Questa relazione, 
                    che ho condiviso con altri compagni della FAI reggiana, non 
                    vuole essere il rendiconto di una ricerca esaustiva su cosa 
                    mangiavano, dove e come i militanti del movimento operaio, 
                    socialista, anarchico e chi più ne ha più ne 
                    metta, nella nostra regione, dal secolo XIX ad oggi. Semplicemente 
                    perché una ricerca del genere, se minuziosa, richiederebbe 
                    mesi di lavoro.  
                    Per questo il nostro intento sarà proporre un percorso 
                    generale, con spunti e curiosità utili magari per futuri 
                    lavori.  
                    Spunti e curiosità che derivano sia da testi e documenti 
                    scritti, sia dalla memoria orale che conosciamo perché 
                    passata fra più generazioni di militanti. Perché 
                    se anche la storia ufficiale ormai utilizza le fonti orali, 
                    queste sono in materia di alimentazione ancora più 
                    legittimate: lo stesso Piero Camporesi distingue fra una “cucina 
                    scritta” e una “cucina orale” come differenza 
                    fra ciò che l’oggetto della ricerca doveva essere 
                    e ciò che effettivamente si è dato.  
                    Intanto perché delimitare questo ambito ideale della 
                    “via Emilia”? Senz’altro perché la 
                    via Emilia, e la regione ad essa collegata, è un originale 
                    sistema città-strada al cui interno troviamo forti 
                    momenti di continuità seriale fra i segmenti che lo 
                    compongono. Non a caso un urbanista libertario del XX secolo, 
                    Patrick Geddes, faceva l’esempio della via Emilia come 
                    di una “conurbazione”, cioè una città 
                    multipla, molto prima che venissero forgiati termini come 
                    “megalopoli” e “periurbano”.  
                    Una continuità del tutto eccezionale anche nella storia: 
                    la via Emilia viene tracciata dai Romani nel II secolo avanti 
                    Cristo come principale via di penetrazione nella valle padana 
                    e verso i valichi alpini, negli stessi anni in cui si fonda 
                    la gran parte delle città. Due millenni dopo, nella 
                    seconda metà del secolo XIX, in perfetto parallelo 
                    alla strada viene tracciata la ferrovia, e le stazioni, collegando 
                    centri principali che sono rimasti più o meno gli stessi, 
                    spesso corrispondono alle fermate per il cambio dei cavalli 
                    del periodo romano.  
                    E da lontano partono le testimonianze sulla storia materiale 
                    di questa regione: proprio riguardo al II secolo, Livio ci 
                    riferisce come fosse prevalente l’allevamento dei suini, 
                    data l’abbondante presenza di querce. Questi, oltre 
                    a nutrire gli abitanti della zona, servivano per l’esportazione, 
                    e fonti archeologiche ancora più antiche dimostrerebbero 
                    che già dall’emporio di Spina partiva carne diretta 
                    verso l’Atene di Pericle.  
                    
