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				 pedagogia libertaria 
                  
                Incidentalità/progetto 
                  
                reportage di Giulio Spiazzi 
                    
                Autenticità, reciproco rispetto e competenza nel rapporto educativo. Alcune note e alcuni confronti su un tema spinoso e poco compreso dell'educazione libertaria. 
                 
                  Per me, il principio primo dell'anarchismo non è la 
                  libertà ma l'autonomia, la capacità di darsi un 
                  obiettivo e perseguirlo lungo un proprio cammino... La debolezza 
                  del «mio» anarchismo è che la brama di libertà 
                  è un forte motivo di cambiamento politico, e l'autonomia 
                  no. Gli individui autonomi si proteggono ostinatamente ma con 
                  mezzi meno energici, facendo anche largo uso della resistenza 
                  passiva. La cosa che vogliono la fanno comunque. Il pathos degli 
                  individui oppressi, tuttavia, è che, se si liberano dalle 
                  catene, non sanno cosa fare. Non essendo stati autonomi, non 
                  sanno cosa significa, e prima che imparino, si ritrovano nuovi 
                  amministratori che non hanno alcuna fretta di abdicare... 
                 Paul Goodman 
                
                   
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                    |   Kether - Saper scalare un albero, ovvero saper entrare  incidentalmente 
                  in dialogo con una realtà  sociale autoeducante  | 
                   
                 
                 “Cavarsela da soli”. Sembra strano ma, quest'arte 
                  naturale di sopravvivenza e di equilibrio sociale, è 
                  stata dimenticata da gran parte della giovane popolazione 
                  di studenti dell'Italia attuale. Questo processo graduale, incisivo, 
                  il più delle volte viscerale, di smarrimento, 
                  riguarda i rapporti che si sono solidificati (processo inverso, 
                  corrosivo, di dipendenza) nelle strutture della micro-famiglia 
                  dei giorni nostri, nelle realtà sintetiche di 
                  bambini/e e ragazzi/e che “formano gruppi di aggregazione” 
                  artificiali, nella paradossale, assurda, istituzione 
                  della cosiddetta scuola contemporanea. 
                  Non è un caso, che nelle piccole realtà libertarie 
                  della Penisola, arrivino sempre più bambini/e e ragazzi/e 
                  che rifiutano radicalmente il rapporto con gli adulti e, in 
                  specie con gli inoculatori di parole ed azioni preposti 
                  all' “insegnamento”, lontani da ciò che reputano 
                  essere la percezione prima del loro “ fresco senso della 
                  vita”. La domanda più frequente che affiora dalle 
                  giovani labbra è: “perché tutte quelle ore, 
                  in quelle aule, su quei banchi, ad ascoltare parole e a scrivere 
                  cose noiose?”, oppure: “ma... a cosa serve 
                  imparare tutto questo?”. Minati alla radice del loro immaginario, 
                  molti di essi vivono in una condizione di profondo spaesamento 
                  l'Unheimlich del colonizzato e non certo quello della 
                  “scelta”, ove anche i riti sorgivi e intimamente 
                  autentici del gioco, hanno ormai (e si parla di giovane o giovanissima 
                  età) assunto il tono della copia, della replica male 
                  imitata, non costruita, di difficile rielaborazione creativa. 
                  Se si annienta il gioco, come si può chiedere 
                  di affrontare la vita, esponendo la propria irriducibile particolarità 
                  all'evento? 
                  Dunque, questo moto obbligatorio, ormai incosciente ed 
                  accettato, del portare la “cultura elementare”, 
                  del “dare conoscenza dei fatti accaduti (le materie 
                  ad esempio) o “praticabili”, (le scienze, 
                  per di più considerate esatte)”, del promuovere 
                  schematicamente il “passaggio all'astrazione”, per 
                  trasformare in fondo il tutto in “cultura”, e in 
                  specie patrimonio del sapere europeo e/o occidentale, 
                  guarda o non guarda il bambino/a, il ragazzo/a, il giovane/la 
                  giovane? E se lo fa, da quale angolatura indirizza la propria 
                  attenzione? Da quella della libertà dell'individuo? 
                  Dalla coltura della sua autonomia? Oppure da quella di 
                  qualche altro “terreno ben arato” (“volto 
                  al futuro” o semplicemente “subito nel presente”), 
                  in realtà non “altro”, nel senso dell'incontro 
                  e del riconoscimento, che poco contempla le radicali e differenziate 
                  interpretazioni del mondo del giovane che inizia una vita? 
                  A cosa effettivamente servono, come sostengono i bambini/e 
                  rigettati/e o in fuga dalle istituzioni di tutti i tipi, (o 
                  semplicemente, il ragazzo/a “che chiede”), questi 
                  meravigliosi capolavori di tessitura, questi arazzi 
                  di dominio filati nel corso degli anni da mani/macchine 
                  che propongono democraticamente o con metodi totalitari, 
                  il “cittadino”, “l'uomo nuovo” 
                  (dopo due guerre mondiali, … ad esser corretti: 'un po' 
                  obsoleto'...), lo specialista di settore, il consumatore 
                  di massa, il tecnico esecutore ecc. ecc.? Come potrà 
                  mai rispondere un giovane o giovanissimo, a quella che percepisce 
                  chiaramente essere una minaccia alla propria libera espressione 
                  “mente-corpo-creatività illimitata”, perpetrata 
                  da un enorme Golem di menzogne e inutilità, devoto allo 
                  spegnimento dell'interesse, della curiosità, dell'errore 
                  come ineguagliabile pratica di conoscenza per la propria esistenza? 
                  Quali percorsi non-adulto-centrici di risposta potrà 
                  mai praticare un individuo, nel verde dei suoi anni, 
                  avviluppato nei legacci di una “non-scelta” che 
                  pretende sudditanza, non-pensiero, inazione, e, ancora una volta, 
                  frena il divertimento e allontana il gioco della vita? 
                  Perché nella tetra “fortezza d'Occidente” 
                  si è così “razionalmente” e 
                  “responsabilmente” lentamente ed oggi, perentoriamente 
                  ordinato che, non s'“impari ad imparare”? 
                  Che cosa “serve” effettivamente ad un ragazzo/a 
                  che si apre al cosmo del suo quotidiano, nella delicata 
                  opera di organizzazione autonoma del proprio “sapere” 
                  di pratica e di studio? 
                
