 Alla 
                  base
                   dell'evoluzione sociale 
                Per la prima volta in italiano viene tradotto e pubblicato 
                  il digest di Mutual Aid (Altruismo e cooperazione 
                  in Pëtr A. Kropotkin, Negretto editore, 2013, pp. 218), 
                  compendio o sunto de Il mutuo appoggio di Kropotkin, 
                  che la scrittrice femminista libertaria Miriam Allen de Ford 
                  curò nel 1945 per conto dell'editrice Haldeman-Julius. 
                  Come spiega bene l'ultimo capitolo della prefazione, questa 
                  casa editrice, fondata da un ex giornalista squattrinato e dalla 
                  scrittrice e suffragetta americana Anna Haldeman, aveva un indirizzo 
                  radicale e controcorrente e pubblicava in prevalenza testi anticonformisti 
                  e antagonisti dell'area della sinistra radicale. Si distinse 
                  anche pubblicando digests, cioè compendi sunti 
                  e riduzioni di classici del pensiero e della letteratura mondiali, 
                  curandone la diffusione tra i ceti sociali più poveri, 
                  in particolare tra lavoratori e migranti con lo scopo di una 
                  divulgazione della cultura. 
                  Nell'introduzione, la stessa De Ford chiarisce che per comprendere 
                  appieno l'opera di Kropotkin sarebbe indispensabile leggere 
                  l'edizione integrale. Si era comunque impegnata in questa riduzione 
                  con lo scopo precipuo di favorire la comprensione e la divulgazione 
                  del Mutuo appoggio, perché riteneva meritasse 
                  d'esser conosciuto per l'importanza e la validità di 
                  ciò che asserisce. Sostiene la cooperazione e l'aiuto 
                  reciproco come base di sopravvivenza ed evoluzione all'interno 
                  delle specie, contrapposti alle posizioni del darwinismo di 
                  destra che sosteneva che la perpetuazione evolutiva delle specie 
                  si fonda invece sul “conflitto permanente” e la 
                  “lotta per la vita”. L'una è la visione mutualistica 
                  di un anarchico, l'altra è la giustificazione della guerra 
                  per il potere e della competizione capitalistica. 
                  In questa edizione italiana è veramente interessante 
                  la prefazione di Giancorrado Barozzi che ne è il curatore. 
                  Vi svolge un'ampia e minuziosa disamina, puntuale e aggiornata, 
                  di come la ricerca scientifica abbia continuato ad aggiornare 
                  e arricchire, confermando e rafforzando al tempo stesso, la 
                  concezione/proposta di solidarietà sociale che fece a 
                  suo tempo Kropotkin col Mutuo appoggio, raccolta di «una 
                  serie di articoli usciti in precedenza (tra il 1890 e il 1896) 
                  sulla rivista The Nineteenth Century, in risposta al 
                  manifesto del darwinista Thomas H. Huxley sulla Lotta per 
                  l'esistenza nella società umana, apparso sulla stessa 
                  rivista londinese nel febbraio 1888» (pag. 13). Kropotkin 
                  rovesciò completamente il paradigma che poneva la competizione 
                  e il conflitto alla base dell'evoluzione sociale. 
                  Barozzi ci mostra come negli ultimi decenni la scienza, trovando 
                  continue conferme nello studio e nella ricerca antropologica 
                  e naturalistica, abbia completamente riconosciuto la cooperazione 
                  e la mutualità quali fondamentali fattori di evoluzione. 
                  Nel 1998, a distanza di circa un secolo dalla pubblicazione 
                  di quegli articoli, il paleontologo statunitense Stephen Jay 
                  Gould sulla rivista Natural History riprese quella concezione 
                  e la rivalutò sottolineandone l'estrema importanza. Dopodiché 
                  diversi scienziati e studiosi hanno ampliato, e continuano tuttora, 
                  le conoscenze e le conferme di quel filone di pensiero di cui 
                  Kropotkin fu l'iniziatore. Tra tutti particolarmente importante 
                  l'antropologo e saggista Ashley Montagu, che curò l'edizione 
                  del 1955 de Il mutuo appoggio (ristampata nel 2005) scrivendo 
                  la prefazione e curando la bibliografia del “fondatore 
                  del comunismo anarchico Petr Kropotkin”, come lo definisce. 
                  Per un primo significativo approccio al Mutuo appoggio 
                  e per capire e conoscere aggiornamenti e approfondimenti della 
                  ricerca scientifica che lo valorizzano, questa pubblicazione 
                  su Altruismo e cooperazione in Pëtr A. Kropotkin 
                  rappresenta perciò una lettura puntuale e interessante. 
                 Andrea Papi 
                   
                   
                   Un'offesa 
                  al potere 
                Ostaggi a teatro (Ferrari Editore, 2013, pp. 208, € 
                  15,00) raccoglie, in un unico volume, tutto il teatro di Angelo 
                  Gaccione. Quattordici lavori di forte impatto e di tono diverso: 
                  dalla commedia brillante Tradimenti al massacro della 
                  Comunità Valdese nella Calabria del Cinquecento; dalla 
                  farsa che dà il titolo al volume ad un testo altrettanto 
                  duro come Stupro; da La finzione a Single, 
                  ad Hermana, a La seduta, e così via, in 
                  un continuo cambio di stili, dal brillante al farsesco al drammatico 
                  e con una scrittura “chirurgica”, come l'ha definita 
                  Pino Aprile, che non trova riscontri nei drammaturghi italiani 
                  contemporanei. È un volume di 208 pagine e copre un arco 
                  di tempo di oltre vent'anni: dal 1985 al 2007, e dunque non 
                  è possibile darne conto per intero in una semplice nota 
                  come questa. 
                  Il libro edito dall'Editore Ferrari si apre con una citazione 
                  di Primo Levi: “Non è lecito dimenticare, non è 
                  lecito tacere. Se noi taceremo, chi parlerà?”; 
                  è una epigrafe per il dramma La porta del sangue, 
                  il primo dei 14 testi teatrali. Su questo dramma Roberto Guiducci 
                  scrive nell'introduzione (pag. 12) : “...il potere 
                  in quanto tale non ha ideologie se non apparenti e legittimanti, 
                  mentre la sua essenza è sempre monotonamente identica, 
                  e porta, come costante storica, alla altrettante monotona tragedia 
                  della repressione più spietata in nome di religioni o 
                  ideologie completamente intercambiabili nel loro inganno. E 
                  contro l'ottimismo del Cristo, secondo cui gli ultimi sarebbero 
                  stati i primi, le “voci” che parlano nella sacra 
                  rappresentazione di Gaccione dicono con durezza: 
                  “I giusti non si aspettino giustizia 
                  Gli innocenti non si aspettino premi 
                  Così è scritto sulla pietra della verità” 
                  E le “voci” fatte emergere da Gaccione, concludono: 
                  “Cosa può lavare il sangue?” 
                  “L'offesa” 
                  “Cosa può levare l'offesa del sangue?” 
                  “Il sangue” 
                  “Cosa resta dopo il sangue?” 
                  “Il sangue”. 
                  Dunque, nessuna redenzione, in questa visione spietatamente 
                  tragica e pessimista. 
                  È già una novità anomala che un editore 
                  italiano pubblichi un libro di testi teatrali. Diventa ancora 
                  più anomala quando si viene a sapere, leggendoli, che 
                  alcuni dei testi, se non tutti, non troveranno mai un regista 
                  o una compagnia teatrale così spericolati da sfidare 
                  il rischio di affrontare dei testi così forti. Quel che 
                  Angelo Gaccione ha scritto è un'offesa al potere, diabolico 
                  e non angelico.
                  Morando Morandini 
                   
                   
                   Se la poesia 
                  mette a fuoco la vita 
                Ieri pomeriggio sono stata dal gommista con Davide Rondoni. 
                  Insieme. A fissare “il chiaro ottobre che finisce/fuochi 
                  dietro agli alberi/tra l'odore di copertoni bruciati”. 
                  Eravamo lì, con sue le parole e la puzza che si infittiva. 
                  In una realtà dove “l'allegria è/uno schianto”. 
                  Ma prima in libreria sono stati “Gli alberi, gli alberi, 
                  gli alberi”, sullo scaffale “Poesia”, a piantarmi 
                  su questo argine. Per guardarli “disegnati/con ineffabile 
                  cura”. 