                  Esterno 
                    del teatro  
                    
                    Salsicce, zampone e cotognata  
                  Prima di arrivare a noi, segnaliamo solo che in un’opera 
                    del caposcuola delle ricerche di storia materiale, economica 
                    e sociale, sono citate in fila quattro città della 
                    via Emilia, prime di una lista di altre città italiane 
                    che si distinguevano per le loro specialità gastronomiche. 
                    Sto parlando di Civiltà materiale, economia e capitalismo 
                    di Fernand Braudel, dove seguendo un cronista del Cinquecento, 
                    incontriamo nell’ordine “le salsicce e i salami 
                    di Bologna, lo zampone di Modena, la cotognata di Reggio, 
                    il formaggio e gli gnocchi all’aglio di Piacenza”. 
                    Forse non è un caso che si sia imbattuto nelle nostre 
                    città lo storico che si è posto il problema 
                    di sapere tutto della giornata di Luigi XIV ma nulla di cosa 
                    mangiavano i suoi contadini.  
                    Sono citati ovviamente cibi dei ricchi, riservati alle classi 
                    popolari al massimo nei giorni di festa, in cui il mito del 
                    paese di cuccagna faceva dimenticare la fame quotidiana.  
                    È all’inizio dell’età contemporanea, 
                    con la rivoluzione francese, che questo mito si rovescia, 
                    perché nelle città rivoluzionarie della Repubblica 
                    Cisalpina, fra cui ad esempio Reggio, grandi tavolate uniscono 
                    proletari e borghesi in una nuova simbologia che sarà 
                    il pasto collettivo non più legato a scadenze sacre 
                    o agricole, ma a scadenze rivoluzionarie, miranti perciò 
                    ad un’abbondanza meno occasionale, che uniscono simbolicamente 
                    i partecipanti al nuovo rito laico.  
                    Riti che continueranno ad essere fatti propri dalle classi 
                    popolari, anche come segno di malcontento, come nel caso della 
                    festa di Quaresima che si faceva a Guastalla nel periodo della 
                    tassa del macinato (anni ’60 del XIX secolo). Come ci 
                    racconta il Fincardi, mentre si servivano i tradizionali gnocchi 
                    era esposta una grottesca caricatura di re mugnaio dalla quale 
                    traspariva chiara la polemica antimonarchica e antifiscale. 
                    La fiera vedeva una grossa affluenza di reggiani che vi si 
                    recavano apposta dal capoluogo.  
                    Ma a questo punto se vogliamo capire il seguito dobbiamo soffermarci 
                    sull’Internazionale. È fra gli anni ’60 
                    e ’70 dell’Ottocento che con i viaggi di Bakunin 
                    e Cafiero arriva in Italia il socialismo, nella versione della 
                    componente anarchica della Prima Internazionale.  
                    La via Emilia è una via di comunicazione molto usata 
                    dai primi internazionalisti, dato che il primo congresso della 
                    sezione italiana è convocato a Rimini nel 1872 e il 
                    secondo l’anno dopo a Bologna (si terrà poi a 
                    Mirandola per problemi polizieschi). Il primo tentativo insurrezionale 
                    degli internazionalisti italiani, nel 1874, sarà rivolto 
                    a raggiungere Bologna dalle città della Romagna.  
                    Ma se non esiste ancora un movimento operaio con proprie sedi 
                    e strutture, se non società di mutuo soccorso che hanno 
                    ancora per lo più carattere paternalistico, dove si 
                    riuniscono gli internazionalisti?  
                    Elementare, nei locali deputati alla socialità pubblica 
                    delle classi meno abbienti dell’epoca: osterie, locande, 
                    bettole.  
                    
                  Durante 
                    il veglione, “Figli dell’officina” tra i 
                    tavoli e i commensali  
                    
                    Cospirare e mangiare  
                  Le prime “cucine del popolo” furono proprio quei 
                    locali in cui un clima recettivo o un oste simpatizzante consentivano 
                    ai cospiratori di avere un posto fisico dove trovarsi, fare 
                    un po’ di propaganda e magari bere un bicchiere o mangiare 
                    un boccone.  
                    La prima riunione del fascio operaio di Bologna avviene alla 
                    fine del 1871 alla trattoria-albergo “Le tre zucchette”, 
                    sull’attuale piazza del Nettuno, con costituzione solenne 
                    dell’associazione e nomina delle cariche.  
                    A Imola, nello stesso anno, Andrea Costa ed altri compagni 
                    fondano la sezione cittadina dell’“Internazionale 
                    socialista” all’osteria “ed Campétt”. 
                     
                    Nell’Imolese i locali addirittura si differenziano per 
                    tendenza politica, dal momento che l’anno dopo saranno 
                    i mazziniani a scegliere l’osteria “dl’Enzel” 
                    come quartier generale della loro “Società Democratica 
                    Repubblicana”, ed altre mescite erano sede o di gruppi 
                    repubblicani, o di società per l’istruzione ed 
                    il progresso. In tutta la regione abbiamo esempi di locali 
                    che servono alle riunioni delle associazioni popolari sprovviste 
                    di sede, come il caffè Garibaldi in piazza a Cavriago. 
                     