                   
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                    |   Afghanistan, Taloqan - Il nostro nonno ciabattino e  l'apprendimento incidentale del bazaar  | 
                   
                 
                
                
                   
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                    |   Afghanistan, Piana del Takhar - La strada si fa maestra  di occasioni. I piccoli venditori di dolci  | 
                   
                 
                 
                  Noor, bambino afghano 
                Noor Makhmud ha sette anni, vive nella provincia nord orientale 
                  dell'Afg2hanistan, al centro della piana del Takhar. Nella città 
                  di Taloqan aiuta il nonno ciabattino nell'attività di 
                  riparazione di sandali e di scarpe. È un lavoro che lo 
                  impegna “a tutto tondo”, anche perché prevede 
                  una costante abilità nel rintracciare nuovi potenziali 
                  clienti, disposti a recarsi dall'abile anziano ottuagenario, 
                  nel caotico e affollato mercato del capoluogo. 
                  Per avvicinare Tajiki, Uzbeki, Hazara e Pashtun, è necessario 
                  aver imparato tutto quello che c'è da sapere su queste 
                  imprevedibili e incostanti tribù montanare. Riconoscere 
                  un uomo da un abito di foggia particolare è un'azione 
                  etnografica di un certo rispetto, ma, indovinare con precisione 
                  un soggetto culturale differenziato dal tipo di calzatura indossata, 
                  è una concretizzazione conoscitiva di percorso, riservata 
                  solo a chi desidera ed aspira ad imparare, un 
                  mestiere. Per arrivare a questo, il giovane Makhmud è 
                  passato attraverso il “praticantato di strada” del 
                  fratello maggiore Wajid che, con pazienza e caparbietà, 
                  gli ha riferito per filo e per segno come si deve osservare 
                  uno dei tanti “stranieri interni” del variegato 
                  mosaico umano dell'Afghanistan. Ridendo Makhmud racconta che 
                  Hazara e Uzbeki hanno piedi piccoli e quadrati e che a volte 
                  non è facile distinguerli e riconoscerli dal viso, avendo 
                  tutti e due lineamenti orientali ma, che “da come poggiano 
                  i piedi per terra, … non ci si può sbagliare”. 
                  “Gli Hazara poi, hanno bisogno di calzature molto robuste, 
                  a differenza degli Uzbeki, perché, pur essendo entrambi 
                  grandi camminatori, gli Hazara hanno piedi più compatti, 
                  piatti, potenti, in grado di consumare sandali da mulattiera 
                  e frantumare scarpe poco protette”. Wajid che ha dodici 
                  anni, racconta di come sia importante “aiutare il fratello 
                  minore” nel farsi sicuro in quest'arte della distinzione. 
                  “La sera, dopo il mercato” aggiunge, “ci raccogliamo 
                  sotto l'arco di un piccolo portico per raccontarci le cose accadute 
                  durante la giornata. Con noi c'è un'altra decina di ragazzi 
                  che alla spicciolata arrivano da varie parti del quartiere. 
                  Io e Makhmud, siamo fortunati. I nostri genitori sono 
                  morti durante la guerra ed il nonno non vuole sentire parlare 
                  di farsi aiutare per sistemare le sue faccende domestiche.” 
                  “Così io posso ascoltare” sorride 
                  Makhmud e carpire “i segreti che Wajid e i suoi amici 
                  più grandi conoscono, dopo anni di attività”. 
                  Molto seriamente sostiene che non è ancora in grado di 
                  distinguere se un piede “appartiene ad un Pashtun del 
                  Sud o a uno di frontiera” ma, assicura, che nel giro di 
                  un paio di anni capirà esattamente tutte “le indicazioni 
                  e i dettagli che suo fratello maggiore gli sta illustrando con 
                  estrema pazienza da molto tempo”. E il particolare non 
                  è da poco. 
                  Un abitante afghano d'oltre montagna (leggi: confine), è 
                  più facile da “conquistare”, rispetto ad 
                  un Patano di Kandahar ed inoltre, assicura un pagamento immediato 
                  e corposo. “E...la scuola e... le lingue per poter spiegarsi 
                  con gente così poco affine culturalmente? Il tagiko è 
                  ben diverso dal pashtun!” Wajid e Makhmud, ridono a crepapelle: 
                  “Vorrai dire il Dari e l'Urdu, vero? … S'imparano 
                  sulla strada, nel mercato. Lì puoi iniziare a 
                  parlare anche l'uzbeko, il dialetto kirghiso, il cinese degli 
                  Uiguri e... conosciamo anche la lingua degli Sciuravì: 
                  nogha-piede; obùvnoì-scarpa..., 
                  ce la hanno insegnata altri ragazzi del mestiere, più 
                  grandi di noi, che lavoravano al mercato quando c'erano i Russi...non 
                  si sa mai che...ritornino a cambiarsi gli stivali...” 
                  “Questo è quello che ci piace e ci interessa 
                  e che ci fa vivere”. Per scrivere e leggere poi, 
                  c'è sempre il nonno che ci aiuta quando gli chiediamo 
                  di farlo”. 
                  “Nostro cugino va a scuola ma, lì vogliono farti 
                  pensare in Arabo e a noi non va bene, è pericoloso, ti 
                  può far cambiare la testa e... non serve a quello 
                  che ci piace fare e che ci dà il nan, il pane. 
                  E poi, ...gli Arabi vanno a cavallo... ” 
                
