Per un'emancipazione 
                  integrale e completa 
                  Le 
                  edizioni anarchiche ticinesi La Baronata pubblicano di Henri 
                  Roorda Il maestro non ama i bambini (Lugano 
                  2014, pp. 80, FrS. 12,50, € 10,00, http://www.anarca-bolo.ch/baronata). 
                  Ne riproduciamo l'introduzione di Francesco Codello. 
                   
                  Nato a Bruxelles nel 1870, a causa delle posizioni politiche 
                  anticolonialiste del padre olandese, costretto a fuggire dal 
                  suo paese nativo in seguito alla pubblicazione di un pamphlet 
                  anticolonialista, vive la sua vita prevalentemente nella Svizzera 
                  Romanda e a Losanna. 
                  Henri Roorda inizia nel 1892 a insegnare matematica e ad affinare 
                  la sua sensibilità pedagogica in senso libertario. Pubblica 
                  negli anni che si succedono diversi articoli sulla scuola, l'insegnamento, 
                  l'educazione, in numerose testate anarchiche e libertarie. Nel 
                  1917 pubblica a Losanna il testo Le pédagogue n'aime 
                  pas les enfants che viene qui editato. Nel 1925 decide di 
                  porre fine alla sua vita rivendicando il diritto per ciascuno 
                  di decidere quando e come morire. 
                  Se la vita di Roorda si inserisce a pieno titolo nella tradizione 
                  del pensiero antiautoritario (emblematica la sua fine volontaria), 
                  il suo pensiero, in particolar modo quello educativo, pur appartenendo 
                  a un periodo storico preciso e pur collocandosi nell'alveo della 
                  memoria anarchica, presenta numerosi spunti di attualità. 
                  Il professore svizzero (di fatto), nelle sue pubblicazioni, 
                  nel solco delle riflessioni libertarie tese alla promozione 
                  di una emancipazione integrale e completa di ogni essere umano, 
                  non manca di offrirci argomenti e valutazioni quanto mai utili 
                  per una attuale critica del sistema sociale autoritario, con 
                  in più un gusto tutto suo di umorismo dissacrante e intuitivo. 
                  Già nel titolo di questa sua riflessione, “Le pédagogue 
                  n'aime pas les enfants” (Il maestro o l'insegnante non 
                  ama i bambini), provoca immediatamente una sorta di fastidio 
                  concettuale se non se ne colgono le implicazioni e le meditazioni 
                  conseguenti. Quale educatore autenticamente degno di fregiarsi 
                  di questo titolo, infatti, non inorridirebbe di fronte alla 
                  condizione strutturale nella quale le società hanno organizzato 
                  le loro scuole e pianificato l'intero sistema educativo? Questa 
                  la domanda di fondo da cui muove il ragionamento di Roorda e, 
                  conseguentemente, la convinzione che ci rappresenta in questo 
                  testo, secondo la quale appunto solo pochi maestri sanno cogliere 
                  l'assurdità di un sistema scolastico fortemente impregnato 
                  di autoritarismo. Ecco perché chi non rifiuta tutto questo, 
                  pur sentendosi un educatore, di fatto perpetuando queste ritualità, 
                  non può affermare di amare i bambini. 
                  Attenzione però, il discorso dell'educatore svizzero, 
                  non è mai condito da affermazioni perentoriamente dogmatiche 
                  (ideologizzate), né il linguaggio scivola in roboanti 
                  asserzioni di maniera (apparentemente rivoluzionaria). Il suo 
                  pacato incedere è proprio di chi fonda le proprie osservazioni 
                  dall'interno di una prospettiva e di una professione, avvertendo 
                  il lettore di essere prudente nell'accogliere le critiche ma, 
                  al contempo, anche di continuare a mettere alla prova dei fatti, 
                  empiricamente e pragmaticamente, tutto quello che gli viene 
                  proposto. Si tratta di un atteggiamento proprio di chi sviluppa 
                  le proprie convinzioni facendo sempre attenzione a metterle 
                  in discussione perché talvolta si può divenire 
                  prigionieri anche delle proprie verità, quando queste 
                  non sono animate da autentico spirito libertario. 
                  Fatte queste premesse però la sua critica al sistema 
                  scolastico è decisa e radicale, se vogliamo in qualche 
                  modo anticipatrice delle più moderne teorie descolarizzatrici 
                  di illiciana ascendenza, senza però rinunciare a coniugare 
                  una prospettiva di radicale cambiamento con la paziente e faticosa 
                  azione quotidiana anche all'interno di una società sicuramente 
                  non libertaria. La scuola come istituzione totale, che sottomette 
                  le menti e addomestica i corpi, è il bersaglio della 
                  sua critica, non solo una certa scuola (quella religiosa) ma 
                  anche quella che si presenta come diversa, comunque statale. 
                  Si tratta per Roorda di smascherare l'insieme delle pratiche 
                  e delle teorie che le rappresentano, di cui il sistema-scuola, 
                  le sue ritualità, i suoi presupposti fondativi e le sue 
                  articolazioni organizzative, si nutrono e ne costituiscono l'essenza 
                  trasversale alle diverse politiche governative. Non è 
                  un caso che la sua azione si sia concretizzata anche nel sostegno 
                  all'esperienza della scuola Ferrer di Losanna e al sostegno 
                  attivo a tutto quel movimento, non solo ferreriano, di sperimentazioni 
                  scolastiche che hanno caratterizzato questi anni del secolo 
                  ventesimo fino all'avvento dei totalitarismi. Per Roorda la 
                  Scuola è innanzitutto una scuola di sottomissione che 
                  ha comunque come scopo l'addestramento funzionale degli individui. 
                  Qui il suo riflettere si accompagna a quello della più 
                  classica tradizione anarchica e libertaria che da William Godwin 
                  arriverà fino ad Alexander Neill per poi proseguire nelle 
                  contemporanee esperienze di educazione antiautoritaria e incidentale. 
                  Le scuole sono una sorta di caserme dello spirito e disciplina 
                  dei corpi, che si sostengono attraverso una sistematica azione 
                  ripetitiva e suadente di ritualità e prassi quotidiane, 
                  che potremmo dire riecheggiano le descrizioni del Foucault di 
                  Sorvegliare e punire. 
                  Non si tratta dunque di contestare (solo) la caducità 
                  dei contenuti che vengono impartiti, le metodologie che non 
                  lasciano spazio all'apprendimento autentico e originale, la 
                  perpetuazione di rapporti gerarchici e autoritari, la selezione 
                  classista, ecc., tutto sicuramente vero e ben presente nelle 
                  sue osservazioni critiche, ma occorre andare oltre. 
                  Bisogna cogliere, ci dice il pedagogista svizzero, la natura 
                  appunto totalizzante del sistema, denunciare con forza una pedagogia 
                  adulto-centrica, un insieme di pratiche che mettendo al centro 
                  l'insegnamento (quindi il presunto possessore della conoscenza), 
                  sviliscono l'apprendimento (l'incidentalità e l'autonomia 
                  del presunto discente). Se lo scopo è la normalizzazione 
                  delle vite a favore di una precoce assimilazione a un sistema 
                  autoritario, bisogna ribellarsi, costruire vere alternative 
                  antiautoritarie, spazi di autonomia e di libertà, per 
                  interrompere il circolo vizioso del sistema e modificare l'immaginario 
                  sociale in senso libertario. La Scuola è simile a una 
                  prigione, dotata di un proprio tribunale interno che si preoccupa 
                  di valutare le “giuste” risposte a domande poste 
                  in modo standardizzato e schematizzato, a misurare quella quantità 
                  di conoscenze (nozioni o informazioni in realtà) ritenuta, 
                  dall'insieme dell'organizzazione, quella sufficiente per essere 
                  considerata degna di un apprendimento pre-stabilito. 
                  Roorda, dimostrando in questo un forte senso di anticipazione 
                  e un'intuizione veramente eccezionale, afferma con convinzione 
                  che la scuola esige troppo dai bambini. L'ingresso dei piccoli 
                  nel sistema scolastico è troppo precoce, sempre più 
                  ne occupa e organizza lo spazio e il tempo, imponendosi in maniera 
                  soffocante e alienante. L'infanzia viene mutilata della sua 
                  natura e dimensione, l'adultizzazione è precoce e invasiva. 
                  L'alternativa che egli propone è quella classica della 
                  tradizione anarchica (attenzione non confessionale), dove, sostanzialmente, 
                  l'autonomia (del pensare e dell'agire) costituisce il vero fondamento 
                  di un'educazione autenticamente alternativa. Uno spazio e un 
                  tempo nel quale ogni specificità, ogni sensibilità, 
                  ogni essere, trovi modo di esprimere la propria personalità 
                  in armonia con quelle degli altri, senza sopraffazioni e violenze 
                  più o meno evidenti o mascherate. Insomma dove ciascuno 
                  diviene liberamente ciò che è e che desidera e 
                  non ciò che qualunque altra autorità ha deciso 
                  per lui. Ricerca, spazio prioritario agli interessi e alle curiosità, 
                  creatività, individualizzazione, incidentalità, 
                  diversità naturale coniugata con uguaglianza sociale, 
                  ecc: questi gli assi portanti di una nuova educazione veramente 
                  antiautoritaria posti da Roorda a fondamento di una nuova scuola. 
                  Non può mancare, nella sua visione, un diverso significato 
                  del ruolo dell'educatore, qui inteso come facilitatore, accompagnatore, 
                  che fonda sul rispetto effettivo del bambino/a, sull'empatia 
                  e su di una sensibilità tutta delicata e autentica, il 
                  proprio agire. Roorda delinea una postura diversa dell'insegnante 
                  e dell'educatore, una vera rivoluzione del ruolo tradizionale 
                  e autoritario, a favore di una condivisione di un percorso di 
                  ricerca e di mutuo scambio di esperienze e conoscenze, senza 
                  calpestare e neanche quasi sfiorare le proprie originalità, 
                  consapevoli che, comunque, ogni educazione è un'esperienza 
                  sociale e condivisa. 
                  La lettura attenta e profonda di questo testo offre a ciascuno 
                  di noi, educatori di professione o no, spunti e pensieri che 
                  fanno riflettere e che possono essere “usati” nella 
                  nostra quotidianità, senza che possano farci sfuggire 
                  da un impegno che veramente testimoni un amore autentico per 
                  i bambini e le bambine. 
                 Francesco Codello 
                   