                    Ancora in Romagna, queste locande saranno poi note come le 
                    “cameracce”, nome che si tramanderà al 
                    successivo passaggio della socialità operaia: le case 
                    del popolo. Si tramanda il nome perché in alcuni casi 
                    la continuità fra le due esperienze è diretta: 
                    certe case del popolo, soprattutto in campagna, per fornire 
                    la socialità necessaria a vederle frequentate, saranno 
                    una specie di “osterie autogestite”. La repressione 
                    statale avverrà spesso con il far chiudere questi spazi 
                    per mancanza della licenza, senza distinguere l’impresa 
                    commerciale da quella sociale.  
                    All’interno delle case del popolo più grandi, 
                    e sede di diverse associazioni, che sorgeranno come funghi 
                    nei decenni successivi, funzioneranno cucine e caffè 
                    autogestiti.  
                    Fino a pochi decenni or sono del resto erano ancora attive 
                    in Romagna alcune osterie senza osti, dove si consumava quel 
                    che portavano gli avventori.  
                    Il dispregiativo che ci poteva essere in quel termine “cameracce” 
                    ha implicazioni non casuali: i perbenisti e la borghesia hanno 
                    bisogno di argomenti per screditare questi pericolosi socialisti 
                    (o socialisti-anarchici) additandoli alla disapprovazione 
                    pubblica. Uno dei pretesti è proprio il fatto che spesso 
                    si ritrovano in osteria: in vari dialetti della Valle Padana 
                    ritroviamo l’assonanza beffarda fra “socia-lèsta” 
                    e “ciocia-lèter”, socialista e 
                    ciuccialitri, ovvia allusione all’accusa di alcolismo, 
                    indice di immoralità e ancor più di scarsa credibilità. 
                     
                    Questi stereotipi borghesi dovrebbero far suonare un campanello 
                    d’allarme: è vero che stiamo a celebrare le cucine, 
                    e il vino, del popolo. Ma stiamo attenti a non cadere in visioni 
                    troppo romantiche del rivoluzionario godereccio e dell’osteria 
                    covo di sovversione. Se Bakunin porta nel suo passaggio in 
                    Emilia il fascino della sua massiccia figura e del suo leggendario 
                    appetito, la misera condizione quotidiana della quasi totalità 
                    del proletariato lasciava spazio a ben poche esperienze eno-gastronomiche 
                    esaltanti anche quando ci si ritrovava tutti assieme alla 
                    bettola. L’osteria peraltro, non era sempre luogo di 
                    sovversione, era anche il posto dove a volte i padroni distribuivano 
                    i salari al sabato in modo che i lavoratori li spendessero 
                    lì, perché un proletariato abbrutito era senz’altro 
                    più controllabile di un proletariato cosciente.  
                    
                  Le 
                    “resdore” (cuoche) di Massenzatico preparano i 
                    patti di cappelletti  
                    
                    “Banchetto economico a lire una”  
                  Anche per questi motivi, fra la fine dell’Ottocento 
                    e i primi del Novecento, si diffonde a macchia d’olio 
                    in regione il fenomeno delle case del popolo.  
                    La prima inaugurazione ufficiale sarà proprio qui a 
                    Massenzatico nel 1893 alla presenza dei leaders socialisti 
                    nazionali e internazionali (ci sarà Vandervelde, perché 
                    l’esperienza delle case del popolo belghe ha stretti 
                    contatti con quella emiliana, anche a causa dell’emigrazione), 
                    e di circa “diecimila contadini”.  
                    Le cronache di questa inaugurazione accennano al pasto consumato 
                    quel giorno. È interessante confrontare questo resoconto 
                    con quello del pranzo della Società Cooperativa dei 
                    birocciai, tenuto tre anni prima alla Locanda del Leoncino 
                    in S. Croce sul quale così si esprime il giornale “la 
                    Giustizia”: “Il pranzo, ricco ed ottimamente servito, 
                    passò fra la più viva cordialità rallegrato 
                    anche dalla presenza di molte belle ragazze che si affacciavano 
                    di quando in quando, spettatrici gentili, alle finestre prospicienti 
                    il vasto cortile ove era imbandita la tavola di 80 coperti”. 
                     