                   
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                    |   Afghanistan - Generazione della speranza. Giovani e  adulti in stretto contatto autoformativo  | 
                   
                 
                 
                A Kether, nessuna maggioranza 
                Sul pavimento della “stanza dei computer”, nella 
                  Piccola Scuola Libertaria Kether di Verona, H. si rotola lentamente 
                  osservando a tratti il soffitto e saltuariamente gli affaccendati 
                  ragazzi delle medie, intenti a sfogliare i fascicoli di una 
                  vetusta enciclopedia ad immagini, per giovani studenti di un 
                  tempo. I fascicoli colorati di rosso e le stampe variopinte 
                  di “Conoscere”, non attraggono particolarmente H. 
                  (a differenza dei suoi voraci “colleghi di lavoro”), 
                  come pure e tanto meno, gli accompagnamenti di materia, tarati 
                  per la sua fascia d'età ed abbandonati sul piano di una 
                  sedia. Ad H. piace librarsi nei cieli dei suoi mondi 
                  fantastici, percorsi da vuoti d'aria e da repentine brezze primaverili 
                  provenienti, in simbiosi, dal bosco circostante. Osserva le 
                  volute di una pesante mosca nera che visita l'ambiente con traiettorie 
                  irregolari, per poi imitare con le dita sollevate, i tracciati 
                  geometrici scomposti, dell'insetto. H. non dipende da nessuno, 
                  se non da se stesso. Per mesi è stato “messo alle 
                  corde” in concitate assemblee di bambini/e-ragazzi/e-accompagnat/ori/rici 
                  che ne volevano l'allontanamento momentaneo o drasticamente, 
                  l'espulsione, a causa delle sue marcate provocazioni, vere e 
                  proprie violenze ai danni di persone e cose, “capricci 
                  e opposizioni”. Ma a Kether non vige il metodo della “maggioranza” 
                  e, il raggiungimento fondamentale dell'“unanimità” 
                  in decisioni lente e faticose, ha permesso fino ad ora ad H. 
                  di “darsi del tempo”, per imparare a convivere 
                  “a modo suo” e a partecipare ad un percorso 
                  individuale e comune di quotidiana, serena frequentazione. Dunque 
                  H. vaga libero nel suo scorrere dei giorni, nel suo 
                  spazio fisico e immaginifico osservando tutto e tutti, al 
                  più passivo, non agente, in una simulata dimensione 
                  di dimenticanza dell'altro, quasi abitasse una tregua 
                  ipnotica necessaria a capire se stesso e il contesto 
                  in cui si vuol calare ma di cui non riesce ancora appieno 
                  ad apprenderne le indicazioni, per poter forgiare i propri 
                  utili strumenti di rapporto e di rispetto. Considerando 
                  come si è presentato a settembre, comunque H. ha impercettibilmente 
                  imparato da L. e da G. a non scontrarsi fisicamente 
                  per ogni situazione di contrasto nel gioco e nello studio. Egli 
                  ha costruito invisibilmente con F. e con N. un parametro di 
                  relazione per quel che concerne la “costruzione di un 
                  ambiente ludico” come la “base”, il 
                  “mercatino” nel bosco o più semplicemente, 
                  ha stabilito la propria posizione nella ritualità 
                  della partita di calcio sul prato, alternando momenti come operatore 
                  attivo del gioco o come spettatore delle dinamiche 
                  di attacco e difesa, quando il confronto si fa più deciso. 
