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				 Vietnam 
                  
                Zij Poj Niam 
                  
                reportage di Moreno Paulon 
                    
                Le ripercussioni che le politiche demografiche del Gigante Cina hanno avuto su una minoranza vietnamita. 
I H'mông fra farfalle cinesi e traffico di esseri umani. 
				 
                
                   
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                    |   Villaggio H'mông  | 
                   
                 
                 
                  Nel 1963 Il matematico Edward 
                  Lorenz scrisse che il battito d'ali di una farfalla in Brasile 
                  era in grado di scatenare un uragano in Texas. L'immagine era 
                  certo iperbolica, ma inquadrata nella più ampia teoria 
                  del caos la figura illustrava l'estrema sensibilità di 
                  un sistema dinamico non lineare al variare delle sue condizioni 
                  iniziali. Nel corso del tempo la pur minima alterazione di un 
                  sistema può generare ripercussioni crescenti e imprevedibili 
                  sul suo comportamento complessivo, e un margine di variabili 
                  trascurate, crescendo, è in grado di provocare sviluppi 
                  esponenziali e stravolgenti. La conseguenza immediata dell'effetto 
                  farfalla è che il comportamento di un sistema complesso 
                  è difficilmente prevedibile o pianificabile in una finestra 
                  di tempo utile. Se l'assioma di Lorenz vale per i calcoli della 
                  meteorologia e delle azioni di Wall Street, di certo trova un'applicazione 
                  fertile anche nella lettura dei sistemi sociali, come è 
                  evidente nelle ripercussioni che le politiche demografiche del 
                  Gigante Cina hanno avuto nel giro di vent'anni sul più 
                  piccolo villaggio rurale di una minoranza vietnamita. 
                
                   
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                    |   Mappatura etnica del Vietnam del Nord - Museo etnologico 
                  di Hanoi  | 
                   
                 
                 
                  I H'mông del Vietnam 
				  
                Che i H'mông siano cittadini di serie B in Vietnam è 
                  chiaro come l'acqua. Per la verità molti di loro non 
                  sono nemmeno considerati cittadini a pieno titolo da parte dello 
                  Stato centrale. Visti un po' come vecchi intrusi e un po' come 
                  nuovi traditori, moltissimi non sono mai stati dotati di una 
                  carta di identità e a volte, specie fra gli anziani, 
                  nemmeno di un certificato di nascita che ne dichiari l'esistenza. 
                  Scarsamente scolarizzati e privi dei capitali che permettono 
                  di intraprendere attività commerciali, i H'mông 
                  restano inesorabilmente legati al lavoro della terra, vivendo 
                  in piccoli villaggi di capanne fra le risaie del Nord. 
                  Quelli che sono in possesso di un documento statale sono coloro 
                  che ne hanno fatto espressamente richiesta al governo per frequentare 
                  gli studi elementari e superiori erogati dalla nazione vietnamita, 
                  per viaggiare liberamente sul suolo nazionale, o anche solo 
                  per ottenere la patente di guida di un motorino. Negli anni 
                  recenti ripetute violazioni dei diritti sulla terra, arresti 
                  sommari, discriminazioni etniche e persecuzioni politico-religiose 
                  da parte del governo vietnamita a danno dei H'mông sono 
                  state denunciate a più riprese tanto dalla BBC (04/05/11; 
                  12/05/11; 12/12/11; 14/03/12; 13/12/12) quanto dal New York 
                  Times (05/05/11). Sul piano popolare, nel micidiale senso comune 
                  quotidiano, la discriminazione subita dai H'mông fa buona 
                  eco alla lezione statale. Capita che i vietnamiti incrociandoli 
                  sulla strada riservino loro espressioni dispregiative che li 
                  assimilano agli animali, e capita che domandando loro spiegazioni 
                  di un simile disprezzo arrivino in fretta ad accusarli di avere 
                  militato con gli Stati Uniti durante la guerra, come se ogni 
                  H'mông vivente (dentro e fuori dal Laos poco importa) 
                  fosse destinato a portare una croce per la militanza delle truppe 
                  di Vang Pao fra gli anni '60 e il '75. Nelle località 
                  turistiche come Sapa i rapporti fra vietnamiti e H'mông 
                  sono più distesi, soprattutto per ragioni di interesse: 
                  infatti molti turisti in cerca di “autenticità” 
                  esotiche e tradizioni “incontaminate” si recano 
                  fra le montagne del Nord proprio per vedere e fotografare i 
                  H'mông e le altre minoranze locali, portando introiti 
                  ragguardevoli nelle tasche dei vietnamiti locali, i quali gestiscono 
                  in maniera esclusiva le strutture turistiche di accoglienza, 
                  le attività commerciali e le agenzie di trasporti. Così 
                  anche qui la posizione riservata al popolo H'mông è 
                  senz'altro quella ai gradini inferiori, e i più fortunati 
                  possono giusto aspirare alla professione di guida turistica 
                  nei villaggi delle loro famiglie. Ma se la condizione subalterna 
                  dei H'mông è sotto la luce del sole nel recinto 
                  nazionale, le implicazioni su larga scala della loro vulnerabilità 
                  strutturale hanno implicazioni internazionali sbalorditive. 
                