                    Invece l’evento di Massenzatico è presentato, 
                    nelle prenotazioni, come “banchetto economico a lire 
                    una”, e nel resoconto ci si trova “davanti alla 
                    nuova casa, modesta ma elegante[…] seduti ad un pasto 
                    semplice e frugale, affratellati dalla comunanza dei sentimenti”. 
                     
                    È abbastanza evidente come fossero ancora poche le 
                    “aristocrazie” che potevano celebrare il loro 
                    sodalizio con una gastronomia “ricca”, mentre 
                    in genere nelle occasioni conviviali operaie si citano le 
                    idee, qualche volta si fa riferimento alla festa o alla bicchierata, 
                    raramente ci si dilunga nel descrivere quel che si mangia. 
                     
                    Il motivo si può intuire leggendo un qualsiasi saggio 
                    di storia dell’alimentazione: fino ai primi del Novecento, 
                    e in certi casi fino al secondo dopoguerra, il sostentamento 
                    delle classi povere nella nostra regione si basava sulla cosiddetta 
                    “economia della minestra”.  
                    Per meglio dire, che si stesse in città o in campagna, 
                    le cose che mangiavano quotidianamente i poveri potevano essere 
                    in diverse proporzioni ma erano quelle due: minestra e polenta. 
                    La minestra salvo nei festivi era acqua insaporita da verdure, 
                    e sulla polenta era già festa quando ci si poteva spalmare, 
                    condividendola con una numerosa famiglia, la mitica “saracca”. 
                     
                    La storia degli operai e dei contadini è fin qui una 
                    storia di privazioni, e di malattie da cattiva alimentazione, 
                    come la pellagra che imperversa almeno fino agli anni Dieci. 
                    Molto dipende anche dalle annate e dalle congiunture economiche: 
                    per gli ultimi 3-4 anni dell’Ottocento alcuni storici 
                    hanno parlato di “digiuno nazionale”.  
                    Ma queste privazioni nel nostro caso sono vissute da persone 
                    che hanno la consapevolezza di muoversi per costruire un mondo 
                    nuovo, ed organizzano questa capacità creativa a partire 
                    dal pane quotidiano. Le mense per i poveri organizzate dai 
                    comuni e da associazioni caritatevoli un po’ in tutte 
                    le città vengono bollate dai socialisti come paternalistiche, 
                    e si cercano soluzioni alternative a quella minestra (come 
                    abbiamo visto, nel senso letterale del termine, anche se alla 
                    mensa di Reggio il consenso popolare ebbe un’impennata 
                    quando si decise di aggiungere di tanto in tanto alla zuppa 
                    di verdura un po’ di lardo e cotica di maiale…). 
                   