                  Davide Rondoni, “cristiano cattolico anarchico”, 
                  poeta, è nato nel 1964 a Forlì. E io che non m'intendo 
                  di poesia, sento la sua poesia, questo suo Si tira avanti 
                  solo con lo schianto (WhiteFly Press Snc, 2013, euro 12,00), 
                  vibrarmi dentro in un viluppo che mi incalza. Frammenti di vita 
                  – persone viaggi sensazioni – che mi sono estranei. 
                  E che forse nemmeno mi piacciono. Che non fanno parte del mio 
                  mondo. E che Davide “soprannomina”. Perché 
                  “quando la realtà ci viene incontro”, dice 
                  lui, “le parole non possono più rimanere le stesse”. 
                  E lui le parole le tratta. Lui e loro sono assieme davvero. 
                  Così mi lascio soggiogare dal commiato elegante del suo 
                  barbiere, “che lavora/con la 'zigaretta' tra le labbra/fottendosene 
                  come un dio/dei divieti e della salute”. E accetto perfino 
                  che questo barbiere diventi il mio “patrono, l'estremo/dono 
                  del cielo ai combattenti/per qualcos'altro dallo stupido benessere 
                  delle copertine”. 
                  In questa raccolta, accanto a ogni poesia scrivo qualcosa. Spesso 
                  questo qualcosa è solamente “bella”. Che 
                  vuol dire tutto e vuol dire niente. Non importa... Purché 
                  io possa essere “ginocchia bellissime”, “la 
                  convessa/dolce fine di me”. Amare il suono di queste parole, 
                  assaporarne l'amalgama, la consistenza. 
                  Non sono, non mi ritrovo, nella “realtà” 
                  che Davide mi sta offrendo. E lui lo sa. Ma scrive: “Dio 
                  ci ha creati diversi per pensare a Lui/fino alla morte/degno 
                  di ogni lode e di ogni grido”. Sono d'accordo. Non tanto 
                  su dio... Sulla diversità sì, però. Quindi 
                  torno alla poesia. A questa vita che Davide mi restituisce salata 
                  sulla lingua. Cerco “il suo muso ferito/di tigre”. 
                  Desidero i suoi artigli. Perché “Non si tratta 
                  di avere molto coraggio/né di essere saggi”, ha 
                  ragione Davide. Quanto, vivendo, di “mirare/a una felicità 
                  micidiale./E non temere il crepacuore”. (...E comunque 
                  sì, Davide, “la poesia mette a fuoco la vita”.) 
                  Davide Rondoni ha pubblicato alcuni volumi di poesia, tra i 
                  quali Apocalisse amore, Mondadori 2008, Avrebbe amato 
                  chiunque, Guanda 2003, Compianto, vita, Marietti 
                  2001 e Il bar del tempo, Guanda 1999, Rimbambimenti, 
                  Raffaelli 2010, Si tira avanti solo con lo schianto, 
                  Whyfly 2013, con i quali ha vinto alcuni dei maggiori premi 
                  di poesia. È tradotto in vari paesi in volume e rivista. 
                  Eccetera... 
                   
                  www.daviderondoni.altervista.org/public2/index.php
                  Emanuela Scuccato 
                   
                   
                   Moltitudine 
                  e grammatica 
                  Spinoza 
                  contro Hobbes 
                  Cosa c'entrano Spinoza e Hobbes con noi, con il nostro tempo 
                  e le questioni che ci riguardano dappresso? A poco verrebbe 
                  da dire, ma leggendo Grammatica della moltitudine di 
                  Paolo Virno, recentemente riedito da DeriveApprodi (la prima 
                  edizione è del 2002), il confronto con i due filosofi 
                  del Seicento non si rivela polemica oziosamente accademica. 
                  I due incarnano visioni della sfera pubblica fra loro incompatibili, 
                  quella fra popolo e moltitudine. Vediamole. 
                  Per Spinoza la nozione di multitudo è l'architrave 
                  della libertà civile. Con tale espressione vuole indicare 
                  una pluralità di soggetti in quanto tale, che resiste 
                  a ogni tendenza omologante. La moltitudine si costituisce e 
                  si mantiene come rete di individui, come aggregazione di singolarità, 
                  quindi va sempre declinata al plurale. La reductio ad unum 
                  è un arnese che non funziona con la moltitudine. Certo 
                  si dà collettività, ma la dimensione collettiva 
                  qui non è centripeta, non è il luogo su cui fondare 
                  l'unità statuale e le sue gerarchie, ma apre la possibilità 
                  a forme democratiche orizzontali, recalcitranti nei confronti 
                  di ogni forma di delega e di rappresentatività (democrazia 
                  diretta, radicale, partecipativa, ecc.). 
                  Hobbes, dal canto suo, detesta la moltitudine, l'esistenza sociale 
                  e politica dei molti in quanto molti è vista pericolosa 
                  rispetto all'esistenza di quell'entità che incarna il 
                  monopolio di ogni decisione politica e di ogni violenza; stiamo 
                  parlando dello stato, se non lo si è capito. Per Hobbes, 
                  alla multitudo va contrapposto il popolo. Se la moltitudine 
                  non ama lo stato, il concetto di popolo, al contrario, è 
                  legato a filo doppio con ciò che incarna lo stato. Affinché 
                  si dia stato ci dev'essere il popolo e viceversa. La moltitudine 
                  può esistere solo prima della nascita dello stato, vale 
                  a dire prima del trasferimento dei propri diritti naturali al 
                  sovrano e allo stato. Il ripresentarsi della moltitudine mina 
                  alle basi la legittimità dello stato. Hobbes: «I 
                  cittadini, allorché si ribellano allo Stato, sono la 
                  moltitudine contro il popolo». In breve: quando parliamo 
                  di popolo diciamo qualcosa che rinvia sempre a una trascendenza 
                  (lo stato, il sovrano, le leggi, ecc.), mentre la moltitudine 
                  è il nome di un'immanenza irriducibile. 
                   
                  Maledetti quegli anni! 
                  Ci fermiamo qui per quanto riguarda il confronto Spinoza-Hobbes. 
                  Il conflitto fra i due appare chiaro, così come risulta 
                  parimenti chiara – dinanzi alla crisi delle varie forme 
                  di delega e rappresentanza civile – la spendibilità 
                  odierna della nozione di moltitudine. Veniamo dunque a noi e 
                  ai nostri problemi. Scrive Virno: «Fu la nozione di “popolo” 
                  a prevalere. “Moltitudine” è il termine perdente, 
                  il concetto che ebbe la peggio. (...) Resta da chiedersi se 
                  oggi, alla fine di un lungo ciclo, non si riapra quell'antica 
                  disputa; se oggi, allorché la teoria politica della modernità 
                  patisce una crisi radicale, la nozione allora sconfitta non 
                  mostri una straordinaria vitalità, prendendosi una clamorosa 
                  rivincita». Il testo di Virno costituisce allora, come 
                  recita il titolo stesso del libro, un tentativo di elaborare 
                  una sorta di “grammatica della moltitudine”, vale 
                  a dire l'enunciazione degli elementi costitutivi di questa forma 
                  alternativa di aggregazione sociale. 
                  Ma il conflitto moltitudine-popolo riecheggia anche nell'ultimo 
                  libro di Mario Tronti, ai tempi uno dei padri dell'operaismo, 
                  dal titolo Per la critica del presente (Roma, Ediesse, 
                  2013), in cui l'autore riprende e riflette su termini quali 
                  “lavoro”, “partito”, “stato” 
                  e, appunto, “popolo”. Per Tronti queste parole antiche, 
                  cariche di storia, mantengono ancora valore nel presente. Congedarsi 
                  da esse non significa altro che fare un gradito regalo ai nuovi 
                  potenti. Leggiamo: «L'operazione di seppellire con disonore 
                  il Novecento, inaugurando un nuovo modo di fare politica, è 
                  venuta agli immaginosi contestatori degli anni Sessanta-Settanta 
                  ed è stata realizzata dai fattivi conservatori degli 
                  anni Ottanta-Novanta. Emerge lì e si impone dopo la figura 
                  dell'individuo sovrano, quando fin lì era sovrano il 
                  popolo, sovrano lo Stato, sovrana la nazione, entità 
                  collettive, dove la sovranità può incarnarsi, 
                  nella storia, ed esprimersi, nella politica». Non ci potrebbe 
                  essere distanza maggiore con le tesi di Virno (ma certe letture 
                  antisessantottine hanno attecchito anche in ambito libertario: 
                  cfr. il pamphlet di Mario Perniola, Berlusconi 
                  o il '68 realizzato, Milano-Udine, Mimesis, 2011). 