                  H., all'inizio, aveva una particolarità tutta speciale 
                  da spendere, per cercare di ricevere una propria visibilità 
                  speculare all'interno di un gruppo: quella di fungere da 
                  capro espiatorio. Quando indirizzava le sue risposte 
                  violente a qualcosa o a qualcuno di mirato (facendo così 
                  intendere che a tutti gli effetti vedeva “l'altro”), 
                  si assumeva quasi con consapevole indifferenza la patente 
                  di colpevole. Quando non era realisticamente l'artefice 
                  di qualche azione che infrangeva le regole auto-stabilite in 
                  assemblea, costruiva una sorta di immagine catalizzatrice 
                  che permetteva agli altri di indicarlo come responsabile, anche 
                  se in effetti non aveva agito né svolto alcunché 
                  di contrario alle suaccennate decisioni collettive. Dopo mesi 
                  di sfuggente scambio di informazioni sociali non verbali, dopo 
                  numerosi passaggi d'esempio e d'esperienza tra bambini/e, ragazzi/e, 
                  raccolti sul terreno del loro sentire e del loro agire 
                  come micro-comunità in grado di auto-produrre vita, 
                  gioco, interesse alle cose del mondo, H., pur rimanendo 
                  a tratti ancora “H.”, si sta auto-educando 
                  alla relazione non conflittuale con chi compone attualmente 
                  il cammino libertario di Kether. H. sostiene che a lui “serve” 
                  stare con gli altri, provare cose che non siano solo i giochi 
                  elettronici (pur andandone pazzo), sentirsi coinvolto nelle 
                  situazioni ludiche, senza dover essere sempre “il primo 
                  attore”, anche se è difficile riconoscere questo. 
                  A tratti e subitaneamente, dichiara di essere stato abituato 
                  a “primeggiare”, anche solo per il fatto di passare 
                  ore e ore senza un coetaneo o con adulti seri e/o “eccessivi”. 
                  H. è sensibile al contatto fisico rassicurante, si “scioglie” 
                  quando un amico o una compagna lo abbraccia con affetto e lo 
                  “smonta” pezzo dopo pezzo della sua corazza d'irascibilità 
                  e frustrazione scomposta. Ed H. impara, perché vuole 
                  imparare, ma non dai libri, né dagli accompagnamenti 
                  di materia o di studio scolastico. 
                  H. frequenta un percorso di auto-apprendimento dell'essere umano 
                  con l'essere umano, e non può né vuole “vedere” 
                  un traguardo d'esame che sancisca una sua presunta “idoneità 
                  alla classe successiva”. Che senso può avere 
                  per H. una simile astrazione lontana, rispetto ad una lenta 
                  conquista del suo stare nel gioco ed imparare 
                  ad imparare relazioni di vita? H. in questi giorni passa 
                  alcune ore su un albero. È diventato uno dei maestri 
                  d'arrampicata, grazie alle sue forti doti di equilibrio 
                  fisico, coraggio e disponibilità allo scambio di tecniche 
                  di salita. Aiuta “piccoli” e “grandi” 
                  in quest'arte antica e dimenticata attraverso la sua profonda 
                  generosità. Tutto ciò lo fa star bene e 
                  già molti lo vivono con più accettazione ed iniziano 
                  a stimare i suoi aspetti socializzanti emergenti. Forse quella 
                  mosca che gira vorticando nella stanza, gli sta insegnando 
                  parametri ignoti sul come scalare meglio la cima di un albero. 
                
