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				 cinema 
                  
                Quando il regista è un antropologo 
                  
                di Laura Antonella Carli 
                    
                Il sodalizio tra antropologia e cinematografia nasce e si sviluppa in Italia nel secondo dopoguerra, nell'ambito delle ricerche sul campo promosse da Ernesto De Martino. Uno sguardo retrospettivo ai registi e ai filmati che hanno segnato una pagina ricca e stimolante della ricerca sociale. 
                 
                  Una mattina di giugno del 1959, 
                  un'équipe guidata da Ernesto De Martino parte da Roma 
                  in direzione di Galatina, Salento, per studiare il fenomeno 
                  degli attarantati. Per questa ricerca, che successivamente confluirà 
                  nel libro La terra del rimorso, De Martino sceglie di 
                  farsi accompagnare da alcuni studiosi – un medico, uno 
                  psichiatra, una psicologa, uno storico delle religioni, un'antropologa 
                  culturale, un etnomusicologo e, infine, da un documentarista, 
                  restando fedele a quell'approccio multidisciplinare che è 
                  tra gli aspetti innovativi della sua ricerca etnografica. 
                  In realtà il sodalizio tra antropologia e cinematografia 
                  documentaria si era già consolidato da qualche anno. 
                  Nell'immediato dopoguerra, la necessità di dare vita 
                  a una produzione documentaria non compromessa con il regime 
                  fascista – quindi autonoma rispetto all'Istituto Luce 
                  – aveva portato ad alcuni stanziamenti economici che erano 
                  serviti da incoraggiamento per i giovani cineasti, molti dei 
                  quali hanno esordito proprio con pellicole di carattere documentario 
                  e, nella maggior parte dei casi, legate a tematiche sociali 
                  – N.V. di Antonioni (1948), dedicato al lavoro 
                  del netturbino, o Barboni di Dino Risi (1946), che all'elemento 
                  di denuncia fonde una dimensione poetica che a tratti vira alla 
                  commedia. 
                  Ma è solo negli anni cinquanta che il documentario italiano 
                  scopre il meridione e le suggestioni che può offrire 
                  uno sguardo antropologico sui riti e le usanze della civiltà 
                  contadina. 
                
                   
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                    |   Una scena dal film Magia lucana  | 
                   
