La svastica 
                  allo stadio 3 
                  
                La squadra del ghetto 
                  di Giovanni A. Cerutti 
                    In questa terza (e penultima) puntata dei suoi articoli su “calcio e nazismo”, il direttore scientifico dell'Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea nel Novarese e nel Verbano-Cusio-Ossola “P. Fornara” si occupa dell'Ajax. E dei mondiali di calcio Argentina '78. E di altre vicende, alcune allucinanti. 
                  
                   
                  Domenica 25 giugno 1978, ore 
                  15.00. Allo stadio Monumental di Buenos Aires stanno per entrare 
                  in campo le nazionali dell'Olanda e dell'Argentina per disputare 
                  la finale del campionato mondiale. Tra i due capitani, Ruud 
                  Krol e Daniel Passarella, non c'è, però, l'arbitro 
                  designato originariamente dalla Fifa, la Federazione internazionale, 
                  ad arbitrare la partita. La federazione argentina, infatti, 
                  aveva fatto pressioni per ottenere la sostituzione dell'israeliano 
                  Abraham Klein, sostenendo che i rapporti politici troppo stretti 
                  tra Olanda e Israele potevano condizionare la sua capacità 
                  di garantire un arbitraggio imparziale. In realtà gli 
                  argentini temevano un arbitro che aveva dato prova di non essere 
                  assolutamente influenzabile, dirigendo in modo impeccabile Argentina 
                  - Italia, vinta dagli azzurri per 1-0 nel corso del primo turno. 
                  Con quella vittoria la nazionale italiana aveva conquistato 
                  il primo posto nel girone, accedendo in tal modo al girone A 
                  di semifinale, che si giocava a Buenos Aires, e costringendo 
                  gli argentini a spostarsi a Rosario, per disputare le partite 
                  del girone B. Oggi abbiamo numerose prove, comprese le ammissioni 
                  di alcuni calciatori argentini, di quanto quel mondiale fu, 
                  invece, condizionato dalla volontà del regime del generale 
                  Videla di ottenere con ogni mezzo una vittoria che pensava gli 
                  avrebbe consentito di consolidare una popolarità traballante. 
                  Clamorosa, in questo senso, la combine con il Perù, battuto 
                  6-0, per eliminare il Brasile grazie alla differenza reti. 
                  Ma né gli argentini né Klein in quel momento potevano 
                  avere coscienza di quanto quella decisione annodava in un groviglio 
                  inestricabile il passato più tragico della storia europea 
                  con un presente che dava mostra di non averne appreso la lezione. 
                  È probabile, invece, che Ruud Krol lo avesse intuito, 
                  pur non conoscendo ancora una circostanza significativa di quella 
                  vicenda. 
                  Kuki Krol, il padre di Ruud, era stato un centrocampista molto 
                  popolare nella regione di Amsterdam, grazie al suo gioco fantasioso, 
                  molto distante dall'elegante potenza atletica grazie al quale 
                  il figlio sarebbe diventato uno dei calciatori più forti 
                  della sua generazione. Dopo la capitolazione olandese del 14 
                  maggio 1940, Krol aveva costituito insieme a Leo Horn uno dei 
                  gruppi più tenaci della Resistenza olandese. Nel dopoguerra 
                  Horn sarebbe diventato un famoso arbitro internazionale, dirigendo, 
                  tra l'altro, il 25 novembre 1953 Inghilterra - Ungheria che 
                  vide la storica vittoria a Wembley per 6 a 3 della squadra di 
                  Puskas e Hidegkuti, prima nazionale a battere i maestri inglesi 
                  in casa. Il salvataggio e la protezione della popolazione ebraica 
                  costituivano uno dei nuclei principali dell'azione svolta da 
                  quel gruppo, e da Krol in particolare. Nel 1941, infatti, ad 
                  Amsterdam risiedeva più della metà dei circa 140.000 
                  cittadini definiti ebrei dall'estensione delle leggi di Norimberga 
                  al territorio olandese. Si trattava di circa il 13% della popolazione 
                  cittadina. La maggior parte di essi viveva nello Jodenbuurt, 
                  il quartiere ebraico, dove avevano vissuto Rembrandt e Spinoza. 