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Kether - Esperimenti e autodidattica. Alcune calamite, molta  passione e qualsiasi orizzonte della fisica ci appartiene  | 
                   
                 
                 
                  Con serenità e caparbia 
                A questo punto, ci si potrà dunque chiedere, che cosa 
                  possa legare dei bambini nati e vissuti in Asia Centrale con 
                  un ragazzo in crescita nell'Europa Occidentale. Quale “flutto 
                  di contatto” (considerando l'educazione un “divenire” 
                  simile all'acqua che scorre in ogni dove di un fiume), possa 
                  mai esserci tra l'auto-formarsi sulla base della propria gioiosa 
                  volontà di sopravvivenza, in una strada afghana, e la 
                  ricerca graduale e a volte sofferta, di un'accettazione in un 
                  gruppo (che diventa un prototipo di società italiana), 
                  sulla base di un'auto-correzione volta allo sviluppo di una 
                  partecipazione? Una possibile risposta, tra altre, potrebbe 
                  ben essere, la possibilità di esercitare pratiche 
                  di educazione incidentale, coscienti o al più delle 
                  volte inconsapevoli, ove il giovane viene coinvolto dalla 
                  vita, non tanto per raggiungere un obiettivo di sapere astratto 
                  e codificato ma, per imparare, nell'assunzione della 
                  propria autonoma volontà d'intervento, nella costanza 
                  dell'inevitabile prova di rispetto reciproco, nella stretta 
                  frequentazione, nell'autenticità di relazione, 
                  le estensioni intensive (i qualia dunque e 
                  non solo i quanta) di rapporto con l'altro, ovvero 
                  quell'aspetto fluido, impalpabile di crescita sociale, che i 
                  ragazzi/e molte volte sintetizzano, chiaramente (per chi vuole 
                  intendere), con il verbo, non a caso al presente e in 
                  terza persona: “serve”. 
                  Come sosteneva Paul Goodman, per chi non lo avesse momentaneamente 
                  presente, ricordo brevemente chi fosse questo “maestro” 
                  di Ivan Illich [Paul Goodman nasce il 9 settembre 1911 a New 
                  York (nel Greenwich Village), da famiglia ebraica. Compiuti 
                  gli studi superiori, si laurea al City College di New York nel 
                  1931, seguendo poi corsi alla Columbia, a Harvard e all'università 
                  di Chicago, dove ottiene il dottorato nel 1954. Nel 1939-40 
                  è già assistente all'università di Chicago, 
                  incarico che perde quasi immediatamente a causa della sua condotta 
                  apertamente omosessuale. Si definiva “uomo di lettere”, 
                  dunque era anche un poeta, un drammaturgo, un romanziere e un 
                  acuto critico, e pure un pensatore educativo, uno psicoterapista 
                  e un anarchico e per me, senz'altro un filosofo da annoverare 
                  nel limbo del pensiero contemporaneo, se non altro per la sua 
                  capacità di creare o rifondare a modo proprio, concetti], 
                  ebbene, si diceva, “fino ad un'epoca assai recente, 
                  in tutte le società, sia primitive che altamente civilizzate, 
                  gran parte dell'educazione era incidentale. Gli adulti svolgevano 
                  il loro lavoro e assolvevano gli altri compiti sociali. I bambini 
                  non erano esclusi. I grandi prestavano loro attenzione e li 
                  preparavano alla vita futura; ma non si impartiva loro un <<insegnamento>> 
                  vero e proprio. Nella maggioranza delle istituzioni e delle 
                  società, l'educazione incidentale è stata presa 
                  per scontata. Essa ha luogo nel lavoro della comunità, 
                  negli organismi di apprendistato, nelle gare, nei giochi, nelle 
                  iniziazioni sessuali e nei riti religiosi.”  
                  Se accompagnato con serenità e caparbia, nelle piccole 
                  realtà libertarie educative già operanti in vari 
                  contesti nazionali, questo processo incidentale si adatta alla 
                  natura dell'apprendere, meglio del cosiddetto insegnamento diretto. 
                  “Il giovane sperimenta cause ed effetti, invece che 
                  esercizi pedagogici. La realtà è sovente complessa 
                  ma, ogni giovane può coglierla a modo suo, nel suo momento, 
                  secondo i suoi interessi e la sua iniziativa. Inoltre, cosa 
                  ancora più importante, può imitare, identificarsi, 
                  essere approvato o disapprovato, cooperare o competere senza 
                  soffrire dell'ansia causata dall'essere il centro dell'attenzione.” 
                  Come dunque la “strada”, meglio ancora la “strada 
                  che cresce” o una piccola comunità d'intesa educativa 
                  aperta all'imprevedibilità della vita, possono 
