intervista 
                 
                Il sonno del drago genera rivoluzione 
                  
                intervista a Gianni Milano di Laura Antonella Carli 
                   
                 
                La poesia è un epitaffio, la fama è un ferro arricciacapelli e il mercato è come il mago di Oz: conversando con Gianni Milano, poeta e pedagogista piemontese. 
                 
                 
                  «Lei è anarchica?» 
                  mi domanda Gianni Milano, venendomi incontro sul ballatoio della 
                  sua casa di ringhiera a Torino. È un tipo di abitazione 
                  che gli si addice: gli permette di intrattenere rapporti più 
                  personali del cordiale “buon vicinato” e avere sempre 
                  intorno gente con cui scambiare chiacchiere, opinioni o ricette 
                  di cucina. I musulmani del condominio lo chiamano “zio”, 
                  un epiteto di rispetto, dice, dovuto ai suoi capelli bianchi. 
                  A lui fa sorridere collegare il termine con la tradizione piemontese, 
                  per cui “barba” vuol dire appunto zio e si usa per 
                  una persona che merita rispetto (Barba Gianni racconta, 
                  non a caso, è il titolo di una sua raccolta di novelle). 
                  «Il piemontese – spiega – è una lingua 
                  di castagne: è dolce, non ha suoni bruschi, è 
                  molto contadina, dimensionata. Ma è anche una lingua 
                  un po' bigotta, edulcorata...» 
                  La sua casa è grande, vissuta, piena di cose. I muri 
                  sono decorati con quadri, riproduzioni di opere famose – 
                  tra i suoi preferiti Rousseau e Modigliani – e fotografie. 
                  Più di tutto attira l'attenzione la biblioteca: i libri 
                  sono presenti in ogni stanza, tra di essi anche qualche raro 
                  cimelio del panorama underground italiano degli anni sessanta, 
                  ma il soggiorno è letteralmente dominato dalla fornitissima 
                  libreria che arriva quasi fino al soffitto. L'interesse premuroso 
                  che dedica ad amici e vicini di casa lo riserva anche a me: 
                  mi offre un buon pranzo vegetariano, a base di pasta alle cime 
                  di rapa – ricetta di una sua vicina pugliese –, 
                  accompagnato da buon vino piemontese. Dopo il caffè iniziamo 
                  la nostra chiacchierata, che ruota sostanzialmente intorno a 
                  tre temi cardine – pedagogia, poesia e anarchia – 
                  strettamente connessi e fittamente intrecciati in una visione 
                  olistica della realtà, che si contrappone all'immagine 
                  parcellizzata e specialistica che molto spesso domina il nostro 
                  modo di concepire la vita e di organizzare la nostra formazione. 
                   
                    Pedagogia
                
  Chiedo a Gianni di iniziare dalla sua tesi di laurea: Per 
                  un'educazione libertaria: la A-pedagogia. Gianni va a prendere 
                  la tesi, la sfoglia, legge dalla premessa... 
                  «La mia tesi voleva porsi in un'ottica inconsueta, non 
                  deterministica e non finalistica: un lavoro aperto, perché 
                  ogni tentativo di chiudere, di raggiungere un fine non può 
                  che portare al radicarsi di altri schemi e modelli. Il primo 
                  capitolo è una riflessione-spiegazione sui termini: educazione, 
                  libertà, pedagogia.» Legge dal documento: «È 
                  nel carattere di questa tesi non accettare le formulazioni consuete, 
                  frutto del sistema nel quale viviamo, senza averle prima sottoposte 
                  a delle critiche, onde far saltar fuori la contraddizione di 
                  fondo o la politica mistificatrice che le sottende». «Alla 
                  parola “educazione” – spiega – preferisco 
                  “allevamento”, ovvero: “la somma di cure che 
                  interessano un cucciolo affinché egli possa crescere, 
                  sviluppando in pieno le sue caratteristiche e le sue facoltà”. 
                  È un termine connotato più negativamente, perché 
                  riferito al mondo animale, partendo dal presupposto che l'uomo 
                  è un essere privilegiato, che non può essere allevato 
                  ma educato, cioè “condotto fuori”, probabilmente 
                  dal suo stato infantile o animale pre-educativo. In quest'ottica 
                  l'essere umano però è visto come imperfetto nella 
                  prospettiva di un modello finale in cui identificarsi, invece 
                  l'allevamento permette al cucciolo animale di realizzarsi completamente 
                  in base alle caratteristiche della sua specie.» 
                   