                  Tre chilometri più ad est sorgeva lo stadio dell'Ajax, 
                  una delle squadre più prestigiose del paese fin dalla 
                  fondazione nel 1900. Krol e Horn erano soci del club biancorosso 
                  e una parte significativa della Resistenza di Amsterdam si aggregò 
                  intorno a una rete che poteva essere ricondotta alla società 
                  dell'Ajax. 
                  I legami tra la squadra dell'Ajax e gli abitanti del quartiere 
                  ebraico cominciarono a svilupparsi fin dagli anni venti, quando 
                  il calcio divenne lo sport più popolare del paese. All'interno 
                  della comunità erano sorte cinque piccole squadre ebraiche, 
                  ma la popolazione del quartiere era in prevalenza di modesta 
                  estrazione sociale. Fino all'avvento del professionismo, far 
                  parte di una squadra – o di un club, come si diceva allora 
                  – era piuttosto costoso, un po' come oggi far parte di 
                  un club di golf o di tennis. Erano molto pochi, quindi, gli 
                  ebrei che potevano permettersi di far parte di una di quelle 
                  squadre; meno che meno di far parte dell'Ajax. Il più 
                  famoso di questi fu Eddy Hamel, un esterno destro dallo scatto 
                  veloce, che militò tra i biancorossi dal 1922 al 1930, 
                  disputando 125 partite e segnando 8 gol. 
                  Intorno alle squadre di calcio, però, si creò 
                  subito un legame che dava luogo a fenomeni di identificazione 
                  collettiva, diventando in breve tempo un elemento non secondario 
                  della vita sociale. Da subito la maggior parte degli abitanti 
                  dello Jodenbuurt che si interessavano di calcio cominciarono 
                  a tifare per l'Ajax, anche coloro i quali non avrebbero mai 
                  potuto permettersi di andare allo stadio. La domenica pomeriggio, 
                  le tribune di legno dello stadio dell'Ajax diventavano un luogo 
                  di incontro tenuto insieme da un'idea di appartenenza comune. 
                  Tanto che quando nel 1938 si disputò la partita con l'Admira 
                  Vienna, nel momento in cui i giocatori austriaci fecero il saluto 
                  nazista alla bandiera tedesca, lo stadio esplose in una selva 
                  di fischi e molti spettatori abbandonarono polemicamente le 
                  tribune.
                
 
                   
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                    Amsterdam, Jodenbuurt (quartiere ebraico), 1942  | 
                   
                 
                   Nazione 
                  tollerante? 
                  L'occupazione tedesca pose fine a questa consuetudine, lacerando 
                  in modo irrimediabile il tessuto umano e sociale di Amsterdam, 
                  e del resto del paese. Tra il 1940 e il 1945 in Olanda vennero 
                  deportati nei campi di sterminio circa 107.000 persone di origine 
                  ebraica; soltanto 5.450 riuscirono a sopravvivere. Si tratta 
                  della percentuale più alta di deportati rispetto al complesso 
                  della popolazione ebraica e della percentuale più alta 
                  di morti rispetto al numero dei deportati registrata nei paesi 
                  occupati dell'Europa occidentale. Questo dato impressionante 
                  è il risultato della combinazione di diversi fattori. 
                  Innanzitutto lo spietato regime di occupazione diretto da Seyss-Inquart, 
                  il fanatico antisemita austriaco che Hitler aveva posto al vertice 
                  dell'amministrazione civile olandese, all'interno del quale 
                  il comandante supremo delle SS e della polizia Rauter – 
                  anch'egli parossisticamente antisemita – non aveva avuto 
                  alcun tipo di ostacolo nel porre l'eliminazione degli ebrei 
                  come obiettivo prioritario. La comunità ebraica, di contro, 
                  era attraversata da linee di divisione sociale piuttosto marcate, 
                  soprattutto quella di Amsterdam, divisa tra una maggioranza 
                  di piccoli commercianti dal reddito prossimo alla soglia della 
                  povertà, con stili di vita conseguenti, e una classe 
                  media e un'alta borghesia proprietaria di ingenti fortune. 
