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                  Sudan 
                  Una catastrofe disumana 
                    di Edoardo Puglielli 
                    
                  La crisi che attraversa il Darfur 
                    è forse la più tragica dei nostri tempi.  
                    
                   
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                  Dopo un periodo di 
                    transizione sostanzialmente pacifico, nel 1983 riprende una 
                    nuova fase del conflitto quando Nimeiri, per contrastare le 
                    crescenti tensioni con la Libia, impone la legge marziale 
                    nel Paese, riduce l’autonomia precedentemente concessa 
                    alle regioni del sud, alle cui popolazioni tenta anche di 
                    estendere la legge coranica (shariah).  
                    Alcune divisioni dell’Esercito dislocate nelle regioni 
                    meridionali si ribellano e una di esse, agli ordini di John 
                    Garang, diventa la matrice del Sudan People’s Liberation 
                    Army (SPLA); contro le forze governative viene scelta la lotta 
                    armata.  
                    Nell’aprile del 1985 una cruenta rivolta popolare scoppia 
                    a Khartoum: un sanguinoso colpo di stato porta alla caduta 
                    di Nimeiri.  
                    I ribelli iniziano a ricevere finanziamenti da amministrazioni 
                    o gruppi armati di Paesi vicini e lontani, fra cui Uganda, 
                    Eritrea, Israele e Stati Uniti. Questi ultimi pochi anni prima 
                    erano impegnati ad addestrare Osama Bin Laden e i suoi seguaci 
                    per uccidere i sovietici, inviando loro, tramite la CIA, 3 
                    miliardi di dollari. Nel 1982 fornivano miliardi a Saddam 
                    Hussein per armi destinate ad uccidere gli iraniani; nel 1983 
                    inviavano segretamente armi all’Iran per uccidere gli 
                    irakeni (1).  
                    Dopo un anno di dominio militare, Sadeq el-Mahdi, leader del 
                    partito Umma, costituisce un governo civile di coalizione; 
                    non riesce però ad affrontare i gravi problemi del 
                    paese e a far cessare la guerriglia.  
                    Nel giugno del 1989 un nuovo colpo di stato militare, guidato 
                    da Omar Hassan El-Bashir, rovescia il governo e inizia una 
                    cruenta repressione dell'opposizione politica. Il nuovo governo 
                    è costituito da un gruppo militare dominato dal Fronte 
                    nazionale islamico del Sudan (NIF), organizzazione fondamentalista 
                    il cui braccio politico è il Partito del congresso 
                    nazionale.  
                    Il conflitto si concentra soprattutto nel sud dove provoca 
                    milioni di vittime, costringendo una sproporzionata percentuale 
                    di abitanti ad abbandonare le case per cercare rifugio nei 
                    campi profughi, anche fuori dei confini nazionali specie in 
                    Uganda e in Kenya.  
                    Nello stesso tempo l'esodo della popolazione e lo svolgimento 
                    delle operazioni militari limitano fortemente, e talvolta 
                    bloccano, lo sviluppo economico dell'intera regione (2). 
                    Nei primi anni Novanta si aggiungono i problemi generati da 
                    un'ondata di profughi etiopi.  
                    Durante i conflitti entrambe le fazioni in lotta si rendono 
                    colpevoli di gravissime violazioni dei diritti umani: lo SPLA, 
                    sostenuto dagli USA, è accusato di avere arruolato 
                    molti bambini costringendoli a militare nei propri ranghi 
                    con la forza e di avere gestito gli aiuti umanitari in maniera 
                    monopolistica, negandoli in diverse circostanze alla popolazione 
                    aggravando così il problema frequente della carestia. 
                     
