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				 abitare 
                  
                Di chi è la terra? 
                  
                di Colin Ward  
con nota a margine di Francesco Codello 
                    
                Da un'analisi storica della relazione tra campagna e classi sociali, vent'anni fa l'architetto, urbanista e militante anarchico inglese traeva spunto per considerazioni che mantengono la loro validità di fondo in altri tempi e luoghi. 
                 
                  Anche se all'inizio ebbe una scarsa risonanza, la frase “La 
                  proprietà è un furto” è diventata 
                  una delle più citate del diciannovesimo secolo, sbandierata 
                  da anarchici e conservatori, presa a prestito da socialisti 
                  e comunisti, appesa come un manifesto a sensazione sopra il 
                  ritratto del suo autore. L'ironia è che Proudhon non 
                  aveva inteso esprimere letteralmente quel concetto, ma semplicemente 
                  dare una certa enfasi al proprio discorso... Denunciava l'uso 
                  della proprietà da parte di chi se ne serviva per sfruttare 
                  il lavoro altrui, senza nessuno sforzo da parte sua, la proprietà 
                  che si distingue per l'interesse, l'usura e la rendita, per 
                  il prevalere dei non produttori sui produttori. Nei confronti 
                  della proprietà intesa come “possesso”, il 
                  diritto di un uomo di controllare la propria abitazione, la 
                  terra e gli strumenti che gli servono per lavorare e per vivere, 
                  Proudhon non nutriva nessuna avversione: la considerava come 
                  un architrave essenziale della libertà e la sua critica 
                  principale verso i comunisti riguardava appunto la volontà 
                  di distruggerla da parte loro. 
                 Gorge Woodcock, Pierre-Joseph Proudhon: A 
                  Biography  
                 Nel settembre 1969 noi tutti applaudimmo quando la frase di 
                  Proudhon, La proprietà è un furto comparve 
                  a lettere alte un metro sul muro del 144 di Piccadilly, un ex 
                  residenza reale. Gli occupanti furono fatti sgomberare e lo 
                  slogan venne cancellato. Siccome la Corona e la famiglia reale 
                  inglese posseggono pezzi della Gran Bretagna più di chiunque 
                  altro, quella frase risultava appropriata in modo in equivoco 
                  ed evidente a chiunque. 
                  Ovviamente c'è sempre stata una distinzione tra le occupazioni 
                  come espressioni di lotta politica, da quella di Winstanley 
                  e dei Digger a St George's Hill, nel Surrey, nel 1649 fino alla 
                  recente di The Land is Ours a Wandsworth nel 1996, e 
                  le occupazioni come soluzione personale di un problema abitativo. 
                  Nel primo caso si vuole essere notati per motivi propagandistici, 
                  nel secondo la speranza è di restare invisibili e mimetizzarsi 
                  nel paesaggio. Data l'idea generale che si ha del movimento 
                  delle occupazioni, è sempre stato un paradosso che, come 
                  gli occupanti nel villaggio di Herefordshire sognavano di garantire 
                  i diritti ai propri figli per testamento, così il tipico 
                  squatter contemporaneo spera di avere la certezza di 
                  un contratto di affitto. 
                  È possibile che chi teorizza la rivoluzione sia contrariato 
                  per l'abisso che esiste tra la retorica delle parole e la vita 
                  di ogni giorno, a causa della strana incapacità di distinguere 
                  tra la proprietà del signore e quella del contadino. 
                  “Nessuno” sollecitava Winstanley “deve avere 
                  più terra di quella che può lavorare da solo o 
                  insieme ad altri che lavorino con lui per affetto, spartendo 
                  con lui la fatica e il pane.”² È appunto questa 
                  la differenza tra l'appropriazione di terre da chi le occupa 
                  e da chi le chiude con una recinzione. 
                  In molte culture si tramanda che la terra era un tempo di proprietà 
                  comune. “Il signore è padrone dei contadini, ma 
                  in contadini sono padroni della terra” dice un vecchio 
                  proverbio russo dei tempi in cui i proprietari terrieri misuravano 
                  la propria ricchezza in “anime”, e la presa delle 
                  terre da parte dei contadini nel 1917 precedette la presa del 
                  potere da parte dei bolscevichi. Ricorda David Mitrany: 
                   