                  Questa frammentazione impedì di percepire la vera natura 
                  della minaccia, che, invece, prescindeva completamente da considerazioni 
                  sociali o di status, ma si muoveva seconda la logica razziale, 
                  anzi ancora più sinistramente biologico-razziale. Il 
                  consiglio ebraico, inoltre, si lasciò manipolare completamente 
                  dalla strategia di intimidazioni e lusinghe utilizzata dalla 
                  polizia tedesca, finendo per facilitare nei fatti la deportazione 
                  della propria gente. Ma il fattore probabilmente decisivo fu 
                  la collaborazione prestata dall'amministrazione olandese, in 
                  modo particolare dagli uffici delle anagrafi, che permisero 
                  ai tedeschi di individuare facilmente i cittadini ebrei, e dalla 
                  polizia, che affiancò con zelo non richiesto le operazioni 
                  di prelevamento eseguite dalle SS e dalla polizia tedesca. 
                  Più difficile dire quale fu il comportamento complessivo 
                  degli olandesi. Al mito della nazione tollerante che si prodiga 
                  naturalmente per salvare i propri cittadini ebrei perseguitati 
                  è subentrata nel tempo la consapevolezza della sostanziale 
                  indifferenza che circondò la deportazione. Significative 
                  in tal senso le parole pronunciate dalla regina Beatrice nel 
                  discorso tenuto alla Knesset il 28 marzo 1995, nel quale riconosceva 
                  che il popolo olandese non era stato in grado di impedire lo 
                  sterminio dei propri concittadini ebrei, pur rendendo omaggio 
                  al valore di chi si era messo in gioco dando vita a forme di 
                  resistenza coraggiose. Oggi questi comportamenti tendono ad 
                  apparirci poco giustificabili e difficilmente riusciamo a comprendere 
                  la sostanziale inerzia che permise la realizzazione del progetto 
                  di sterminio nazista. Ci manca – possiamo dire fortunatamente 
                  – la capacità di riuscire a valutare compiutamente 
                  il ruolo svolto dalla pressione della violenza esercitata dal 
                  regime di occupazione nel coartare le volontà individuali, 
                  impedendo soprattutto che riuscissero a confluire in una dimensione 
                  collettiva. Ma resta la sensazione di fondo dell'inadeguatezza 
                  prima ancora che nel fronteggiare, nel comprendere compiutamente 
                  quanto stava accadendo, la natura della minaccia che la deportazione 
                  e lo sterminio ponevano all'idea stessa di umanità. Fattore 
                  decisivo fu la disgregazione di qualsiasi struttura collettiva 
                  sotto l'urto delle armate tedesche. Stati e società vennero 
                  disarticolati, privando le persone delle coordinate entro le 
                  quali incardinare i propri comportamenti. Restavano le scelte 
                  morali di ciascuno, fondamentali nel conservare un'idea di umanità, 
                  troppo deboli per impedirne lo scempio. È forse è 
                  proprio questa la lezione che dovremmo imparare.
                 
                   Direzioni 
                  diverse 
                  Le stesse dinamiche hanno investito il mondo che ruotava intorno 
                  alle squadre di calcio. L'Ajax in particolare, dato che al momento 
                  dell'occupazione era la società che vantava il maggior 
                  numero di iscritti di origine ebraica. Nel 1941 i soci ebrei 
                  della società furono espulsi, in ossequio alle disposizioni 
                  del regime di occupazione; molti altri si dimisero prima di 
                  dover subire il provvedimento. Accanto a questa neghittosa acquiescenza 
                  conviveva la volontà di mostrare la propria disapprovazione 
                  per quanto stava avvenendo, come mostra uno stralcio del resoconto 
                  dell'attività 1941-42 pubblicato da Simon Kuper nel suo 
                  Ajax, the Dutch, the War, in cui si allude chiaramente 
                  alle deportazioni in corso, mostrando solidarietà e trepidazione 
                  per il destino dei propri soci. Tra questi c'era anche Eddy 
                  Hamel. Sebbene fosse nato a New York nel 1902 e avesse mantenuto 
                  la cittadinanza americana, nel 1942 venne deportato a Birkenau, 
                  dove morì il 30 aprile 1943. 