                   
                    Movimenti 
                  dal basso
                   e democrazia partecipata 
                Con il suo ultimo libro Virtù che cambiano il mondo. 
                  Partecipazione e conflitto per i Beni Comuni (Feltrinelli, 
                  Milano 2013, pp. 160, € 12,00) Guido Viale indica e analizza 
                  le qualità che garantiscono a tutti un'apertura verso 
                  un mondo diverso, un veicolo finalizzato a raggiungere una giustizia 
                  per il sociale e per l'ambiente. Un tale auspicabile obiettivo 
                  sarebbe raggiungibile, secondo l'autore, sia tramite la risoluzione 
                  delle conflittualità intrinseche nelle lotte contro il 
                  sistema di potere, sia attraverso l'adesione e l'interessamento 
                  passionale alle rivendicazioni decisionali per cambiare la politica 
                  e la sua agenda. Decisivo è il nostro modo di concepire 
                  la società e il mondo, con comportamenti e buone pratiche 
                  quotidiane, basate sulla partecipazione e la condivisione continua 
                  delle decisioni. 
                  Le “virtù” sono bistrattate da un sistema 
                  di potere basato sulla meritocrazia e il servilismo, dominante 
                  il contesto sociale diviso tra “vincenti” e “perdenti”.  
                  La competizione universale ad oltranza di tutti contro tutti 
                  è imposta dall'avanzata di un neoliberismo postfordista 
                  e reazionario che aliena gli esseri umani deprivandoli di dignità, 
                  travalicando ormai l'antiautoritarismo in fabbrica e il ritorno 
                  dell'indignazione nelle piazze. 
                  Le virtù della dignità, dell'empatia, della conoscenza, 
                  della sobrietà sono necessarie ad avviare un percorso 
                  futuro di trasformazione del mondo in una “conversione 
                  ecologica” che parta dalle rivendicazioni dal basso contro 
                  lo strapotere della formula TINA (“There is no alternative”), 
                  che impone la legge dell'industria tramite la dittatura dell'ignoranza 
                  e del liberismo capitalista sintetizzato dai suoi principali 
                  esponenti: Thatcher, Reagan, Wojtyla. 
                  Per una democrazia dal basso e per la trasformazione ecosostenibile 
                  del pianeta, secondo Viale, è necessario coniugare lotte 
                  e saperi, nell'aggregazione di soggetti dissenzienti e di movimenti 
                  diversi, in un'educazione permanente fondata sulle buone pratiche 
                  dei saperi diffusi e delle scuole di vita, di cui il mondo della 
                  disoccupazione, della precarietà e del lavoro è 
                  straordinariamente ricco. 
                  L'orizzonte da raggiungere è la conversione ecologica 
                  di cui parlava Alex Langer, quale percorso necessario per ricondurre 
                  l'attività e la convivenza umane entro i limiti della 
                  sostenibilità sociale e ambientale, tramite le virtù 
                  dell'immaginazione e della creatività; il fine è 
                  quello di produrre meglio e consumare meno, cambiando lo stile 
                  di vita, per combattere la crisi non solo congiunturale, ma 
                  soprattutto ambientale. La conversione ecologica è una 
                  scelta etica, un'abiura all'individualismo che domina l'attuale 
                  cultura, nella mendace prospettiva di perseguire la propria 
                  affermazione personale nella competizione senza regole e remore 
                  verso il nostro prossimo. 
                  Viale è convinto che si possa cambiare: la riconversione 
                  produttiva, la riterritorializzazione, la priorità del 
                  ruolo dei servizi pubblici locali sono l'antidoto alla privatizzazione 
                  che sta consegnando i beni comuni e la ricchezza collettiva 
                  al mondo della finanza internazionale. Per riappropriarci di 
                  tali beni è necessario fare comunità e coordinarsi 
                  in reti sociali convergenti, per superare la logica dell'individualismo 
                  competitivo, come avviene con le varie forme di resistenza al 
                  “pensiero unico”: un grande esempio è la 
                  lotta No-Tav in Val di Susa. 
                  La democrazia partecipata dal basso, lo spazio pubblico e le 
                  nuove forme di convergenza, cooperazione, deliberazione consensuale 
                  non sono dissociabili dal bene comune della conoscenza, del 
                  legame sociale e della creatività. La lotta contro l'appropriazione 
                  e la privatizzazione, per la conversione ecologica, è 
                  necessariamente fondata sulle cosiddette “virtù 
                  che cambiano il mondo”, ossia scelte, orientamenti, saperi, 
                  che si sviluppano nella condivisione, nella reciprocità, 
                  nell'accoglienza. 
                  Viale, nella sua opera, individua percorsi di formazione capaci 
                  dell'organizzazione necessaria per esautorare gli attuali poteri 
                  politici, imprenditoriali, amministrativi e culturali, che sono, 
                  all'opposto, incapaci di assicurare prospettive di futuro, non 
                  solo al nostro Paese, ma all'intero pianeta. Le “virtù”, 
                  nutrenti le lotte di base e le pratiche alternative, che garantiscono 
                  a tutti un'apertura verso un mondo diverso, costituiscono la 
                  possibilità di sottrarsi all'attesa impotente della catastrofe 
                  economica e ambientale che incombe: possiamo insieme “sgonfiare” 
                  questa “bolla” fondata sul nulla degli ego dominati 
                  dall'ambizione e dalla paura. 
                 Laura Tussi 
                   
                   
                    Contro 
                  il fanatismo,
                   spunti di autocritica 
                È risaputo quanto sia più facile vedere pagliuzze 
                  negli occhi altrui piuttosto che le travi nei propri. Per questo 
                  – e perché chi scrive conosce in prima persona 
                  l'illusione di collocare se stessi sempre sul lato migliore 
                  della strada – consiglio la lettura di questo piccolo 
                  libro uscito alcuni anni fa (Amos Oz, Contro il fanatismo, 
                  Feltrinelli, Milano 2004, pp. 78, € 4,50) e più 
                  volte ristampato. Mi pare un buon suggerimento per tutti coloro 
                  che abbiano nel cuore il sogno di una società libera 
                  composta da diversi conviventi in pace. 
                  Il libretto è suddiviso in tre capitoli, tre lezioni 
                  che riflettono in maniera profonda, ma con leggerezza e molta 
                  ironia, sulla natura del fanatismo, per arrivare a vedere il 
                  compromesso non come arresa ma bensì come qualcosa che 
                  nasce dal desiderio profondo di accettarsi l'uno con l'altro. 
                  Interessante, ai miei occhi, è il fatto che Oz abbia 
                  compiuto il suo tragitto di riflessioni partendo da se stesso 
                  – la sua infanzia, la sua storia personale (con la migliore 
                  ebraica ironia) – per prendere poi in considerazione il 
                  fanatismo come impronta del carattere (dove non è difficile 
                  riconoscersi) e arrivare, con la terza lezione, al tema più 
                  ampio e cruciale quale è quello della difficile situazione 
                  tra Israele e Palestina. È questo movimento – dal 
                  personale al collettivo, al sociale/politico, e viceversa – 
                  che trovo importante, una modalità, oserei dire, dalla 
                  quale non si può prescindere se si vuole innanzitutto 
                  fare esperienza autentica dell'esistenza, ma, soprattutto, non 
                  parlare a vanvera. 
                  “Il fanatismo, credo, prende le mosse in casa” 
                  e bisognerebbe non dimenticarselo mai, e fare del proprio piccolo 
                  territorio, composto da parenti e amici, la prima palestra di 
                  educazione alla civiltà, per poi uscire di casa e vedere 
                  cosa si è in grado di gestire fuori Infatti: “Ritengo 
                  che l'essenza del fanatismo stia nel desiderio di costringere 
                  gli altri a cambiare. Quell'inclinazione comune a rendere migliore 
                  il tuo vicino, educare il tuo coniuge, programmare tuo figlio, 
                  raddrizzare tuo fratello, piuttosto che lasciarli vivere. Il 
                  fanatico è la creatura più disinteressata che 
                  ci sia. Il fanatico è un grande altruista. [...] Vuole 
                  salvarti l'anima, vuole redimerti, vuole affrancarti dal peccato, 
                  dall'errore, dal fumo.” 
                  E ancora: “solo colui che ama può diventare 
                  un traditore. Il tradimento non è il contrario dell'amore, 
                  è una delle sue tante opzioni. Traditore è colui 
                  che cambia agli occhi di coloro che non possono cambiare e non 
                  cambierebbero mai e odiano cambiare e non lo concepiscono, a 
                  parte il fatto che vogliono continuamente cambiare te: così 
                  la penso io. In altre parole agli occhi del fanatico il traditore 
                  è chiunque cambi. Triste alternativa quella fra il diventare 
                  un fanatico o un traditore. [...] Penso che il seme del fanatismo 
                  si annidi immancabilmente nella rettitudine inflessibile, piaga 
                  di molti secoli.” 
                  Come vedete, spunti interessanti di riflessione, anche se ovviamente 
                  soluzioni facili per il fanatismo non ce ne sono. Amos Oz suggerisce 
                  due escamotage, buoni trucchi per confondere se stessi e le 
                  proprie certezze. Uno è l'immaginazione, la possibilità 
                  che abbiamo sempre di immaginarci nei panni di un altro: “immaginarci 
                  nel preciso momento in cui sentiamo di avere ragione al cento 
                  per cento. Anche quando si ha ragione al cento per cento, e 
                  l'altro ha torto al cento per cento, anche in quel momento è 
                  utile immaginare l'altro”. Domandiamoci: se fossi 
                  lei, e se fossi lui? La capacità letteraria di immaginare 
                  come la stessa situazione può essere vissuta da un altro, 
                  sposta senz'altro l'attenzione dalla centralità assolutista 
                  del nostro “giusto” modo di vedere. 
                  L'altro escamotage è l'umorismo, che rende tutto più 
                  relativo e quando si può ridere, soprattutto di sé 
                  stessi, è una gran cosa. 
                  Nella terza lezione, Israele e Palestina: fra diritto e diritto, 
                  si entra nel vivo di una situazione difficile e dolorosa, dall'autore 
                  conosciuta in prima persona, e della quale parla non cercando 
                  di portare la ragione da una delle due parti, ma sottolineando 
                  il profondo dolore di entrambe. Sicuramente un modo diverso 
                  di guardare a quella realtà rispetto ai soliti schieramenti 
                  pro o contro. 
                  Amos Oz usa una bella immagine per parlare di noi esseri umani 
                  ed è quella di paragonarci a una penisola. “Siamo 
                  tutti penisole,” dice, “per metà attaccati 
                  alla terraferma delle nostre tradizioni, della cultura che ci 
                  ha formati, della lingua di appartenenza, la famiglia, gli amici 
                  [...], per l'altra metà di fronte all'oceano dove abbiamo 
                  bisogno di essere lasciati, soli ad ascoltare il vento.” 
                  È un'immagine congeniale a descrivere il genere umano 
                  nel suo vivere in mezzo tra bisogno di certezze e anelito verso 
                  lo sconosciuto, tranquillità e avventura, nella costante 
                  ricerca del vero significato di una parola difficile quale libertà.
                  Silvia Papi 
                   