                
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Paolo Virno  | 
                   
                 
                
                  Moltitudine cosmica? 
                  Sullo sfondo dell'analisi di Virno vi è la riorganizzazione 
                  socio-economica che va sotto il nome di post-fordismo. Contrariamente 
                  alla fase del fordismo e del taylorismo, la cui caratteristica 
                  precipua era la produzione industriale basata sul lavoro ripetitivo, 
                  privo di qualifiche e specializzazioni, il post-fordismo si 
                  caratterizza per l'adozione di nuove tecnologie e nuovi criteri 
                  organizzativi che pongono enfasi sulla flessibilità dei 
                  lavoratori (il libro si chiude proprio con “Dieci tesi 
                  sulla moltitudine e il capitalismo postfordista”). 
                  La moltitudine post-fordista viene letta da Virno sotto i bagliori 
                  del «Frammento sulle macchine» presente nei Grundrisse 
                  di Marx, in cui si parla di General Intellect, l'intelletto 
                  generale della società, l'insieme delle conoscenze, il 
                  sapere da cui dipende sempre più la produttività 
                  sociale. Giungendo a questa conclusione: «la moltitudine 
                  postfordista mette in rilievo sul piano storico-empirico l'antropogenesi 
                  come tale, ossia la genesi stessa dell'animale umano, i suoi 
                  caratteri differenziali. Li ripercorre in compendio, la ricapitola». 
                  Su questa osservazione ci permettiamo di coltivare alcune riserve. 
                  Che il capitalismo post-fordista e la reazione ad esso costituiscano, 
                  tout court, la ricapitolazione della storia della specie 
                  umana è un dono all'Occidente e un omaggio che nessun 
                  capitalismo francamente si merita; al massimo si può 
                  parlare, dentro la storia delle umane genti, di un possibile 
                  esito – uno fra i tanti – rispetto agli infiniti 
                  futuri possibili; altrimenti restiamo irretiti e impoveriti 
                  in una visione lineare e unidimensionale del tempo (quella dell'Occidente 
                  e del capitalismo). La pluralità dei soggetti (per carità, 
                  non riducibile ai lavoratori della conoscenza europei) invoca 
                  la pluralità delle scansioni temporali! Il tempo storico, 
                  infatti, è qualcosa di più complesso e articolato, 
                  prevede dislivelli e torsioni temporali, al cui interno il passato 
                  (anche quello più primitivo) non è mai definitivamente 
                  passato, ma può riaffiorare gravido di futuro. 
                  Questa osservazione sbocca su di un'altra. La “grammatica 
                  della moltitudine” analizza la soggettività nella 
                  sua interiorità (l'intelletto, le tonalità emotive), 
                  così come nella sua socialità (il lavoro, la politica), 
                  ma non compare mai in relazione con tutto il resto (ambiente, 
                  natura, ecosistema, cosmo, Umwelt o con la denominazione 
                  che più aggrada). Insomma, di relazione con l'ambiente 
                  non c'è traccia. O meglio: se ne parla solo in rapporto 
                  al lavoro («il lavoro è ricambio organico con la 
                  natura»); ma, coi tempi che corrono (inquinamenti ed emergenze 
                  varie), considerare la natura solamente come fonte di approvvigionamento 
                  di materie prime è davvero poco. Il soggetto della moltitudine 
                  é così tagliato via (ancora una volta!) da una 
                  relazione con gli altri viventi (piante, animali, cose), se 
                  non rubricandoli a mezzi per i propri fini; ma questo è 
                  proprio un tratto che marca tristemente l'Occidente e la sua 
                  storia. Qui non ci discostiamo di molto dall'antropologia e 
                  dalla cosmologia bibliche che hanno conferito all'uomo quel 
                  potere di dominare e soggiogare ogni forma vivente, e che perdura 
                  fino a oggi. Dalla moltitudine, così intesa, non ci si 
                  può attendere molto. Si tratta allora di andare oltre 
                  tali limiti, la rete di relazioni e comunicazioni plurali, di 
                  cui parla Virno, va raccolta e spinta oltre le soglie dell'umano, 
                  verso un insieme di relazioni e comunicazioni di portata cosmica, 
                  queste sì veramente plurali. Ma qui siamo già 
                  dentro un altro discorso, stiamo alludendo a una nuova grammatica. 
                 Federico Battistutta 
                   
                   
                    Guarire 
                  (da tutto?)
                   con i libri 
                Si può guarire da razzismo e/o capitalismo e/o sessismo 
                  e/o fanatismo religioso leggendo? Forse no, ma ci sarà 
                  una ragione se sempre nella storia padroni e reazionari di ogni 
                  tipo hanno bruciato i libri. 
                  Un altro dubbio di partenza: la farmacologia (in questo caso 
                  la biblio-terapia) funziona allo stesso modo per tutte le persone? 
                  Certamente no, ha solo un valore indicativo e ognuna/o poi si 
                  aggiusterà farmaci e dosi... 
                  E poi il dubbione, quello grande come la montagna: gli anarchici 
                  hanno le stesse malattie – ci riferiamo al corpo e alla 
                  mente - di tutti gli altri bipedi? In parte sì (dal raffreddore 
                  alla febbre del fieno) ma si suppone che noi libertari siamo 
                  abbastanza differenti che so nel “mal d'amore” o 
                  nello stakanovismo. La differenza però resta abbastanza 
                  grande o, come diceva nella copertina 
                  del numero 387 di “A”, una bella scritta murale: 
                  «Voi ridete perché sono diverso, ma io rido perché 
                  siete tutti eguali». 
                  Ciò premesso, sbirciamo cosa ci consiglia Curarsi 
                  con i libri – sottotitolo: «rimedi letterari 
                  contro ogni malanno», ma proprio “ogni” come 
                  vedremo - di Ella Berthoud e Susan Elderkin: è un volumone 
                  (640 pagine con curioso riflesso verdazzurro per 18,00 euro; 
                  traduzione di Roberto Serrai) con la collaborazione di Fabio 
                  Stassi, pubblicato da Sellerio contemporaneamente ad altri editori 
                  europei. 
                  Alla voce «Razzismo» per esempio leggiamo: «Chiunque 
                  sia vittima di atteggiamenti o comportamenti razzisti – 
                  o chi ancora sia propenso a dare la colpa delle tensioni razziali 
                  alle minoranze interessate – farebbe bene a leggere L'uomo 
                  invisibile, romanzo straordinario e radicale di Ralph Ellison». 
                  Io sono pienamente d'accordo con le due curatrici (in ogni senso) 
                  tranne che sull'utilizzo dell'aggettivo “razziali”: 
                  esistono i razzisti ma non le razze, è bene ricordarselo 
                  anche nel linguaggio. È una voce molto ben fatta e il 
                  libro di Ellison (del 1952) non è invecchiato di un giorno; 
                  alle ultime righe Elderkin e Berthoud rimandano alle voci «vigliaccheria» 
                  e «vergogna». Contro la vigliaccheria «Guarire 
                  con i libri» suggerisce Il buio oltre la siepe 
                  della scrittrice statunitense Harper Lee mentre per curare la 
                  vergogna consiglia L'aiuto di Kathryn Stockett: in entrambi 
                  i casi siamo negli Usa dell'apartheid. 
                  Ultima voce di questa bella enciclopedia (ma anche ricettario 
                  o cofanetto di erbe curative) è «Xenofobia», 
                  un morbo che ha molte – ma tutte brutte – facce 
                  e proprio per questo il duo Berthoud/Elderkin consiglia un decalogo 
                  librario. Ecco i titoli: Jubiabà di Jorge Amado, 
                  Gridalo forte di James Baldwin, Vedi alla voce: amore 
                  di David Grossman, Un bambino nero di Camara Laye, il 
                  già citato Il buio oltre la siepe, Vita 
                  di Melania Mazzucco, La capanna dello zio Tom (sempre 
                  citato ma poco letto) di Harriet Beecher Stowe, Il colore 
                  viola di Alice Walker, Ragazzo negro di Richard Wright 
                  e Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar. Ottima 
                  decina ma forse troppo centrata sulle differenze di pelle, dimenticando 
                  che la xenofobia colpisce altre diversità (l'handicap, 
                  la “bruttezza”, la «grassezza», l'omosessualità...): 
                  per una seconda edizione consiglio alle due biblioterapiste 
                  di aggiungere queste altre voci. 