                  Anche le scelte individuali presero direzioni diverse sotto 
                  l'urto dell'occupazione. Il capitano della squadra che vinse 
                  i campionati nel 1918 e nel 1919, Joop Pelser, che dal termine 
                  della carriera faceva parte del consiglio direttivo come socio 
                  onorario, fin dalla fine degli anni trenta si era iscritto al 
                  partito nazionalsocialista olandese con la moglie e il figlio 
                  Harry, anch'egli giocatore dell'Ajax. Un altro figlio, Jan, 
                  si era arruolato volontario delle Waffen SS, finendo sul fronte 
                  orientale. Nel 1942 Pelser incominciò a lavorare per 
                  la Lippman Rosenthal Bank, una banca che era stata sottratta 
                  ai proprietari ebrei e trasformata in un'agenzia che valutava 
                  i beni delle persone avviate ai campi di sterminio. Piet van 
                  Deijck, titolare della prima squadra, fece parte di una banda 
                  che razziava le case degli ebrei deportati. Nel dopoguerra fu 
                  anche accusato di aver denunciato alla Gestapo dei cittadini 
                  olandesi, anche se l'accusa non venne mai provata. Foeke Kermer, 
                  mediano di una squadra cadetta e allenatore delle giovanili, 
                  aveva catturato ad Harlem cinquanta persone che si stavano nascondendo 
                  e aveva prestato servizio quale sorvegliante nei campi, dove 
                  si era segnalato per i maltrattamenti che aveva inflitto ai 
                  prigionieri. 
                  Kuki Krol e Leo Horn, invece, come abbiamo visto, avevano scelto 
                  di entrare nella Resistenza, costituendo un gruppo che svolse 
                  un'attività costante fino al termine della guerra. Fu 
                  un'esperienza che segnò in maniera indelebile entrambi. 
                  Horn dovette ricorrere a un potente sonnifero fino al termine 
                  della sua vita per riuscire a domare i lancinanti ricordi che 
                  gli facevano puntualmente visita ogni sera. Krol non riuscì 
                  mai a lasciarsi veramente alle spalle gli anni della guerra. 
                  Intervistato lungamente da Kuper nel 1999 quando stava scrivendo 
                  il suo libro sull'Ajax, era ancora così scosso emotivamente 
                  che alla fine non se la sentì di concedere l'autorizzazione 
                  a utilizzare le informazioni che riguardavano la sua vicenda 
                  e di permettere di venire citato ufficialmente. Il gruppo era 
                  formato da dieci persone che agivano nella più assoluta 
                  clandestinità, svolgendo azioni militari, soprattutto 
                  di sabotaggio alle linee di comunicazione dell'esercito tedesco, 
                  e provvedendo a mantenere in vita una rete di alloggi dove era 
                  possibile tenere nascosti per lunghi periodi gli ebrei che erano 
                  riusciti a sfuggire alla deportazione, cercando di organizzarne, 
                  quando possibile, la fuga. Uno dei centri organizzativi era 
                  il negozio di Kuki Krol, che venne individuato dalla polizia 
                  tedesca. Krol sfuggì alla cattura, perché nel 
                  momento dell'irruzione casualmente non si trovava nel negozio. 
                  Venne, però, perquisito il commesso, un giovane comunista 
                  che militava anch'egli nel gruppo. Lo tradirono le tre diverse 
                  carte d'identità che gli vennero trovate addosso. Non 
                  tornò mai dal campo in cui fu deportato. Si creò 
                  anche una rete informale tra molti dei soci che partecipavano 
                  più attivamente alla vita della società, che dispensò 
                  aiuti di ogni genere non solo agli ebrei perseguitati. Questa 
                  rete fu attiva soprattutto nell'ultimo terribile inverno di 
                  guerra, l'Hongerwinter, quando ad Amsterdam più 
                  di un migliaio di persone morirono di fame e di stenti, procurando 
                  e distribuendo aiuti alimentari e vestiario. 
