  
                
  
                Aria di festa 
                 Questo 
                  mese volevo segnalarvi il nuovo cd di Stefano Giaccone, e ho 
                  sforato la deadline imposta dalla redazione perché ci 
                  ho messo davvero un bel po' a scegliere le parole da mettere 
                  in fila su questa pagina. Il cd ce l'ho già da un mese 
                  e l'ho ascoltato più volte, ma le parole mi si annodano 
                  tra le dita, vengono fuori male, raccontano cose che non mi 
                  va di dire. Dopo appena qualche riga scritta sul monitor, una 
                  frase iniziata bene ma con la fine sempre inadatta e cancellata, 
                  mi accorgo che il filo dei pensieri e dei discorsi è 
                  lo stesso che tiene stretto un groviglio di oltre trent'anni 
                  di vicinanze, di complicità, di cose fatte insieme. In 
                  una parola: sto per scrivere del lavoro di un amico. 
                  Un amico. Che parola sbagliata. Che parola consumata, sbiadita, 
                  fraintesa. Che parola giusta, invece. Ricordo che ci siamo scritti 
                  una lettera, era uscita da poco la cassetta di “Luna nera” 
                  dei Franti, qualcuno me ne aveva passato una copia, poi qualche 
                  telefonata e infine ci siamo incontrati da qualche parte a un 
                  concerto, a Milano forse. Eravamo in quell'età di mezzo 
                  tra i venti e i trent'anni, quando tutto deve ancora succedere 
                  e le sfumature attorno al futuro sono ancora incerte, quando 
                  sognare è ancora possibile. Stefano ed io siamo stati 
                  da allora molto vicini, ma non lo siamo stati sempre, va detto. 
                  Ci sono e ci sono state distanze in termini di chilometri e 
                  di ragionamenti, la sua e la mia strade con un destino diverso 
                  ma che a guardare bene sono state tracciate sotto lo stesso 
                  sole, e soprattutto sotto le stesse nuvole, gli stessi temporali, 
                  le stesse grandinate: penso sia proprio per questo che sento 
                  siamo amici. Dev'essere il maltempo che ci spinge a volerci 
                  bene. 
                  Anche se spesso ne sono stato coinvolto in prima persona, non 
                  ho mai tenuto il conto delle cose che Stefano ha fatto, dei 
                  dischi che ha pubblicato o dei progetti di cui è stato 
                  motore. Questo perché c'è differenza tra essere 
                  un amico ed essere un suo fan: mi interessano di lui altre cose, 
                  che so, se sta bene, come stanno i suoi figli (qui messi in 
                  copertina e fisicamente dentro un paio di canzoni, a parlare 
                  e pestare sui tamburi), cose così. Alcuni dei suoi lavori 
                  mi hanno accompagnato, sono stati per un bel po' la mia colonna 
                  sonora personale e continuo ad ascoltarli volentieri anche oggi, 
                  altri li tengo lì fermi perché mi mettono a disagio. 
                  Perché sono dischi scomodi e mi mettono con le spalle 
                  al muro, perché mi mettono le mani addosso e pestano 
                  forte. Questo cd, che io chiamo “nuovo” e lui invece 
                  da tempo ha chiamato “ultimo”, appartiene senz'altro 
                  a questa seconda categoria: l'ho cancellato adesso dal lettore 
                  mp3 e penso che tra un paio di giorni o forse anche stasera 
                  lo metterò lì sullo scaffale, vicino alle altre 
                  cose di Stefano, mimetizzato fra Kina e Franti, ad aspettare. 
                  “Aria di festa” è stato registrato nell'autunno 
                  dell'anno scorso ed è uscito da poco, un lavoro “torinese” 
                  quando il precedente era “sardo”, realizzato con 
                  Gianluca Della Torca e Mario Congiu e passato attraverso le 
                  abili orecchie e le abili dita di Marco Milanesio.
                
 
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Stefano Giaccone  | 
                   
                 
                 Tranne qualcuna già presente ne “Il giardino dell'ossigeno” 
                  dovrebbero essere tutte canzoni recenti eppure dal primo ascolto 
                  ho l'impressione di conoscerne bene ogni singola riga, ogni 
                  singola nota. L'ha fatto spesso, e mi piace e trovo significativa 
                  l'idea che Stefano tenga per mano le sue vecchie cose: non sono 
                  roba fatta e gettata lì, e comunque non sono destinate 
                  al nostro esclusivo consumo. Sono roba sua. Mettere qua dentro 
                  tre canzoni del suo album precedente è segno di radici 
                  affondate da non strappare via, di ricordi e cicatrici che rimangono, 
                  di pezzi di te che lasci in giro, discorsi iniziati non ancora 
                  finiti. Ma qui dentro c'è aria di sbaraccamento, altro 
                  che l'aria di festa del titolo. Sembra la musica giusta per 
                  un addio non desiderato, quando bisogna andar via per forza: 
                  queste canzoni costruite di amarezza ed impastate di nervosismo, 
                  questo suono precario da cantina mai così affilato e 
                  sporco, parole sputate fuori come veleno cantate con i denti 
                  a formare un ghigno rabbioso in bocca. 
                   
                  “...Non ci sarà un posto al mondo dove potrò 
                  stare, quando sarò morto 
                  E non distinguerò più il bene dal male, quando 
                  sarò morto 
                  E non mi troverete a cantare questa canzone, quando sarò 
                  morto 
                  E allora mi sa che dovrò farlo finché sono vivo...” 
                   
                  Come ho detto poco fa, non sarà un disco che avrò 
                  voglia di riascoltare spesso ma dentro ci sono dei momenti di 
                  vero brivido. Prendiamone uno: “È adesso”, 
                  versione italiana di “When I'm gone” di Phil Ochs, 
                  uno spostato, un disturbato, alcolista ed agitatore, comunista 
                  in un'America che i comunisti li voleva chiusi in carcere o 
                  preferibilmente morti, suicida a neanche trentasei anni, ha 
                  lasciato in eredità un songbook di valore inestimabile. 
                  È l'unica composizione non originale del mucchio, ma 
                  Stefano riesce ad offrirla come se verosimilmente fosse sua 
                  e fosse stato Ochs a farne una versione inglese. Gli era successo 
                  lo stesso con “Un modo diverso”, che sembrava a 
                  tutti una canzone di Stefano Giaccone resa famosa all'estero 
                  come “A different kind of love song” da Dick Gaughan. 
                  Il cd non si presta affatto al gioco “qual è la 
                  canzone più bella”: è un mattone scagliato 
                  a forza contro la vetrina del nostro negozio personale. Noi 
                  là, a guardare, muti. Il vento che entra, esce, ritorna. 
                  Restano a terra i pezzi di vetro, a riflettere il grigio del 
                  cielo.
                 Marco Pandin 
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