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                      il primo numero di “A rivista anarchica”, me 
                      lo ricordo come se fosse ieri: il formato, la grande A in 
                      copertina e poi, sfogliando le pagine, Anarchik. 
                      Le storie di Anarchik mi piacciono molto, quasi come mi 
                      era piaciuto Tintin qualche anno prima [...] 
                    Fulvio 
                      Abbate (“A”, n. 297, marzo 2004)
 
                  Anarchik 
                    è forse il primo tentativo di dare alla propaganda 
                    anarchica un tono meno paludato e serioso di quello tradizionale, 
                    almeno dal dopoguerra in poi. Sua madre quindi è certa, 
                    l’anarchia. Il padre un po’ meno, perché 
                    oltre al genitore ufficiale, il disegnatore, autore di questo 
                    articolo, va tenuta in conto l’opera di un amico di 
                    famiglia suo fraterno compagno (A. B.), e chissà, anche 
                    di altri frequentatori della casa. Con qualche irriverenza 
                    verso la madre (che non ce ne vorrà, speriamo) si potrebbe 
                    dire che Anarchik è stato concepito in una situazione 
                    di promiscuità sessuale. Questa è la sua storia, 
                    fondata molto sul ricordo e poco sui documenti, e quindi anch’essa 
                    un po’ incerta in alcuni particolari. 
                    Per i motivi suddetti, oltre che per ragioni di privacy, la 
                    data esatta del concepimento è misteriosa, ma può 
                    essere collocata, più o meno, all’epoca del depliant 
                    Chi sono gli anarchici?, prodotto nel 1966 dal gruppo 
                    Gioventù Libertaria di Milano. Qui, a corredo dello 
                    scritto, compare un tizio già dotato di quegli elementi 
                    che poi caratterizzeranno il personaggio, cappellaccio a falda 
                    larga e ampio mantello, il tutto rigorosamente nero, come 
                    nera è la mise (non chiaramente definita) 
                    che sta sotto. 
                    Lo stile del disegno è di evidente derivazione fumettistica, 
                    sintetico ed essenziale nel tratto, molto contrastato, un 
                    po’ “americano” ma ancora tendenzialmente 
                    “naturalistico”, nel drappeggio del mantello, 
                    nei pantaloni spiegazzati, nelle scarpe deformate da piedi 
                    fuori misura. 
                    L’approccio è comunque caricaturale, e ironizza 
                    sullo stereotipo anarchico della vulgata reazionaria: sotto 
                    il cappellaccio il tizio esibisce un nasone e una barba mal 
                    curata (altri elementi destinati a rimanere, in seguito) e 
                    guarda il lettore con un sorrisetto complice, estraendo dal 
                    mantello parzialmente aperto il gadget tipico dell’anarchicità 
                    banalizzata, la bomba. Una bomba “classica” e 
                    dunque antiquata, sferica, anch’essa nera, con tanto 
                    di miccia già pericolosamente accesa e relativo filo 
                    di fumo. 
                   
 
                    Farò del mio peggio! 
                    
                  Questo Anarchik fetale, con i caratteri della specie già 
                    delineati ma dall’identità personale ancora incerta, 
                    sta in gestazione per circa un anno. Compare in pubblico ufficialmente, 
                    vale a dire con il proprio nome esplicitamente dichiarato 
                    e nella versione grafica definitiva, sul primo e unico numero 
                    della testata “Il nemico dello Stato”, nel 1967, 
                    sotto forma di striscia a quattro vignette, in cui conclude 
                    una rapida meditazione sui tempi e sulla necessità 
                    di intervento, con la programmatica dichiarazione Farò 
                    del mio peggio!
                    È sostanzialmente lo stesso tizio del feto originario 
                    (cappello, mantello, nasone, barbaccia), ma semplificato in 
                    stile cartoon, con il corpo rivestito da una calzamaglia nera 
                    aderente che ne sottolinea l’improbabile anatomia e 
                    insieme alla k finale del nome rimanda, in chiave sempre ironica, 
                    a certi eroi negativi (Diabolik, Satanik...) in voga nei fumetti 
                    dell’epoca. Rispetto a questi, però, manifesta 
                    fin da subito un atteggiamento derisorio e cialtronesco, evidenziato 
                    dal ghigno pieno di denti che porta quasi sempre stampato 
                    sul volto, in sostituzione del sorriso allusivo del personaggio 
                    iniziale. 
                    Segno, evidentemente, di un’evoluzione non soltanto 
                    morfologica, ma anche psicologica. Dopo l’esordio su 
                    “Il nemico dello Stato”, Anarchik vive nel 1968 
                    e nel 1969 una vita precaria su volantini e opuscoletti (ma 
                    anche su manifesti serigrafati), per approdare poi, nel 1971, 
                    sulle pagine di “A rivista anarchica”, dove rimane 
                    più a lungo, con una presenza all’inizio relativamente 
                    stabile e la funzione, nelle intenzioni del disegnatore, di 
                    fare del semplice “umorismo libertario”. 
                    L’impostazione del fumetto si fa leggermente più 
                    complessa, evolvendo dalla singola striscia al modello a nove 
                    vignette (tre file di tre) e grazie alla maggiore disponibilità 
                    di spazio le storie diventeranno meno verbali e più 
                    dinamiche. Vi compare, a volte, un tipico “antagonista-vittima”, 
                    il prete, grasso e un po’ patetico (niente a che vedere 
                    con gli omoni grotteschi e bestiali de “L’Asino”), 
                    che fugge con la tonaca alzata di fronte alla minaccia della 
                    bomba di Anarchik. 
                    La quale, invariabilmente coglie nel segno ed esplode, ma 
                    con effetti distruttivi modesti e non irreversibili, che consentono 
                    il periodico riproporsi della situazione. 
                    La bomba di Anarchik è dunque una bomba simbolica e 
                    umanitaria, cui non è affidato alcun compito risolutivo 
                    se non quello di fornire al disegnatore il piacere (auspicabilmente 
                    condiviso dal lettore) di rappresentare nella vignetta finale 
                    il prete affumicato e bruciacchiato, con ambigue mutande di 
                    pizzo che sporgono dalla tonaca sbrindellata, mentre sullo 
                    sfondo l’omino nero fugge emettendo il suo sgangherato 
                    sghignazzo (Hi!Hi! Hi!). 
                   