                    
                    Fiorire di caseifici cooperativi  
                  Un filone è senz’altro quello della cooperazione, 
                    nella quale eccellevano i reggiani della scuola di Prampolini, 
                    la cui capacità costruttiva non è in discussione 
                    anche per le forti ripercussioni che ha in città e 
                    in provincia nel tessuto sociale. Questa riguarda in primis 
                    lo scambio di prodotti alimentari, e contribuisce senz’altro 
                    nel corso del ’900 a modificare la dieta e a mettere 
                    sulle tavole di molti lavoratori qualcosa di un po’ 
                    più “grasso”.  
                    Non a caso risale al 1903 questo eccezionale documento sul 
                    veglione del circolo socialista di Albinea dove è riportato 
                    il menù di quella serata, che è lo stesso che 
                    sarà riproposto qua stasera.  
                    Saranno fra gli altri i socialisti a convincere i contadini 
                    del Reggiano, Modenese e Parmense a privilegiare l’allevamento 
                    delle vacche per la mungitura, contribuendo al notevole incremento, 
                    nel primo ventennio del secolo, della produzione del mitico 
                    Parmigiano-Reggiano. Fioriscono in quegli anni numerosissimi 
                    caseifici cooperativi, che caratterizzano in maniera originale 
                    il tessuto sociale delle nostre campagne, che da quel momento 
                    avranno anche una alimentazione più ricca di quella 
                    delle province vicine (il formaggio era del resto efficace 
                    contro la pellagra).  
                    In generale nei primi anni del XX secolo la situazione alimentare 
                    comincia lentamente a migliorare e più persone possono 
                    permettersi di gustare i piaceri della tavola. Da Forlimpopoli, 
                    sempre sulla via Emilia, comincia la fortuna del libro dell’Artusi, 
                    , che è dapprima rivolto a un pubblico borghese, ma 
                    data la sua semplicità verrà distribuito presso 
                    cerchie sempre più vaste. In una dedica all’autore 
                    un altro romagnolo, Lorenzo Stecchetti, fa un paragone fra 
                    le ingiustizie nella società e quelle fra le scienze, 
                    che relegavano ancora alimentazione e gastronomia nel limbo 
                    delle discipline prive di autorevolezza.  
                    Ma oltre a riformisti e umanitari, anche le correnti rivoluzionarie, 
                    che erano presenti nelle case del popolo e nelle varie esperienze 
                    mutualistiche, non rimangono a guardare: le cucine del popolo 
                    dei primi decenni del novecento sono anche le “mense” 
                    organizzate dai sindacalisti rivoluzionari durante gli scioperi 
                    generali, antenate delle cucine comuniste già citate 
                    in questo convegno.  
                    Lo sciopero generale è il grido di battaglia di quelle 
                    leghe e unioni di industria che non si riconoscono nella linea 
                    riformista della Confederazione Generale del Lavoro (fondata 
                    nel 1906) che si costituiranno nei comitati di azione diretta, 
                    per poi diventare nel 1912 l’Unione Sindacale Italiana, 
                    o rimanere in sindacati di settore molto combattivi sia interni 
                    alla Confederazione che autonomi.  
                    All’epoca uno sciopero non viene convocato per quattro 
                    ore dopo aver sentito il rappresentante del ministero per 
                    il welfare: può durare diversi mesi, e c’è 
                    il problema del sostentamento. La cucina assume dunque un 
                    aspetto fortemente comunitario e solidaristico. Fonti orali 
                    ci testimoniano che nei paesi delle Apuane, fra cui Gragnana, 
                    che ospitarono i figli degli scioperanti della dura lotta 
                    agraria del parmense del 1908 vennero organizzate apposite 
                    mense per nutrirli, alle quali contribuiva tutta la comunità 
                    locale.  
                    Nel filone sindacalista sono presenti in gran numero gli anarchici. 
                    Ma questi partecipano in varie situazioni anche alle esperienze 
                    delle case del popolo, degli spacci cooperativi e delle Università 
                    Popolari anche perché in molti casi le camere del lavoro 
                    condividono sedi con queste associazioni. In particolare nell’Emilia-Romagna 
                    la presenza delle Case, nei primi vent’anni del Novecento 
                    è capillare in ogni paese, e l’attività 
                    anarchica è più intensa che in molte altre regioni. 
                     
                    Questa presenza caratterizza senz’altro alcune delle 
                    esperienze più vivaci in termini culturali, e anche 
                    culinari.  
                    È certo che gli anarchici, che si preoccupano di costruire 
                    l’umanità nuova per il mondo nuovo, non si limitano 
                    a rivendicare il pane, ma cercano di applicare al cibo i loro 
                    concetti ideali, anche se lo faranno per strade molto differenti. 
                    Proprio per questo bisogna stare attenti agli stereotipi: 
                    alcuni predicheranno il vegetarianesimo, altri saranno astemi. 
                    Se da una parte abbiamo già parlato di Bakunin, dall’altra 
                    uno dei miti internazionali dell’anarchismo d’azione, 
                    Buenaventura Durruti, non beveva e non fumava per precisa 
                    scelta ideologica.  
                    Un filone da approfondire sarebbero invece gli apporti sulla 
                    cucina quotidiana e collettiva delle nozioni di igiene che 
                    venivano insegnate nelle Università Popolari. Secondo 
                    il Sorcinelli, la cucina del tempo che fu non era affatto 
                    sana, ma spesso mal cucinata e veicolo di malattie. Possiamo 
                    supporre che queste ultime nel Novecento diminuiscano anche 
                    per l’avanzare della cultura popolare.  
                    