                  Il crollo del vecchio regime era stato come l'incrinatura di 
                  una diga, attraverso la quale era filtrato un piccolo rivolo 
                  che si era trasformato un una corrente impetuosa di azione rivoluzionaria 
                  spontanea. I contadini cominciarono d'improvviso a prendere 
                  con la forza ampie proprietà e boschi: il numero delle 
                  occupazioni aumentava di mese in mese: 17 in marzo, 204 in aprile, 
                  259 in maggio, 577 in giugno, fino a 1.122 in luglio. Si è 
                  calcolato che nei primi due anni i contadini di trentasei distretti 
                  abbiano preso l'86 per cento dei latifondi e l'80 per cento 
                  degli strumenti per coltivare: le terre coltivabili nelle loro 
                  mani aumentarono dall'80 al 96,8 per cento. 
                   
                  Retrospettivamente, gli anni d'oro del Novecento sovietico sono 
                  stati gli anni venti, quando “era possibile trovare soluzioni 
                  che consentivano alle famiglie contadine di formare cooperative 
                  e conservare le proprie terre, le proprie case e macchinari 
                  separati dagli altri, e tenere per sé i guadagni”, 
                  come scrive lo storico Robert Service, che però nel capoverso 
                  successivo osserva: “L'idea che i contadini decidessero 
                  per proprio conto era una bestemmia per Stalin.” Alla 
                  fine del decennio la collettivizzazione di massa distrusse il 
                  mondo contadino. “Il prezzo fu spaventoso. Nel biennio 
                  1932-33 perirono probabilmente tra i quattro e i cinque milioni 
                  di persone in seguito alla ‘liquidazione dei kulaki come 
                  classe' e all'ammasso del grano.” 
                  Poiché i cittadini dell'Unione Sovietica e poi dei paesi 
                  satelliti non avevano la possibilità di discutere quella 
                  terribile lezione, dovettero emergere soluzioni alternative 
                  per la produzione alimentare, che poi trovarono la possibilità 
                  di emergere all'interno della politica ufficiale. Alla fine 
                  fu permesso ai contadini di coltivare “appezzamenti privati” 
                  e questi furono la salvezza per le disponibilità alimentari 
                  della Russia. 
                  Nel 1963 gli appezzamenti privati coprivano circa 44.000 chilometri 
                  quadrati, circa il 4 per cento di tutti i terreni arabili delle 
                  fattorie collettive. Da quelle terre “private”, 
                  però, viene circa la metà dei vegetali prodotti 
                  nell'URSS e vi si trovano il 40 per cento dei bovini e il 30 
                  per cento dei suini del paese. 
                  Esiste un parallelo tra quello che sosteneva Winstaley, cioè 
                  che i guai dell'Inghilterra derivavano dalla conquista normanna 
                  e dall'affermazione che tutta la terra appartenesse al Re, e 
                  quanto pensavano milioni di cittadini sovietici: che essi avevano 
                  il diritto di colonizzare piccoli appezzamenti perché 
                  qualcuno aveva raccontato a loro che sarebbero stati restituiti 
                  al popolo. In Inghilterra, come spiega Oliver Rackham, 
                   
                  Guglielmo il Conquistatore introdusse la dottrina non inglese 
                  secondo la quale la terra in definitiva appartiene alla Corona. 
                  Era un aspetto del nuovo e supremo ruolo del sovrano, per cui 
                  egli aveva il diritto di tenere selvaggina su terre altrui, 
                  idea che sta alla base del sistema della Foresta. 
                   
                  Lo stesso aspetto, spesso trascurato, è stato sottolineato 
                  da Simon Shama: 
                   
                  Tali “foreste” potevano essere, ed erano imposte 
                  su grandi aree della campagna inglese, compresa l'intera contea 
                  dell'Essex, dove non c'erano boschi e che includeva tratti di 
                  pascolo, prati, terre coltivate e perfino città. 
                