                   
                    Gatti 
                  non foste
                   a viver come bruti 
                Gatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e 
                  canoscenza! Si può dire sia questo il centro tematico 
                  del prezioso lavoro di Lucilio Santoni (Fusa e parole tra 
                  umanità e gatti, Infinito edizioni, Modena 2014, 
                  pp. 100, € 12,00): la virtù anarchica, ovvero la 
                  nuda passione che libera dai soprusi del potere. A dispetto 
                  del titolo, non si pensi che il volume sia destinato alla ristretta 
                  cerchia degli etologi o dei soli animalisti. Perché è 
                  straordinariamente oltre il limite del gattesco. 
                  È un libro sui gatti, certo, ma al contempo è 
                  una riflessione poetica, letteraria, politica, culturale, sociale, 
                  e quindi più in generale filosofica sulla contemporaneità, 
                  sui tic dell'uomo, sulle sue miserie, piccinerie, debolezze. 
                  La scelta dei gatti come protagonisti delle tredici narrazioni 
                  è stata dettata all'autore – oltre dall'amore per 
                  questi animali – anche dalla caratteristica principale 
                  del felino, che vive libero dai condizionamenti della modernità 
                  e dalle pressioni antropiche. «Io sono anarchico, sì 
                  – è l'affermazione di Henri Cartier-Bresson riportata 
                  in esergo – Perché sono vivo. La vita è 
                  una provocazione... Io sono contro chi detiene il potere, con 
                  tutto ciò che il potere comporta. Un gatto sa cos'è 
                  l'anarchia. Chiedetelo a un gatto. Lui lo sa. Lui è contro 
                  la disciplina e l'autorità. Un cane è addestrato 
                  a obbedire. Il gatto no. Il gatto è portatore di caos». 
                  Il volume si compone di racconti, lettere e poesie attraverso 
                  cui Santoni, con una maestria davvero singolare, riesce a parlare 
                  degli ultimi senza cedere a sentimentalismi pietosi. Questo 
                  libro punta a «gettare un sasso non puramente teorico 
                  nello stagno dei diritti dei più deboli» (p. 12). 
                  E fra i più deboli troviamo i matti,  i bambini, la natura 
                  violentata in nome del profitto, i disoccupati che vengono costantemente 
                  oltraggiati dalla cultura dominante. Proprio su quest'ultimo 
                  tema si sofferma Santoni nel momento in cui immagina un dialogo 
                  fra due gatte anziane che parlano del «biondo», 
                  un gattino giovane e bello, che tuttavia a loro dire «vive 
                  fra le nuvole e non pensa a guadagnarsi la vita in modo dignitoso, 
                  come tutti. Non lavora. Non s'impegna. È buono solo a 
                  filosofeggiare a vuoto» (p. 49). La riflessione, il pensiero, 
                  l'arte, l'otium vengono banditi dall'orizzonte economico 
                  contemporaneo, pronto solo a riconoscere l'importanza del lavoro 
                  produttivo. E a ciò Santoni si ribella, inventa un codice 
                  valoriale alternativo, rivoluzionario, e risponde infine al 
                  dominio dell'economia modulando a piacere la metafora biblica 
                  della creazione. «Il Gran Gatto Eterno dice: Nascete tutti 
                  nell'erba e ognuno di voi ha i propri difetti. Nel mio regno 
                  valgono di più quelli che giocano, vivono e si divertono, 
                  degli altri che passano la vita a lavorare. Dovete essere il 
                  sale e il lievito del mondo. I fiori del prato e la corteccia 
                  degli alberi» (p. 49). 
                  Santoni pensa in grande. Esprime una raffinata maestria nel 
                  dipingere con un linguaggio asciutto l'utopia, il sogno, la 
                  rivoluzione. Sin dalle primissime pagine del suo lavoro, emerge 
                  con forza l'intento di prendere le distanze dalla cultura violenta 
                  della contemporaneità tecnologico-capitalista. Oggi l'élite 
                  al potere organizza, dispone, parla una lingua aspra e orienta 
                  la quotidianità in un senso del tutto opposto alle parole 
                  del Gran Gatto Eterno. E quel parlare dispotico che emerge dal 
                  pensiero masticato dagli obesi del nostro mondo, dal mainstream 
                  del tempo contemporaneo, è vuoto di sentimenti e carico 
                  d'odio, d'indifferenza, di dolore. E Lucilio Santoni lo mette 
                  molto bene in luce nel momento in cui scrive: «tutto l'Occidente 
                  parla, e anche l'Oriente. Prima dell'orrore finale tutti parlano. 
                  Si parla per prolungare all'infinito l'indifferenza letale. 
                  Si parla per dar sfogo alle nevrosi, perché solo quelle 
                  aprono minimi spiragli di comunicazione con l'altro. Si parla 
                  per giustificare i crimini quotidiani e, soprattutto, per esorcizzare 
                  il suicidio collettivo» (p. 61). 
                  I gatti, invece, non parlano, non esercitano la violenza volontaria 
                  e deliberata sugli altri, ma scintillano emissioni sonore talvolta 
                  lievi, talaltra intense che chiamiamo fusa. E le fusa, spiega 
                  Santoni con una tensione poetica che avvolge la prosa, «non 
                  dicono nulla, ma permettono a chi le produce di prendersi cura 
                  del sole che nasce e che muore, dei gattini che crescono, del 
                  silenzio, della fragilità, della dolcezza. Di accettare 
                  la pioggia quando cade. Di accompagnare il sonno quando viene. 
                  Vibrano nella sofferenza e nella gioia. Forse favoriscono la 
                  capacità di ammirare la bellezza e forse di ringraziare 
                  per tutto questo» (p. 63). 
                  Per cogliere a fondo il senso di questo libro è necessario 
                  staccarsi dal pensiero comune e lasciarsi cullare dalla sonorità 
                  poetica che emerge dalla lettura solitaria. Sì, solitaria 
                  come solitari sono i gatti. D'altronde non c'è altra 
                  via d'uscita alla barbarie che cercare di incarnare in se stessi 
                  la rivoluzione che si vuol concretizzare nel mondo. Il singolo 
                  salva se stesso: Santoni è qui come il miglior Michelstaedter 
                  de La persuasone e la Rettorica: «Non c'è 
                  cosa fatta – scrive Michelstaedter – non c'è 
                  via preparata, non c'è modo o lavoro finito pel quale 
                  tu possa giungere alla vita, non ci sono parole che ti possano 
                  dare la vita: perché la vita è proprio nel crear 
                  tutto da sé, nel non adattarsi a nessuna via: la lingua 
                  non c'è ma devi crearla, devi crear il modo, devi crear 
                  ogni cosa: per aver tua la tua vita. – I primi Cristiani 
                  facevano il segno del pesce e si credevano salvi; avessero fatto 
                  più pesci e sarebbero stati salvi davvero, ché 
                  in ciò avrebbero riconosciuto che Cristo ha salvato se 
                  stesso poiché dalla sua vita mortale ha saputo creare 
                  il dio: l'individuo; ma che nessuno è salvato da lui 
                  che non segua la sua vita: ma seguire non è imitare, 
                  mettersi col proprio qualunque valore nei modi nelle parole 
                  della via della persuasione, colla speranza d'aver in quello 
                  la verità. Si duo idem faciunt non est idem» 
                  (C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, Adelphi, 
                  Milano 2011, pp. 103-104). E sulla stessa scia si attesta la 
                  riflessione di Siddharta: «Questo è il motivo per 
                  cui continuo la mia peregrinazione: non per cercare un'altra 
                  e migliore dottrina, poiché lo so, che non ve n'è 
                  alcuna, ma per abbandonare tutte le dottrine e tutti i maestri 
                  e raggiungere da solo la mia meta o morire. [...]. Se io diventassi 
                  ora uno dei tuoi discepoli, [...], mi avverrebbe – temo 
                  – che solo in apparenza, solo illusoriamente il mio Io 
                  giungerebbe alla quiete e si estinguerebbe, ma, in realtà, 
                  esso continuerebbe a vivere e a ingigantirsi, poiché 
                  lo materierei della dottrina, della mia devozione e del mio 
                  amore per te, della comunità con i monaci!» (H. 
                  Hesse, Siddharta, in Id., Romanzi, Mondadori, 
                  Milano 1994, p. 689). 
                  Il gatto salva se stesso quando coglie istintivamente la sua 
                  singolarità e al contempo la poliedricità della 
                  vita. E nel far ciò, il gatto Camillo «capì 
                  allora che in fondo all'ululato del gattone nero, così 
                  come in quello di tutti i gatti del mondo, c'è sì 
                  il richiamo d'amore, ma c'è anche il lamento per ciò 
                  che è perduto per sempre. C'è la voce dell'accoppiamento 
                  e anche quella della separazione. C'è la vita e c'è 
                  la morte» (p. 55). Ecco all'improvviso emergere un altro 
                  concetto bandito dalla cultura contemporanea: la morte. Morte 
                  descritta con sapiente maestria durante l'incontro fra il bipede 
                  e il gatto-angelico con le ali. La morte è naturale, 
                  il gatto lo sa: sono invece gli uomini spesso a dimenticarlo. 
                  Così come dimenticano il limite in cui sono immersi – 
                  è appunto questa la ragione del nascondimento della morte, 
                  l'unico limite che non si lascia respingere – confondono 
                  il fare bene col fare comunque, e all'orizzonte non resta che 
                  la desolazione alla quale solo i gatti sanno sottrarsi. «La 
                  marea durò per tutta la notte – scrive Santoni 
                  – al mattino, le acque si calmarono e si ritirarono, lentamente 
                  e in silenzio. Il mare salato aveva lasciato spazio a un mare 
                  di desolazione. / Sulla cima dell'edificio più alto erano 
                  radunati i gatti della città. Contemplavano, con un nodo 
                  alla gola, l'immensa opera di distruzione operata dall'uomo» 
                  (p. 69). 
                  Tutta l'opera è sorretta da un tono politico e spirituale 
                  che si concentra appieno nella poesia Preghiera del randagio 
                  crocifisso fra i grattacieli (pp. 91-94). È quello 
                  lo spazio in cui l'autore oltre a ribadire la sua critica alla 
                  razionalità urbanistica contemporanea («Non sanno. 
                  [...] perché distruggono paesaggi») e alla tragica 
                  indifferenza dell'uomo nei confronti della natura («Se 
                  si avvicinano a un albero è solo per pisciare. / Sono 
                  capaci di tutti / pur di non ascoltarsi, / pur di non rimanere 
                  da soli»), chiude le sue riflessioni con un invito che 
                  si staglia all'incrocio fra l'approccio politico anarchico e 
                  il cristianesimo: «Hanno distrutto ciò che incontravano, 
                  / hanno fatto piazza pulita della poesia. / Sono ferocemente 
                  crudeli, / sono crudelmente stupidi, / ma sono innocenti. / 
                  Bisogna perdonarli» (p. 94). Poi una breve pausa che spalanca 
                  l'orizzonte alla tensione evangelica: «Stasera sarai con 
                  me in un luogo infinitamente dolce» (p. 94), sibila il 
                  gatto randagio crocifisso fra i grattacieli.
                  Alessandro Pertosa 
                   
