        Parmense in Val di Taro abbandonato dai suoi abitanti 
                        negli anni Sessanta. Granara di oggi è un ecovillaggio 
                        nato negli anni Novanta su iniziativa di un gruppo di 
                        associazioni e singoli che hanno ricostruito le vecchie 
                        case di pietra con le tecniche della bioedilizia. All'interno 
                        del villaggio operano diverse associazioni: l'Associazione 
                        Centopassi, che organizza ogni anno campi di educazione 
                        ambientale per bambini e ragazzi; l'Associazione Teatro, 
                        che organizza residenze, spettacoli ed eventi culturali; 
                        il Geco, Granara ecologia, che si occupa di tecnologie 
                        appropriate e formazione ad un approccio ecologico alla 
                        nonviolenza; la Granera, che si dedica alla cura dei campi 
                        e degli animali; il Granaio, che si occupa della gestione 
                        della casa per l'ospitalità. Le decisioni all'interno 
                        del villaggio vengono prese da abitanti e associazioni 
                        attraverso un metodo orientato al consenso per vivere 
                        e gestire in modo orizzontale questo grande spazio e tutte 
                        le attività che si svolgono al suo interno. 
                        Nasce in questa cornice, nel 2000, il primo Granara Festival, 
                        una settimana in agosto che propone laboratori, spettacoli, 
                        incontri, momenti di scambio, attività per adulti, 
                        bambini e ragazzi: teatro, danza, musica, arte contemporanea, 
                        ecologia e nonviolenza. Artisti, staff, spettatori e ospiti, 
                        tutti per una settimana vivono il festival tra le case 
                        di pietra, i prati e il bosco e sperimentano un modo diverso 
                        di stare insieme e di rapportarsi con la natura. Negli 
                        anni sono stati ospitati oltre 40 spettacoli teatrali 
                        e musicali e 30 laboratori per adulti e bambini, dando 
                        spazio a giovani talenti e ad artisti già affermati. 
                        Il Granara Festival si basa sul lavoro volontario di associazioni 
                        e singoli e si propone per una scelta politica di mantenere 
                        i prezzi per quanto è possibile contenuti. Laboratori, 
                        incontri, spettacoli ed eventi con Daria Deflorian, AntonioTagliarini, 
                        Fratelli Dalla Via, Marcela Serli - Compagnia Atopos, 
                        Stefano Laffi, AnnaRossi, Serena Sinigaglia - A.T.I.R., 
                        Camilla Barbarito, Giorgio Sangati, Maria Carpaneto, Alessandro 
                        Sarra, Chiara Camoni. 
                         
                        Per maggiori informazioni: www.granara.org 
                        - villaggio@granara.org. 
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