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Ragazza 
                        H'mông  | 
                   
                 
                
 
                   
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                    |   Donna Zao  | 
                   
                 
                 
                  Zij poj niam 
				  
                Secondo il censimento del 2009, i confini del Vietnam racchiudono 
                  86 milioni di abitanti, 5 famiglie linguistiche e 54 gruppi 
                  umani. Quelli che chiamiamo “vietnamiti” apparterrebbero 
                  alla famiglia Kinh, che comprende l'86% della popolazione nazionale 
                  e costituisce il ceppo di discendenza maggioritario. Nel corso 
                  della storia, i Kinh si sono insediati soprattutto nelle aree 
                  pianeggianti, lungo la costa oceanica e sui delta dei grandi 
                  corsi d'acqua, come il Mekong. Fra le altre 53 minoranze, la 
                  famiglia che comprende i H'mông, gli Zao e i Pà 
                  Thèn è la più estesa e conta circa 1.8 
                  milioni di individui, distribuiti principalmente fra le montagne 
                  del Nord, lungo il confine cinese. I H'mông, con una popolazione 
                  di circa 800 mila anime in Vietnam, sono fin dalle origini coltivatori 
                  di riso, allevatori di bestiame, lavoratori di metalli, intarsiatori 
                  di legno e raffinati tessitori dediti al ricamo. Hanno famiglie 
                  patrilineari con residenza virilocale e sono arrivati dalla 
                  Cina nei territori dell'odierno Vietnam tra il XIX ed il XX 
                  secolo. Seguono una religione tradizionale comunemente detta 
                  “sciamanismo”, il cristianesimo e il buddhismo, 
                  e si distinguono reciprocamente in Black H'mông, Flowered 
                  H'mông, Blue H'mông, White H'mông e altri 
                  gruppi ricorrendo a criteri di distinzione linguistica, varietà 
                  nell'abbigliamento e differenti abitudini sociali. Fra i più 
                  caratteristici tratti culturali H'mông che sopravvivono 
                  nel Vietnam del Nord c'è la tradizione dello zij poj 
                  niam: il matrimonio per cattura. 
                  Come per tutte le tradizioni culturali, lo zij poj niam 
                  conosce canoni originari e declinazioni locali. Da un gruppo 
                  all'altro e da una nazione all'altra cambiano i suoi nomi, le 
                  sue pratiche e la sua distribuzione nei territori. Nell'area 
                  vietnamita di Sapa, in provincia di Lao Cai, il matrimonio per 
                  cattura viene chiamato hai nyaab oppure hai pu, 
                  espressioni che nel dialetto H'mông locale significano 
                  letteralmente “rapire la nuora” o “rapire 
                  la moglie”. Denigrato aspramente dai H'mông convertiti 
                  cristiani, i quali preferiscono il comune accordo fra i fidanzati 
                  e le rispettive famiglie, il rapimento è praticato principalmente 
                  dagli sciamanisti più tradizionalisti. Accade spesso 
                  di domenica e durante i festeggiamenti per Tét, il nuovo 
                  anno vietnamita, che si celebra fra la fine di gennaio e l'inizio 
                  di febbraio. I H'mông in questa occasione sfilano per 