                  essere un “paradigma sbocciato” di una ricerca educativa 
                  incidentale, così per Goodman, l'archetipo realizzato 
                  di questa fattiva possibilità incidentale è “il 
                  bambino che impara a parlare, impresa intellettuale formidabile 
                  che si attua universalmente. Non sappiamo come avvenga, ma le 
                  condizioni principali sembrano essere quelle di cui parlavo 
                  prima: l'attività procede ad implicare il parlare. L'infante 
                  partecipa: gli adulti fanno attenzione a lui e gli parlano; 
                  egli gioca liberamente con i suoi suoni; e infine, è 
                  vantaggioso per lui [come dicono i bambini/e, ragazzi/e: 
                  “serve”] farsi comprendere”. 
                  “Lo scopo della pedagogia elementare è molto modesto: 
                  un bambino piccolo deve essere in grado, per spinta propria, 
                  di interessarsi curiosamente a tutto quanto avviene e, con l'osservazione, 
                  le domande e l'imitazione pratica, trarre qualche insegnamento 
                  da questo suo curiosare intorno. Nella nostra società 
                  ciò succede a casa, fino ai quattro anni; ma dopo, diventa 
                  di una difficoltà proibitiva.” 
                  Ed è proprio da questa “difficoltà proibitiva” 
                  di cui parla lucidamente Goodman, da questa “distorsione 
                  immobilizzante”, che ripropone l'“angoscia dell'imparare”, 
                  dalla corretta percezione dell' “insensatezza per ciò 
                  che comunque si deve fare ma che non ‘serve'” 
                  del bambino/a, del preadolescente e dell'adolescente che ricerca 
                  una visione accettabile del proprio impegno scolastico, che 
                  si crea la “dimensione di azione” nel qui ed 
                  ora, di una prospettiva libertaria che vuole la pratica 
                  negli interstizi del fare attuale, lontana dai terreni anestetizzati 
                  dell'aspettare futuro. L'implicare come dice bene 
                  Goodman, ci riporta correttamente al concetto di plier, “piega”, 
                  il fulcro d'ellissi situato nella parte concava della curva 
                  di inflessione che è la condizione nella quale appare 
                  al soggetto la verità di una variazione. Il bambino/a, 
                  il ragazzo/a, in una situazione di libertà ed autonomia 
                  pressoché assoluta, vive costantemente nell'ambiente 
                  inattaccabile dalle logiche adulte, di quei ripiegamenti interiori 
                  che permettono la rappresentazione del mondo e i ripiegamenti 
                  esteriori della materia (l'albero, la buca, i materiali “vivi”, 
                  la corteccia, il colore, l'acqua, il fango, la neve ecc. nel 
                  loro “ripiegarsi cavernoso”). 
                  Come l'infante di Goodman, in cui si esercita la fattiva 
                  possibilità incidentale dell'imparare a parlare, 
                  il puro Evento, della linea o del punto, il Virtuale o l'idealità 
                  per eccellenza che si fa attuale nel gioco di auto-crescita 
                  è il mondo, o piuttosto il suo cominciamento, come diceva 
                  Klee, è il “luogo della cosmogenesi”, “punto 
                  non-dimensionale”, “tra le dimensioni” del 
                  giovane che impara ad imparare. È dunque l'incidentalità 
                  il punto di crisi che fa dell'apprendimento la “possibilità 
                  d'oltre orizzonte” dello studente che auto-impara. L'educazione 
                  incidentale, vista dunque nell'ambito di una geometria della 
                  relazione umana, porta nel proprio tratto agente l'evento 
                  della vita, la linea di crescita, il punto di 
                  comprensione acquisibile, scaturente dal contatto di esperienza 
                  diretta con il concreto “altro”, con la frequentazione 
                  spontanea e naturale del o dei soggetti “immersi e operanti 
                  nelle realtà delle cose”, che creano la condizione 
                  “fonte” il luogo-gioco di inflessione, il fulcro 
                  laddove la tangente attraversa la curva come il punto-piega, 
                  il punto elastico che segna la genesi delle linee attive e spontanee, 
                  il continuum di variazione invisibile e costante di un 
                  imparare da sé partecipante, nella propria autonomia 
                  d'esposizione. Per dirla con Gilles Deleuze, oltre le lande 
                  dello Strutturalismo, il bambino/a, il ragazzo/a, che cresce 
                  nella incidentalità conoscitiva del proprio percorso 
                  di vita, che è e che incessantemente (in senso eracliteo) 
                  diviene opera di sensazione esso stesso, nella pratica 
                  libera dell'approccio alle cose del mondo, “crea” 
                  in sé e con sé una «modulazione temporale 
                  che implica una variazione continua della materia e uno sviluppo 
                  continuo della forma». 
                