                 
                Itinerari demartiniani 
                Lamento funebre è del 1953. La regia è 
                  di Michele Gandin, che si avvale della consulenza tecnica di 
                  Ernesto De Martino. Il film mette in scena – perché 
                  si tratta, in effetti, di scene ricostruite – un tipico 
                  lamento funebre lucano, con alcune licenze, come la decisione 
                  di ambientare all'aperto un rito tipicamente domestico. 
                  Nel frattempo il giovane documentarista Luigi Di Gianni legge 
                  per caso su un giornale della spedizione in Basilicata effettuata 
                  da poco dallo studioso e decide subito di mettersi in contatto 
                  con lui per sottoporgli alcuni suoi progetti. Incappa prima 
                  in Romano Calisi, suo allievo, poi nell'etnomusicologo Diego 
                  Carpitella e infine in De Martino stesso: “Mi fece un'impressione 
                  travolgente”, racconta Di Gianni, “perché 
                  era uno scienziato ma anche un brillantissimo scrittore, con 
                  doti straordinarie del tutto insolite per un accademico”. 
                  Il primo film che girano insieme è Magia lucana (1958), 
                  in cui il discorso magico-rituale – vero aspetto preponderante 
                  di tutto il filone dei documentari “demartiniani” 
                  – lascia molto spazio alla descrizione dell'ambiente, 
                  della vita nei borghi, al tema della fatica del lavoro e della 
                  lunga strada dal lavoro al paese. Il fulcro del film resta però 
                  il lamento funebre, girato a  Pisticci, in provincia di 
                  Matera, dove Di Gianni e De Martino hanno avuto la fortuna di 
                  scovare le ultime prefiche, le lamentatrici di  professione, 
                  “con le quali”, spiega Di Gianni, “abbiamo 
                  messo in scena una cerimonia funebre tra i calanchi, un luogo 
                  di per sé già fortemente evocativo”. 
                  Il tema della religiosità contadina e del suo complesso 
                  rituale verrà ripreso dallo stesso Di Gianni nei suoi 
                  successivi lavori, declinato in varie suggestioni. Grazia 
                  e numeri (1962) abbandona la campagna per esplorare l'anima 
                  magica dei vicoli partenopei; Il culto delle pietre (1967) 
                  è un reportage dalle grotte di Raiano, nella Marsica, 
                  dove centinaia di fedeli venerano le pietre su cui San Venanzio 
                  sembra aver riposato. E ancora: Il male di San Donato 
                  (1965), sulla processione salentina in onore del santo protettore 
                  degli epilettici e Nascita di un culto  (1968), 
                  che racconta la storia di Giuseppina Gonella, donna dai poteri 
                  sovrumani, che ogni giorno, dalle 10 alle 16, ospita dentro 
                  di sé lo spirito del nipote morto in un incidente d'auto, 
                  e a casa della quale ogni giorno un gran numero di adepti la 
                  raggiunge, rimanendo ore in attesa per assistere alla possessione 
                  quotidiana. 
                  Che il risultato del lavoro non fosse strettamente scientifico, 
                  vista la forte presenza autorale e l'abitudine di ricostruire 
                  le scene, era chiaro a tutti e accettato dallo stesso De Martino. 
                  Ricostruzione e ripresa dal vero, volontà di testimonianza 
                  e ricerca estetica si mescolano e si rincorrono in tutto questo 
                  filone del cinema, con risultati spesso molto apprezzati – 
                  Magia lucana venne anche presentato alla Mostra di Venezia 
                  nel 1958 e vinse il premio come miglior documentario. 
                  Si era aperta la stagione del documentario etno-antropologico 
                  del gruppo dei cosiddetti demartiniani: Luigi Di Gianni, Cecilia 
                  Mangini, Giuseppe Ferrara, Gianfranco Mingozzi. 
                  Quest'ultimo è autore di un documentario piuttosto celebre, 
                  La taranta (1962), considerato il primo documento filmato 