                  le piazze cittadine sfoggiando vestiti blu nuovi e sgargianti, 
                  imbevuti così di fresco nell'indaco da macchiare ancora 
                  le mani, cuciti e ricamati appositamente dalle donne dei villaggi 
                  nelle settimane a ridosso di Tét. Nei giorni di festa 
                  ognuno mostra l'abito nuovo e passeggia in compagnia, i giovani 
                  addocchiano le ragazze, alcuni cercano di instaurare un contatto, 
                  giocano a volano e si presentano, altri semplicemente seguono 
                  le giovanissime donne come dei segugi. Quando e se scatta il 
                  rapimento, il pretendente e quattro o cinque uomini fra amici 
                  e familiari sollevano di peso la malcapitata e la portano di 
                  forza al villaggio del ragazzo, in motocicletta oppure a piedi, 
                  con processioni di anche mezz'ora fino alla casa della famiglia 
                  di lui. La giovane viene chiusa in casa e trattenuta per tre 
                  oppure quattro giorni. Conosce la famiglia del suo rapitore, 
                  viene trattata da ospite, testata nelle sue abilità domestiche, 
                  ed è sempre accompagnata e sorvegliata da una sorella 
                  o una cugina del suo pretendente, la quale cerca di convincerla 
                  della bontà del ragazzo e della famiglia affinché 
                  essa accetti la proposta di matrimonio. In quest'area, a differenza 
                  di altre, il rapimento non implica alcuna violazione sessuale 
                  della ragazza. Dopo il breve periodo di prigionia, la giovane 
                  (che di solito ha fra i 15 e i 19 anni) è libera di decidere 
                  se sposare o meno il suo rapitore. Nel primo caso le famiglie 
                  contrattano il prezzo per la cessione della sposa e, trovato 
                  l'accordo, celebrano l'unione dei coniugi con due pranzi (e 
                  12 torte di riso) nei rispettivi villaggi di lei e di lui; in 
                  caso di diniego invece la ragazza compie il gesto rituale di 
                  riempire due bicchieri di ruou (“zsiu”, un 
                  fortissimo distillato locale di riso) e di bere un bicchiere 
                  sia con il rapitore sia con suo padre, spiegando loro che non 
                  è interessata alla proposta di matrimonio e che desidera 
                  essere riportata a casa. Accade tuttavia che, incrociandosi 
                  le antiche tradizioni H'mông con un più vasto mondo 
                  di politiche internazionali, la famiglia di una ragazza appena 
                  scomparsa non veda ritornare la figlia entro i termini stabiliti 
                  dal costume dello zij poj niam. I giorni passano, la 
                  giovane non rientra al villaggio e nessuna dichiarazione di 
                  rapimento giunge da alcuna famiglia vicina. Quando i parenti 
                  realizzano che la sparizione della ragazza non si deve ad una 
                  proposta di matrimonio è semplicemente troppo tardi per 
                  intervenire. Il nemico, decisamente fuori portata, non è 
                  una piccola famiglia H'mông che non vuole restituire la 
                  nuora: è il traffico internazionale di esseri umani, 
                  e la meta principale della tratta nel Vietnam del Nord è 
                  niente meno che la Repubblica Popolare Cinese. 
                