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Kether - Alcune pietre, bastoncini e il racconto  materico di una situazione, ricreano la casa perduta di C.  | 
                   
                 
                 
                  Nel rispetto della relazione educativa 
                Conseguente ad una pratica coerente quotidiana e di lungo periodo, 
                  relata all'educazione incidentale, sta la mediazione (adulto/non 
                  adulto) che si potrebbe instaurare tra un accompagnatore preparato, 
                  consapevole ed auto-disciplinato (dunque con alle spalle una 
                  propria, appassionata auto-formazione meglio se poliedrica e 
                  “vissuta”, tenuta in paradossale fecondante, tensione-elastica 
                  non-impositiva, con il gruppo di lavoro collettivo) e i/le 
                  giovani frequentanti le realtà educative libertarie. 
                  Il rapporto dialogico tra le componenti differenziate 
                  coinvolte nel progetto di crescita comune, coinvolge tutte le 
                  figure (dunque accompagnatori e studenti posti su un piano di 
                  parità) negli aspetti decisionali di gestione, anche 
                  fisica della “scuola” (pulizie, raccolta di legna 
                  per la stufa durante il periodo invernale, pasti, scelta delle 
                  materie, frequentazione di corsi specifici, giochi, discussione 
                  sui programmi didattici da presentare agli esami e così 
                  via) e viene concepito e praticato direttamente in assemblea. 
                  Ma è sul “nodo delle competenze” che spesso, 
                  chi opera in questo campo, glissa istintivamente il confronto, 
                  quasi fosse questo, un vero e proprio “campo minato” 
                  per l'educatore-accompagnatore. E così in effetti è. 
                  Summerhill, con la sua lunga esperienza, nella nostra contemporaneità, 
                  ci ha insegnato che esiste un percorso delicato, spinoso e al 
                  contempo irrinunciabile, di strenuo contatto tra la salvaguardia 
                  della dimensione esistenziale e di auto-apprendimento di valori 
                  del giovane e le conoscenze culturali necessarie per 
                  potersi collocare con altrettanta necessaria consapevolezza 
                  e, io direi, soddisfazione nel mondo. Questo vasto fiume 
                  del fluire educativo o meglio, auto-educativo, ci permette di 
                  cogliere l'immagine di due sponde, due “argini” 
                  se vogliamo, che per essere frequentati, entrambi abbisognano 
                  di un “bridge”, un “ponte” abbastanza 
                  solido da permettere uno scambio costante tra il momento 
                  relazionale e quello dell'istruzione (chiamiamola 
                  così per intenderci su un termine sibillino, che ha albergato 
                  e ancora oggi è ben presente, nel “modo statico” 
                  di concepire la “massa delle conoscenze”, “da 
                  portare”). 
                  Questo “passaggio assiduo a doppio senso di marcia”, 
                  osservato in modo simbolico attraverso l'immagine, appunto di 
                  un ponte, a mio avviso si chiama: equilibrio. Nell'arte 
                  reiterata del rispetto della relazione educativa, si dovrebbe 
                  con perseveranza e in contemporaneità, “far schiudere” 
                  in modo armonico ed organico il proprio bagaglio d'esperienza 
                  fecondante, con l'apporto culturale delle conoscenze, e l'apprendimento 
                  dei saperi indispensabili e di base, insomma, utilizzando tutti 
                  quegli strumenti coerenti, alchemicamente mescolati nella condizione 
                  di un “incontro inaspettato”, atti a poter iniziare 
                  ad affrontare il mondo degli uomini e delle cose. 
                  Francesco Codello, che qui cito, di buon grado, per la sua insostituibile 
                  dedizione allo sviluppo e alla diffusione di un sentire educativo 
                  libertario applicabile e reale, ci parla, a questo avviso, della 
                  “metacognizione”, cioè dell' “acquisizione 
                  del metodo col quale si impara ad imparare”, 
                  ancora una volta, guarda caso, basato sul “come” 
                  si impara ad imparare, che nella frammentarietà e continua 
                  instabilità dei mutamenti delle “scienze e dei 
                  dati d'insegnamento”, rimane un fattore “abbastanza 
                  stabile nel tempo e nel mutare dei saperi”. Fu William 
                  Godwin (si vede che tra God[win] e Good[man] e viceversa, ...ci 
                  deve essere qualcosa di buono...così sembrano dirci incidentalmente 
                  anche gli OM di Al Cisneros, in un loro recente album musicale 
                  intitolato appunto … ‘God is Good'... [tipico gioco 
                  di parole in voga tra chi compone liberamente e ‘cabalisticamente' 
                  testi “seminali” inattesi]), a mettere in essere 
                  questo concetto, già nella seconda metà 
                  del Settecento e Summerhill, come si è accennato, a sperimentarne 
                  la pratica nel tempo (e questo dovrebbe far pensare chi, ogni 
                  anno, attonito, ancora ci guarda stupito, in sede di commissione 
                  statale d'esame, applicando alla lettera la “non volontà 
                  adulta” di conoscenza per i centenari e io rimarcherei, 
                  rifacendomi alla storia dell'uomo, addirittura millenari, tracciati 
                  dell'educazione libertaria - solo per citare analisi di “riposizionamento” 
                  di John Zerzan o di Riane Eisler o della antropologa lituana 
                  Marija Gimbutas). 
                