                    Il regime di Khartoum è invece accusato di avere deportato 
                    al nord come schiavi un gran numero di persone e di avere 
                    ordinato alle forze governative, in particolare all’aviazione, 
                    di condurre azioni contro obiettivi civili, anche con l'utilizzo 
                    di armi “non convenzionali” come i gas letali, 
                    provocando stragi indiscriminate.  
                    Nel 1995 il regime sudanese è accusato di complicità 
                    con i terroristi che avevano attentato alla vita del presidente 
                    egiziano Hosni Mubarak.  
                    Le elezioni svoltesi nel marzo del 1996 riconfermano al potere 
                    El-Bashir, mentre il leader islamico Hassan Tourabi è 
                    nominato presidente del Parlamento.  
                    Concedendo asilo politico a molti integralisti, il Sudan diventa 
                    uno dei centri di riferimento per il fondamentalismo islamico 
                    e, per Dipartimento di Stato statunitense, entra a far parte 
                    dei sette "Stati canaglia" accusati di sostenere 
                    il terrorismo internazionale. L’Iraq intanto invadeva 
                    il Kuwait con armi provenienti dagli USA che, a loro volta, 
                    nel 1991, entravano in Iraq e insediavano di nuovo il dittatore 
                    del Kuwait.  
                    Tra il 1992 e il 1996, espulso dall’Arabia Saudita, 
                    Osama Bin Laden si trasferisce in Sudan. Qui stabilisce un 
                    patto di interesse con il governo di El-Bashir, impegnato 
                    nello sfruttamento intensivo dei ricchi giacimenti petroliferi 
                    del Sudan meridionale. Le raffinerie ci sono, mancano le infrastrutture: 
                    oleodotti, strade, ponti e aeroporti. Osama interviene con 
                    i suoi capitali e le sue imprese di costruzioni. Realizza 
                    una grande strada, la Thaadi Road (“strada rivoluzionaria”) 
                    che collega la capitale Khartoum a Port Sudan, nel Mar Rosso. 
                    La strada è davvero rivoluzionaria per il governo sudanese 
                    perché consente il supporto della costruzione degli 
                    oleodotti che trasportano il greggio dai giacimenti della 
                    regione interna di Bahr el Gazal al porto.  
                    Osama prende come terza moglie una nipote di Hassan Tourabi. 
                    Ufficialmente Osama è stato pagato dal governo sudanese 
                    con la cessione della Conceria di Khartoum. In realtà 
                    Bin Laden viaggia con passaporto diplomatico sudanese, usa 
                    le ambasciate sudanesi come basi d'appoggio di tutto il mondo 
                    e versa propri capitali nelle banche di Khartoum. Mette in 
                    piedi anche una finanziaria, la Taba Investment Fund, utilizzata 
                    per riciclare la valuta sudanese in dollari e sterline.  
                    Nel 1996 il governo del Sudan cede a pressioni interne e chiede 
                    ad Osama di lasciare il Paese. Lui si sposta in Afghanistan 
                    (l'Arabia Saudita non lo riaccoglie e, anzi, lo priva della 
                    cittadinanza) ma lascia in Sudan uomini fidati e grossi interessi 
                    economici.  
                    I giacimenti petroliferi si trovano quasi tutti nel Sud, dove 
                    infuria la guerra civile. Spesso i ribelli dello SPLA attaccano 
                    i pozzi. Nel gennaio 2000 Amnesty International denuncia la 
                    presenza di "strani mujaheddin" afgani, malesi e 
                    filippini a guardia dei giacimenti petroliferi sudanesi.  
                    