                  sul fenomeno del tarantismo. Il film mette in scena il rito 
                  a partire da una dimensione domestica per approdare poi a quella 
                  collettiva, nei giorni delle celebrazioni dei santi Pietro e 
                  Paolo a Galatina. Il commento di Salvatore Quasimodo ha carattere 
                  molto letterario e si limita a fungere da introduzione, mentre 
                  la conclusione allude alla progressiva scomparsa del fenomeno, 
                  che attraverso psichiatria e psicologia fa il suo ingresso nel 
                  mondo della scienza. 
                  Quando nel 2009 Mingozzi è scomparso, Cecilia Mangini, 
                  unica donna del gruppo e prima donna  regista sulla scena 
                  italiana del dopoguerra, ha raccontato su il manifesto 
                  il suo primo incontro “virtuale” con lui. “Era 
                  il 1961, al festival di Lipsia Maria di Nardò faceva 
                  fascinosamente il suo ingresso sullo schermo dibattendosi per 
                  terra in preda al tarantismo al ritmo scatenato della meloterapia”. 
                  Riprendere “la taranta”, spiega Mangini, era stato 
                  il grande sogno di tutti i documentaristi demartiniani: “lui 
                  c'era riuscito, io no, io a Galatina avevo dovuto rinunciare 
                  alle riprese, paralizzata dal no indiscutibile dell'arcivescovo 
                  di Otranto. Perché poi si dovesse chiedere proprio a 
                  un arcivescovo il permesso di girare in una chiesa sconsacrata 
                  oggi può sembrare un mistero irrisolvibile, purtroppo 
                  in mezzo secolo ci siamo dimenticati di come la chiesa sapesse 
                  dimostrare a oltranza il suo potere”. 
                  Cecilia Mangini, militante Pci, moglie del collega documentarista 
                  Nino Del Frà, ispirata dalla lettura di Gramsci e De 
                  Martino vuole raccontare l'universo rituale senza ricorrere 
                  al facile folclore. Nel 1960, con Stendalì (nel 
                  dialetto della Grecia salentina: suonano ancora), mostra 
                  un lamento funebre, finalmente restituito al suo luogo deputato: 
                  la casa. Secondo la tradizione classica – Omero, Euripide 
                  – è necessario favorire la partenza dell'anima 
                  del morto nell'aldilà con canti rituali e lamentazioni 
                  che ripropongono le gesta del defunto e ne piangono il distacco 
                  dai familiari. Il pianto da tributare al defunto, come scrive 
                  Foscolo a proposito della morte di Ettore, costituisce un momento 
                  aggregante fondamentale in una società di tipo arcaico. 
                  Le lamentazioni, i moroloia (i canti delle prefiche) 
                  ripropongono spesso dialoghi tra il morto e il parente più 
                  stretto o tra chi perde la persona cara e la morte stessa: il 
                  tutto accompagnato da una precisa e articolata gestualità. 
                  Nel caso di Stendalì il testo delle lamentazioni 
                  salentine, interpretato nel filmato dall'attrice Lilla Brignone, 
                  viene tradotto da Pier Paolo Pasolini, che tenta di metabolizzare 
                  attraverso un lavoro di riscrittura del materiale il sentimento 
                  popolare che accompagna i canti di morte tradizionali. Conformemente 
                  al sodalizio che all'epoca sembrava legare scrittori e documentaristi, 
                  la cooperazione tra Pasolini e Mangini prosegue con il successivo 
                  La canta delle marane (1961), che se non può essere 
                  certo definito un documentario antropologico, rappresenta comunque 
                  un vivace spaccato di vita popolare, mettendo in scena la vita 
                  di borgata di un gruppo di monelli che fanno il bagno in un 
                  torrente (la marana), tra tuffi e scherzi fino all'arrivo delle 
                  guardie, schernite dai ragazzi in fuga: una vera e propria scena 
                  di Ragazzi di vita. 
                