                  L'Ajax, però, incominciò a essere identificata 
                  con gli ebrei a partire dagli anni sessanta, quando le tifoserie 
                  delle squadre avversarie cominciarono a definire i biancorossi 
                  “squadra di ebrei” con intenti non proprio celebrativi, 
                  fino, in anni più recenti, a invocare dalle curve una 
                  nuova Auschwitz o a riprodurre il sibilo delle camere a gas 
                  all'ingresso dei calciatori in campo. Per inciso, non solo in 
                  Olanda: quando nel 2003 l'Ajax giocò a Roma una partita 
                  di coppa, i tifosi giallorossi accolsero gli olandesi con uno 
                  striscione che recitava: «And now... go to have a shower». 
                  Ben presto i tifosi dell'Ajax rivendicarono con orgoglio l'identificazione, 
                  cantando a squarciagola “Ebrei!” mentre sventolavano 
                  bandiere con la stella di David, meglio nota negli stadi come 
                  la stella dell'Ajax, o srotolando in curva un'immensa bandiera 
                  israeliana. 
                   
                    Unica 
                  possibilità: l'Ajax
                  L'Ajax, però, non era più la squadra degli ebrei 
                  dello Jodenbuurt degli anni trenta. Durante l'occupazione 
                  il quartiere era stato trasformato in un ghetto dai tedeschi, 
                  che lo avevano recintato con il filo spinato per rendere più 
                  spedite le operazioni di prelevamento delle persone da avviare 
                  alla deportazione. Come abbiamo visto, al termine della guerra 
                  non era tornato quasi nessuno. Il quartiere era diventato un 
                  ammasso di rovine e le case lasciate vuote erano state saccheggiate; 
                  persino gli stipiti delle porte erano stati usati come legna 
                  da ardere. E anche delle cinque squadre di calcio ebraiche non 
                  era rimasto niente. 
                  Così i ragazzi delle poche famiglie ebree sopravvissute 
                  che volevano giocare a calcio cominciarono a bussare timidamente 
                  alle porte dell'Ajax. Era una scelta quasi naturale. 
                  Nel 1949 due ragazzini, Sjaak Swart e Bennie Muller, furono 
                  accettati nelle giovanili dell'Ajax. Il padre di Swart vendeva 
                  aringhe al mercato, la famiglia di Muller aveva un banco di 
                  frutta e verdura. 
                  Nel 1956 Swart debuttò in prima squadra a soli diciotto; 
                  l'anno dopo toccò a Muller. Swart – il cui soprannome 
                  divenne significativamente Mr. Ajax – avrebbe giocato 
                  596 partite ufficiali con la maglia dell'Ajax, vincendo otto 
                  campionati, tre coppe dei campioni e una coppa intercontinentale; 
                  Muller divenne il capitano dei biancorossi e della nazionale 
                  olandese. Era nata la squadra del ghetto. L'identificazione 
                  divenne ancora più stretta qualche anno dopo, quando 
                  un gruppo di imprenditori ebrei cominciò a entrare nel 
                  consiglio direttivo dell'Ajax e a investire massicciamente nella 
                  squadra, che divenne in breve tempo la più forte d'Europa, 
                  segnando un'epoca del calcio mondiale. 
                  Nel 1964 venne eletto presidente della società Jaap van 
                  Praag. I suoi genitori e la sorellina erano morti nei campi 
                  di sterminio ed egli era riuscito a salvarsi grazie all'aiuto 
                  della rete dei soci dell'Ajax, che lo avevano tenuto nascosto 
                  per due anni e mezzo. Tra i principali finanziatori della squadra 
                  c'era Maup Caransa, immobiliarista e proprietario di vaste zone 
                  di Amsterdam. Anche i suoi genitori e i suoi quattro fratelli 
                  non erano mai tornati dai campi. Figlio di un commerciante di 
                  carbone, Caransa aveva cominciato a lavorare a dodici anni girando 
                  per il quartiere ebraico con un carretto per vendere petrolio 
                  e carbone. 