                   
                    Persecuzioni 
                  contro i rom durante il fascismo
                   (ma anche oggi...) 
                La recente pubblicazione del libro Il Porrajmos in Italia. 
                  La persecuzione di rom e sinti durante il fascismo (Ed. 
                  Emil, Bologna 2013, pp. 110, prezzo non specificato, http://www.ilibridiemil.it/images/Image/Copertine_Emil/2013/2013_26_8Porrajmos.pdf), 
                  a cura di Luca Bravi e Matteo Bassoli, uscito contestualmente 
                  alla creazione del primo museo virtuale dedicato al Porrajmos 
                  in Italia (www.porrajmos.it), 
                  offre la possibilità di tornare su uno degli aspetti 
                  più scomodi della storia italiana, ossia quello della 
                  responsabilità non solo del regime fascista, ma di gran 
                  parte della comunità nazionale, nella persecuzione, nell'internamento 
                  concentrazionario e nello sterminio di rom e sinti durante gli 
                  anni del regime mussoliniano, compresa l'appendice collaborazionista 
                  di Salò (così come documentato nel sito: www.campifascisti.it). 
                  Un capitolo che, dopo essere stato per decenni eluso ed escluso 
                  dalla memoria collettiva “ufficiale”, ora si cerca 
                  di relegare in un passato lontano e irripetibile, quando invece 
                  riaffiora con inquietante frequenza della quotidiana cronaca 
                  istituzionale, segnata da misure razziste e liberticide come 
                  quelle emanate ultimamente in Veneto e a Firenze contro i mendicanti, 
                  con insistito riferimento a rom e sinti, su iniziativa di sindaci 
                  democratici e “di sinistra” che sembrano voler fare 
                  concorrenza ai colleghi “sceriffi” leghisti o di 
                  destra. 
                  Paradossalmente, sovente si tratta delle stesse amministrazioni 
                  che ogni anno commemorano il Giorno della Memoria e inaugurano 
                  lapidi in ricordo delle vittime del nazismo, magari patrocinando 
                  convegni sull'argomento, ma che poi in nome della cosiddetta 
                  legalità mandano le ruspe a demolire i miseri insediamenti 
                  dei “nomadi” oppure incaricano le forze dell'ordine 
                  di dare la caccia agli “zingari”. 
                  Eppure, come viene opportunamente precisato nel libro, «Il 
                  Porrajmos è stato infatti una storia anche italiana, 
                  durante il periodo della dittatura fascista, ma gli eventi che 
                  lo hanno caratterizzato sono rimasti misconosciuti. In Italia 
                  non sorsero campi di sterminio e non ci fu un Auschwitz-Birkenau 
                  a simboleggiare il progetto di distruzione fisica attuato rispetto 
                  a popolazioni europee definite come razzialmente inferiori, 
                  ma Auschwitz non può svolgere una funzione autoassolutoria 
                  per quanto l'Italia fascista mise in atto in ambito di legislazione 
                  dichiaratamente razzista o legata al progetto di eliminazione 
                  di posizioni o voci o presenze dissonanti rispetto a quanto 
                  previsto dal regime. Se Auschwitz ha avuto in Italia una funzione 
                  autoassolutoria rispetto alla Shoah attuata nel nostro Paese, 
                  nei confronti del Porrajmos la riflessione non è in pratica 
                  neppure avviata». 
                  Evidentemente, troppe sono le analogie e le assonanze – 
                  anche semantiche – tra le persecuzioni di ieri e di oggi: 
                  meglio quindi glissare e liberarsi da eventuali sensi di colpa, 
                  nascondendosi dietro presunte emergenze e senza assumersi la 
                  responsabilità delle vessazioni legali di cui sono oggetto 
                  persone, per lo più di cittadinanza italiana, “colpevoli” 
                  di appartenere ad una minoranza linguistica non-riconosciuta, 
                  quale quella dei rom e dei sinti, anche se presente in Italia 
                  appena dal... Quattrocento! 
                  Questo paradosso era stato ben evidenziato nel 1999 dal compianto 
                  Antonio Tabucchi (Gli Zingari e il Rinascimento) e continua 
                  a riproporsi proprio a Firenze dove, ultimamente, sono state 
                  attuate misure di polizia che somigliano a veri e propri bandi 
                  quattrocenteschi ma ricordano pure le leggi emanate tra gli 
                  anni Venti e Trenta in Germania «per la protezione della 
                  popolazione dalle nocività di zingari, vagabondi e oziosi», 
                  oggi contro la presenza in stazione – e in particolare 
                  presso le piattaforme dell'Alta Velocità – di quanti 
                  chiedono l'elemosina, specie se «di etnia rom», 
                  sostenute dal pro-sindaco renziano con gli abusati richiami 
                  alla sicurezza e alla legalità. 
                  Le stesse dichiarazioni alla stampa del prefetto di Firenze, 
                  Varratta, sembrano ricalcare, anche nel lessico, certe circolari 
                  ministeriali fasciste del 1928 contro “zingari” 
                  per prevenire «il vagabondaggio e l'oziosità. Che 
                  fomentano ed agevolano l'accattonaggio e la perpetrazione di 
                  vari reati». 
                  Infatti la persecuzione di rom e sinti da parte del fascismo, 
                  inizialmente, non venne formalmente motivata da ragioni razziali, 
                  tanto che Renato Semizzi (professore di Medicina sociale a Trieste 
                  e firmatario dell'antiscientifico Manifesto della Razza) 
                  ipotizzò semmai un inquinamento della razza italica «dal 
                  punto di vista psichico-morale» in quanto lo stesso popolo 
                  “zingaro” era andato soggetto a indefinite «mutazioni 
                  di psicologia razziale». D'altronde, anche allora, il 
                  razzismo di Stato poteva contare su «il disprezzo e la 
                  diffidenza del popolo» che rappresentavano già 
                  «un ottimo elemento di difesa» e «una ben 
                  definita barriera di repulsione matrimoniale» nei confronti 
                  di rom e sinti. 
                  Tale indirizzo iniziò comunque a scivolare sul piano 
                  biologico ben prima delle Leggi razziali del 1938, grazie al 
                  contributo che in tal senso fornì Guido Landra, autentico 
                  seguace filonazista e, con queste premesse, come viene puntualmente 
                  riportato nel libro, le progressive misure persecutorie realizzarono 
                  una vera e propria escalation, peraltro nell'indifferenza pressoché 
                  totale: «tra 1922 e 1938 i respingimenti e l'allontanamento 
                  forzato di rom e sinti stranieri (o presunti tali) dal territorio 
                  italiano; dal 1938 al 1940 gli ordini di pulizia etnica ai danni 
                  di tutti i sinti e rom presenti nelle regioni di confine ed 
                  il loro confino in Sardegna; dal 1940 al 1943 l'ordine di arresto 
                  di tutti i rom e sinti (di cittadinanza straniera o italiana) 
                  e la creazione di specifici campi di concentramento fascisti 
                  a loro riservati sul territorio italiano; dal 1943 al 1945 l'arresto 
                  di sinti e rom (di cittadinanza straniera o italiana) da parte 
                  della Repubblica Sociale Italiana e la deportazione verso i 
                  campi di concentramento nazisti». 
                  Un doveroso pro-memoria, contro le facili autoassoluzioni per 
                  il passato, ma soprattutto per il presente.
                  Osservatorio anti-discriminazioni 
                   