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Colin Ward con la moglie Harriet  | 
                   
                 
                 
			Ma i ricchi vanno in campagna 
			Proprio come i poveri senza terra dell'Inghilterra medievale 
                  aspiravano ad appezzamenti marginali in terre deserte da poter 
                  colonizzare, così l'economista Hugh Stratton riferisce 
                  come nell'Unione Sovietica degli anni settanta “i residenti 
                  nelle città russe, in modo commovente, perlustravano 
                  le campagne in cerca di appezzamenti trascurati da coltivare, 
                  visitare, vivere come loro proprietà, per quanto minuscole. 
                  I loro padroni, che possedevano tutto proprio come i padroni 
                  dei tempi di Marx, scoraggiavano quella pratica piccolo-borghese”. 
                  Ma con il crollo graduale del regime sovietico, già nel 
                  1985 si riferiva: 
                  Per il cittadino russo medio, sembra che il primo simbolo dell'era 
                  di Gorbaciov sarà un'assegnazione di terreni. Il Politburo 
                  ha autorizzato una serie di misure destinate ad aumentare il 
                  numero di orti privati, numero che si è già dimostrato 
                  insufficiente a fronte di una domanda crescente... Una volta 
                  che l'appezzamento è stato vangato e zappato, dopo la 
                  semina e il raccolto di ortaggi, i proprietario è autorizzato 
                  a impiantarvi un capanno e, con un po' di fantasia nell'interpretazione 
                  delle regole, il capanno si trasforma in una piccola dacia... 
                  In tutti i paesi dell'Europa dell'Est ci sono stati fenomeni 
                  simili a quello sovietico. I visitatori occidentali nelle città 
                  polacche, ceche, ungheresi, rumene, bulgare e iugoslave potevano 
                  notare un paesaggio fatto di orti e di chalet autocostruiti 
                  lungo le strade dall'aeroporto al centro città. Così 
                  lo descrive Ian Hamilton: 
                   
                  La presenza di terreni di proprietà di agricoltori ai 
                  margini delle città offre le possibilità di una 
                  graduale evoluzione, anzi di una crescita “come funghi” 
                  di “insediamenti selvaggi”, come a Nowy Dwor fuori 
                  Varsavia o a Kozarski Bok e Trnje ai margini di Zagabria... 
                   
                  Più dalle nostre parti il sistema di gestione del territorio 
                  britannico, costruito intorno ai Town and Country Planning Acts 
                  – le leggi urbanistiche e territoriali approvate da enti 
                  locali democraticamente eletti, è stato molto più 
                  efficace nell'escludere i poveri di città dall'hinterland 
                  rurale. L'applicazione delle norme sulla progettazione, la costruzione 
                  e la sanità ha assicurato un'eliminazione, senza spargimento 
                  di sangue, della classe contadina sopravvissuta nelle campagne 
                  inglesi. Ho citato altrove lo storico L.C.T. Rolt, che negli 
                  anni settanta descriveva i cambiamenti cui aveva assistito nell'Inghilterra 
                  occidentale, dove chi abitava in case di campagna era diventato 
                  locatario di edilizia pubblica. 
                  La borghesia locale disprezzava quei brutti casermoni comunali 
                  e faceva battute sugli abitanti, che avrebbero tenuto il carbone 
                  nella vasca da bagno. Gli assegnatari, invece, erano tutti emozionati 
                  per avere non solo una stanza da bagno, ma anche un gabinetto, 
                  camere abbastanza spaziose e senza umidità, offerte non 
                  dai vecchi proprietari dei latifondi. Sotto il regime della 
                  Thatcher, però, i comuni non sono stati solo costretti 
                  a vendere i propri immobili, ma è stato loro impedito 
                  di utilizzare i proventi per costruirne di nuovi. Questo fatto, 
                  oltre al mutato atteggiamento che considera ogni nuovo edificio 
                  (tranne le case rurali, grazie all'influenza politica della 
                  lobby degli agricoltori) uno sfregio al paesaggio, si somma 
                  al problema per cui il permesso di costruzione moltiplica per 
                  dieci il valore di un terreno rurale. Il risultato è 
                  che i giovani delle famiglie locali hanno poche possibilità 
                  di mettere su casa per conto proprio e vanno in affitto nella 
                  città più vicina, mentre i nuovi occupanti di 
                  quei pittoreschi cottage sono in prima linea nelle campagne 
                  di preservazione dei villaggi, perché, come ha più 
                  volte spiegato il professor Gerald Wibberley, vogliono che il 
                  proprio villaggio resti esattamente com'era il giorno in cui 
                  hanno scelto di trasferirsi lì. 
                  In uno dei suoi numerosi articoli, Mark Shucksmith, ha descritto 
                  come l'Inghilterra rurale è stata trasformata in una 
                  campagna esclusiva dove possono permettersi di vivere solo persone 
                  benestanti: 
                   