                  Però il titolo della tua tesi parla di “pedagogia 
                  libertaria”: cosa intendi? 
                  «La pedagogia può essere libera, quando non subisce 
                  condizionamenti dall'esterno, può essere liberatrice 
                  quando apre le porte della prigione psichica dando la possibilità 
                  all'individuo di realizzarsi, ma un'opera educativa è 
                  libertaria quando, incorporando le altre due qualità, 
                  si sostanzia nella sua messa in azione permanente, per cui non 
                  è più possibile affermare la distinzione tra un 
                  momento educativo e uno non educativo. L'educazione libertaria 
                  diventa una sorta di autocoscienza permanente che agisce a livello 
                  di relazioni indirette e non più a livello di indottrinamento, 
                  di trasmissione autoritaria dal più sapiente al meno 
                  sapiente.» 
                   
                  (Sfoglio l'elaborato a mia volta) La tua è una 
                  tesi inequivocabilmente anarchica: chiudi addirittura citando 
                  Bakunin... Non hai avuto nessun problema a fartela accettare? 
                  «110 e lode. Per me è stato un gran divertimento 
                  perché ho fatto una tesi anarchica e il sistema, seguendo 
                  le proprie regole, è stato obbligato a premiarmi.» 
                   
                  Quando ti sei laureato, tu già insegnavi. Parlami 
                  del tuo lavoro pratico di maestro, del tipo di didattica che 
                  utilizzavi e dei riferimenti (non modelli!) che hai utilizzato. 
                  «La mia didattica era basata sull'ascolto dei bambini, 
                  sul far emergere i loro desideri. Gli ostacoli ai desideri sono 
                  i problemi e i problemi vanno risolti, quindi la didattica si 
                  impernia sulla risoluzione dei problemi. 
                  Tra i miei riferimenti c'è il pedagogista francese Freinet, 
                  morto nel '65, che io avevo conosciuto quando ero più 
                  giovane e che parlava di cooperazione tra i bambini e tra i 
                  bambini e gli adulti, quindi la conoscenza nasceva dalla cooperazione 
                  e non dalla consegna da parte dell'insegnante al bambino. 
                  Altro riferimento: un americano dell'inizio del '900, Kilpatrick, 
                  (sorride) – che è un nome irlandese che 
                  vuol dire “ammazza Patrizio” – il quale aveva, 
                  nell'ambito della riflessione sull'educazione democratica di 
                  John Dewey, elaborato una didattica che eliminava le materie. 
                  Io sono d'accordo con lui: la realtà non è divisa 
                  in materie, è olistica, è complessa. Ma complesso 
                  non è sinonimo di complicato. Se vuoi spezzettare la 
                  vita in materie, allora diventa complicata e difficile da apprendere. 
                  Kilpatrick aveva elaborato “il metodo dei progetti”, 
                  per cui si stabiliva un progetto dei più svariati, anche 
                  solo “come raggiungere la scuola”. Una volta individuate 
                  le difficoltà che dovevano risolvere per realizzare il 
                  progetto, i bambini potevano rivolgersi a tutto: a libri, insegnanti, 
                  specialisti... ma senza divisione in materie: era una ricerca 
                  molto olistica, appunto.» 
                   