                  Ma gli altri grandi finanziatori della squadra erano diventati 
                  i fratelli Freek e Wim van der Meijden, che ad Amsterdam tutti 
                  chiamavano significativamente “i costruttori del bunker”. 
                  Titolari di una piccola impresa di costruzioni, durante l'occupazione 
                  si erano messi al servizio dell'amministrazione tedesca, costruendo 
                  caserme, postazioni di artiglieria lungo la costa e, appunto, 
                  bunker, accumulando una fortuna ingente e sviluppando una delle 
                  società edili più rilevanti del paese. Dopo la 
                  liberazione, vennero condannati a tre anni di carcere per collaborazionismo. 
                  Accesi tifosi dell'Ajax, scontata la pena ricominciarono a frequentare 
                  le tribune dello stadio De Meer e a sostenere economicamente 
                  la squadra, accollandosi numerose spese e aiutando i calciatori, 
                  ancora semiprofessionisti, a trovare adeguate sistemazioni. 
                  Ma l'infamante pena subìta divenne un ostacolo insormontabile 
                  all'ingresso ufficiale nel consiglio direttivo della società. 
                  Fino all'elezione a presidente di van Praag. L'uomo che si era 
                  salvato dalla morte nascondendosi per due anni mezzo e la cui 
                  famiglia era stata sterminata nei campi, tendeva la mano a chi 
                  aveva collaborato attivamente con la macchina dell'occupazione. 
                  Qualche tempo dopo Freek e Wim van der Meijden restaurarono 
                  a proprie spese una vecchia sinagoga che stava cadendo a pezzi. 
                  Il 15 novembre 1964 sul campo di Groningen debuttò in 
                  prima squadra il diciassettenne Johan Cruijff. Due anni dopo, 
                  il 7 dicembre 1966, nella partita di andata degli ottavi di 
                  finale della coppa dei campioni, l'Ajax sconfisse per 5 a 1 
                  il Liverpool, grande favorito per la vittoria finale. Quel gruppo 
                  di ragazzi cresciuti intorno al vecchio stadio aveva iniziato 
                  a scalare il mondo. 
                  Ruud Krol tutta questa storia la conosceva bene. Fino alla sua 
                  morte, avvenuta nel 2003, suo padre aveva tenuto su un tavolino 
                  in soggiorno la fotografia del ragazzo catturato dai tedeschi 
                  nel suo negozio. Non poteva, però, sapere che nel 1947 
                  il tredicenne Abraham Klein, profugo dall'Ungheria e dalla Romania, 
                  sulla strada per Israele era stato ospitato per un anno in Olanda, 
                  insieme ad altri cinquecento bambini, frequentando la scuola 
                  nella città di Apeldoorn. Lo avrebbe raccontato soltanto 
                  anni dopo a Simon Kuper. Né Klein poteva sapere del ruolo 
                  avuto dal padre di Krol durante l'occupazione nel salvare dalla 
                  deportazione gli ebrei che si trovavano in Olanda. Lo avrebbe 
                  saputo da Leo Horn soltanto nel 1994, nel corso di una conversazione 
                  addentratasi accidentalmente nelle vicende della guerra, svoltasi 
                  durante uno dei suoi periodici viaggi ad Haifa per rendere visita 
                  al suo grande amico. 
                  Daniel Passarella, invece, non avrebbe dovuto essere il capitano 
                  della squadra argentina. Aveva ereditato la fascia da Jorge 
                  Carrascosa, il terzino sinistro dell'Huracán, che aveva 
                  rinunciato alla nazionale per non dover sostenere il regime 
                  di Videla. Il posto alla sinistra della difesa, invece, era 
                  finito ad Alberto Tarantini, che ha rivelato in un'intervista 
                  di qualche anno fa che tre suoi amici furono sequestrati dai 
                  militari e risultano ad oggi tra i desaparacidos. A trecento 
                  metri dallo stadio Monumental di Buenos Aires sorgeva la Escuela 
                  de Mécanica della Marina Argentina.