                  Le ricerche ci dicono che la progressiva “borghesizzazione” 
                  dell'Inghilterra rurale è destinata a continuare, perché 
                  i proprietari più ricchi escludono i gruppi più 
                  poveri a causa della scarsità di abitazioni e la “esclusione 
                  sociale” diventa così anche una “esclusione 
                  geografica”. Una pianificazione che ridia spazio a un'offerta 
                  di abitazioni a prezzi ragionevoli è fondamentale per 
                  sostenere le comunità rurali e per cambiare l'esistenza 
                  di tante persone. 
                  L'effettivo contrasto a tale situazione, in cui solo i benestanti 
                  con doppio box per l'auto e il SUV possono abitare in campagna, 
                  è venuto non da movimenti politici, ma da persone che 
                  aspirano a procurarsi parte del cibo in piccoli appezzamenti 
                  di terreno e che sostengono con calore l'impegno del governo 
                  per uno sviluppo sostenibile approvato al Summit di Rio nel 
                  1972. Simon Fairlie faceva parte di un gruppo di amici che affitto 
                  una casa nell'Inghilterra occidentale con un grande giardino 
                  su terreni agricoli, ma che fu sfrattato per lasciare posto 
                  a un campo di golf. Dopo avere abitato in un camper per due 
                  anni, si unì a un altro gruppo e acquistò una 
                  piccola tenuta priva di abitazioni. Con gli amici piantò 
                  sette tende e cominciò a coltivare. Il risultato fu, 
                  da come racconta, che “nei due anni da quando ci siamo 
                  trasferiti sulla nostra terra, abbiamo dovuto attraversare tutta 
                  la trafila burocratica: delibera della commissione, ordinanza 
                  applicativa, notifica di fermo lavori, applicazione dell'articolo 
                  4, approvazione di cui alla Sezione 106, appello, convocazione 
                  del Segretario di Stato, valutazione a norma di legge presso 
                  l'Alta Corte. Il tutto per sette tende!” 
                  Alla fine, Fairlie e i suoi amici si sono conquistati il dritto 
                  a restare, ma altri insediamenti, come quello della comunità 
                  di ex-alcolisti di King's Hill, hanno dovuto battagliare con 
                  la legislazione e anche loro hanno avuto il diritto a restare. 
                  Il caso di Fairlie è interessante, non solo come precedente, 
                  ma perché ha introdotto a un coinvolgimento importante 
                  nel dibattito sulla gestione del territorio. Il suo scopo non 
                  era di demonizzare i meccanismi della pianificazione. Fairlie 
                  ci crede, perché sa che senza piano del territorio, la 
                  speculazione avrebbe completato la devastazione delle campagne, 
                  sovvenzionata da anni per distruggere boschi, campi, piante 
                  e animali selvatici. 
			Braccianti e squatter ai margini della storia 
			    Nella Town and Country Planning Summer School di Lancaster, nel 
                  1993, sir Richard Body, agricoltore e poi parlamentare del partito 
                  conservatore, aveva rivelato: “L'intensificazione delle 
                  attività agricole negli ultimi 25 anni è proceduta 
                  più rapidamente e in modo più disordinato nel 
                  Regno Unito rispetto a ogni altro stato membro della Comunità 
                  Europea.” Al pubblico di urbanisti lesse quella che definì 
                  “la triste litania di statistiche dei guasti inflitti 
                  all'ambiente rurale dai sussidi pubblici agli agricoltori”, 
                  che comprendeva: 
                   
                  130.000 miglia (210.000 chilometri) di filari di siepi strappate 
                  scomparsa del 40 per cento delle nostre superfici boschive 
                  Sette milioni di acri (2,8 milioni di ettari) di terreni da 
                  pascolo convertiti in arativo 
                  Oltre il 95 per cento di terre umide prosciugate 
                  875 miglia (1.410 chilometri) di muri in pietra demoliti 
                  95 per cento dei terreni collinari del sud persi per l'agricoltura 
                  180.000 acri (73 ettari) di brughiera convertiti in arativo 
                   