                  Quindi mai lezioni frontali... 
                  «No, mai... poi da un progetto ne nasceva un altro... 
                  Contemporaneamente avevo introdotto il “pittodramma”, 
                  ispirato ai murales del Cile, per cui ogni progetto veniva subito 
                  visualizzato con pitture su grandi superfici. 
                  Ogni pittura rappresenta un problema, ogni problema emana un'emozione, 
                  così avevamo individuato i colori delle emozioni, per 
                  cui prima di partire a dipingere la storia si dipingeva il fondale 
                  del colore dell'emozione dominante. Il fondale innanzitutto 
                  si doveva asciugare, quindi c'erano diverse tappe, non era “il 
                  gesto spontaneo”, era un gesto ragionato da parte della 
                  collettività, della tribù classe. Una volta che 
                  si erano dipinte le figure poi, diverse squadre intervenivano, 
                  magari con il colore a cera, per ritoccare, aggiungere le ciglia 
                  la barba... (era buffo perché le bambine facevano sempre 
                  dei ciglioni...) Insomma, si vestiva la pittura. Quando era 
                  pronto, si attaccava alla parete e ci si riuniva tutti a commentarlo, 
                  e da lì nascevano altre domande. 
                  Infatti io dico, una pedagogia valida è una pedagogia 
                  delle domande, non delle risposte. Le risposte non le avranno 
                  mai, perché l'ultima risposta definitiva, l'ultima certezza 
                  è la morte, e basta. E prima ogni apparente risposta 
                  è una preparazione a un'ulteriore domanda, come una scala 
                  in cui il primo scalino serve per accedere al secondo e così 
                  via...» 
                   
                  Non dovevate rispettare dei programmi didattici? 
                  «Non avevamo i programmi, ma bisognava essere furbi, non 
                  farsi schiacciare. Se sei un nativo – o un nativo bambino 
                  – devi evitare che ti schiacci la burocrazia: il direttore 
                  didattico, papà, mamma... e non è facile. Siccome 
                  non facevamo lezioni frontali perché non avevamo programmi, 
                  dovevamo comunque essere in grado – quello era compito 
                  mio – di dimostrare che quello che facevamo noi superava 
                  i programmi, andava ben oltre.» 
                   
                  Le vostre lezioni si svolgevano anche molto all'aperto. 
                  Sei noto, ad esempio, per le gite in bicicletta... 
                  «Quando non avevamo niente da fare, allora prendevamo 
                  la bici e andavamo al fiume. L'idea era bruciare l'aula, che 
                  è una cella. È importante che la scuola porti 
                  il bambino nel mondo, che non lo sottragga al mondo. Per otto 
                  ore al giorno, per minimo otto anni il bambino è sottratto 
                  al mondo. Poi magari le maestre gli portano le foglie autunnali 
                  e le appiccicano alle pareti... 
                  Una volta abbiamo scritto una storia su pergamena, l'abbiamo 
                  messa in un baule, l'abbiamo battezzato con l'aranciata e a 
                  fine dell'anno l'abbiamo sepolta sull'“isola che non c'è”, 
                  ovvero l'isolotto di un torrentello che si trovava lì 
                  vicino e si poteva raggiungere con un salto. Abbiamo scavato 
                  con una vanga e l'abbiamo sotterrato. 
                  Il problema è rispettare i bambini e prenderli sul serio: 
                  quando da bambini diventano “scolari” non li rispetti 
                  più. I bambini sono persone e vanno ascoltati, altrimenti 
                  non puoi capirli. Io non sono più bambino da un bel po'. 
                  Certo, con la mia pratica continuo a restare anche bambino, 
                  ma il mio è un “essere bambino da adulto”. 
                  Invece loro sono bambini-bambini, sono aperti a tutte le curiosità 
                  e non puoi castrare il loro apprendimento: “Questa non 
                  è matematica”? Chi se ne frega! Per l'aritmetica, 
                  pensa, usavamo anche i cartoni animati. I Puffi e Gargamella 
                  ci servivano per le misurazioni, perché i Puffi erano 
                  alti “due mele o poco più”, quindi una spanna. 
                  E allora, per calcolare una distanza, si poteva misurare quanti 
                  Puffi ci stavano. Non corrispondeva al sistema metrico, però 
                  a noi serviva. Invece Gargamella, che era più alto, serviva 
                  per le distanze chilometriche, per esempio per andare a Torino. 
                  Quindi i calcoli si facevano, ma non erano basati sull'atteggiamento 
                  fideistico, erano basati sull'esperienza.» 
                   