                   
                    Per 
                  capire
                   la flessibilità 
                “La credenza che una maggior flessibilità del 
                  lavoro, attuata a mezzo di contratti sempre più brevi 
                  e insicuri, faccia aumentare o abbia mai fatto aumentare l'occupazione, 
                  equivale quanto a fondamenta empiriche alla credenza che la 
                  terra è piatta”. In queste righe è racchiuso 
                  l'intento del libro di Luciano Gallino Vite rinviate. Lo 
                  scandalo del lavoro precario (Edizioni Laterza, Roma, 2014, 
                  pp. 136, € 5,90) che si propone di analizzare le conseguenze 
                  della flessibilità all'interno del mercato del lavoro, 
                  sfatando il mito della sua incondizionata positività. 
                  Non fermandosi alla semplice confutazione della tesi che indica 
                  le misure di flexibility come responsabili dell'aumento 
                  dell'occupazione, Gallino prende in esame e spiega i concetti 
                  di “società flessibile” e “lavoro flessibile” 
                  e pone l'accento sullo scollamento tra teoria e pratica, tra 
                  l'idealtipo e la prassi; la conquista di indipendenza e autonomia 
                  in campo lavorativo, la “mobilità incessante da 
                  un processo [produttivo] all'altro” e la possibilità 
                  di essere inseriti in un flusso benefico caratterizzato da “formazione 
                  permanente” sono aspetti positivi che sembrano in realtà 
                  passare in secondo piano, oscurati dalle conseguenze socio-economiche 
                  della precarietà. 
                  L'autore sottolinea come la creazione di una collettività 
                  di lavoratori “che tende a diventare omogenea verso l'alto 
                  in termini di reddito”, cardine delle motivazioni di una 
                  richiesta di maggior flessibilità all'interno del mercato 
                  del lavoro, sia di fatto una chimera. La realtà è 
                  infatti molto diversa e gli esiti che si hanno, lungi dall'aver 
                  contribuito al miglioramento della qualità di vita dei 
                  lavoratori, hanno di fatto generato un aumento delle diseguaglianze 
                  socio-economiche e una polarizzazione dei redditi. 
                  Gallino esplora le conseguenze, per i singoli lavoratori e per 
                  la società, di una vita all'insegna della flessibilità: 
                  insicurezza, incapacità di progettare un futuro, mancanza 
                  di stabilità, ripercussioni psicologiche per l'individuo, 
                  ma anche gravi implicazioni sociali sono le principali conseguenze. 
                  A causa della sempre maggiore instabilità in ambito lavorativo, 
                  il tempo per la socializzazione, come quello per la ritualità, 
                  sono andati perduti; il grado di coesione sociale risulta, per 
                  questi motivi, irreparabilmente compromesso. Per l'autore, l'aver 
                  inciso negativamente sul grado di integrazione sociale, base 
                  della “convivenza pacifica” e della “ragionevole 
                  armonia tra differenti settori e livelli della società” 
                  potrebbe da solo considerarsi un valido motivo per rivalutare 
                  i costi della ricerca di una maggior flessibilità. A 
                  tal proposito, Gallino afferma che “dobbiamo saper distinguere 
                  i costi umani [...] dai loro eventuali benefici, ed esigere 
                  che i primi non vengano – come invece accade – ignorati 
                  o sottovalutati in nome dei secondi”. 
                  L'autore prende in esame le istanze di alcuni studiosi e politici 
                  che propongono percorsi ispirati a paesi europei, in grado di 
                  favorire l'aumento della flessibilità all'interno mercato 
                  del lavoro italiano, e sottolinea come al netto dei costi che 
                  l'Italia dovrebbe sostenere per inserire al proprio interno 
                  tutte le caratteristiche di un paese preso a “modello”, 
                  gli aspetti sociali negativi superano quelli positivi. 
                  Diverse sono state in Italia le disposizioni legislative che 
                  hanno tentato di influenzare positivamente il mercato del lavoro, 
                  ma che non sono riuscite nell'intento. Gallino è convinto 
                  che il vero male da estirpare sia il presente modello produttivo, 
                  unico colpevole della non rosea condizione del mercato del lavoro. 
                  La soluzione da lui auspicata è quella di una completa 
                  revisione dell'intero sistema; non è infatti attraverso 
                  una maggior flessibilità che si può arrivare a 
                  curare i mali causati da un modello economico “scosso 
                  ormai da una gravissima crisi globale”. È invece 
                  necessaria una presa di coscienza circa la vera causa del problema 
                  della precarietà che affligge milioni di lavoratori nel 
                  mondo e che sembra destinato a non arrestarsi. È il momento 
                  di mettere fine alla prassi di arginare il problema tramite 
                  “artefatti legislativi” e di volgere la nostra analisi 
                  verso il modello economico produttivo, caratterizzato dalla 
                  finanziarizzazione, causa prima dei mali che da molti anni si 
                  tenta invano di estirpare. 
                  Per l'autore è bene comprendere che la richiesta di una 
                  sempre maggior flessibilità è data dall'importanza 
                  acquisita dalla finanza a scapito dell'economia reale: “il 
                  lavoro non ha più, o non può più pretendere, 
                  di avere un luogo: è perennemente in transito. Come il 
                  capitale. La flessibilità del lavoro, in altre parole 
                  è una filiazione diretta della finanziarizzazione dell'intera 
                  economia”. 
                  Quello scritto da Gallino è un libro pensato per accompagnare 
                  il lettore verso la comprensione del tema della flessibilità. 
                  Molto utile ai fini dell'intendimento è la parte dedicata 
                  a “Il lavoro in cifre”, entro la quale vengono forniti 
                  dati Istat circa “la disoccupazione in Europa”, 
                  “tassi di occupazione in Italia”, “tasso di 
                  disoccupazione giovanile” e molte altre variabili riguardanti 
                  il mercato del lavoro italiano ed europeo. Altrettanto utile 
                  si rivela la “Cronologia dei diritti perduti” a 
                  cura di Roberto Mania che fornisce una breve sintesi dell'evoluzione 
                  dei diritti inerenti al lavoro dal 1970, anno dell'approvazione 
                  dello Statuto dei diritti dei lavoratori, fino ad arrivare al 
                  2014. Si noti anche la presenza di un capitolo dedicato alla 
                  spiegazione di alcune delle parole chiave fondamentali, quali 
                  “ammortizzatori sociali”, “articolo 18”, 
                  “cassa integrazione”, necessari per comprendere 
                  pienamente e fino in fondo l'argomento.
                  Carlotta Pedrazzini 
                   
                   
                    Massimo 
                  Varengo, Andrea Papi
                   Due conferenze, due opuscoli 
                Sono disponibili, a cura delle Edizioni Bruno Alpini, due 
                  nuovi opuscoli: Massimo Varengo, Utopia e controrivoluzione 
                  nel decennio 1968-1977, trascrizione della conversazione 
                  tenuta a Imola all' Archivio Storico della FAI sabato 26 ottobre 
                  2013, pp. 31 e Andrea Papi, Il pensiero anarchico 
                  contemporaneo, trascrizione della conversazione tenuta 
                  a Imola all' Archivio Storico della FAI sabato 9 novembre 2013, 
                  pp. 26. Per richieste bruno.alpini@libero.it, 
                  offerta libera e responsabile, spese di spedizione euro 2,00. 
                  Ne pubblichiamo qui di seguito le due rispettive introduzioni 
                  di Massimo Ortalli, nostro collaboratore nonchè militante 
                  dei Gruppi Anarchici Imolesi che hanno promosso le due coversazioni. 
                   
                  Ma quali “anni di piombo”? 
                  Non è un decennio soltanto quello che viene così 
                  ampiamente riportato alla memoria in queste pagine, perché 
                  quando si parla di Sessantotto bisogna necessariamente riandare 
                  agli anni precedenti che ne hanno permesso l'esplosione, così 
                  come non si può ritenere concluso con il Settantasette 
                  un ciclo “davvero rivoluzionario” che invece continuerà, 
                  con drammatica intensità, per altri cinque, sei anni 
                  ancora. Ecco perché i fatti, le storie, le vicende di 
                  cui Varengo racconta con la partecipazione e la sicurezza di 
                  chi quegli anni li ha conosciuti e interpretati, riguardano 
                  non un decennio, ma piuttosto tutti gli anni Sessanta e Settanta. 
                  Un ventennio, dunque, ma quanto differente, quanto ricco e a 
                  tratti entusiasmante, a differenza dei ben altri “ventenni” 
                  che hanno offeso e ancora offendono questo paese! 
                  La storia non procede a sbalzi, e le apparenti cesure tra un'epoca 
                  e l'altra non sono altro che le dirette conseguenze di premesse 
                  ineludibili. Le tensioni sociali, i moti esistenziali, le fratture 
                  generazionali, non sono fenomeni tra loro indipendenti e a compartimenti 
                  stagni, ma diventano un miscuglio vitale. Un miscuglio che esprime 
                  questa sua vitalità producendo profonde e irreversibili 
                  trasformazioni necessitate dalla radicalità delle contraddizioni 
                  da cui ha preso origine. Tutto è concatenato, tutto può 
                  trasformarsi e procedere, purché ci sia una nuova generazione 
                  di soggetti sociali in grado di comprendere, di fare proprie 
                  e modellare queste contraddizioni, creando un inarrestabile 
                  processo dialettico di mutamento. 
                  E così è stato in quegli anni. E così in 
                  queste pagine ricche di riflessioni, di considerazioni, di spunti 
                  per una comprensione più ampia delle dinamiche che li 
                  hanno contraddistinti, riaffiorano alla memoria, e a una nuova 
                  consapevolezza, gli avvenimenti che hanno segnato un'epoca. 
                  Alla memoria per chi quegli anni ha avuto la fortuna di viverli, 
                  alla consapevolezza per chi, di quegli anni, ha sempre solo 
                  sentito parlare come di un buio periodo di violenza ed estremismo. 
                  La criminalizzazione degli anni Settanta, così stupidamente 
                  definiti “anni di piombo”, è una delle offese 
                  più grosse che si possano fare alla comune intelligenza 
                  e alla verità. Un'offesa che il Potere, allora minacciato 
                  e messo alla berlina dalla creatività e dall'impegno 
                  di un'intera generazione, oggi lancia come meschina ritorsione 
                  per la sostanziale delegittimazione di cui fu “vittima”. 
                  Voler ridurre la ricchezza di un'epoca, la gioia esistenziale 
                  di milioni di giovani, la loro capacità di comprendere 
                  e la loro volontà di modificare la realtà, a un 
                  semplice fatto di lotta armata non è altro che la spia 
                  della paura che i piani alti della società patirono di 
                  fronte all'attacco che fu loro mosso da quelli che piani bassi 
                  non volevano più essere. Da quelli che pensavano che 
                  i “piani” dovessero essere tutti allo stesso livello. 
                  Non essendo riuscito a fermare sul nascere, con la strage di 
                  Piazza Fontana, la combattività di studenti e operai 
                  finalmente decisi a riappropriarsi di tutto quello che era stato 
                  loro sottratto, il Potere, il Sistema come allora veniva chiamato, 
                  utilizzò strumentalmente le inevitabili contraddizioni 
                  e debolezze che albergavano all'interno dei movimenti. E le 
                  fughe in avanti dei settori meno disposti a una riflessione 
                  non condizionata da un'ideologia a compartimenti stagni, divennero 
                  il cavallo di troia con il quale fu possibile scardinare e scompaginare 
                  un intero movimento. Un movimento all'interno del quale la componente 
                  anarchica e libertaria, la più sensibile alle esigenze 
                  esistenziali, e la più attenta alle insidie dello Stato, 
                  non riuscì, nonostante il suo impegno lucido e coerente, 
                  ad arginare le derive autoritarie e sostanzialmente autodistruttive, 
                  che, lentamente ma inesorabilmente, avrebbero portato alla fine 
                  ingloriosa di questo “ventennio”. 
                  Si diceva che la storia fosse maestra di vita, e io ne sono 
                  ancora convinto. Ben vengano, dunque, riflessioni e testimonianze 
                  come quelle raccolte in queste belle pagine, perché sono 
                  queste gli strumenti più idonei per capire il presente 
                  e prefigurare il futuro. 
                    