                  Di autori dichiaratamente anarchici c'è Kurt Vonnegut 
                  ma fra i “nostri” conterei anche Alejandro Jodorowsky. 
                  Contro la «mancanza di empatia» le autrici consigliano 
                  E Johnny prese il fucile di Dalton Trumbo. uno dei più 
                  bei libri antimilitaristi che io conosca. Altro grandissimo, 
                  ma in questo caso divertente, libro contro «la truppa 
                  che difende la trippa di chi ha troppo» è Comma 
                  22 di Joseph Heller; vedrete voi a qual proposito. Per affrontare 
                  l'«eutanasia» - chiariscono le autrici: «non 
                  chiamate suicidio quello che suicidio non è» - 
                  si suggerisce Romanzo civile di Giuliana Saladino. Contro 
                  un eventuale «senso di inutilità» sembra 
                  indicata La vita, istruzioni per l'uso di Georges 
                  Perec e contro l'«egoismo» appropriato Qualcuno 
                  volò sul nido del cuculo di Ken Kesey. E che ve ne 
                  pare di Corri coniglio di John Updike per far fronte 
                  alla «voglia di mollare tutto»? Non male curarsi 
                  dall'«essere troppo organizzati» con il Kerouac 
                  di Sulla strada. Per la «fatica del vivere in città» 
                  suggerito un libro di China Mièville, dalle parti della 
                  fantascienza, La città e la città. Sul 
                  morbo della «paternità» ecco un consiglio 
                  “eroico” e uno cialtronesco: La strada di 
                  Cormac McCarthy e Pinocchio di Collodi. 
                  Vi pare abbastanza controcorrente il disturbo di «andare 
                  dietro una donna anche se è una suora»? Probabilmente 
                  chi è libertaria/o soffre più della media dell'«insofferenza 
                  per le case di cure»; io approvo i due rimedi consigliati 
                  ovvero Dino Buzzati e Gesualdo Bufalino. E secondo voi Il 
                  figlio di Bakunin (di Sergio Atzeni) è indicato contro 
                  cosa? Curiosissimo – almeno per chi non conosce il libro 
                  – che il sovversivo La vita agra di Luciano Bianciardi 
                  sia indicato contro l'alcolismo ma anche «per quei giorni» 
                  ovvero la «sindrome premestruale». Fra gli autori 
                  ribelli (o presunti tali?) anche i due «bu» ovvero 
                  Bukowsky e Burroughs. Non poteva mancare Alice oltre lo specchio 
                  ma vi sfido a indovinare per quale terapia è consigliato. 
                  Mi sorprende che le autrici indichino Tempo di uccidere 
                  di Ennio Flaiano come rimedio al «mal di denti», 
                  io lo vedo meglio per curare «rigurgiti coloniali». 
                  E per lo «stress» ecco un eccellente antidoto: L'uomo 
                  che piantava gli alberi di Jean Giono mentre fra i «10 
                  migliori romanzi brevi» per chi fa la chemio vi sorprenderà 
                  (o no?) trovare Accabadora di Michela Murgia. 
                  Fra i disturbi di lettura che potrebbero riguardare gli anarchici 
                  più che altre persone indicherei «esaurire la propria 
                  biblioteca a forza di prestare libri», «essere infastiditi 
                  dall'eccessiva pubblicità» e forse «essere 
                  troppo occupati per leggere». 
                  Ma forse vale accennare malattie di tutt'altro tipo. È 
                  sempre utile avere una farmacia attrezzata, no? 
                  La dose di 10 medicine per volta torna su 41 disturbi particolari: 
                  «adolescenza» è la prima voce ma ci sono 
                  anche «per quando si resta chiusi fuori», «per 
                  evadere» (non in quel senso), ovviamente «da leggere 
                  al gabinetto», «per fare appassionare il (o la) 
                  partner... alla letteratura», «sulla fine di una 
                  relazione», «da leggere in ospedale», e persino 
                  «per coprire qualcuno che russa». Ipotizzo che anche 
                  nell'area libertaria questi mali siano diffusi. 
                  Ci sono voci più sorprendenti: «perdita della memoria», 
                  «cervicale», «fare il bullo», «sesso, 
                  farne troppo poco» ma anche «farne troppo», 
                  «malessere del lunedì mattina», «wanderlust», 
                  «caffè, non riuscire a trovare una buona tazza 
                  di» oppure «vecchiaia, orrore della», «sentirsi 
                  messo da parte», «vendere l'anima» (direi 
                  che non è roba da anarchici), «furbizia», 
                  «crisi di identità», «allergia al matrimonio» 
                  (in effetti), «bulimia», «apatia», «tinnito» 
                  (il sibilo alle orecchie), «disoccupazione», «pianto, 
                  bisogno di un bel», la terribile «diarrea», 
                  la «miopia» (tre eccellenti libri curativi), «tentazione 
                  di vuotare il sacco» (su questo vigilerei al massimo), 
                  «postumi della sbornia» (ehm), «sentirsi un 
                  fallito», «emorroidi»... e persino «tristezza 
                  da compleanno» o «andare a sbattere con l'alluce». 
                  Non potevano mancare i «disturbi della lettura», 
                  con una trentina di malattie note: dall'«acquisto compulsivo» 
                  al «leggere invece di vivere» passando per «il 
                  desiderio di sembrare colti». E per il comune, banale 
                  raffreddore? Cito: «Non esiste una cura. Ma è un'ottima 
                  scusa per avvolgersi in una coperta insieme a un romanzo» 
                  ed ecco 10 consigli senz'altro da tener presenti. 
                 Daniele Barbieri 
                   
                   
                    Azioni 
                  criminose, terrore, potere
                   nella Sicilia dell'800 
                Le vicende storiche, cruente e sanguinarie, di quello che fu 
                  chiamato banditismo maurino, perché aveva origine a San 
                  Mauro Castelverde, un paese della Sicilia centro-occidentale, 
                  sono state indagate da Giovanni Nicolosi che vi ha dedicato 
                  un volume (La Sicilia dell'ottocento prigioniera dei briganti 
                  maurini, Vittorietti edizioni, Palermo 2013, pagg. 228 € 
                  15,00), estremamente documentato nella ricostruzione dei fatti 
                  e avvincente e scorrevole nella stesura, che ha un pregevole 
                  andamento narrativo. 
                  I fatti di cui Nicolosi scrive si sono svolti alla fine dell'ottocento 
                  e hanno visto per protagonisti due terribili bande di briganti, 
                  quella di Vincenzo Rocca e Angelo Rinaldi e quella capeggiata 
                  da Melchiorre Candino. La caratteristica peculiare delle due 
                  bande è che hanno operato in un'area estesa della Sicilia, 
                  nel territorio di ben tre province, Palermo, Messina ed Enna, 
                  facendo base nel loro alto, isolato - e per questo inaccessibile 
                  alle forze dell'ordine - Comune: i briganti maurini hanno operato 
                  in paesi, campagne e contrade delle Madonie e dei Nebrodi, le 
                  due catene montuose più suggestive dell'Isola, facendo 
                  dei boschi e delle loro fitte vegetazioni il loro introvabile 
                  rifugio e cercando di costruire di loro stessi - alla maniera 
                  di nuovi Robin Hood – l'immagine di briganti che rubano 
                  ai ricchi e aiutano i poveri. 
                  Azione comune delle due bande fu infatti quella dei sequestri 
                  di nobili e di proprietari terrieri ai fini della riscossione 
                  del riscatto: il rapimento più famoso, ad opera della 
                  banda di Candino, fu quello del barone Spitaleri di Adrano – 
                  un grosso centro agricolo della provincia di Catania - per il 
                  rilascio del quale, il brigante ricevette un compenso, per i 
                  tempi, stratosferico; bersagli e vittime di taglieggiamento 
                  furono anche parecchi nobili della provincia di Enna: il barone 
                  Varisano di Enna, il barone Salamone di Nicosia, il conte Bonsignore 
                  di Leonforte. 
