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				 tortura 
                  
                Beccaria, Kant  e il terrore di stato 
                  
                del collettivo Altra Informazione 
                    
                A 250 anni dalla pubblicazione del libro di Cesare Beccaria “Dei delitti e delle pene”, si sente in giro molta retorica. 
Anche in Italia, dove la tortura come reato non esiste. 
In pratica, invece.... 
                 
                  Il fine della tortura è la tortura. 
                  Il fine del potere è il potere. 
                  George Orwell 
				  
                 Sono ormai trascorsi 250 anni 
                  dalla prima pubblicazione del trattato “Dei delitti e 
                  delle pene”, in cui Cesare Beccaria aveva con forza sostenuto 
                  che “non vi è libertà ogni qual volta le 
                  Leggi permettono che in alcuni eventi cessi di essere Persona, 
                  e diventi cosa”. 
                  Certamente l’autore non poteva immaginare, nell’illusione 
                  di avere contribuito col suo atto di accusa a mettere fine alla 
                  pena di morte e alla tortura, che due secoli e mezzo dopo potesse 
                  circolare una notizia come quella riportata nello scorso febbraio 
                  da vari giornali. 
                  La notizia riferisce di una band canadese di musica metal che 
                  ha presentato una fattura da 666 mila dollari al governo degli 
                  Stati Uniti per l’indebito utilizzo da parte dei militari 
                  di alcuni suoi brani, “sparati” ad altissimo volume, 
                  per torturare i detenuti nel lager-carcere speciale di Guantanamo 
                  Bay, ancora operativo nonostante il presidente Obama, insignito 
                  col premio Nobel per la pace, ne prometta la chiusura dal 2008. 
                  La storia della tortura continua così ad attraversare 
                  i secoli, i continenti e le diverse forme di dominio biopolitico, 
                  con un medesimo intento punitivo che prescinde ogni altra considerazione 
                  sul rispetto dei diritti umani, giustificata moralmente anche 
                  da non pochi intellettuali del tempo, da Bentham a Kant. 
                  In particolare, alcuni anni dopo l’uscita del “Dei 
                  delitti e delle pene”, già messo all’Indice 
                  dalla Chiesa di Roma, fu l’illuminista Kant a stigmatizzare 
                  Beccaria per il suo “sentimento di falsa umanità” 
                  sostenendo che “il diritto di punire è il diritto 
                  del sovrano nei confronti dei suoi sudditi di infliggere loro 
                  una pena dolorosa” perché altrimenti “il 
                  diritto cede, l’ordine crolla, il legame sociale si sfalda, 
                  lo Stato vacilla”. Nonostante i risibili tentativi di 
                  chi oggi cerca di rivalutarlo come un filosofo “libertario”, 
                  Kant in questo modo si dimostrava invece preoccupato dal potenziale 
                  sovversivo insito nelle tesi di Beccaria. Queste, infatti, mettevano 
                  in discussione il principio per il quale la volontà generale, 
                  il collettivo, le istituzioni possono arrogarsi un potere che 
                  non sia loro direttamente trasferito dalla volontà dei 
                  singoli individui concreti. 
                  Analoga incapacità, peraltro, si riscontra ancora in 
                  questo secolo tanto che il ricorso sistematico alla tortura 
                  nei confronti dei sospetti terroristi, è stato ritenuto 
                  un mezzo giustificato dal fine persino da settori ed esponenti 
                  liberal della società statunitense, quali ad esempio 
                  Alan Dershowitz, esimio professore di legge ad Harvard, favorevole 
                  alla sua formale legalizzazione, riecheggiando la cosiddetta 
                  “eccezione” di Josef von Sonnenfels, consigliere 
                  della corona asburgica. 
                