                  Ottimismo della volontà e della ragione 
                  Tensione etica, passione esistenziale, pensiero eterodosso, 
                  e ferma convinzione nei propri postulati teorici, ecco ciò 
                  che emerge da queste pagine che raccolgono le conversazioni 
                  pubbliche recentemente tenute da Andrea Papi. Stimoli incalzanti 
                  per cercare di comprendere meglio il presente in una prospettiva 
                  di trasformazione. 
                  Abituati a considerare le categorie del secolo passato come 
                  immutabili e intoccabili, è un suggerimento forte quello 
                  che ci danno queste pagine, un suggerimento coerente con lo 
                  spirito sperimentatore dell'anarchismo: abbandonarle, una volta 
                  per tutte, per iniziare lucidamente,con nuove griglie interpretative, 
                  un'analisi più attinente alle nuove realtà della 
                  società del duemila. Classe operaia, proletariato, capitalismo 
                  industriale, lotta di classe, sfruttamento materiale, sembrano 
                  essere, ormai, termini non più idonei per affrontare 
                  una realtà, in radicale trasformazione, che sta stravolgendo 
                  con l'impeto di un rullo compressore, le certezze sedimentate 
                  di un pensiero critico incapace di evoluzione. 
                  L'emergere dei nuovi strumenti con i quali il capitale, ormai 
                  soprattutto capitale finanziario, sta esasperando il divario 
                  fra chi ha e chi non ha o ha troppo poco, l'affermarsi di una 
                  logica speculativa talmente concentrata sulla propria abilità 
                  nel creare nuovi profitti da essere insensibile alle conseguenze 
                  devastanti del suo operare, tutto questo richiede, da parte 
                  nostra, l'abbandono definitivo di una visione “ottocentesca” 
                  tanto del conflitto sociale, quanto dei mezzi tradizionalmente 
                  impiegati per risolvere in una prospettiva libertaria questo 
                  stesso conflitto. L'insurrezione, la violenza di piazza, il 
                  confronto a muso duro contro una realtà che da questo 
                  tipo di confronto uscirà sempre vincente, sembrerebbero, 
                  ormai, strumenti inefficaci se non addirittura controproducenti, 
                  strumenti inidonei e “datati” che proprio per questa 
                  loro presunta inadeguatezza, rendono ancora più forte 
                  e sedimentata quella realtà che si vorrebbe, se non rivoluzionare, 
                  almeno trasformare. E allora che fare? Come agire per non abbandonare 
                  definitivamente il campo? Come continuare la necessaria e sacrosanta 
                  lotta contro un capitalismo che, nelle sue trasformazioni, è 
                  diventato ancora più feroce e oppressivo? 
                  Parlavamo in precedenza di tensione etica e di passione esistenziale, 
                  ed è proprio grazie a queste “altre” categorie 
                  che vengono prospettate nuovi percorsi per il cambiamento. Percorsi 
                  che partono da una mutata consapevolezza sul ruolo e la funzione 
                  del “pensiero anarchico contemporaneo”, un pensiero 
                  meno legato al movimento militante ma al tempo stesso sempre 
                  più pervasivo nel corpo sociale. Un pensiero che, sfruttando 
                  a fondo tutte le potenzialità che nascono dal bisogno 
                  di libertà e dal desiderio di uguaglianza, si propone 
                  come lo strumento più efficace per scardinare i pilastri 
                  sui quali poggia il sistema dello sfruttamento e della disuguaglianza. 
                  Ed è nella vasta e plurale letteratura teorica che anarchismo 
                  e libertarismo hanno prodotto nel tempo, che Papi individua 
                  le proposte più convincenti, e soprattutto più 
                  attuali per continuare quella lotta che, nella varietà 
                  degli strumenti, nella diversità delle condizioni storiche, 
                  non ha mai cessato di essere un impegno morale e un bisogno 
                  vitale degli anarchici. Riprendendo la felice metafora di Colin 
                  Ward, di un anarchismo simile ai semi sotto la neve, pronti 
                  a germogliare in seguito al disgelo, Papi sembra indicarci che 
                  accanto all'ottimismo della volontà debba esserci anche 
                  l'ottimismo della ragione. 
                  Massimo Ortalli 
                   
                   
                    Un 
                  re, un anarchico,
                   le ginestre 
                Molto si è scritto e parlato della vicenda di Gaetano 
                  Bresci, ma la prospettiva del libro di Paolo Pasi (Ho ucciso 
                  un principio, vita e morte di Gaetano Bresci, l'anarchico che 
                  sparò al re, elèuthera, Milano 2014, pp. 175, 
                  € 14,00) è nuova. Conduce nei luoghi dell'anima 
                  estituendoci gli ultimi frammenti di vita dell'“anarchico 
                  pericoloso”, l'uccisore del “Re Buono”. 
                  Le fini illustrazioni in bianco e nero, dal tratto chiaro e 
                  deciso di Fabio Santin supportano una narrazione viva, che ha 
                  il pregio di riuscire a insinuarsi nelle pieghe dell'esistenza 
                  sofferta, tormentata, controversa, ma soprattutto umana del 
                  bravo tessitore di Prato. 
                  Lo scrittore dà voce a dubbi, domande, colora di sfumature 
                  e fa vivere il paesaggio interiore del damerino venuto dall'America 
                  con una rivoltella nella valigia, calibro 38, a cinque colpi. 
                  Popolato da grovigli di pensieri e ricordi, le condizioni dell'animo 
                  sembrano riflettersi in modo speculare nel paesaggio fisico 
                  che lo circonda. 
                  Così veniamo condotti in una Milano arrancante nell'afa 
                  umida dell'estate del 1900 e nel viaggio lento in treno verso 
                  Monza. Seduto in compagnia di Luigi Granotti, il Biondino, Bresci 
                  ripercorrere la propria vita stampata in un album di fotografie. 
                  Attraversiamo la campagna costellata da opifici alla quale si 
                  sovrappone l'immagine del Fabbricone nella campagna di Caiano, 
                  tra i frutteti, con Gaetano bambino. Un'infanzia negata, la 
                  sua, uguale a quella di molti altri bambini, scandita troppo 
                  presto dal frastuono di telai, orari insostenibili, rigida disciplina, 
                  e la domenica passata a scuola di “Arti e mestieri”. 
                  Alla negazione della possibilità di sognare si impone 
                  il ricordo della traversata oltreoceano per guadagnarsi il diritto 
                  all'esistenza, mentre una donna resta sola, a casa, in attesa 
                  di un figlio da lui. 
                  Giungiamo alla pensioncina monzese di via Cairoli, al civico 
                  4. Sdraiato sul letto in una camera umida, nella sua mente si 
                  affastellano convulsi il petto del “Re Mitraglia” 
                  costellato da onorificenze, le coreografie dei suoi ingressi 
                  trionfali. Non riesce più a reggere sulla sua pelle il 
                  peso dei seimila soldati morti sotto il sole di Adua. E poi, 
                  come è possibile rimuovere l' indelebile umiliazione 
                  da lui subita durante il domicilio coatto? Un anno su un'isola 
                  lontana, Pantelleria, per aver preso le difese di un garzone 
                  di macelleria colpevole di non aver rispettato l'orario di chiusura 
                  del negozio. Una resistenza fatta di lavoro ai telai dei prigionieri 
                  e di letture. La grazia ottenuta perché si voleva attenuare 
                  l'atrocità della sconfitta del 1896. 
                  Come materializzate, vediamo nella sua mente le mani protese 
                  delle vittime anonime prese a cannonate perché chiedevano 
                  pane, e le medaglie al generale Bava Beccaris per aver saputo 
                  fronteggiare la folla. Sentiamo l'aria di Milano impastata ancora 
                  di polvere da sparo e di sangue. 
                  Riviviamo l'ultimo giorno di vita da re di Umberto, gli ultimi 
                  dispacci da leggere, forse l'eccitazione per un appuntamento 
                  con una donna, dopo le incombenze che si concluderanno a tarda 
                  sera con la manifestazione sportiva. Partecipiamo alle ultime 
                  ore spasmodiche del regicida prima dell'attentato, seduto solo, 
                  al tavolo di una latteria a ingoiare gelati. 
                  Ascoltiamo i pensieri che lo avranno assillato mentre s'incamminava 
                  in una sorta di sospensione del tempo verso il campo sportivo, 
                  vicino a Villa Reale. Riuscirà il popolo a riprendersi 
                  la propria libertà? E il diritto all'esistenza? 
                  Pasi ci riporta sulla scena, fa rivivere in diretta l'attentato, 
                  la mano che non trema, i colpi. Tre andati a segno, il quarto 
                  è come se il regicida lo avesse rivolto contro se stesso. 
                  Sono le ore 22.30 del 29 luglio 1900. La carrozza ferza lasciandosi 
                  dietro l'odore degli spari. Brandelli della camicia bianca di 
                  Bresci strappata vola via, insieme ai polsini, all'orologio 
                  d'oro comprato con duro lavoro. 
                  Sulla notte del giorno più lungo dell'estate monzese 
                  il temporale scuote l'aria e fa fuggire tutti, e noi sentiamo 
                  i tuoni che percuotono i vetri della caserma e i muri della 
                  Villa Reale. Per Bresci si invoca la tortura, mentre il suo 
                  nome rimbalza fino in America, a Paterson dove ha lavorato, 
                  a West Hoboken, dove ha una moglie, Sophie, una figlia, e un'altra 
                  in arrivo, ma lui non lo sa. Il vissuto tormentato della coscienza 
                  che accompagna le azioni restituisce umanità al dissacratore 
                  della “poesia di Casa Savoia” così oltraggiato, 
                  vilipeso, linciato, torturato, controllato e poi cancellato 
                  dallo Stato. Niente più pena di morte, per il codice 
                  penale introdotto da Zanardelli. Assistiamo così a una 
                  morte che arriva lentamente, pregustata dall'agonia del tempo 
                  che conduce alla follia autodistruttiva. 
                  Troviamo Bresci nella caserma di Monza, con il torace fasciato, 
                  un occhio tumefatto, la stanza spoglia, i segni delle percosse. 
                  Alla trappola dell'isolamento nel buio della cella, egli può 
                  rispondere solo con un esteriore distacco. Impone ai ricordi 
                  di Sophie, della piccola Madeleine, del fratello Lorenzo, della 
                  sorella Teresa – quelli più dolorosi e sanguinanti 
                  – di farsi da parte. Si lascia permeare solo da immagini 
                  trasfigurate dal sogno: Parigi, e una donna, Emma, nei suoi 
                  occhi il conforto che può dare, per un istante, la sospensione 
                  del tempo. 
                  Un mese dopo l'attentato, siamo introdotti nell'aula del processo, 
                  al palazzo di giustizia a piazza Beccaria . Dopo il rifiuto 
                  alla difesa da parte del socialista Filippo Turati, l'accettazione 
                  dell'avvocato napoletano Francesco Saverio Merlino. Infiammato 
                  da ideali libertari durante gli anni giovanili, stimato dagli 
                  anarchici, spesso ha difeso ribelli dalle tasche vuote senza 
                  pretendere denaro. Ma un altro difensore, imposto d'ufficio, 
                  cercherà i complici. Non può aver agito da solo: 
                  “anziché un prodotto individuale, è un fatto 
                  dell'anarchia”. 
                  Bresci si presenta in manette con il volto scarno e stordito 
                  dalla stanchezza per essere stato prelevato dalla cella alle 
                  quattro del mattino. Ma la sua è un' elegante dignità, 
                  la bella cravatta rossa, la camicia con i quattro bottoni e 
                  il fazzoletto bianco. Si preannuncia una giornata piovosa, cupa, 
                  afosa da togliere il respiro e nell'aula sentiamo l'odore della 
                  gente che si accalca per scagliarsi contro “l'incisore 
                  di proiettili”. E poi è la volta dei testimoni, 
                  le loro facce, le voci. Teresa Brugnoli di Bologna, i compagni 
                  di scuola, l'affittacamere di Milano, il datore di lavoro e 
                  i compagni operai. “Ho agito da solo” ripeterà 
                  al processo. “L'ho fatto per vendicare le vittime pallide 
                  e sanguinanti di Milano”. E la sentenza della corte: “[...] 
                  ergastolo e i primi sette anni di segregazione cellulare”. 
                  È il quarto colpo andato a segno. Bresci rifiuterà 
                  qualsiasi ricorso in cassazione. Fine pena: mai! 
                  Nella cella del carcere milanese di San Vittore, l'annientamento 
                  morale, il gelo dell'isolamento, sarà sempre dalla sua 
                  parte. Solo, in compagnia dei pensieri che ingorgano la mente. 
                  Silenzio. Buio. Sentiamo risuonare ora lo sferragliare dei chiavistelli 
                  ora la voce sferzante delle guardie. 
                  Poi il trasferimento nel penitenziario borbonico sull'isola 
                  di Santo Stefano, vicino a Ventotene, la “tomba dei vivi”, 
                  come ebbe a definirla Luigi Settembrini. Gli riservano una cella 
                  speciale, separata. Matricola n. 515. Come resisterà 
                  ? Il corpo tenuto in vita con esercizi fisici e la mente allenata 
                  con la lingua francese, per sentirne la musicalità e 
                  riaccendere i ricordi dei compagni francesi, di Parigi. E il 
                  gioco in cella. La palla fatta con il tovagliolo rimbalza dal 
                  muro tra sogni d'infanzia e d'America, con Sophie, la bambina, 
                  le recite teatrali, la musica, i balli. 
                  Sulle circostanze della morte dichiarata il 22 maggio 1901, 
                  fatte di troppi omissis ci ritornerà Sandro Pertini trent'anni 
                  dopo, da presidente della Repubblica, sentita la confessione 
                  di una guardia del carcere: una morte programmata da ordini 
                  provenienti dall'alto. 
                  L'anarchico che uccise il principio è sepolto nel piccolo 
                  cimitero del carcere. Una croce di legno riporta il suo nome. 
                  E le ginestre ogni primavera rinascono, testimoni dello spirito 
                  mai sopito degli ideali di libertà. 
                  Davvero un bel libro. Rispettoso, profondo, delicato.
                  Claudia Piccinelli 
                   