                  E per quanto riguarda l'insegnamento dell'italiano?  
                  «Per la lingua non c'erano problemi perché avevamo 
                  una corrispondenza con dei bambini che abitavano in montagna. 
                  Per l'ortografia avevamo fatto un pino, dopo natale: era “l'albero 
                  delle parole nuove”. Quando imparavamo una parola nuova 
                  si scriveva su un bigliettino e si attaccava al pino, che quindi 
                  era tutto fiorito di cartellini. Era una visione poetica dell'apprendimento 
                  della lingua.» 
                   
                  Cosa rimproveri principalmente alla scuola di adesso? 
                  «La scuola, da quella dell'obbligo all'università 
                  è impositiva, non c'è il libero pensiero e manca 
                  il rispetto per lo stupore, che invece andrebbe incoraggiato 
                  perché fa scattare la molla della ricerca. Lo stupore 
                  a sua volta nasce da una lettura, per così dire minimalista. 
                  Immagina di essere una formica e guarda la vita dalla prospettiva 
                  di una formica, allora ti accorgi della sua complessità, 
                  della sua munificenza.» 
                   
                    Poesia
                  Tu scrivi poesie da tanti anni, sei passato per diversi 
                  mutamenti stilistici, ma l'esigenza di poetare non ti ha mai 
                  abbandonato...  
                  «Quando si parla di poesia bisogna andare alle radici 
                  del poetare. Quando gli esseri umani hanno cominciato a scrivere 
                  delle cose in un certo modo? La poesia, in origine, era cantata, 
                  accompagnata dalla cetra. Era orale, visionaria, non era descrittiva, 
                  era emotiva ed era accompagnata dal ritmo, perché il 
                  ritmo aiuta la memoria. Per esempio le epopee dei popoli nomadi 
                  che non hanno la scrittura sono tutte cantate. Pertanto la domanda 
                  che mi sono posto come poeta è: che cosa vuol dire scrivere 
                  poesie e che cos'è la poesia scritta? Io scrivo 
                  poesie per evocare qualcosa che non c'è più. La 
                  poesia deve sempre ringraziare Mnemosyne, la musa della memoria. 
                  Majakovskij diceva: “Quando volete scrivere una poesia 
                  di neve, scrivetela in estate. E quando cade la neve parlate 
                  del mare e della spiaggia”. Perché la poesia deve 
                  evocare, non è cronaca giornalistica, è un distillato, 
                  è come la grappa. Quindi la poesia è sempre un 
                  necrologio o meglio, è un epitaffio – quindi è 
                  malinconica, comunque. Al di là delle forme e degli stili 
                  ha sempre un fondo malinconico ed è un epitaffio perché 
                  è rivolta come preghiera a una situazione, a una realtà 
                  che più non c'è. Ed è sapienziale, perché 
                  riscopro ogni volta l'impermanenza della realtà (come 
                  dicevano gli antichi greci: panta rei). 
                  La poesia esprime questo sentimento di perdita, tenuto sotto 
                  controllo attraverso la convivialità dei non più 
                  presenti, che attraverso la poesia riconvochiamo per una sorta 
                  di consolatio. Quindi la poesia ha anche un valore terapeutico. 
                  A prescindere dai generi stilistici, la sostanza, a mio parere, 
                  è questa: la poesia è sempre una preghiera per 
                  i morti. E quindi chi scrive dovrebbe sempre essere rispettoso 
                  e non pensare solo alla propria gloria, che poi è sempre 
                  effimera, è come farsi i ricci con il ferro. 
                  Se la poesia è questo, anche la pedagogia libertaria 
                  è analoga: abbiamo dei bambini, fatti nascere con un 
                  gesto autoritario, in un mondo che non è stato fatto 
                  da loro, un mondo castrato, perché non è il mondo 
                  reale della natura, è un mondo di regole, il più 
                  delle volte assurde, che hanno in comune soltanto il fatto di 
                  essere funzionali al potere. Non tutte le piante per crescere 
                  hanno bisogno dello stesso terreno: c'è la vigna che 
                  necessita di un terreno acido, altre piante hanno bisogno di 
                  terreni grassi. La rosa ha bisogno di un terreno caldo, sabbioso, 
                  se la metti in un terreno troppo umido non ce la fa a crescere, 
                  si ammala. Anche la pedagogia deve avere alla base la compassione, 
                  non nel senso religioso ma in quello etimologico del provare 
                  emozioni insieme, realizzare l'empatia, allora non imponi nulla 
                  ai bambini. 
                  Come la poesia, anche la pedagogia dovrebbe essere malinconica, 
                  i vecchi maestri come me lo capiscono: aiuti questi bambini 
                  a crescere, a che pro? Per mandarli in guerra? Per farli andare 
                  in un ufficio, per mettergli la cravatta?»
                 