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Donna H'mông  | 
                   
                 
                 
                  Una farfalla batte le ali in Cina 
				  
                Nel 1979, poco dopo la morte di Mao, Deng Xiao Ping introdusse 
                  una semplice e letale strategia per ridurre la crescita demografica 
                  cinese: la famigerata politica del figlio unico. La proliferazione 
                  delle coppie urbane fu ristretta alla sola prima nascita, e 
                  alle minoranze “etniche” delle zone rurali fu concesso 
                  un secondo figlio in caso il primo parto avesse dato luce ad 
                  una figlia femmina. Soltanto coppie composte da coniugi entrambi 
                  figli unici potevano avere due bambini. L'idea di chiudere il 
                  rubinetto delle nascite effettivamente ha finora impedito a 
                  400 milioni di cinesi di venire al mondo (BBC 22/11/13) riducendo 
                  senza dubbio la crescita demografica, ma il suo razionalismo 
                  radicale e a cuor leggero applicato a monte ha provocato enormi 
                  effetti collaterali a valle. Malgrado certa stampa italiana 
                  abbia sbrigativamente dato il suo “addio alla politica 
                  del figlio unico” dal pulpito nazionale (Repubblica 29/12/13), 
                  nello scorso novembre la politica demografica è stata 
                  piuttosto allentata dal governo cinese, non abolita, consentendo 
                  un secondo parto alle coppie in cui anche uno solo dei coniugi 
                  sia figlio unico. Tuttavia un imprevisto squilibrio nella popolazione 
                  cinese è già innescato e fuori controllo. 
                  L'esito più evidente di questi decenni di sperimentazione 
                  biopolitica è stato infatti uno sbilanciamento di genere 
                  all'interno della nazione cinese. La popolazione maschile è 
                  diventata di molto superiore a quella femminile, e i dati demografici 
                  (da considerare certo riduttivi, salvo fidarsi delle stime propagandistiche 
                  cinesi) dicono che entro la fine del decennio ci saranno 24 
                  milioni di uomini privi della possibilità di trovare 
                  una moglie (BBC 15/11/13). Tina Rosenberg (NYT, 19/08/09) riporta 
                  che in conseguenza alla scellerata politica statale cinese ogni 
                  anno sono nate 1.5 milioni di femmine in meno, e molte altre 
                  sono morte entro il quinto anno di vita per mancanza di cure, 
                  assistenza medica ed attenzioni. Emily Oster (Harvard University) 
                  nel 2005 aveva cercato di sostenere la scivolosa tesi biologista 
                  secondo cui la scarsa natalità femminile fosse da imputare 
                  semplicemente a madri cinesi largamente affette da epatite B 
                  per carenza di vaccinazioni mediche, portate quindi da fattori 
                  meramente biochimici e patologici a generare più figli 
                  maschi (l'influenza stimata era niente meno che il 50% delle 
                  nascite). Tuttavia studi più approfonditi condotti con 
                  Gang Chen, Xinsen Yu e Wenyao Lin (2008) hanno smentito che 
                  l'affezione da epatite B avesse incidenze così rilevanti 
                  sul sesso del nascituro, ed hanno dedotto che la carenza di 
                  donne nella Repubblica Popolare Cinese non fosse affatto una 
                  questione strettamente scientifica e biomedica. 
                  La politica del figlio unico è stata infatti applicata 
                  sulla popolazione come una mera manovra di logica razionale, 
                  una pianificazione tecnico-scientifica, un calcolo matematico 
                  esatto, tralasciando una variabile culturale fondamentale nelle 
                  condizioni iniziali del sistema: la preferenza culturale cinese 
                  per i primogeniti maschi all'interno di un ordine sociale fortemente 
                  patriarcale. Il provvedimento del '79 ha dato il via ad enormi 
                  campagne statali di sterilizzazione delle donne, a sanzioni 
                  pecuniarie sui secondi figli, ad aborti forzati perpetrati dalle 
                  autorità governative, ma anche a infanticidi spontanei 
                  di figlie femmine da parte di una popolazione profondamente 
                  maschilista. Gli studi antropologici di Monica Das Gupta in 
                  Cina e in India mostrano che molte famiglie trascurano volentieri 
                  le figlie femmine in favore dei maschi, e curiosamente questo 
                  accade più spesso nelle aree più ricche anziché 
                  in quelle più povere. Dove c'è povertà, 
                  figli maschi e figlie femmine sono democraticamente deprivati 
                  di beni e servizi, ma laddove esistono delle pur magre risorse 
                  da investire in istruzione, vaccini e assistenza medica, le 
                  famiglie cinesi accudiscono i maschi e lasciano le femmine al 
                  loro destino. La stessa spietata logica economica si è 
                  vista in azione anche nel parto: desiderando figli maschi che 
                  potessero accumulare beni e occupare posizioni di rilievo nella 
                  società, le famiglie hanno fatto largo ricorso ad esami 
                  a ultrasuoni illegali, aborti clandestini e infanticidi per 
                  essere certe di massimizzare le possibilità di ottenere 
                  un nascituro maschio. «Una cultura patriarcale rende la 
                  nascita di un figlio maschio una necessità sociale e 
                  finanziaria», scrive Rosenberg parafrasando Das Gupta. 
                  Come rimediare quindi alla carenza interna di donne, se non 
                  importandole dall'estero? 
                
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Bambino 
                        H'mông  | 
                   
                 
                 