                 
                   
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                    Cartolina commemorativa di Ruud Krol  | 
                   
                 
                   L'aguzzino 
                  e la vittima 
                  Nei primi giorni dopo il colpo di stato del 1976 l'edificio 
                  era stato utilizzato per trattenere le prime persone fermate; 
                  in seguito divenne il luogo in cui veniva rinchiuso chi era 
                  destinato a sparire. Anche in quel pomeriggio di giugno continuavano 
                  le torture dei prigionieri detenuti al di fuori di ogni procedura 
                  legale, che il regime dei generali giudicava suoi oppositori. 
                  Quel dramma che segnava il mondo lacerato dalla guerra fredda 
                  si stava incrociando su un campo di calcio con la tragedia che 
                  aveva distrutto l'idea stessa di civiltà. E chi stava 
                  torturando in nome di un'altra paranoica visione del mondo negava 
                  che chi era stato beneficiato da chi aveva tenacemente cercato 
                  di difendere i valori umani fosse in grado di saper dirigere 
                  obiettivamente una partita. 
                  Molti anni dopo, nelle sue memorie pubblicate nel 2009, il centrocampista 
                  del Tottenham Osvaldo Ardiles, dal tocco elegante e dal grande 
                  senso tattico, proverà a mettere ordine nel tumulto di 
                  pensieri che si rincorrono da allora su quel pomeriggio: «Stavamo 
                  disputando la finale nello stadio del River Plate, e a tre-quattrocento 
                  metri c'era la scuola di meccanica navale. Solo dopo abbiamo 
                  scoperto che era il principale centro di tortura della marina. 
                  E penso che, quando segnavamo, tutti ci potevano sentire. Le 
                  guardie magari dicevano ai prigionieri “stiamo vincendo”, 
                  è così che probabilmente glielo riferivano. Non 
                  dicevano “L'Argentina sta vincendo” ma “noi 
                  stiamo vincendo”. Uno è l'aguzzino, l'altro la 
                  sua vittima. E poi penso: coloro che erano imprigionati come 
                  si sentivano, felici o tristi? In un certo senso erano felici 
                  perché erano argentini, e stavamo vincendo la Coppa del 
                  Mondo per la prima volta nella nostra storia. Meraviglioso. 
                  Ma sapevano che quella vittoria significava che la dittatura 
                  militare sarebbe durata ancora a lungo. Che non sarebbero stati 
                  rilasciati. Cosa hanno provato in quei momenti?» 
                  Già, cosa hanno provato? Può darsi si stessero 
                  chiedendo fino a quando la gente può continuare a voltarsi 
                  da un'altra parte facendo finta di non aver visto. Ma ho paura 
                  che la risposta si sia persa nel vento. Forse per sempre. 
                    
                  Giovanni A. Cerutti 
                  Per 
                  saperne di più 
                
  Le vicende intorno 
                  alla squadra dell'Ajax sono tratte dal lavoro di Simon Kuper, 
                  Ajax, the Dutch, the War. The Strange Tale of Soccer During 
                  Europe's Darkest Hour, Orion, London 2003 (edizione italiana, 
                  Ajax, la squadra del ghetto, Isbn, Milano 2005).
                  Le informazioni 
                  sull'occupazione tedesca in Olanda provengono dalla voce Olanda 
                  redatta da Werner Warmbrunn nel Dizionario dell'Olocausto, 
                  a cura di Walter Laqueur, Einaudi, Torino 2004.
                  Sullo svolgimento 
                  dei mondiali di calcio in Argentina nel 1978 vedi Alec Cordolcini, 
                  Pallone desaparecido. L'Argentina dei generali e il mondiale 
                  del 1978, Bradipo libri, Torino 2011. 
                  L'autobiografia 
                  di Osvaldo Ardiles è stata pubblicata con il titolo Ossie's 
                  Dream. My Autobiography, Bantam Press, London 2009. 
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