                   
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                    |   Kether - Scelta e incidentalità. Nord chiama Sud,  Sud chiama Nord. Magneti e attrazioni, la vita crea lezioni  | 
                   
                 
                 
                  La scuola di un tempo “altro” 
                Codello ci mette comunque in guardia a riguardo di questa ottima 
                  “prospettiva di lavoro” definita come “meta-cognizione”, 
                  per ciò che concerne la sua attenta “applicabilità” 
                  nel nostro contesto diciamo “globalizzato”, affinché 
                  essa non arrivi a creare paradossalmente delle disuguaglianze. 
                  Ed è ancora una volta pesantemente in gioco, io ritengo, 
                  l'azione consapevole dell'accompagnatore adulto che, per poter 
                  svolgere un buon cammino con i giovani, deve, saper intervenire 
                  con, ripeto, equilibrio, per valutare appunto la presenza 
                  o meno di “parametri motori” diciamo “attuali”, 
                  che vedono nella “scuola come mercato” la 
                  mistificazione del principio stesso di “metacognizione”. 
                  Persone che, grazie ad un percorso particolare di crescita nell'educazione 
                  scolastica ottengono delle solide metodologie di acquisizione 
                  delle conoscenze, risulterebbero più avvantaggiate 
                  rispetto a quelle che strutturano delle conoscenze specifiche, 
                  chiamiamole “inamovibili”. Se ciò, però 
                  venisse come oggigiorno viene spesso virato, in ambito 
                  di dominio, risulta evidente che “l'esaltazione 
                  della 'metacognizione', rispetto all'acquisizione di contenuti,” 
                  diviene “il parametro attraverso il quale passa 
                  il potere all'interno dei sistemi scolastici.” 
                  Dunque, paradossalmente, “anche il valore della 'metacognizione' 
                  è stato calato in una concezione consumistica 
                  dell'educazione e dell'istruzione, una concezione per la quale 
                  non conta la tua qualità [si ritorna al qualia 
                  dell'educazione incidentale] come individuo, ma la tua adattabilità 
                  al sistema economico.” 
                  Sulla base di questi pensieri, l'accompagnatore auto-formato, 
                  dovrebbe innervare il suo cammino di competenza, appellandosi 
                  ad una ricerca di sentire metacognitivo (che in 
                  quanto tale si pone categoricamente in opposizione al deleterio 
                  nozionismo, entrato drammaticamente anche nei corsi universitari 
                  che dovrebbero ancora avere il sapore della “passione 
                  per lo studio”), che sappia rinunciare alle logiche 
                  di mercato e di consumo ossessivo delle conoscenze, ormai 
                  marcatamente indotte dall'impianto omologante dell'Occidente. 
                  Non è un caso, (e qui concludo), che si sia partiti da 
                  un ragionare sull'educazione incidentale, ponendosi fuori 
                  dai confini della cosiddetta “civiltà progredita 
                  del sol calante”, per dare un fuggente sguardo 
                  alle semplici pratiche di crescita spontanea, nelle polverose 
                  contrade dell'Asia rurale che ancora “resiste” alla 
                  strumentalizzazione dell'acculturamento “usa 
                  e getta”. La “scuola” di un tempo “altro”, 
                  che si esprime nelle piccole realtà educative libertarie, 
                  nasce contemplando ritmi diversi, recupera “una condizione 
                  di 'costante ripensamento' e di ‘saggezza' nella conoscenza, 
                  rivedendo e metabolizzando costantemente i contenuti, proposti 
                  incidentalmente e non, sulla base delle sensibilità e 
                  delle percezioni d'interesse delle collettività di studio 
                  composte da giovani ed accompagnatori. L'imparare ad imparare 
                  coinvolge dunque le “responsabilità di vita” 
                  e di scelte di coloro che in toto sono attori del proprio, 
                  autonomo progetto educativo: bambini/e, ragazzi/e, giovani e 
                  adulti.  
                  Per quanto ci riguarda dunque, individualmente e collettivamente, 
                  l'incidentalità è in sintesi il “progetto”.
                  Giulio Spiazzi  
                  giuliospiazzi@gmail.com 
                  www.kether.it             
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