                   
                    Andarmene? 
                  No,
                   in fondo qui sto bene 
                Le edizioni anarchiche ticinesi La Baronata pubblicano “Le 
                  fate del focolare” (Lugano 2014, pp. 48, FrS.. 6,00, € 
                  4,00, http://www.anarca-bolo.ch/baronata). 
                  Ne riproduciamo l'introduzione (per la precisione: “a 
                  mo' di prefazione”) di Michela Zucca. 
                   
                  Finché sei bambina quasi non te ne accorgi: sei concentrata 
                  a scoprire il mondo. Sì, è vero che a casa, tua 
                  madre fa la serva a tuo padre: ma a te nessuno chiede niente, 
                  se non in occasioni eccezionali. Tu devi rifarti il letto e 
                  tenere in ordine la tua stanza, tuo fratello no perché 
                  si sa che i maschi sono disordinati. Certe volte ti fa lavare 
                  i piatti e a lui no, e sai lui aiuta papà a rimettere 
                  a posto il garage, vuoi mettere?! e tu pensi ma il garage lo 
                  mette a posto una volta l'anno e i piatti si lavano tutti i 
                  giorni ma beh dai, in fin dei conti, è poca cosa. 
                  Poi tuo padre comincia ad insegnare a tuo fratello a tirare 
                  qualche pugno: non sia mai detto che mio figlio le prende e 
                  non sa neanche ridarle indietro. A te no, ma ti immagini, ti 
                  regalano un vestito nuovo, guarda quanto sei carina cerca di 
                  non sporcarti, fare a botte è roba da maschi, devi essere 
                  gentile con la gente, se un altro bambino ti tocca devi dirlo 
                  alla maestra. Tu gliel'hai detto, e lei ti ha risposto che devi 
                  essere comprensiva, sai è un maschio, non farci caso, 
                  crescerà e imparerà come deve comportarsi. 
                  Quando sei a scuola, sembra che ogni cosa vada bene: anzi le 
                  femmine sono più brave, studiano di più, hanno 
                  maggiore proprietà di linguaggio, non fanno casino... 
                  Le insegnanti sono quasi tutte donne, anche se il preside è 
                  un uomo. E quando ci sono le riunioni, le assemblee, le elezioni 
                  dei rappresentanti di classe, sono i ragazzi che parlano. I 
                  ragazzi che si candidano. I ragazzi che vengono eletti. Ma mica 
                  lo proibiscono, a te, di parlare. È che sei tu che preferisci 
                  così. 
                  Chissà perché tua madre si vanta molto delle conquiste 
                  di tuo fratello: di te preferisce dire che sei una brava ragazza, 
                  e che per certe cose c'è ancora tempo. Tuo fratello può 
                  uscire quando vuole, e tu no: ma basta attrezzarsi con un po' 
                  di furbizia, d'altra parte i tempi sono cambiati e un po' di 
                  libertà in più adesso si deve ben concederla... 
                  Poi ti diplomi: e al primo colloquio di lavoro ti chiedono se 
                  sei fidanzata. Ma non sono cazzi miei?, pensi. Il ragazzo non 
                  ce l'hai, non c'è niente di male, glielo dico, poi quando 
                  avrò qualcuno non sono obbligata ad andarglielo a dire... 
                  Tanto qui ci resto solo pochi mesi, è un contratto a 
                  termine... Però trovi solo posti a tempo determinato. 
                  Molti dei tuoi compagni di scuola hanno già un lavoro 
                  fisso. Anche i deficienti. 
                  In ufficio ti chiedono di fare il caffè e di portarlo 
                  al capo. Ai maschi non lo chiedono. Ma sì, in fin dei 
                  conti cosa sarà mai un caffè... In ufficio bisogna 
                  andarci vestite bene. Quello che guadagni non basta per fare 
                  bella figura. Non ti rimane niente per te. Per un uomo è 
                  diverso, quando è pulito è presentabile. 
                  A un certo punto trovi quello giusto, che puoi presentare in 
                  casa: lavoro in regola, buone prospettive, ottima famiglia. 
                  Tua madre è al settimo cielo. I suoi di lui la pensano 
                  diversamente da te: ma non farci caso, fa' finta di niente quando 
                  tuo suocero dice che li rimanderebbe tutti a casa loro e che 
                  adesso non c'è più nessuno che ha voglia di lavorare 
                  – da te continuano a farsi il mazzo – in fin dei 
                  conti ti sposi il figlio non il suocero, e dopo sarà 
                  diverso. 
                  Sul lavoro storcono il naso quando porti i confetti, e ti dicono 
                  vero per adesso non se ne parla, di che cosa? Chiedi tu, ma 
                  di fare un figlio, figuratevi voglio ben godermi un po' la vita 
                  c'è tempo. 
                  Vai a vivere sotto di loro che hanno già preparato l'appartamento, 
                  è una gran bella comodità e così non devi 
                  pagare l'affitto, e se arriva un bimbo ti possono dare una mano... 
                  Così quando arriva, molli l'ufficio nel tripudio generale, 
                  lui riceve un avanzamento e deve sempre stare fuori fino a tardi 
                  e poi sai le cene coi clienti, tu stiri le sue camicie che devono 
                  essere sempre in ordine, cucini mattina mezzogiorno e sera e 
                  nel frattempo ne arriva un altro, tu ingrassi e sei sempre stanca, 
                  la festa devi spadellare per riunire la famiglia e far andare 
                  tutti d'accordo. 
                  Dopo un po' di anni ti accorgi che adesso è lui che non 
                  ti cerca più. Prima lo cacciavi via – avevi altro 
                  a cui pensare, non avevi la testa per questo – poi meno 
                  male che ti lasciava in pace, ma adesso sono mesi che non lo 
                  facciamo proprio. Non è che magari c'è qualcosa 
                  che non va...?! Ha qualcuna...?! Eh già che ce l'ha. 
                  Vent'anni meno di te, lo scopri controllando il suo telefonino, 
                  ma non si vergogna questo porco... Disperata, telefoni a tua 
                  madre. Voglio il divorzio. 
                  Oh cara quanto mi dispiace ma sai pensaci bene... Sono cose 
                  che capitano... Sai che gli uomini non ragionano... Quella là 
                  è proprio una poco di buono... Pensaci bene sai qui la 
                  porta è sempre aperta anche se per il papà sarebbe 
                  un colpo... È anziano ormai e questa sarebbe l'ultima 
                  dopo una vita di sacrifici... Alla fine che cosa te ne frega 
                  anzi meglio... Lui fa la sua parte, tu la tua, pensa a crescere 
                  i tuoi figli... hai la tua casa e le tue cose... Per quanto 
                  ti possa dare di alimenti te lo sogni il tenore di vita che 
                  hai adesso... 
                  E così rimani a casa. D'altra parte dove potresti andare? 
                  Basta sapersi adattare, non è che stai peggio di tante 
                  altre, hai il tuo tran tran e lui non ti fa mancare niente e 
                  quando deve esserci c'è. 
                  Intanto gli anni passano, i suoi diventano vecchi e li devi 
                  guardare tu: non è un lavoro che può fare un uomo, 
                  loro non hanno la sensibilità, e poi c'è anche 
                  un patrimonio da salvaguardare non per dire ma la roba serve 
                  sempre, con due figli e allora certe attenzioni bisogna darle... 
                  no, lui deve pensare al lavoro, con questi tempi di crisi non 
                  può mancare... Assolutamente no... 
                  Finalmente sono sepolti i suoceri. Posso avere un minimo di 
                  respiro. I ragazzi sono all'università e lui è 
                  partito per un viaggio: deve ben avere un po' di relax dopo 
                  tutto quello stress. No, io no, sto bene qui, ho le mie cose, 
                  non ho voglia di partire... E questa cos'è?! 
                   