                  Delle bande maurine, Nicolosi racconta la nascita, la vita dei 
                  capi e dei gregari, le azioni criminose di cui si fecero carico, 
                  il terrore che seminarono – non avendo riguardo neanche 
                  per i parenti sospettati di tradimento –, il potere che 
                  esercitarono e la fine violenta a cui andarono incontro: decimati 
                  in uno scontro a fuoco con i carabinieri, capi e membri della 
                  banda Rocca e Rinaldi; trucidati dai fratelli Leanza, campieri 
                  e malavitosi anch'essi, in un podere di Cesarò - un paese 
                  di montagna posto a confine tra la provincia di Enna e quella 
                  di Messina - Candino e i suoi uomini. Dei briganti, Nicolosi 
                  indaga acutamente l'uso che facevano dei comunicati murali e 
                  delle lettere ai quotidiani del tempo per propagandare le loro 
                  azioni e per comunicare con i loro amici e i loro nemici; effettua 
                  poi un'interessante analisi delle foto che li ritraevano: quelle 
                  che gli stessi briganti si facevano fare, in pose eroiche e 
                  da liberatori del popolo; quelle delle forze dell'ordine che 
                  li facevano fotografare da morti, dopo gli scontri a fuoco. 
                  Esamina infine, Nicolosi, il vasto repertorio di canti popolari 
                  che dei briganti narrava, con trepida enfasi, la vita e le gesta, 
                  presentando 'cunti' in gran parte poco conosciuti, come quello 
                  che narra de 'I fatti di Troina', altro paese dei Nebrodi. 
                  Un'opera di microstoria, quella di Nicolosi, che porta alla 
                  luce documenti e avvenimenti circoscritti ad un'area piccola 
                  e remota della Sicilia, ma importante perché mostra bene 
                  ambienti e istanze che causarono il fenomeno del brigantaggio, 
                  che va riconsiderato come una forma di rivolta sociale (non 
                  a caso repressa dai campieri al servizio dei grandi feudatari, 
                  quelli dai quali nascerà la mafia come organizzazione 
                  criminale strutturata, gerarchica e alleata ai potenti): rozza, 
                  violenta, spropositata ma di fatto generata da un contesto storico 
                  di sopraffazione e dominio selvaggio esercitato dai proprietari 
                  terrieri e dai politici del nuovo regno italico, organici ai 
                  loro interessi. 
                  Come ha sottolineato, infatti, nella sua prefazione al volume, 
                  lo storico siciliano Mario Renda, che - riprendendo l'interpretazione 
                  del banditismo come ribellione all'ordine esistente, avanzata 
                  da Hobsbaum nei I ribelli (Einaudi, 1966) - afferma: 'il banditismo 
                  maurino può essere inteso come ribellismo in rapporto 
                  con la società nazionale'. 
                 Silvestro Livolsi 
                   
                   
                    Il 
                  trionfo
                   dell'egoismo liberale 
                Il 4 e il 27 marzo del 1986 la rete televisiva britannica Chanell 
                  4 mandò in onda una conversazione tra Cornelius Castoriadis 
                  e Christopher Lasch, moderata da Michael Ignatieff. 
                  Sono trascorsi 28 anni da allora e l'analisi delle ragioni profonde 
                  della crisi della sinistra in Europa, tema dell'incontro, è 
                  ancora attuale. E questo non è un buon segno. I due studiosi 
                  concordano infatti nell'individuare un elemento di tale crisi 
                  che da allora si è dispiegato sino a non essere più 
                  neppure avvertito. Si tratta dell'individualismo liberale che 
                  ha contagiato la cultura di sinistra sino a trasformarla alla 
                  radice. Cornelius Castoriadis e Christopher Lasch (La cultura 
                  dell'egoismo. L'anima umana sotto il capitalismo, Eleuthera 
                  2014, postfazione di Jean-Claude Michéa, traduzioni di 
                  Andrea Aureli e Carlo Milani pagg. 68, euro 8,00) partono entrambi 
                  dalla consapevolezza aristotelica che «quel che noi chiamiamo 
                  individuo è in un certo senso una costruzione sociale» 
                  (p. 9), che «una vita morale è una vita vissuta 
                  in pubblico» (p. 11), che -come sintetizza Ignatieff a 
                  conclusione della conversazione- «nella società 
                  attuale non stiamo più producendo individui capaci di 
                  incarnare la visione aristotelica. Ed è appunto questo 
                  uno dei messaggi forti di stasera, che ci lascia con una domanda 
                  spinosa: siamo ormai un altro tipo di individui? Abbiamo perso 
                  quell'ideale?» (p. 36). 
                  Sì, la sinistra lo ha perso, sostituendo la lotta di 
                  classe con una ideologia dei diritti umani di evidente impronta 
                  liberale, non certo marxiana. Invece che affiancarsi 
                  alla lotta di classe, la lotta contro le discriminazioni ha 
                  sostituito la lotta di classe, segnando in questo modo il 
                  tramonto della sinistra. La lotta contro le discriminazioni 
                  formali è infatti semplicemente liberale, come le tesi 
                  di Friedrich Hayek ben testimoniano. «Sotto l'accorto 
                  magistero di François Mitterrand la 'lotta contro il 
                  razzismo e contro ogni forma di discriminazione prendeva del 
                  tutto logicamente il posto dell'arcaica' lotta di classe, diventando 
                  la nuova buona novella dell'intellighenzia 'illuminata' » 
                  (p. 43). 
                  Nella densa Postfazione Jean-Claude Michéa ricorda 
                  le analisi di Rawi Abdelal, che nel suo Capital Rules 
                  mostra come «la sinistra francese si era addirittura posizionata 
                  in prima linea a sostegno di tutte le lotte della borghesia 
                  europea per sgombrare il campo da tutti gli ostacoli politici 
                  e culturali che si frapponevano all'espansione 'civilizzatrice' 
                  del mercato mondiale deregolamentato e della sua volontà 
                  di crescita illimitata» (pp. 42-43). 
                  Alla lotta per il mutamento delle condizioni sociali di produzione 
                  si è sostituita la «vittimizzazione come unico 
                  criterio di giustizia in grado di ottenere un riconoscimento. 
                  Se si riesce a provare di essere stati vittima di qualcosa, 
                  di essere stati discriminati (e quanto più a lungo lo 
                  si è stati, tanto meglio è), questo diventa la 
                  base su cui fondare le proprie rivendicazioni» (Lasch, 
                  p. 20). Alla coscienza di classe si è sostituita l'enfasi 
                  sull'identità mutevole e volontaria dell'individuo, quando 
                  invece è evidente che «nessuno è senza passato, 
                  anche se la nostra società ci spinge a negarlo, nessuno 
                  ha carta bianca sulla propria identità. [...] Di conseguenza, 
                  è necessario riconoscere i limiti al grado di libertà 
                  che ha ogni individuo di scegliere identità intercambiabili, 
                  magari per cambiarle ogni settimana» (Lasch, p. 31). 
                  I dispositivi concettuali di questa autodissoluzione sono consistiti 
                  -secondo Castoriadis, Lasch e Michéa- nella negazione 
                  delle invarianti antropologiche, nella rinuncia a ogni identità 
                  collettiva a favore dei diritti del singolo, nel mito della 
                  crescita illimitata, al quale sono legati quelli dello 'sviluppo 
                  sostenibile' e dell'equa distribuzione dei profitti del capitale. 
                  Si esprime qui una certa ironia verso coloro che si sentono 
                  di sinistra perché negano che «la differenza tra 
                  un uomo e una donna potrebbe avere un qualche rapporto con la 
                  loro rispettiva anatomia» e che a questo materialismo 
                  somatico preferiscono quella che Michéa definisce «l'ideologia 
                  neospiritualista» dei Gender Studies (p. 44). Di 
                  sinistra sarebbe piuttosto «il radicale rifiuto di un 
                  mondo fondato -in nome della 'libertà individuale' e 
                  dei 'diritti dell'uomo'- sulla concorrenza estenuante di tutti 
                  contro tutti [...]; il rifiuto della conseguente riduzione degli 
                  esseri umani allo statuto di 'atomi isolati privi di consapevolezza 
                  generale' (Engels)». La sinistra del XXI secolo ha rinunciato 
                  alla critica nei confronti di un mondo dominato dall'iperindividualismo 
                  e ha accettato come inevitabile e foriera di opportunità 
                  «una 'società dei consumi' basata sul credito, 
                  sull'obsolescenza programmata e sulla propaganda pubblicitaria» 
                  (pp. 47-48). E quindi «il radicale sradicamento 
                  degli individui e la metodica svalutazione di ogni forma 
                  di appartenenza storica e culturale che lega effettivamente 
                  tali individui a un passato, a dei luoghi o ad altri esseri 
                  (o, in altri termini, l'interiorizzazione da parte di ciascuno 
                  dell'imperativo incondizionato della 'flessibilità' e 
                  della mobilità geografica e professionale generalizzata) 
                  dovevano prima o poi apparire per ciò che essenzialmente 
                  sono: l'imperativo categorico primario del nuovo modo di 
                  vita capitalista, e dunque la verità ultima di qualsiasi 
                  liberalismo realmente esistente» (Michéa, p. 47). 