 
                    Atteggiamento 
                    più consapevole 
                  Tale periodo spensierato termina presto. Il maggio 1968, 
                    la strage di Stato e tutto ciò che ne segue impongono 
                    un atteggiamento più consapevole e il nostro si dedica, 
                    sempre a modo suo, a commentare o sottolineare aspetti considerati 
                    importanti di quanto va accadendo. 
                    Si sveglia da un incubo in cui alcuni leader rivoluzionari 
                    svelano le proprie intenzioni autoritarie (allusione a certe 
                    componenti marx-leniniste delle lotte studentesche e operaie), 
                    oppure si presenta alla polizia munito di certificato medico, 
                    per giustificare con motivi di salute l’esigenza di 
                    essere interrogato a finestre chiuse (allusione al volo di 
                    Pinelli dalla finestra della questura milanese). 
                    È la fase certamente più intensa della vita 
                    pubblica di Anarchik, durante la quale l’accresciuto 
                    impegno politico determina la scomparsa della bomba, dimenticata 
                    in giro, o nascosta nell’attesa di tempi migliori, come 
                    preferite. 
                    In un momento segnato dalla ricorrente presenza di altre bombe, 
                    non anarchiche e assolutamente non umanitarie l’uso 
                    di un simile strumento per scopi ludici appare inopportuno. 
                    
                    Aumenta invece la presenza dell’uomo nero fuori delle 
                    vignette dei fumetti, ad accompagnare con la sola immagine 
                    il testo di articoli, di volantini, di manifesti, diventando 
                    una sorta di logo dell’area militante frequentata dai 
                    suoi genitori più o meno ufficiali, ripreso occasionalmente 
                    da altre aree del movimento anarchico, non solo italiano. 
                    In conseguenza di ciò compaiono in giro anche alcuni 
                    “falsi”, di cui il disegnatore ama segnalare con 
                    pignoleria, in privato, le difformità dall’originale, 
                    pur riconoscendo benevolmente le buone intenzioni (grafiche 
                    e politiche) dei falsari. 
                    Così, per mantenere un minimo controllo “morale” 
                    sull’evoluzione morfologica della sua creatura, il disegnatore 
                    ricorre a volte all’espediente di aggiungere accanto 
                    al nome o a uno svolazzo del mantello un cerchietto con la 
                    c di un inesistente copyright, invito sottinteso a una falsificazione 
                    libera ma rispettosa. 
                    La tendenza di Anarchik ad abbandonare la vita “attiva” 
                    trasformandosi in un simbolo (accade a tutti gli eroi, dicono) 
                    si accentua col trascorrere del tempo, anche a causa (riconosciamolo) 
                    di un progressivo e forse inevitabile decadimento dell’ispirazione 
                    dei suoi genitori, distratti e travolti da altri compiti, 
                    dal mutare dei tempi, da vicende personali. 
                    Il disegnatore, soprattutto, sente la sua mano rattrappirsi 
                    e parallelamente va diminuendo la propria produzione, limitando 
                    sempre più la varietà degli atteggiamenti rappresentati. 
                    Questi, nel giro di qualche anno, finiscono per ridursi a 
                    due opzioni principali, entrambe destinate a una funzione 
                    più estetica che ideologica: Anarchik con il mantello 
                    aperto, svolazzante all’indietro, si da lasciare scoperto 
                    il corpo, e Anarchik intabarrato, con il mantello sempre svolazzante 
                    ma chiuso ad avvolgere la persona. 
                    Nel primo caso è visibile il famoso sorriso e le mani 
                    sono libere per reggere oggetti, cosicché l’immagine 
                    può esser adattata a situazioni diverse nelle quali 
                    si voglia comunque trasmettere simpatia. Nel secondo, il volto 
                    è parzialmente coperto e l’espressione più 
                    torva, usabile per manifestare sentimenti di ostilità 
                    verso possibili nemici. 
                    Sono ormai le immagini “classiche” di Anarchik, 
                    quelle che hanno sfidato le traversie della nostra epoca e 
                    del movimento anarchico, trasmettendo fino ai nostri giorni 
                    un messaggio implicito, vago ma inequivocabile, di sovversione 
                    libertaria. Grazie all’opera di chi, a differenza dello 
                    stolto disegnatore, ha saputo conservarle.