                    
                    Nord Sudan 1996/97  
                  All'inizio del 1997 l'opposizione sudanese annuncia con orgoglio 
                    di aver portato la guerra nel Nord Sudan: in realtà, 
                    la guerra era presente nel Nord dal luglio 1985.  
                    Non c'è facile accesso ai Monti Nuba dalle frontiere 
                    internazionali. Le forze dello SPLA in quell'area sono isolate. 
                    Raramente vengono rifornite di armi, e gli ufficiali non hanno 
                    avuto promozioni per molti anni. Inoltre, nel dicembre 1995, 
                    l'Alto Comando dello SPLA ha richiamato tutti gli ufficiali 
                    anziani (dal grado di primo luogotenente in su) ai quartieri 
                    generali del Sud. Dato il tragico isolamento dei Monti Nuba, 
                    ci sono voluti mesi per alcuni di loro per tornare, lasciando 
                    così truppe di 6000 uomini sotto il comando di luogotenenti 
                    in seconda per diversi mesi e senza ufficiali per molto più 
                    tempo.  
                    All'inizio del 1996, in risposta alla minaccia militare da 
                    parte delle forze di opposizione nel Sudan dell’Est 
                    (Nilo Blu, Kassala e regione del Mar Rosso), il governo sudanese 
                    decide di concentrare lì le proprie forze. Si ritira 
                    da alcune zone del Sud, mantenendo però il controllo 
                    sulle città principali, i pozzi di petrolio e la strada 
                    del Nilo verso Malakal.  
                    Con questa mossa cerca di tenere la principali forze dello 
                    SPLA a sud del “nono parallelo” (3), 
                    con l’intento di assestare un colpo definitivo alle 
                    forze ribelli a Nord di quella linea (4) 
                    per poi concentrarsi sulla minaccia proveniente da Est.  
                    Il governo conta sul fatto di poter neutralizzare la minaccia 
                    posta dalle principali forze dello SPLA nel Sud soprattutto 
                    dando sostegno a gruppi secessionisti e promuovendo ulteriori 
                    divisioni fra i ribelli. Spera inoltre che l’insistenza 
                    di John Garang, a che i suoi rivali politici interni si riunifichino 
                    secondo le sue proposte, rimanderebbe qualsiasi assestamento 
                    interno al movimento nel Sud.  
                    Questa aspettativa è giustificata e, nell'aprile 1996, 
                    il governo firma una Carta con il Movimento per l'Indipendenza 
                    del Sud Sudan e il gruppo dello SPLA del Bahr el Ghazal. Dietro 
                    il linguaggio elevato, questo è di fatto un patto di 
                    difesa: le concessioni politiche del governo sono di facciata 
                    e ipotetiche (verranno rinnegate nel giugno 1997).  
                    Anche se il governo perde vaste aree dell'Equatoria e del 
                    Bhar el Ghazal, il suo obiettivo di guerra rimane intatto: 
                    mantenere le principali forze dello SPLA a sud del nono parallelo. 
                     
                    Nella zona “di transizione” (fra il nono e il 
                    dodicesimo parallelo a nord) il governo lancia grandi offensive, 
                    ripetutamente, nella zona meridionale del Nilo Blu e nel Kordofan 
                    del Sud, e anche alcuni attacchi contro le forze dello SPLA-United 
                    nella zona settentrionale dell'Alto Nilo (5). 
                    I ribelli non sono comunque pronti per raggiungere un accordo. 
                    Nel frattempo l'offensiva procede, catturando aree strategiche 
                    nel Kordofan del Sud e alcune parti delle aree controllate 
                    dall'SPLA-United nell'Alto Nilo. Si svolgono pesanti combattimenti 
                    nel sud del Nilo Blu ma le forze dello SPLA non vengono fatte 
                    indietreggiare dall'area.  
                    A questo punto il teatro principale degli scontri diviene 
                    il Sudan dell'Est, con fronti di guerra nella zona meridionale 
                    del Nilo Blu, a Kassala e nella regione del Mar Rosso. Le 
                    forze di opposizione nel Sudan dell'Est non vengono sconfitte, 
                    ma il governo riesce ad utilizzare le forze del SSLM (Southern 
                    Sudan Liberation Movement) come reparto di assalto nei suoi 
                    attacchi contro le posizioni dello SPLA nel sud del Nilo Blu, 
                    conservando le proprie principali forze del Nord per il fronte 
                    orientale.  
                    Entro metà 1997 il governo non riesce sconfiggere le 
                    forze di opposizione ad Est e, piuttosto che sprecare le proprie 
                    risorse militari in futili attacchi, si concentra nel contenimento 
                    di un’ulteriore espansione dell'opposizione, mantenendo 
                    le forze principali a difesa delle grandi città. Questo 
                    gli garantisce sufficiente forza militare per intraprendere 
                    offensive nel Sud Kordofan e altrove.  
                    