                  È sulla base di tale consapevolezza, certo assai amara, 
                  che Castoriadis e Lasch «pur attraverso percorsi filosofici 
                  differenti, erano entrambi giunti ad avere lo stesso sguardo 
                  disincantato sulla triste evoluzione delle moderne sinistre 
                  occidentali e su quello che fin dal 1967 Guy Debord definiva 
                  'Le false lotte spettacolari delle forme rivali del potere separato' 
                  (La società dello spettacolo, tesi p. 56)» 
                  (Michéa, p. 41). Un disincanto che li induce ad affermare 
                  che ormai «da lungo tempo il divario destra-sinistra, 
                  in Francia come nel resto del mondo, non corrisponde più 
                  ai problemi del nostro tempo, né riflette scelte politiche 
                  radicalmente opposte» (Castoriadis, Le Monde, 12.7.1986, 
                  qui a p. 57) e a riconoscere «l'obsolescenza del divario 
                  tra destra e sinistra» (Lasch, p. 57). 
                  Ma per entrambi la possibilità della libertà nell'eguaglianza 
                  è sempre aperta. Castoriadis, in particolare, insiste 
                  sulla natura «tragica» della libertà poiché 
                  essa non possiede limiti esterni sui quali fare affidamento 
                  ed è fondata invece sulla pratica dell'autonomia, il 
                  cui modello rimangono per lui sempre i Greci. Nelle loro tragedie, 
                  infatti, «l'eroe non muore perché c'è un 
                  limite che ha violato. Questo è il peccato, il peccato 
                  cristiano. L'eroe tragico muore a causa della sua hybris, 
                  della sua superbia, perché trasgredisce in un contesto 
                  dove non esistono limiti predefiniti. Questa è la nostra 
                  condizione» (p. 35). La negazione del limite sta a fondamento 
                  della presunta razionalità liberale, il cui principio 
                  di crescita indefinita contrasta con la realtà dei limiti 
                  del pianeta, il cui principio di opportunità per tutti 
                  confligge con la realtà del profitto che moltiplica soltanto 
                  se stesso. Contro l'illusione di una crescita illimitata Michéa 
                  ricorda «la distanza politica che separa oggi un 'uomo 
                  di sinistra' (o di estrema sinistra) da un partigiano della 
                  rivoluzione socialista. [Distanza che induce] sempre più 
                  spesso gli ideologi della sinistra liberale ad assimilare ogni 
                  critica della 'crescita' e ogni progetto di rottura radicale 
                  del controllo capitalista sulla vita a una ripresa pura e semplice, 
                  da parte dei 'nuovi reazionari', di idee vetuste espresse dal 
                  'fascismo' e dall' 'estrema destra'» (p. 64). 
                  Questo libro non si limita a una critica argomentata e convincente 
                  dell'individualismo di sinistra. Propone delle alternative lucide 
                  e praticabili, fondate sul fatto che tradizione e mutamento 
                  devono essere viste e vissute in una logica non oppositiva ma 
                  inclusiva di identità e differenza: «Perciò 
                  il problema non è tanto quello di giustapporre l'immobilità 
                  sempre mortifera al cambiamento sempre salvifico (secondo l'abituale 
                  retorica della sinistra), ma di imparare e distinguere i cambiamenti 
                  che possono verificarsi a un ritmo umano (si rivela qui 
                  centrale la questione del tempo sociale e della sua accelerazione 
                  moderna) e quelli che vengono imposti solo in base alla logica 
                  omogeneizzante del mercato globale, del diritto astratto e della 
                  cultura alienante che ne è la traduzione» (Michéa, 
                  nota 21, p. 67). E quindi, conclude Michéa, un programma 
                  politico di sinistra -vale a dire anticapitalista, egualitario 
                  e libertario- deve «definire le istituzioni concrete grazie 
                  alle quali una 'società libera, egualitaria e decente' 
                  (George Orwell) possa conferire tutto il proprio senso a questa 
                  dialettica creatrice tra il particolare e l'universale» 
                  poiché «non è certo demonizzando e bollando 
                  come 'reazionario' ogni sentimento di appartenenza e di filiazione, 
                  non è etichettando per principio come 'passatista' l'attaccamento 
                  legittimo dei popoli alla propria lingua, alle proprie tradizioni 
                  e alla propria cultura (ed è proprio questo oggi il nucleo 
                  residuale di tutte le metafisiche di sinistra) che gli individui 
                  moderni potranno trovare il sentiero verso una emancipazione 
                  possibile, individuale e collettiva, che sia al tempo stesso 
                  reale e davvero umana. Ecco dove sta tutta la differenza 
                  fra una lotta politica che, sulla scorta di quella degli anarchici, 
                  dei socialisti e dei populisti del XIX secolo, mirava innanzitutto 
                  a offrire agli individui e ai popoli i mezzi per accedere a 
                  una vita realmente autonoma (condizione basilare per 
                  ogni vita 'bella' e, possibilmente, felice), e un processo storico 
                  di perpetua fuga in avanti (sotto il triplice pungolo del mercato 
                  'autoregolato', del diritto astratto e della cultura mainstream) 
                  che quasi più nessuno, quanto meno tra le file delle 
                  nostre sfavillanti 'élite', si cura di padroneggiare 
                  a fondo e che potrà solamente condurre (ancorché 
                  santificato con il nome di 'Progresso') a una definitiva atomizzazione 
                  della specie umana» (pp. 54-55). 
                  Non si può dire che non fossimo stati avvertiti. 
                 Alberto Giovanni Biuso 
                   
                   
                    Un 
                  affresco collettivo,
                   una botta di entusiasmo 
                Oltre quaranta i ritratti presentati da Massimo Ortalli (Ritratti 
                  in piedi, dialoghi tra storia e letteratura, La Mandragora, 
                  Imola 2013, pagg. 574, € 32,00), dati alla stampa raccogliendo 
                  i contributi pubblicati sulla rivista anarchica “A” 
                  in nove anni di assiduo, appassionato, puntuale lavoro di sistemazione. 
                  In quasi seicento pagine, sono racchiusi molti tra i variegati 
                  apporti diffusi, di recente o in passato, nell'ambito storico 
                  e letterario in seno all'anarchismo. Un'operazione davvero lodevole 
                  e ben riuscita, mai tentata prima da altri. 
                  Ritratti credibili, come li definisce Paolo Finzi nella sua 
                  convinta e partecipata introduzione all'opera, riprendendo un 
                  motto dell'amico don Andrea Gallo: non mi interessa se tu 
                  sei credente, mi interessa che tu sia credibile. 
                  Ritratti singoli o raffigurazioni plurali, voci corali o assoli, 
                  dai colori caldi o a forti tinte, non delineati seguendo una 
                  linea sequenziale, cronologica, e proprio per questo restituiti 
                  a vita autonoma, in un dialogo con ritratti reali. Il filtro 
                  della letteratura è ampliato da approfondimenti bibliografici, 
                  documenti, lettere, saggi storiografici e fonti iconografiche: 
                  frontespizi di riviste, schizzi, immagini delle copertine di 
                  libri, disegni serigrafati, locandine, manifesti, fotografie 
                  di ritratti “in piedi”, come quella eloquente del 
                  Primo Maggio anarchico, del 1913, riportata in copertina. 