                  Continuò affermando che lo rendeva furente, al pari degli 
                  altri osservatori, il fatto che dopo avere sovvenzionato i proprietari 
                  di terreni agricoli perché facessero tutti quei danni 
                  in nome dell'aumento della produzione alimentare, ora stiamo 
                  “pagando gli agricoltori perché gestiscano le campagne 
                  per tutelare l'ambiente rurale”. 
                  Negli ultimi anni del secolo passato i cambiamenti nella politica 
                  di sovvenzioni, motivati dalle imbarazzanti “montagne 
                  di cibo” in Europa, hanno limitato i redditi dei proprietari 
                  di terreni agricoli, che erano stati gonfiati per decenni, e 
                  fatto emergere una “lobby agricola” che proclamava 
                  che il paesaggio rurale era messa a rischio da cittadini ignoranti 
                  che non riuscivano a capire i metodi tradizionali dell'agricoltura. 
                  Non è rimasto a Peter Hall e a chi scrive di indicare 
                  l'evidenza delle statistiche ufficiali che dimostravano come 
                  la quantità di terreni agricoli accantonati dalla politica 
                  agricola europea e abbondantemente sovvenzionati per non produrre 
                  niente era pari a tre volte la superficie necessaria per accogliere 
                  tutto lo sviluppo urbano previsto in Gran Bretagna per i prossimi 
                  venticinque anni. 
                  I fatti che riguardano l'Inghilterra rurale sono una silenziosa 
                  testimonianza del modo in cui i ricchi, perorando la causa della 
                  tutela delle campagne, hanno badato ad escluderne i poveri. 
                  L'immenso valore delle mobilitazioni legate a The Land is Ours 
                  sta nel fatti che in pratica da soli i suoi attivisti hanno 
                  riaperto il dibattito sulla questione centrale per noi tutti, 
                  per il solo fatto di essere nati su questa terra, di godere 
                  del diritto di accedere a una modesta quota di essa. Il gruppo 
                  Rural Planning di quella campagna è noto con il nome 
                  di “Capitolo 7”, perché quella parte dell'Agenda 
                  21 per la “Promozione di insediamenti umani sostenibili” 
                  contiene una serie di affermazioni, la prima delle quali spiega 
                  che “l'obiettivo è di dare accesso alla terra a 
                  tutte le famiglie... attraverso una pianificazione valida dal 
                  punto di vista ambientale”. 
                  Il capitolo 7A dello stesso documento, che mette in primo piano 
                  la giustizia sociale, dichiara inoltre: “Tutti i paesi 
                  dovrebbero per quanto è possibile sostenere gli sforzi 
                  per dare un tetto ai poveri delle città e delle campagne, 
                  adottando e/o adattando le norme e i regolamenti esistenti per 
                  favorire l'accesso al finanziamento e ai materiali da costruzione 
                  a basso costo.” 
                  Il capitolo 7G ricorda gli obiettivi di quelli del movimento 
                  Arts and Crafts di un secolo fa, come William Richard Lethaby, 
                  che voleva abitazioni rurali che “spuntassero come allodole 
                  dai solchi”. Infatti il capitolo dichiara: 
                   
                  Tutti i paesi dovrebbero rafforzare l'industria locale di materiali 
                  da costruzione, basata per quanto possibile sugli apporti delle 
                  risorse naturali disponibili sul posto... promuovere l'uso di 
                  metodi di costruzione con alto contenuto di manodopera... sviluppare 
                  politiche e pratiche per arrivare al settore informale e alle 
                  pratiche di autocostruzione... scoraggiare l'uso di materiali 
                  da costruzione e prodotti che inquinino nel loro ciclo di vita. 
                   