                  “Passerella” 
                    delle cuoche di Massenzatico nel teatro, al termine del veglione 
                    rosso, accolte dall’ovazione dei presenti  
                    
                    Strade fantasiose  
                  Alcuni troveranno strade fantasiose: è emblematico 
                    l’esempio di quell’anarchico di Mercato Saraceno 
                    che aveva “brevettato” il cappelletto unico di 
                    due etti per risolvere il problema dello sfruttamento del 
                    lavoro femminile, ed era molto fiero di offrirlo agli ospiti. 
                    Può sembrare un aneddoto ingenuo, ma crediamo che sia 
                    assolutamente significativo di una serie di sforzi nel quotidiano 
                    per trovare la coerenza fra vita e ideale: in una società 
                    che in campagna vive ancora secondo schemi rigidamente patriarcali, 
                    il cappelletto che risparmia molte ore di lavoro alle donne 
                    in nome dell’emancipazione femminile e del progresso 
                    dell’umanità è un fatto rivoluzionario. 
                     
                    Questo discorso si collega con la trasformazione del Primo 
                    Maggio da sciopero illegale a festività riconosciuta. 
                    Vi si trasferisce la tradizione della cucina del giorno di 
                    festa, che in area emiliano-romagnola vede il trionfo dei 
                    cappelletti, oppure dei tortellini. Piano piano i cibi consumati 
                    per questa occasione cominciano ad assumere la valenza simbolica 
                    della festa stessa e dunque esorcizzare, in qualche modo, 
                    il potere del momento, come già avveniva in alcune 
                    zone della Romagna con gli strozzapreti, piatto evidentemente 
                    anticlericale; pare venissero confezionati maledicendo il 
                    clero se per caso qualche tonaca nera passava per strada. 
                     
                    Nel Reggiano, la memoria collettiva ha associato all’antifascismo 
                    il tradizionale pasto dei cappelletti in brodo con lambrusco 
                    come piatto antifascista. Beh, il lambrusco già ai 
                    primi del secolo serviva per i battesimi laici.  
                    Ma secondo poi Franzoni e Bonaretti, aveva anche molti motivi 
                    per essere antifascista: in primo luogo era rosso, in secondo 
                    luogo si univa, nel tradizionale “surbir”, al 
                    brodo dei cappelletti. Questi cappelletti sono un’altra 
                    delle eminenti vittime delle violenze squadriste del ventennio, 
                    perché, essendo proibito festeggiare il primo maggio, 
                    le squadracce erano solite perlustrare quel giorno le case 
                    dei possibili oppositori, e se scoprivano qualcuno mangiare 
                    i cappelletti, non solo punivano il responsabile, ma distruggevano 
                    a manganellate la pietanza medesima.  
                    Si esponevano così ancora di più allo scherno 
                    popolare, molto vivace nella nostra provincia in quegli anni, 
                    secondo il quale “i fasèsta stanghèven 
                    i caplèt”. Scherno che per altro era frequente 
                    grazie anche a figure quali Ulderico Zilocchi. Alla cospirazione 
                    cittadina contribuirono alcuni militanti del vecchio gruppo 
                    anarchico “Spartaco”, che per tutto questo tempo 
                    ne conservarono la bandiera e gli archivi, per poi consegnarli 
                    ai militanti dei gruppi anarchici del dopoguerra.  
                    L’alimentazione dunque diventava fatto politico, e se 
                    per Feuerbach “l’uomo è ciò che 
                    mangia”, per gli antifascisti reggiani questa identità 
                    non era solo fisiologica, ma sovversiva.  
                    E come ultima e migliore pernacchia alla faccia dei prepotenti 
                    in camicia nera, a partire dal 1945 i cappelletti a Reggio 
                    si fanno regolarmente non solo il primo maggio, ma anche il 
                    25 aprile. 
                   