                  Lettera di divorzio 
                  Cara, ti ringrazio per tutti questi anni meravigliosi passati 
                  insieme, e per la tua pazienza... Ho aspettato che i miei non 
                  ci fossero più per non dargli un dispiacere troppo grande, 
                  e che i ragazzi crescessero perché potessero capirmi... 
                  Sai la situazione andava avanti da anni, e non trovavo il coraggio 
                  di dirtelo... ma adesso lei sta aspettando un bambino... D'altronde 
                  tu hai sempre la casa dei tuoi e stai sicura che per i soldi 
                  ci aggiusteremo.
                  Michela Zucca 
                   
                   
                    Società 
                  arabe,
                   la presenza delle donne 
                La lettura dei sommovimenti arabi da parte di Ivana Trevisani 
                  e Leila Ben Salah in Ferite di parole (Poiesis editrice, 
                  Alberobello 2013, pp. 187, € 16,00) scompagina molti luoghi 
                  comuni e interpretazioni scontate che risultano inadeguati a 
                  cogliere la filigrana simbolica di quegli eventi. 
                  Con linearità di ricerca e spostamento di sguardo, le 
                  autrici restituiscono una testimonianza lucida e determinata 
                  “per entrare nel mondo delle società arabe, dalla 
                  parte delle donne”, come scrive Giuseppe Goffredo in margine 
                  editoriale al libro. 
                  La scelta di campo di Ivana e Leila è quella di stare 
                  agli ambiti dove le donne agiscono e si muovono senza estromettere 
                  l'esistente. La loro massiccia presenza, non solo in senso numerico 
                  ma ampiamente diversificata per età, estrazione sociale, 
                  cultura e religione, nei luoghi della protesta e della lotta 
                  contro le dittature – da Piazza Tahrir ad Avenue Bourghuiba, 
                  dalle strade del Bahrein agli angoli di Misurata, fino ai villaggi 
                  dell'entroterra in cui si è accesa la fiamma della rivolta 
                  – connota la prima ma non la sola novità del panorama 
                  rivoluzionario arabo. Imprevisti contesti di libertà, 
                  orizzonti altri segnati da istanze e intendimenti che il sistema 
                  mediatico occidentale non sa, o non ha voluto, leggere sono 
                  attestati ipso facto in quanto dicono le molte donne 
                  intervistate dalle autrici. Per esempio, dall'entusiasmo gioioso, 
                  né ingenuo né privo di concretezza, di Jalila 
                  che precisa: “Voglio mantenere la mia libertà 
                  d'azione e di critica, per questo non appartengo a nessun partito 
                  né associazione, ma continuo incessantemente nella mia 
                  battaglia per la libertà; o dalla fedeltà 
                  a se stessa e dalla determinazione irriverente a difenderla 
                  di Ibthal che, incorniciata dal suo hijab, regala un sorriso 
                  e dice: “Sono musulmana, credente e praticante, ma 
                  anche profondamente convinta che lo stato e le leggi devono 
                  assolutamente restare laici, la scelta religiosa deve essere 
                  protetta dalla propria intima fede, non dalle leggi dello stato!”. 
                   
                  Le donne arabe in rivoluzione, mille fuochi di voci, di gesti 
                  e di storie di vita, recita il sottotitolo. Articolato sulle 
                  tre scansioni dell'unità di tempo secondo un prima, 
                  durante, dopo, il libro racconta di una rivoluzione, 
                  agita, partecipata, promossa dalle donne in prima persona e 
                  non viceversa. 
                  La tanto sbandierata rivoluzione-vessillo della lotta di classe... 
                  che libererà le donne tutelandole... le guerre umanitarie, 
                  intraprese, si è detto, in nome di una questione femminile 
                  circoscritta all'obbligo patriarcale di indossare o non indossare 
                  il velo, vengono chiaramente smascherate e, per certo, consapevolmente 
                  ridicolizzate dalle semplici parole di un partire da sé 
                  di Naziha Rejiba, scrittrice tunisina e giornalista indipendente: 
                  “Devo immediatamente dire che non è stata la 
                  rivoluzione che mi ha liberata, ero libera ben prima del 14 
                  gennaio”. 
                  Già, perché prima e prima di prima, le donne sono 
                  sempre esistite e quel che hanno fatto è altrettanto 
                  prezioso di quel che non hanno fatto. L'anno zero della rivoluzione 
                  che apre le porte alla libertà femminile oltre ad essere 
                  mistificazione storica è tentativo, da parte patriarcale 
                  e da parte di un certo femminismo di stato, di espropriare le 
                  donne – e per di più le arabe – del loro 
                  potere sociale, politico e simbolico. 
                  Ferite di parole riporta al presente un passato di sollevazione 
                  e proteste di cui le donne “erano state protagoniste essenziali 
                  in più angoli dei Paesi, dagli scioperi di Gafsa, il 
                  bacino minerario tunisino, agli scioperi per l'aumento del prezzo 
                  del pane e per la libertà di informazione in Egitto”. 
                  Nella sezione durante è attestata la continuità 
                  simbolica dell'agire delle donne. In tutta evidenza – 
                  letteralmente in corpore – dal “tradizionale” 
                  ambito domestico, dalle mura delle case e dei cortili, il materno 
                  e la cura sono (state) tradotte – senza tradimento – 
                  nel cuore della lotta, nelle piazze e nelle strade per affrontare 
                  le dittature con la forza di legare libertà e vita facendo, 
                  lì e subito, mondo. La rivoluzione è un processo 
                  continuo. Di difesa delle libertà conquistate, ma soprattutto 
                  di determinazione ad andare avanti, perché una concezione 
                  della libertà non è una concezione libera. Se 
                  qualcuno pensa che non possiamo andare più lontano di 
                  così [...] che finiremo di rientrare nei ranghi 
                  [...] queste menti malate si sbagliano, non cederemo un millimetro 
                  della libertà che abbiamo raggiunto, andremo verso la 
                  sua crescita e niente ci fermerà. 
                  C'è un senso molto più sottile dell'idea di conquista 
                  del Palazzo riguardo a ciò che si intende per rivoluzione: 
                  le cose cambiano se si cambia il rapporto con esse. 
                  “L'occidente politico ed economico potrà aiutare 
                  il mondo arabo in trasformazione se riuscirà a non imporre 
                  i propri progetti politici e finanziari alle popolazioni dell'area 
                  e rinuncerà a paventare sistematicamente l'avvento del 
                  terribile pericolo islamico”, scrivono le autrici 
                  all'inizio del capitolo L'insidia islamista”. Le 
                  testimonianze e le riflessioni registrate sul campo, 
                  di fatto si sottraggono tenacemente al “giogo dicotomico” 
                  della visione occidentale che ancora una volta fissa le donne 
                  a scenari di oppressione e che “non contempla neppure 
                  la possibilità di scelta spirituale in una società 
                  laica nel mondo musulmano”. 
                  La storica Laila el-Houssi pacatamente e lucidamente osserva: 
                  Il tentativo di limitazione della libertà femminile 
                  non attiene alla contrapposizione laicità islamismo, 
                  quanto al patriarcato, alla cultura patriarcale tipica dell'area 
                  mediterranea – e aggiunge con l'ironia senza disprezzo 
                  di un sorriso – e anche di tutto l'Occidente. 
                  L'ordine materno non si arresta al momentaneo. Il dopo 
                  in Ferite di parole riconosce l'acquisito senza abbandonarsi 
                  al conclusivo. Nel preambolo finale a Considerazioni non 
                  conclusive, appunto, si riportano alcuni versi di Mariam 
                  H. – donna comune avvezza alla poesia e-o donna che rende 
                  in poesia le interlinee del prosaico? 
                  Così avverte: Ogni giorno è nuovo/e ogni giorno 
                  incontro/qualcosa che non conoscevo/e il mondo/mi si apre un 
                  po' di più.
                  Monica Giorgi
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