                  E in Vietnam si scatena l'uragano 
				  
                Da decenni ragazze fra i 16 e i 22 anni scompaiono continuamente 
                  lungo i 1.300 km che separano il Vietnam settentrionale dalla 
                  Repubblica Popolare Cinese, e in modo drammaticamente crescente 
                  dagli anni '90. I dati ONU – SIREN sostengono che almeno 
                  il 70% delle donne vietnamite che cadono in preda al traffico 
                  internazionale di esseri umani finisce in flussi di mercato 
                  diretti in Cina, e fra il 2001 e il 2005 le vittime salvate 
                  e riportate in patria per opera delle agenzie anti-traffico 
                  ammontano a più di 1.800. La domanda cinese richiede 
                  tanto prostitute quanto mogli, e al di qua del confine la fascia 
                  di popolazione più vulnerabile, ingenua, povera e ignorante 
                  è quella delle minoranze, in particolare Zao e H'mông. 
                  Stimare un numero delle sparizioni sarebbe un'impresa ardua: 
                  nessuna ricerca approfondita è stata ancora avviata ed 
                  è difficile stimare statisticamente la sparizione di 
                  non-cittadini senza documenti sperduti per villaggi di montagna. 
                  Tuttavia la certezza empirica è che visitando i villaggi 
                  intorno a Sapa non c'è insediamento H'mông che 
                  non abbia subito decine di sparizioni nell'arco degli ultimi 
                  anni. Tutti sanno qualcosa di certe ragazze rapite e vendute 
                  verso la Cina, tutti hanno un'amica o una parente sparita e 
                  mai più sentita. Chou, una giovane H'mông di Sapa, 
                  è stata rapita e venduta oltreconfine due anni fa per 
                  5.000 $ ad un marito cinese. Un giovane H'mông l'ha avvicinata 
                  amichevolmente durante il “mercato dell'amore”, 
                  una delle occasioni sociali in cui i giovani H'mông si 
                  incontrano e si conoscono, e le ha fatto la corte a lungo, dichiarandole 
                  il suo amore e trascorrendo molto tempo con lei. Una notte, 
                  quando il legame di fiducia era diventato sufficientemente forte, 
                  l'ha portata oltreconfine in motocicletta, vendendola al primo 
                  gradino del traffico di esseri umani. Chou, 16 anni, è 
                  stata spostata per giorni da un luogo all'altro (ossia venduta 
                  e ricomprata, con relativi aumenti di prezzo in quanto merce) 
                  e infine trattenuta in una stanza insieme ad altre giovanissime 
                  ragazze. Sistematicamente gli agenti del traffico hanno portato 
                  uomini e ragazzi cinesi a visitare la stanza, uomini e ragazzi 
                  in cerca di moglie, finché uno di essi ha deciso di comprarla 
                  per il suo matrimonio. Chou ha quindi preso marito col benestare 
                  della famiglia di lui, è stata fornita di documenti falsi 
                  dai trafficanti ed è rimasta reclusa in casa per sette 
                  mesi, senza sapere nemmeno dove si trovasse nell'enormità 
                  sconfinata della Repubblica Popolare. Su due piedi la sua famiglia 
                  ha creduto che la figlia fosse stata rapita dal giovane H'mông 
                  per una richiesta di matrimonio, racconta la madre, ma nei tre 
                  giorni di attesa previsti dallo zij poj niam Chou ha 
                  fatto in tempo a percorrere mezza Cina, passando da un trafficante 
                  all'altro per migliaia di chilometri. L'ultimo gradino del traffico 
                  da parte cinese è organizzato come una banalissima operazione 
                  di acquisto, con agenzie che si occupano di procurare mogli 
                  ad aspiranti mariti cinesi, o prostitute esotiche per un bordello 
                  che ha posti vacanti. Il crimine diventa procedura burocratica, 
                  transazione di capitale, azione quotidiana. Il villaggio di 
                  Chou non ha avuto sue notizie per un anno, finché la 
                  ragazza, guadagnata un po' di fiducia da parte del marito, non 
                  è entrata in possesso di un telefono cellulare col quale 
                  ha contattato segretamente un'amica europea ad Hanoi, che a 
                  sua volta ha avvisato la OMG Blue Dragon Children Foundation, 
                  la quale ha preso in carico il suo salvataggio cooperando con 
                  le autorità vietnamite e cinesi. 
                  «Il trafficante non è affatto un cattivo da film 
                  che va in giro con il passamontagna» spiega Michael Brosowski, 
                  fondatore della Blue Dragon di Hanoi, «è quasi 
                  sempre una persona che la vittima conosce più o meno 
                  bene, una persona di cui si fida e che al momento opportuno 
                  la tradisce, vendendola per sfruttamento lavorativo, sessuale 
                  o come moglie. Ogni anno salviamo circa 70-80 bambini sugli 