                  Gallerie di affreschi ispirati al titolo dell'opera di Gianna 
                  Manzini Ritratto in piedi del padre Giuseppe, amato, 
                  spesso incompreso. Un rapporto intimo, difficile da conciliare 
                  con l'impegno nella vita pubblica. Memorabili per lei, il Primo 
                  maggio passato con il padre o il cavalluccio sopra le ginocchia 
                  dondolanti di un buffo ometto con la parrucca e i baffi finti, 
                  quale si era presentato Errico Malatesta nella bottega dell'amico 
                  Giuseppe. Mentre fuori, il canto dei libertari si mescolava 
                  con “l'autentico brusìo della vita”. 
                  Cavatori, operai, minatori, falegnami, calzolai, strampalati, 
                  bombaroli, ma anche scrittrici e giornaliste insieme a idealisti, 
                  intellettuali, romantici, sottoproletari ribelli, pacifisti 
                  tolstoiani, ministri anarchici, cavalieri dell'ideale o sognatori. 
                  Una trama cromatica accesa lega tra loro le figure: l'aver creduto 
                  e continuare a credere nelle proprie idee, rischiare in prima 
                  persona, resistere a testa alta e sperimentare sogni possibili, 
                  per cambiare un mondo che non si decide a cambiare. 
                  Incontriamo ritratti come quelli di Pietro Gori, il grande poeta 
                  dell'utopia delle idee libertarie. Anche noi partecipiamo ai 
                  suoi funerali insieme alla sentita solidarietà delle 
                  popolazioni elbane e della Versilia attraverso le parole del 
                  bel romanzo Luigi Regoli anarchico di Angelo Toninelli. 
                  L' autore ci accompagna anche in un viaggio storico nell'anarchismo 
                  agli inizi degli anni Settanta dell' Ottocento: Un sogno 
                  d'amore di un'intera generazione che per prima, dopo l'unificazione 
                  nazionale, sulla spinta della Comune di Parigi, si fa internazionalista, 
                  rivoluzionaria, anarchica. 
                  Accanto, i quadretti di Armando Borghi e dell'instancabile agitatore 
                  Malatesta, redattori del quotidiano Umanità Nova 
                  incarcerati ingiustamente, e di Luigi Fabbri, l'intellettuale 
                  visto con gli occhi della figlia Luce, dopo lo scoppio nel '21 
                  dell'ordigno al Teatro Diana di Milano: “È l'unica 
                  volta che ho visto piangere mio padre”. Morti vendicati 
                  e nefandezza in nome dell'anarchismo ne offuscano l'ideale di 
                  solidarietà ed emancipazione. Incrociamo anche il ritratto 
                  di Giuseppe Mariani, l'unico coinvolto nelle vicende del Diana 
                  e a scriverne, dopo aver maturato in 27 anni di galera il rifiuto 
                  della violenza. 
                  Nell'ampia e ben allestita galleria ci imbattiamo anche in personaggi 
                  meno noti scovati con dedizione certosina. È il caso 
                  del ritratto dell' operaia pisana Jessa Fontana scaturita dalle 
                  pagine di Una città proletaria di Athos Bigongiali, 
                  temuta già a 14 anni per il suo contributo attivo all'anarchismo. 
                  Battagliera, energica, pericolosa, il suo primo arresto, nel 
                  1901 per “istigazione a delinquere”. 
                  Accanto ai ritratti presentati dalla letteratura russa dell'Otto-Novecento, 
                  da Turgenev, a Kropotkin, Dostoevskij, troviamo autodidatti 
                  come Ausonio Zuliani, Tomaso Concordia, Umberto Postiglione 
                  che hanno dato dignità letteraria al teatro degli esclusi 
                  e dei sovversivi. Non teatro minore, ma alto strumento culturale 
                  di sensibilizzazione, coesione e identità, per un proletariato 
                  dal gusto fine e ricercato. 
                  Vengono altresì riabilitati ritratti volutamente dimenticati 
                  da tanta manualistica in uso nelle scuole, come Metello 
                  di Vasco Pratolini. 
                  La conferma che l'anarchismo da sempre ha rappresentato un' 
                  interessante occasione di spunto letterario, anche con i suoi 
                  pregiudizi e stereotipi lo dimostrano le pagine d'appendice 
                  Il figlio dell'anarchico di Carolina Invernizio. Un ritratto 
                  collettivo di tutti gli anarchici dell'epoca che si intreccia 
                  ad altri stereotipi che convivono nella retorica letteraria 
                  in Duri a Marsiglia, di Gian Carlo Fusco: il bandito 
                  gentiluomo e l'anarchico in bilico tra legalità e illegalità. 
                  Un affresco plurale quello della Banda Bonnot. Pino Cacucci, 
                  In ogni caso nessun rimorso tra ricostruzione storica 
                  e invenzione letteraria racconta la delicata questione dello 
                  scontro dialettico interno al movimento anarchico francese agli 
                  inizi del Novecento. Fanno da contraltare le Memorie di un 
                  rivoluzionario di Victor Serge, incarcerato perché 
                  ritenuto implicato nella Banda. Ne è tratteggiato un 
                  ritratto ricco di profonda partecipazione umana. 
                  La funzione pedagogica del romanzo apre le porte della galleria 
                  su L'eroe della folla di Leda Rafanelli. Un ritratto 
                  in formazione quello del protagonista Lorenzo, verso la consapevolezza 
                  dello spirito libertario e delle idee di riscatto sociale, insieme 
                  all'altro ritratto dell'eroe Comunardo, un vero faro di riferimento 
                  per la classe che rappresenta e per la quale lotta. 
                  Emblematica l'altra faccia di un'atavica e primitiva Puglia 
                  di cafoni e analfabeti. Terra nera di Giuse Alemanno, 
                  arida e avara di frutti, tuttavia, a partire dalla seconda metà 
                  dell'Ottocento, terra feconda poiché cultura anarchica 
                  e cultura contadina vi si fondono. Vediamo Bruttacapa- Malatesta, 
                  un ritratto “in piedi”, unica forma di resistenza 
                  al dilagante individualismo e contro la cultura dello sfruttamento. 
                  Ideali vivi, ancora pochi anni or sono, presso la comunità 
                  di Canosa di Puglia, la Carrara del sud, in cui ben si esprime 
                  tra le masse, l'ideale di libertà e fratellanza. 
                  Ritratti onirici e fantastici, concreti e reali introducono 
                  nel romanzo corale Zero maggio a Palermo ben ricostruito 
                  da Fulvio Abbate nel ricordo del popolo della sua città 
                  intorno agli anni Settanta. 
                  E come non lasciarsi appassionare da Caserio, garzone fornaio 
                  a Motta Visconti, ghigliottinato a Lione il 16 agosto 1894, 
                  poco più che ventenne, per aver attentato alla vita del 
                  presidente della repubblica francese Sadi Carnot. Rino Gualtieri 
                  in Per Quel Sogno di un mondo nuovo ci introduce attraverso 
                  una cronaca romanzata nel quadro della Milano metropoli in formazione, 
                  città dello sfruttamento e delle ingiustizie. E nelle 
                  angherie cui erano sottoposti gli italiani costretti ad emigrare 
                  per lavoro in Francia, coglie le ragioni profonde del moto di 
                  protesta che hanno armato il fornaio. Ritratto controverso, 
                  dibattuto, amato, guardato con rispetto anche dall'opinione 
                  pubblica francese e dai giudici, per quel suo senso di giustizia 
                  profondo e di amore altruistico. Ci penserà invece Cesare 
                  Lombroso a tratteggiare del contadino fornaio un ritratto da 
                  psicopatico: l'epilessia ereditata dal padre in Caserio prenderà 
                  forma di “epilessia politica”. 
                  Sempre a Milano, il lucido ritratto di Pino Pinelli è 
                  delineato da Camilla Cederna e da Licia Rognini, moglie di Pino. 
                  Lei stessa un altro bel ritratto “in piedi”, per 
                  la sua caparbietà, il coraggio, la capacità di 
                  resistere e a non lasciar perdere, come emerge dalla toccante 
                  conversazione riportata da Piero Scaramucci. E il volo di Pinelli 
                  dal quarto piano rappresentato in un'atmosfera surreale ironica, 
                  grottesca e sarcastica da Dario Fo, interprete straordinario 
                  di quella controinformazione sulla strage di Milano, che ha 
                  cambiato la storia del nostro paese. 