                  
                   Federico Ferretti 
                 Bibliografia 
                  essenziale  
                • 
                  AA. VV., Le case del popolo.  
                  • Artusi Pellegrino, La scienza in cucina e l’arte 
                  di mangiar bene, Firenze, Giunti, 1960.  
                  • Braudel Fernand, Civiltà materiale, economia 
                  e capitalismo. Le strutture del quotidiano, Torino, Einaudi, 
                  2001.  
                  • Camporesi Piero, Alimentazione, folclore, società, 
                  Parma, Pratiche editrice, 1980.  
                  • Canovi Antonio, Poveri in città. Beneficienza 
                  e cucine a Reggio Emilia, in “L’almanacco” 
                  n. 22, Reggio Emila, ist. P. Marani, 1993.  
                  • Fincardi Marco, Il pasto in piazza, in “L’almanacco” 
                  n. 22, Reggio Emilia, ist. P. Marani, 1993.  
                  • Franzoni Guerrino, Bonaretti Enrico, Il lambrusco 
                  antifascista, Reggio Emilia, 1975.  
                  • Geddes Patrick, Città in evoluzione, 
                  Milano, Il Saggiatore, 1970.  
                  • Manfredi Valerio Massimo, Malnati Luigi, Gli Etruschi 
                  in val Padana, Milano, Mondadori, 2003.  
                  • Paterlini Marco, Le “forme” del socialismo, 
                  in “L’almanacco” n. 22, Reggio Emilia, ist. 
                  P. Marani, 1993.  
                  • Sorcinelli Paolo, Gli italiani e il cibo, Bologna, 
                  Clueb, 1992.  
                  
                
                  Interno 
                    del teatro, dopo il veglione rosso, al canto dell’Internazionale 
                   
                    
                 
                
                  
                     
                      |    Scheda 
                          dei relatori del convegno  
                        Fiamma 
                          Chessa, La Locanda itinerante di Aurelio 
                           
                          curatrice dell’“Archivio Famiglia Berneri 
                          – Aurelio Chessa”, Reggio Emilia  
                        Alberto 
                          Ciampi, Il bicchiere ribelle  
                          architetto, studioso e storico delle avanguardie internazionali, 
                          redattore della rivista “ApARTe”  
                        Giorgio 
                          Sacchetti, Il cibo e la lotta. Mense comuniste 
                          e rivendicazioni gastronomiche: il caso dei minatori 
                          del Valdarno  
                          dottore di ricerca, autore di studi sul movimento operaio, 
                          direttore della “Rivista storica dell’anarchismo”, 
                          collaboratore di “Slow Food”  
                        Luigi 
                          Veronelli, I vini della libertà 
                           
                          enologo di fama internazionale, autore delle prime guide 
                          italiane su vini, ristoranti ed oli, editore e pubblicista 
                           
                        Federico 
                          Ferretti, La cucina sociale della Via Emilia 
                           
                          studioso e pubblicista specializzato in geografia sociale 
                           
                        Guido 
                          Andrea Pautasso, La cucina dell’Avanguardia 
                          artistica e letteraria  
                          scrittore e protagonista eclettico dei movimenti d’avanguardia 
                          artistica e  
                          letteraria italiani  
                        Marco 
                          Rossi, L’alimentazione della Resistenza 
                           
                          saggista e storico della resistenza antifascista italiana 
                            | 
                     
                   
                 
                  
                 
                Compagna 
                  lambrusca  
                  Compagno lambrusco  
                I 
                  vini della libertà  
                Voglio 
                  spiegare al mondo perché il Lambrusco è l’unico 
                  vino di libertà.  
                  Lo spiego io, perché io li ho conosciuti bene: Libero 
                  e Libera, Spartaco, Lenin, Emma detta la Rossa, Solidea e Solidario, 
                  Comunardo, Rivoluzio. Tutti battezzati con il Lambrusco.  
                  Nelle case del popolo, costruite in faccia alle chiese, frizzante 
                  e rosso il sugo nelle uve reggiane e modenesi colava sulle fronti 
                  di quei bambini, figli di socialisti e anarchici, per aspersorio 
                  un cucchiaino: “Io ti battezzo Libertà”. 
                   