                  11 anni dallo sfruttamento del lavoro minorile e circa 15-20 
                  ragazze dal mercato sessuale. Li portiamo fuori dalla fase critica 
                  e li seguiamo nel reinserimento nella società, nel proseguimento 
                  degli studi, nell'ottenimento di un lavoro dignitoso, diamo 
                  loro un posto dove stare e li rappresentiamo di fronte al tribunale 
                  contro i trafficanti. Una delle sfide maggiori è definire 
                  che cosa sia il traffico di esseri umani sul campo: ci sono 
                  moltissimi casi di traffico in Vietnam che non sono riconosciuti 
                  come tali, che passano come azioni comuni, normali, familiari, 
                  addirittura come favori». 
                  Ascoltando le parole di Michael non posso che ripensare alla 
                  lezione di Hannah Arendt in La banalità del male, 
                  alla necessità di oltrepassare il senso comune che conduce 
                  a identificare il nemico con individui mostruosi e raccapriccianti; 
                  penso all'assurda cinematografia commerciale americana che disegna 
                  quotidianamente psicologie sinistre e contorte per improbabili 
                  maestri del male, laddove le basi del crimine sono spesso di 
                  natura sociale e le azioni più mostruose perpetrate da 
                  uomini mediocri e solerti, da normalissimi burocrati qualunque 
                  che fanno il loro innocuo e letale dovere con fede cieca verso 
                  l'autorità di turno, uomini più o meno in buona 
                  fede, più o meno ricattabili, più o meno indifferenti. 
                  Penso proprio ad Eichmann, che imputato delle deportazioni naziste 
                  a Gerusalemme affermava di essersi occupato in fondo semplicemente 
                  di “trasporti”. L'umanità conosce infinite 
                  forme di adattamento all'ambiente sociale e finisce per naturalizzare 
                  condizioni culturali che appaiono a prima vista disumane e inammissibili, 
                  e lo fa fino al punto che definire “disumane” azioni, 
                  comportamenti e strutture così costantemente ricorrenti 
                  nella storia della nostra specie sembra solo un modo per non 
                  guardare nello specchio che cosa sia questa umanità. 
                  Penso al male prodotto semplicemente dalla centralizzazione 
                  del potere politico, alle responsabilità che riposano 
                  nelle istituzioni statali che promuovono la disuguaglianza di 
                  genere e di classe, il nazionalismo contro tutti, l'attribuzione 
                  differenziata di diritti alle diverse parti sociali e a tutte 
                  le sfumature dei più logici razionalismi biopolitici. 
                  Penso agli studi di Paul Farmer nella poverissima Haiti in preda 
                  all'HIV, e a ciò che a suo tempo chiamò “violenza 
                  strutturale” per indicare proprio quei meccanismi di oppressione 
                  che sembrano colpa di nessuno, alla violenza indiretta di un'organizzazione 
                  sociale che, basata sulla disuguaglianza, diventa infaticidio, 
                  traffico di esseri umani, miseria, abusi sessuali, malattia, 
                  riproponendosi nei percorsi storici e politici che producono 
                  inevitabilmente sofferenza e violenza all'interno di una società. 
                  Penso alla biopolitica cinese senza un vero volto se non quello 
                  illegittimo di un vago “Congresso Nazionale del Popolo”, 
                  senza veri colpevoli se non migliaia di burocrati e marionette, 
                  ma che provoca violenza quotidiana su nomi e cognomi H'mông 
                  e Zao, nomi e cognomi scritti su un volto e invisibili all'anagrafe. 
                  Le famiglie H'mông e le loro tradizioni si trovano inesorabilmente 
                  nell'occhio del ciclone di condizioni strutturali che si impongono 
                  loro sia dall'interno vietnamita sia dall'esterno cinese, mediante 
                  timbri e provvedimenti legali, pianificazioni sociali, governi 
                  centralizzati senza legittimità, discriminazioni nell'attribuzione 
                  di diritti, velleità di ascesa socio-economica che portano 
                  le donne a prostituirsi agli uomini, gli uomini a prostituirsi 
                  all'industria, una madre a vendere tre figlie al traffico e 
                  a finire in prigione. Penso a tutto questo, e alla difficile 
                  lotta quotidiana di chi come Michael, con gli occhi aperti fuori 
                  dall'oppio della normalità, si domanda quali conseguenze 
                  inesorabili provocherà chissà quale farfalla che 
                  sta battendo le ali dall'altra parte del mondo. 
                 Moreno Paulon 
                Le informazioni e le storie qui raccontate sono 
                  state raccolte nel corso delle ricerche di The 
                  Human Earth Project. 
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