                   
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                    |   Cesare Beccaria (1738-1794)  | 
                   
                 
                  Il monopolio dell'uso della violenza 
				  
                Così, pur in contrasto con tutte le convenzioni e i 
                  trattati internazionali, il presente e persino il futuro continuano 
                  a non liberarsi dal passato, un passato che può essere 
                  utile rammentare.  
                  Non appena la società passò da uno stato “primitivo” 
                  a uno “civilizzato” e vennero promulgati i codici 
                  e le norme, la tortura che fino ad allora era stata attuata 
                  dall’uomo “selvaggio” per soddisfare la propria 
                  sete di vendetta, si cristallizzò in una determinata 
                  pratica, che trovò puntuale giustificazione in un preciso 
                  sistema punitivo: divenne così lo strumento, adottato 
                  dal regnante in un paese autocratico o dallo Stato in un’oligarchia, 
                  per costringere alla sottomissione verso l’autorità 
                  oppure, nel caso di folle o di gruppi sociali più limitati, 
                  per mantenere semplicemente la disciplina dei sudditi. 
                  Nell’Antica Roma, tale esercizio legittimo della violenza 
                  si estendeva sino all’ambito domestico, in cui il capo-famiglia 
                  poteva sottoporre a tortura oltre agli schiavi, pure la moglie 
                  e i figli. La prima legittimazione delle sevizie fisiche deriva 
                  dalla sua efficacia, reprimendo e prevenendo ogni ribellione 
                  nei confronti del potere dominante e i suoi principi fondativi. 
                  Combattendo, l’uno il tradimento e l’altra l’eresia, 
                  sia lo Stato che la Chiesa si sono avvalsi infatti di tale metodo 
                  basato sul terrore. 
                  Nel 1252, fu Innocenzo IV, nella bolla papale Ad extirpanda 
                  a introdurre la tortura come metodo per la ricerca della verità; 
                  d’altronde, l’idea stessa di “castigo divino” 
                  implicava il principio per il quale, attraverso la sofferenza, 
                  era possibile cancellare la colpa riscattandola attraverso la 
                  punizione inflitta, sacralizzando così la coincidenza 
                  di significato tra dolore e pena e, conseguentemente, benedicendo 
                  la figura del boia e dei patimenti impartiti dall’Inquisizione. 
                  
                 Dissimulato 
                  e coperto dalla “ragione superiore”  
				  
                Persino secondo l’attuale definizione giuridica, la tortura 
                  è una forma di violenza o un metodo di supplizio decretato 
                  dallo Stato ed eseguito da ufficiali debitamente autorizzati 
                  o designati dalle autorità giudiziarie, per cui risulta 
                  quantomeno elusivo parlare e condannare il ricorso alla tortura 
                  senza mettere in discussione il monopolio dell’uso della 
                  violenza - anche estrema e senza limiti - che lo Stato assicura 
                  a sé stesso, sia legalmente che illegalmente. 
                  Se nei regimi totalitari e nelle dittature più feroci 
                  del secolo passato questo aspetto appare intrinseco alla loro 
                  ideologia liberticida, nelle democrazie appare dissimulato e 
                  coperto dalla ragione “superiore”, a tutela di una 
                  sicurezza collettiva minacciata da presunti nemici esterni e 
                  interni. Per cui, anche negli Stati liberali, il confine tra 
                  azione politica legale e abuso criminale tende ad annullarsi 
                  con la complicità di milioni di “spettatori consenzienti” 
                  che ritengono come normale il lavoro dei torturatori, assieme 
                  a campi di concentramento, stupri autorizzati, soppressione 
                  delle libertà formali, assassinii mirati e altre attività 
                  terroristiche compiute dagli apparati statali. Si pensi ad esempio 
                  alla democratica Francia che, nonostante la soppressione dell’uso 
                  della tortura sancita dopo la Rivoluzione del 1789, si renderà 
                  responsabile di sistematiche quanto atroci torture nel corso 
                  dell’occupazione coloniale dell’Algeria (1954-’62). 
                  Da parte loro, la borghesia e la monarchia inglese, ad esempio, 
                  si sono sempre vantate del fatto che nel loro paese la tortura 
                  non sia mai stata praticata, in quanto non legalmente riconosciuta 
                  dalla Common Law; sappiamo invece fin troppo bene di cosa è 
                  stato capace l’imperialismo britannico non solo nelle 
                  guerre e nelle dominazioni coloniali, ma anche in Irlanda del 
                  Nord nella repressione ai danni degli indipendentisti repubblicani. 
                  Stesso dicasi per gli Stati Uniti dove la pratica della tortura 
                  non solo non si è esaurita con la fine dello schiavismo, 
                  ma ha visto nel secondo dopoguerra la sua ininterrotta pianificazione 
                  nei centri d’addestramento militare come una qualsiasi 
                  altra materia di carattere tecnico, seguita dalle atroci applicazioni 
                  sul campo e sui corpi in Corea, Vietnam, America Latina, Irak, 
                  Afghanistan... 
                  Cesare Beccaria un ingenuo utopista? 
				  