                   
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                    |   Una 
                        scena dal film Banditi a Orgosolo  | 
                   
                 
                Grandi epopee di terra e di mare 
                D'altra parte i rimandi tra letteratura e cinema e tra cinema 
                  documentario e cinema di finzione si sprecano, tanto che molti 
                  arrivano a negare, con cognizione di causa, una netta distinzione 
                  tra cinema diretto e cinema a soggetto. A riprova di questa 
                  tesi possiamo citare alcuni film coevi basati su una storia 
                  completamente inventata ma in tutto simili ai documentari citati, 
                  nello stile come nelle vicende raccontate. 
                  L'antimiracolo  è un'opera del 1965 del ligure  
                  Elio Piccon, che si trasferisce presso la laguna di Lesina, 
                  nel Gargano, senza uno script preciso e senza troppe finanze. 
                  Vive lì per tre mesi, segue i ritmi di quella terra e 
                  della gente che la popola, poi comincia a girare un film di 
                  finzione con attori non professionisti che ha molto in comune 
                  con una prova documentaria: con la storia di due fratelli che 
                  facendosi largo nella palude s'improvvisano rispettivamente 
                  pescatore e contadino, racconta un mondo che “il miracolo 
                  italiano non l'ha visto nemmeno in cartolina”. 
                  Più celebre è forse Banditi a Orgosolo 
                  (1961) di Vittorio De Seta, ambientato in Barbagia e interpretato 
                  da attori non professionisti, scritturati in loco. Meno 
                  nota è forse la sua vasta e splendida produzione documentaristica, 
                  che si distingue per alcune scelte stilistiche controcorrente, 
                  prima tra tutte l'uso del colore, all'epoca reputato poco adatto 
                  al documentario perché troppo “estetizzante”, 
                  tanto più che il sistema utilizzato da De Seta, il ferraniacolor, 
                  creava colori sgargianti, quasi iperealisti: un trionfo di blu, 
                  gialli e rossi, a cui il regista, non contento, decide di aggiungere 
                  il formato panoramico (cinemascope). Ma la scelta più 
                  interessante è quella di abolire del tutto il commento: 
                  nessuna voce over, solo una breve didascalia iniziale di contestualizzazione. 
                  L'idea è di abolire lo sguardo “metropolitano” 
                  del commentatore esterno e lasciar parlare i suoni, le voci 
                  e i canti ripresi dal vero. 
                  Tra il 1954 e il '55, con sette cortometraggi girati in Sicilia, 
                  a cui si aggiungono tre anni dopo altre quattro opere brevi 
                  realizzate ancora in Sicilia e poi in Sardegna e in Calabria, 
                  De Seta concentra il suo sguardo sul lavoro ritualizzato: i 
                  pescherecci, le miniere, i campi, il lavoro domestico; a dominare 
                  è una dimensione completamente collettiva: sono i grandi 
                  melodrammi del lavoro, della terra e del mare, in cui il quotidiano 
                  assurge a una dimensione epica. 
                  Il lavoro nelle miniere di zolfo in alcune zone della Sicilia 
                  centrale è il soggetto di Sulfarara (1955). La 
                  telecamera segue i minatori all'alba avviarsi verso i pozzi 
                  e attendere che i compagni del turno di notte risalgano in superficie 
                  dopo le otto ore di lavoro.  Al tramonto li vediamo tornare 
                  come silouette che si stagliano sullo sfondo. “Era 
                  un tipo di inquadratura”, spiega De Seta a Goffredo Fofi, 
                  “scelta per sottolineare una condizione: i minatori non 
                  vedevano mai il giorno. Uscivano di casa alle prime luci, ancora 
                  al buio, e tornavano a sera; vedevano sempre il sole all'alba 
                  o al tramonto”. 
                  Con i suoi film De Seta riesce a raccontare la vita quotidiana 
                  attraverso i vari mestieri: la pastorizia in Pastori a Orgosolo, 
                  la pesca e la vita in mare (Lu tempu di li pisci spata, Contadini 
                  del mare e Pescherecci), il lavoro nei campi di Parabola 
                  d'oro. Quest'ultimo, insieme a Un giorno in Barbagia 
                  – film interamente dedicato alla vita e al lavoro delle 
                  donne in paese – sono stati, secondo De Seta, i più 
                  difficili da girare, perché non c'è racconto, 
                  “solo gesti”. 
                  D'altro canto De Seta stenta a inserirsi nel solco del documentario 
                  antropologico, e in special modo in quello d'ispirazione demartiniana, 
                  che apprezza, ma ritiene troppo improntato all'etnografia, mentre 
                  lui voleva “fare del cinema”. Ed è proprio 
                  la dimensione estetica – quasi operistica – che 
                  gli viene rinfacciata, così come gli viene rimproverato 
                  di non fare film abbastanza “impegnati”. Il fatto 
                  è che la poetica di De Seta, ben lungi dall'essere disimpegnata, 
                  ha una portata ampia, che non si risolve nel cinema di denuncia. 
                  Ciò che mette in scena è il rapporto – spesso 
                  duro – tra uomo e natura o la gigantesca solitudine dei 
                  pastori sardi e dei latitanti, molto simile a quella cantata 
                  da De André nel Canto del servo pastore. Una solitudine 
                  che può diventare quella di un'intera comunità, 
                  come nel film I dimenticati (1959), in cui viene raccontato 
                  l'isolamento di un paesino – Alessandria del Carretto, 
                  in provincia di Cosenza – raggiungibile solo attraverso 
                  un sentiero di 15 chilometri, che si può percorrere solo 
                  a piedi o con i muli. 
                  “Il mio è stato un tentativo di raccontare la natura 
                  e la cultura contadina con una franchezza realistica ed epica”, 
                  spiega il regista, “Per me il 'mito' è la sacralità 
                  della natura, il fuoco delle isole Eolie, i riti dei pescatori 
                  che sono una specie di sistema religioso”. 
                 Laura Antonella Carli 
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