                  E tra tanti altri da scoprire passeggiando nella galleria, conosciamo 
                  altresì la resistenza nella guerra civile spagnola attraverso 
                  i ritratti di Buenaventura Durruti e di Enrique Castillo. Oppure 
                  l'autoritratto di un anarchico, meccanico d'officina, antifascista, 
                  con le sue memorie dal carcere e dal confino, fino all'internamento 
                  nei campi di concentramento, e nel lager di Dachau per motivi 
                  politici. 
                  La prospettiva dei ritratti in un affresco di colori luminosi 
                  e ombreggiati non poteva che condurci oltreoceano. Il Brasile, 
                  terra mitica, meta di emigrazione di molti libertari italiani. 
                  Ne fa un ritratto corale Zélia Gattai, nel suo fortunato 
                  racconto autobiografico Anarchici, grazie a dio in cui 
                  traspare grande umanità e coerenza ideale dei libertari 
                  italiani, nel loro grande sforzo di lotte sociali ed emancipazione. 
                  Edgar Rodrigues documenta altri due bei ritratti: Oreste Ristori, 
                  fondatore del giornale La Battaglia, uno degli organi 
                  brasiliani di propaganda più diffusi e importanti, insieme 
                  a quello di Alessandro Cerchiai, collaboratore di Ristori oltre 
                  che netturbino, tornitore e grande “maestro”. 
                  Sempre in Brasile, Alfonso Smith, giornalista brasiliano, attraverso 
                  le memorie scritte dallo stesso fondatore Giovanni Rossi sotto 
                  lo pseudonimo “Cardias”, ci presenta la Colonia 
                  Cecilia fondata a Palmeria, nel Paranà. Il villaggio 
                  di canne chiamato “Anarchia”, con la sua azienda 
                  agricola e la bandiera rosso e nera issata su una palma, dove 
                  vige la consapevole legge non scritta: “ciascuno secondo 
                  le proprie possibilità, a ciascuno secondo i propri bisogni”. 
                  Per Laura Pariani, Dio non ama i bambini nella terra 
                  dell'oro: l'Argentina. Con i suoi convertillos, sorta 
                  di comunità autonome, sembra replicare le corti venete, 
                  lombarde, piemontesi, luoghi di origine degli emigrati. Dove 
                  si riproducono solidarietà e miseria, dove i più 
                  piccoli sono vittime di sanguinosi fatti di cronaca. Pagine 
                  in cui compare Fortunato Serantoni -un figlio morto perché 
                  non c'era denaro per curarlo- attento testimone dell'impegno 
                  dei libertari, anche di quelli di lingua spagnola. 
                  E poi il Messico, sempre attuale. Con Il collare spezzato 
                  di Valerio Evangelisti, tra una moltitudine di personaggi conosciamo 
                  due fratelli anarchici Ricardo e Enrique Flores Magón, 
                  le influenze che esercitarono su tutto il movimento rivoluzionario 
                  del Messico, e le sollecitazioni per capire cosa ancora agita 
                  il presente. 
                  Insomma, Ortalli riesce a farci apprezzare le proposte presentate 
                  nella sua galleria anche grazie a una scrittura chiara, invitante, 
                  fluida. E il piacere della lettura delle quasi seicento pagine 
                  di sguardi plurali invita a un ulteriore dialogo aperto. In 
                  particolare con i lettori che non conoscono questo mondo, ma 
                  rappresenta altresì una sollecitazione rivolta a tanta 
                  parte delle giovani generazioni virtuali, dai pollici ipertrofici 
                  e dalla testa china, cresciute con grandi fratelli, dragon ball, 
                  playstation e telequiz. 
                  Per questo, all'antologia si dovrebbe ricavare uno spazio negli 
                  scaffali delle biblioteche pubbliche e in quelle scolastiche. 
                  L'affresco plurale della galleria ha infatti valore di testimonianza. 
                  Ritratti che hanno saputo credere, lottare fino in fondo, continuare 
                  a sperare e sognare che un mondo migliore sarà possibile. 
                  Una botta di entusiasmo, di speranza per il presente, un invito 
                  ai giovani ad alzare la testa e mettersi “in piedi”. 
                Claudia Piccinelli 
                   
                   
                    Povera 
                  principessa,
                   poveri noi tutti 
                C'è qualcosa di più noioso che essere una 
                  principessa rosa? (Raquel Dìaz Reguera, pp.48, € 
                  16, Settenove) è un racconto dedicato ai bambini e ricco 
                  di illustrazioni. Nonostante sia rivolto ad un pubblico di lettori 
                  sopra i cinque anni, è bene non farsi ingannare: quella 
                  scritta da Reguera non è semplicemente una storia pensata 
                  per i più piccoli, ma qualcosa di più profondo 
                  e complesso. Sfogliando le pagine, si può comprendere 
                  la forza educativa e l'acume presenti all'interno del testo, 
                  il cui personaggio principale è Carlotta, una ''principessa 
                  rosa'' come viene descritta dall'autrice. 
                  Fin dall'inizio della narrazione, la protagonista si trova a 
                  dover fare i conti con le norme e le consuetudini che regolano 
                  i suoi comportamenti e che prescrivono la condotta che meglio 
                  si addice alla sua posizione. ''Le principesse sono molto delicate 
                  e non possono uscire dal palazzo perché potrebbero ammalarsi, 
                  non possono correre e saltare perché potrebbero rovinare 
                  i loro preziosi vestiti di seta. E non possono vestirsi né 
                  di verde né di azzurro, perché certi colori non 
                  si addicono a una principessa.'' 
                  Carlotta si accorge presto delle imposizioni alle quali è 
                  sottoposta, che non le permettono di esprimersi e vivere secondo 
                  le proprie inclinazioni; si trova così a dover scegliere 
                  tra i canoni predefiniti ed il proprio sconfinato desiderio 
                  di espressione individuale. ''Sognava di risolvere misteri, 
                  costruire aerei di carta, nuotare a cavallo di un delfino, seguire 
                  i piccioni viaggiatori e scoprire i confini della Terra viaggiando 
                  in una gigantesca mongolfiera.'' La protagonista di questo piccolo 
                  libro è 'solo' una bambina, ma non per questo accetta 
                  senza remore gli obblighi che vincolano il suo agire. Non si 
                  arrende a ciò che è considerato conforme e consono, 
                  ma si interroga sul motivo delle prescrizioni e pone lo stesso 
                  interrogativo ''ai grandi'' che fino a quel momento si erano 
                  dimostrati acquiescenti nei confronti degli stereotipi. ''Le 
                  principesse sono come le rose, fiori fragili i cui petali non 
                  resisterebbero nemmeno ad un soffio di vento.'' Quella descritta 
                  da Reguera è la storia di un piccolo grande personaggio 
                  che sa affrontare gli adulti con semplicità e che ha 
                  il coraggio di affermare la volontà di inseguire i propri 
                  innumerevoli e fantasiosi sogni. 
                  Per sottolineare come il genere femminile non sia l'unico ad 
                  essere colpito dalle standardizzazioni, l'autrice inserisce 
                  la figura del ''principe azzurro'', incastrato in una vita monocolore 
                  che gli impedisce di dispiegare la propria potenza creatrice. 
                  L'obiettivo di Reguera è quello di porre l'accento sull'effettività 
                  della divisione di ruoli e sulla presenza, all'interno della 
                  nostra società, di una categorizzazione binaria maschio-femmina 
                  da cui derivano regole di comportamento, come quelle che limitano 
                  l'azione individuale di Carlotta. ''Io non voglio essere una 
                  principessa rosa. Voglio viaggiare, giocare, correre e saltare. 
                  Voglio vestirmi di rosso, di verde o di violetto.'' L'esistenza 
                  di tali norme può essere interpretata come un tentativo 
                  di semplificare il caos generato dalla libera espressione di 
                  sé: con l'intento di portare ordine all'interno delle 
                  comunità, vengono forniti modelli di condotta che si 
                  richiede siano rispettati pena l'esclusione o la marginalizzazione. 
                  Tra le pagine di questo libricino illustrato, arrivato in Spagna 
                  alla terza edizione, si trova un racconto sugli stereotipi che 
                  si tramandano di genitori in figli; una storia sul coraggio 
                  di pensare con la propria testa, di agire attivamente ed in 
                  prima persona per non lasciare che le consuetudini influenzino 
                  le nostre vite. 
                 Carlotta Pedrazzini 
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