                La stessa Italia democratica che oggi si appresta a commemorare 
                  la prima edizione del “Dei delitti e delle pene”, 
                  come riprova della propria civiltà giuridica, a tutt’oggi 
                  non ha ancora introdotto il reato di tortura nel codice penale 
                  e non ha abolito l’ergastolo, dopo essersi presto assolta 
                  per le torture e gli stupri perpetrati – e fotografati 
                  – dai parà italiani in Somalia durante la missione 
                  Restore Hope (1992-’94), per non parlare di quanto avvenuto 
                  a Napoli e Genova nel 2001 o degli “eccessi” compiuti 
                  in Val di Susa ai danni degli e delle attiviste No Tav.. 
                  Un presente che se da un lato può far apparire Beccaria 
                  un ingenuo utopista, dall’altro conferma gli sviluppi 
                  della sua critica che sono stati ritrovati alcuni anni fa sotto 
                  forma di suoi appunti in calce ad una copia dei suoi scritti, 
                  editi a Livorno dall’Editore Aubert nel 1766. 
                  In queste annotazioni si scorge l’intenzione di Beccaria 
                  di riscrivere la sua opera, giungendo ad una critica radicale 
                  della pena e del controllo sociale degli individui, al punto 
                  che qualcuno è giunto ad alludere ad un “Beccaria 
                  anarchico”. 
                  Confermando la già nota difesa dell’individuo contro 
                  il potere statuale, viene sottolineato come il controllo sociale 
                  e il diritto a punire di cui le istituzioni detengono il monopolio 
                  è ammesso solo per quel tanto che le persone sono consapevolmente 
                  disposte a sacrificare della propria libertà. Inoltre 
                  e soprattutto, affrontando la questione della pena di morte, 
                  Beccaria intuisce che la vita non può essere separata 
                  dal soggetto vivente, trattata come un oggetto, ossia posta 
                  di fronte a colui che vive in modo tale da poter creare tra 
                  se e questa cosa un rapporto di effettiva proprietà. 
                  E proprio perché l’individuo non può separarsi 
                  dalla propria vita, è per lui impossibile cederla come 
                  se fosse una sua proprietà nelle mani dello Stato. Il 
                  ragionamento si chiude quindi con la radicale messa in discussione 
                  del diritto delle istituzioni di limitare o addirittura sopprimere 
                  la vita, per il semplice fatto che questo diritto non può 
                  venir loro trasferito dagli individui. 
                  In altre parole, se l’individuo può privarsi solo 
                  di ciò di cui è proprietario, nessuno è 
                  padrone di vendersi, anima e corpo, come una merce, rendendosi 
                  così proprietà dell’altro, suo schiavo. 
                  Da qui, nella consapevolezza che non esiste libertà nella 
                  scelta di farsi schiavizzare, tanto meno è ammissibile 
                  che un individuo si sottometta all’arbitrio dello Stato 
                  nel disporre della sua vita e della sua morte. 
                  In tale riflessione che vede Beccaria distinguersi da altri 
                  teorici della democrazia, sostenitori del primato del collettivo 
                  e quindi dello Stato sull’individuo, è così 
                  possibile ritrovare le questioni fondanti del pensiero antiautoritario 
                  nei confronti dell’istituzione della giustizia, ritenuta 
                  alla stregua di un alibi della punizione, identificando – 
                  attraverso le parole di Rafael Sanchez Ferlosio – “i 
                  giudici, l’avvocato difensore e il pubblico ministero 
                  come il personale di servizio del boia”. 
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