                  Il governo inglese si è impegnato in questo senso attraverso 
                  la firma apposta dal governo precedente alla Dichiarazione di 
                  Rio del 1992 e questo comporta anche l'impegno riguardo al concetto 
                  (al Capitolo 7C) di “accesso alla terra per tutte le famiglie... 
                  attraverso una pianificazione valida dal punto di vista ambientale”. 
                  Non ci sono molte tracce di un'accettazione di questi principi 
                  nelle “Note guida per la politica di piano” che 
                  il governo trasmette agli organismi locali di pianificazione. 
                  Ci sono invece segnali, non che queste autorità abbandonino 
                  le politiche di sperpero del passato, ma che, con l'incentivo 
                  in più dell'adeguamento della legislazione britannica 
                  alla Convenzione europea per i diritti umani, esse siano costrette 
                  ad adattare il sistema della pianificazione alle persone indicate 
                  al Capitolo 7 – quelle che “si scelgono una propria 
                  abitazione in edifici autocostruiti, in case mobili, furgoni, 
                  tende o capannoni senza spese per i contribuenti e più 
                  o meno in contrasto con i piani di territorio”. 
                  Il riconoscimento, quando avverrà, sarà l'ultimo 
                  gesto nei confronti di braccianti e squatter che si sono fatti 
                  un'abitazione ai margini della storia. 
                 Colin Ward 
                  traduzione di Guido Lagomarsino 
                  
                  
                 
                  
                  Quel suo stile pragmatico 
                 
                 
                  Questo scritto di Colin Ward, che qui proponiamo, è l'ultimo 
                  capitolo (The Land is whose?) di un più ampio 
                  lavoro Cottiers and Squatters. Housing's Hidden History (Five 
                  Leaves Publications, Nottingham, 2002). In questo libro Ward 
                  evidenzia, come abitualmente fa nei suoi diversi lavori, il 
                  modo non ufficiale, inusuale, alternativo, in cui gli esseri 
                  umani hanno usato e usano l'ambiente (in questo caso specifico 
                  quello rurale. Un posto particolare il nostro autore lo assegna 
                  al fenomeno degli squatters cui origini vengono individuate 
                  fin dai tempi delle rivolte dei Diggers durante la rivoluzione 
                  industriale del sei-settecento inglese. 
                  La scrittura di Ward è, come sempre, fluida, ricca di 
                  aneddoti, di esempi concreti, e ci introduce in un ambito veramente 
                  interessante e alternativo di stare nei contesti storico-geografici, 
                  in questo modo l'evidenza di una possibile e concreta azione 
                  di mutamento radicale della realtà, appare come “naturale” 
                  e in grado di essere sperimentata subito senza attendere il 
                  totalmente altro. 
                  Anche in questo caso dunque, riprendendo il suo anarchismo, 
                  egli capovolge la logica tradizionale e rivoluzionaria dell'anarchismo 
                  cercando di evidenziare che le alternative non solo sono possibili 
                  ma, per certi aspetti, esistono già “come seme 
                  sotto la neve”. 
                  Nello specifico di questo testo poi vengono posti alcuni problemi 
                  che meriterebbero un approfondimento e una discussione ancor 
                  oggi: il rapporto tra proprietà e possesso (ricordate 
                  Proudhon?), in particolar modo della terra, la relazione deviata 
                  di stampo ideologico nel concepire il rapporto uomo e natura, 
                  il tema e le pratiche di autocostruzione, il rapporto città-campagna 
                  (ricordate Kropotkin?), ecc. Argomenti che, come si vede, interessano 
                  l'oggi e dovrebbero essere ripresi e riaffrontati. 
                  Come sempre Ward, con uno stile molto pragmatico e ricco di 
                  dati e riflessioni attuali, ci sottolinea aspetti del nostro 
                  vivere quotidiano che, magari distrattamente, non consideriamo 
                  importanti ma che in realtà sono vitali da affrontare, 
                  per chiunque voglia seriamente porsi l'orizzonte del cambiamento 
                  a portata di mano e non in una prospettiva lontana e per questo 
                  poco credibile. 
                 Francesco Codello 
                 
                 
                
                   
                    Alcuni 
                        libri di Colin Ward 
                       | 
                   
                   
                    La 
                        casa editrice Eleuthera 
                        ha pubblicato, nel corso degli anni, vari libri di Colin 
                        Ward. 
                        Eccone alcune delle copertine. 
                         
                         
                        elèuthera 
                        via rovetta 27 - 20127 milano 
                        tel. 02 26 14 39 50 fax 02 28 46 923 
                        eleuthera@eleuthera.it 
                        eleuthera.it 
						
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