                   
                      
                        A 
                          una bambina 
                           
                          Impara a dipingere 
                          fiori, nuvole, 
                          bellezze varie, 
                          ma anche i manifesti, 
                          perché senza giustizia 
                          non basta, per volare, 
                          la bellezza delle ali. 
                           
                          Gianni Milano    | 
                   
                 
                 
                    Anarchia
                
  Il finale della tesi anarchica di Gianni comprende una citazione 
                  di Krishnamurti che è un vero e proprio manifesto anarchico: 
                  “Non è rimpiazzando un governo con un altro, un 
                  partito con un altro, una classe con un'altra che diventeremo 
                  intelligenti, solo una profonda rivoluzione interiore che modifichi 
                  tutti i nostri valori può creare un ambiente nuovo, una 
                  struttura sociale illuminata e una tale rivoluzione non può 
                  essere fatta che da voi e da me perché nessun ordine 
                  sociale nascerà fintanto che individualmente non avremo 
                  demolito le nostre barriere psicologiche e non saremo liberi”. 
                   
                  Tu prima hai detto di non essere un moralista ma una “persona 
                  etica”. In cosa consiste l'ethos, il comportamento dell'anarchico? 
                  «Nell'elaborare un operare alternativo che metta in discussione 
                  la società – e questo vale per l'anarchia quanto 
                  per la pedagogia. 
                  Io sono un No Tav. Quest'estate sono andato in Clarea, dove 
                  stanno aprendo il cantiere per lo sbocco del tunnel, e un pomeriggio, 
                  davanti alla Digos che ascoltava, ho parlato della pedagogia 
                  della disobbedienza, che ha lo stesso prefisso di “divergenza”, 
                  ovvero il pensiero divergente che scardina le nozioni per porre 
                  altre questioni e quindi si accompagna alla creatività. 
                  Tutte le grandi scoperte sono venute dalla disobbedienza e dalla 
                  divergenza. La disobbedienza civile, quella di Thoreau, è 
                  praticata anche da persone, nel movimento No Tav, che sono perfettamente 
                  integrate nel sistema, non gli va bene quella cosa lì, 
                  ma per il resto sono integrati, non fanno il passaggio successivo, 
                  non si domandano da cosa nasce il Tav. Io punto a una riflessione 
                  più olistica: a me piacciono le cose semplici.» 
                   