                  Sgocciolavano su quei destini nomi forti, densi, carichi, non 
                  mitologici: Reclus, Eliseo, Jenner, Luisa, Giordano Bruno, Juarés. 
                  Nomi che sei già grande appena nato. “Io ti battezzo 
                  Eguaglianza”.  
                  Il fascismo ne fece strage, bestiale, anche all’anagrafe: 
                  di Comunardo restò solo Nardo.  
                  Erano gocce di un prodotto vivo, profumato di terra, effervescente, 
                  rosso, nero in bottiglia. L’acqua stagnante dei battesimali, 
                  ferma, stantìa, al confronto sbiadiva. In quelle chiese 
                  piccole e innalzate al cielo si pensava ad altrove, il naso 
                  per aria. Noi nelle case del popolo tenevamo i piedi per terra 
                  e le facevamo più larghe e basse che potevamo, perché 
                  più ampie erano, più donne e uomini potevano contenere, 
                  a cercare qui, il loro paradiso  
                  proletario.  
                  Esiste dalla notte dei tempi, il Lambrusco, da Romolo e Remo. 
                  Vitigni selvatici, ribelli, incontrollati. Non facili da governare, 
                  da trattare con rispetto. È Lambrusco, ma anche Lambrusca, 
                  e questo piaceva a noi donne anarchiche di Santa Croce, con 
                  la lavalliére al collo in segno di emancipazione.  
                  I vecchi anarchici lo ricordavano con orgoglio: “Mé 
                  sun stèe batzèe cun al Lambròsc”. 
                  Trovate un altro vino al mondo così. E che sappia innaffiare 
                  i tortelli e i cappelletti antifascisti così bene, che 
                  ti alzi da tavola con la voglia di cantare. Cercate pure, io 
                  brindo con voi a Lambrusco.  
                Reggio 
                  Emilia, 30 Ottobre 2004  
                 
                    
                  La cuoca rosso-nera 
                 
                  
                
                  
                     Scheda 
                        dei promotori e degli sponsor  
                      Il 
                        comitato promotore del convegno:  
                        Archivio Storico-Libreria della FAI reggiana  
                        “A Rivista Anarchica”  
                        Associazione Aprile di Reggio Emilia  
                        Associazione Giustizia e Libertà  
                        Associazione Socrate Reggio Emilia  
                        “Carta – Cantieri Sociali”  
                        Cooperativa La Collina  
                        Cooperativa Mag 6  
                        Federazione Anarchica Reggiana  
                        FIAP – Federazione Italiana delle Associazioni Partigiane 
                         
                        Infoshop Mag 6  
                        Laboratorio Sociale AQ16  
                        Partito dei Comunisti Italiani  
                        Rifondazione Comunista  
                        Spazio Sociale Kronstadt  
                        Verdi Reggio Emilia  
                      Gli 
                        sponsor:  
                        Azienda agricola La Collina – Codemondo 
                        (RE)  
                        Cooperativa sociale agricola a coltivazione biologica 
                        e biodinamica.  
                      Azienda 
                        agricola Reggiana – Borzano di Albinea 
                        (RE)  
                        Azienda vitivinicola posizionata sulle colline di Albinea. 
                        L’azienda lavora nei vigneti in forma di lotta integrata 
                        a basso impatto ambientale, con trattamenti a necessità 
                        e non a calendario. Produce diversi vini, lambruschi e 
                        bianchi delle colline di Scandiano, mosto cotto per aceto 
                        balsamico e aceto balsamico tradizionale.  
                      Cantina 
                        Garibaldi – Cavriago (RE)  
                        Osteria da battaglia.  
                      Cooperativa 
                        sociale Elfo – Reggio Emilia  
                      Osteria 
                        Lido Enza – Brescello (RE)  
                        L’Osteria Lido Enza propone i cibi particolari della 
                        tradizione della Bassa reggiana. La "rivoluzione 
                        in cucina" ricerca i cibi particolari, contro la 
                        "non-cultura" dei sapori.  
                      Terraviva-Frutta 
                        e verdura secondo natura – Rondinara di 
                        Viano (RE)  
                        Terraviva è un piccolo podere immerso nel verde 
                        e nel silenzio della natura, nelle prime colline dell'Appennino 
                        reggiano, con acqua di sorgente, letame e una terra generosa. 
                        Si coltivano verdure senza l'uso di sostanze chimiche; 
                        i boschi e i prati della zona donano frutti di varietà 
                        antiche, sulle quali Terraviva è impegnata in una 
                        costante ricerca.  
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