                  E cosa si deve fare per vedere le cose semplici? 
                  «Essere come il bambino della novella di Andersen, diventare 
                  ignoranti, invece spesso gli anarchici lasciano che il pensiero 
                  si avviti su se stesso. È come nella pedagogia: se parti 
                  dalle richieste dei bambini, dalle loro domande, è chiaro 
                  che ti obbligano a una visione da un lato più semplice, 
                  più immediata, ma più radicale. Mentre la visione 
                  adulta, gira che rigira, serve a coprire le cose. 
                  Cito anche il vangelo, in cui Giovanni dice: il seme che non 
                  muore non dà vita, ma la morte del seme per dare vita 
                  è rappresentata dall'apertura del seme, che si crepa 
                  e si apre. Chi sta chiuso nelle sue certezze e nel suo io non 
                  dà vita e non la riceve. 
                  È significativo che anche i marxisti cantino le canzoni 
                  anarchiche di Gori, perché nelle loro non c'è 
                  la stessa tenerezza. La tenerezza è una percezione di 
                  fragilità che ti porta a fare domande, e più domande 
                  fai più la tua scorza si apre, è come il parto. 
                  Ogni conoscenza è una forma di concepimento. Io chiamo 
                  i miei amici No Tav “eretici erotici”. Senza erotismo 
                  non c'è rivoluzione.» 
                   
                  E come si concretizza questa semplicità, quest'ethos 
                  eretico-erotico?  
                  «Noi abbiamo proposte alternative, per esempio il libero 
                  scambio, ci sono villaggi anarchici in Argentina dove la moneta 
                  non circola. È possibile. Ovviamente non lo è 
                  in uno stato, che è autoritario per costituzione. 
                  Penso a piccole comunità, a un federalismo solidale in 
                  cui le differenze non sono un handicap ma un punto di forza: 
                  io so insegnare ai bambini a scrivere, ma non so avvitare una 
                  vite. Tu avviti la vite, io insegno ai bambini a scrivere.» 
                   
                  E il mercato? 
                  «Il mercato è come il mago di Oz. Tu hai visto 
                  il mago di Oz, il film? Ti ricordi cosa succedeva? Il cagnolino 
                  tirava giù la tenda e si scopriva che il mago era una 
                  mistificazione, aveva un'altoparlante ma lui era solo un piccolo 
                  vecchietto. E così è il mercato: dietro ci stanno 
                  persone che non sanno farsi nemmeno un uovo al tegamino, il 
                  loro potere deriva dalla servitù degli altri. Bisogna 
                  dire che il re è nudo.» 
                   
                  Dopo la chiacchierata, Gianni mi accompagna un po' in giro per 
                  Torino. Mi indica i luoghi, i monumenti, commenta ogni cosa 
                  che succede intorno a lui: è sempre attento e interessato 
                  a tutto. Durante la passeggiata, che si conclude con una tappa 
                  obbligata: una delle sue librerie preferite, mi parla ancora 
                  del suo impegno con il movimento No Tav. È contento perché 
                  nel movimento ha riscontrato una felice applicazione del rifiuto 
                  della delega: «quando qualcuno vuole fare il capoccia 
                  – dice – viene subito ridimensionato». Lo 
                  rende felice anche il fatto che tra i No Tav siano proprio gli 
                  anarchici a fare da collante. 
                  Una volta tornati a casa, Gianni inizia a sfogliare una pubblicazione 
                  che gli è appena arrivata per posta: è una piccola 
                  raccolta di sue novelle, intitolata Il respiro del drago. 
                  Chiedo delucidazioni su un titolo così curioso e dal 
                  sapore fantasy. 
                  «Il drago che sta nella terra dà calore alla terra 
                  e con il suo fiato caldo, genera creatività e invenzione. 
                  Solo se viene espulso fuori genera fiamme, diventa cattivo. 
                  È il sonno del drago che dà la quiete, la pace. 
                  Ma la pace mia non è la pace quietistica: è la 
                  pace che riesce a risolvere nel dinamismo i conflitti strutturali, 
                  per cui è la rivoluzione. La rivoluzione è il 
                  momento più pacifico che ci possa essere.» 
                   
                  Laura Antonella Carli
                
 
                   
                      
                         Gianni 
                          Milano, 
                          Mombercelli (At), 1938, all'anagrafe Giovanni Battista 
                          Milano, è poeta e pedagogista. Autore di diversi 
                          saggi pubblicati su riviste pedagogiche, ha lavorato 
                          per quarant'anni come insegnante, prima con i bambini 
                          delle elementari, poi con i ragazzi delle magistrali. 
                          In sintonia con le istanze educative del pedagogista 
                          francese Célestin Freinet, è tra i fondatori, 
                          a Torino, del MCE, Movimento di Cooperazione Educativa. 
                          Autore anche di numerose raccolte poetiche, negli anni 
                          sessanta è stato una delle voci del movimento 
                          beat italiano. Durante gli anni del movimento underground 
                          pubblica Off Limits (1966) Guru (1967), 
                          Prana (1968), King Kong (1973), Uomo 
                          Nudo (Tampax, 1975). Più recentemente ha 
                          curato, insieme allo scrittore e giornalista Luigi Bairo, 
                          un manuale di pedagogia alternativa: Capitan Nuvola 
                          (2001, Stampa Alternativa), e Mi hanno allevato gli 
                          Indiani (2003, edizioni Sonda), ispirato al filosofo 
                          nativo canadese Wilfred Peltier. Nel 2009 è stata 
                          pubblicata, in edizione limitata e privata, una prima 
                          raccolta di testi sparsi intitolata Un Beat con le 
                          ali. 
   | 
                   
                 
                  
                
                   
                      
                        Poesia 
                          su Monamì l'Anarchico 
                           
                          Ed egli fu e sarà 
                          per queste strade lorde di rumori, d'appassiti visi 
                          e voglie spente 
                          Monamì che cammina per solchi rossoneri d'Anarchia 
                          da quando piscieggiava sulla guerra 
                          all'attuale scoperta dell'amore 
                          sulla soglia d'un tempo indifferente che lo porta 
                          ai novanta 
                          ma non toglie 
                          il desiderio di pienezza e il canto. 
                           
                          Dall'incubo di tonache e padroni 
                          lo salvarono i libri poverelli, residuati di perse 
                          biblioteche, 
                          consunti agli occhi ma fedeli al tatto come un braille 
                          d'emozioni 
                          accanto al flusso di palandrane indifferenti ai sogni, 
                          ottuse alla catena di montaggio 
                          ed alla bollatrice quotidiana. 
                           
                          Non date del patetico a chi tace 
                          nei consessi ufficiali o nei giornali 
                          di cimici ripieni e di rifiuti 
                          ma intrattiene coi morti un dialogare, con Bakunin 
                          il russo, 
                          con Bresci il regicida – e la fiumana anonima 
                          dei tanti che spinge i giorni e dignità ridona 
                          a chi nacque liquame in stenta gora – non dite 
                          ch'è magìa d'illusione il penetrare 
                          in tempi oltre il reale 
                          per non volgersi all'ore ghigliottine 
                          col volto rassegnato del fallito. 
                           
                          Monamì fu il fedele 
                          sostegno a una colonna di via Po nella Torino acida 
                          e seriale 
                          a interpellare chi non fu distratto sui casi della 
                          guerra e del profitto, 
                          sulla libera scelta e sul diritto. Non disse mai 
                          al chapliniano stanco 
                          'Posa il sorriso, tàgliati i capelli, mostra 
                          la grinta 
                          che sta dietro alla rosa.' Di questo lo ringrazio 
                          mentre ancora 
                          mi confida che scrive un libro strano – dal 
                          mare ai monti 
                          dai sogni alle battaglie – perché c'è 
                          chi l'ascolta, una signora, 
                          bella e tedesca che pare un'aurora. 
                           
                          Gianni Milano    | 
                   
                 
                
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