                    La guerra continua  
                  La strategia del governo sudanese nei Monti Nuba è 
                    quella di commettere crimini contro le persone e le proprietà 
                    dei civili, usando il terrore e l'impoverimento per tentare 
                    di obbligarli alla sottomissione. Questa strategia raggiunge 
                    la sua conclusione attraverso un largo impiego di comuni criminali, 
                    riconosciuti poi come membri delle forze di governo.  
                    Ripetutamente, a distanza di pochi anni, il governo dichiara 
                    la vittoria sullo SPLA nella zona occidentale dei Monti Nuba. 
                    Questa affermazione non è mai confutata perché 
                    le informazioni indipendenti non sono disponibili. Ma nel 
                    maggio del 1992 le affermazioni governative di aver ripulito 
                    Tullishi dai ribelli risultarono infondate dato che una piccola 
                    forza di meno di un migliaio di combattenti dello SPLA resistettero 
                    ad un attacco governativo di quattro mesi portato da oltre 
                    30.000, soldati supportati dall'artiglieria e dagli aerei. 
                    Nel 1997, simili affermazioni governative di aver resa sicura 
                    l'intera area, sono prese con scetticismo. I rapporti sui 
                    combattimenti nella parte occidentale dei Monti Nuba sono 
                    incompleti e richiedono una verifica.  
                    
                    
                    Fame e sfollati  
                  La sofferenza inflitta dalle forze militari sudanesi in termini 
                    di assassinii e distruzioni è poi accompagnata dalla 
                    fame che segue lo spostamento forzato della popolazione. L'area 
                    di Debi-Tabari-Regifi Um Dulu è una delle più 
                    fertili dei Monti Nuba: ora è deserta. Gli agricoltori 
                    che fino a poco tempo fa producevano abbastanza cibo per sfamare 
                    le famiglie ed anche gli sfollati, ora sono al limite della 
                    miseria. Gli allevatori sono alla ricerca disperata di pascoli. 
                     
                    Gli sfollati sono ridotti a costruirsi ripari minimi con erba 
                    e legni; molta gente invece vive in caverne o sotto speroni 
                    di roccia. A dispetto delle accuse e delle pressioni internazionali, 
                    il governo del Sudan mantiene uno stretto embargo sull’area 
                    non controllata dei Monti Nuba.  
                    Nel 1996 si insistette perché i Monti Nuba fossero 
                    inclusi nei soccorsi delle Nazioni Unite. Questa raccomandazione 
                    non è mai stata seguita.  
                    La regione dei monti Nuba è stata assente nel trattato 
                    di pace dell'aprile del 1997.  
                    Dato che la guerra in questi luoghi è lontana dai confini 
                    di altri paesi e non crea profughi, i Nuba rimangono assenti 
                    dall'agenda internazionale. Le agenzie delle Nazioni Unite 
                    sembrano aver dovuto trascurare il problema per non andar 
                    contro molti interessi istituzionali stabiliti, come per esempio 
                    mantenere gli accessi umanitari nel Sud o fornire programmi 
                    di sviluppo nel Nord. Solo alcune organizzazioni umanitarie, 
                    per i diritti umani e religiosi, sono state pronte ad assistere 
                    la popolazione nuba. (...).  
                    
                    
                    Petrolio: le ricerche  
                  L’Italia, con l’Eni, fu tra i primi paesi ad 
                    effettuare ricerche nel paese. Dopo quelle negli anni ’30 
                    della Shell e negli anni ’50 di Mobil e Total, fu l’italiana 
                    AGIP ad avviare le ricerche nella seconda metà degli 
                    anni ’50. L’AGIP Sudan, proprio nel 1999 (nel 
                    momento in cui cominciavano ad emergere i primi risultati) 
                    viene venduta a compagnie private dell’Africa orientale. 
                     
                    Oggi l’Italia è il terzo acquirente di petrolio 
                    sudanese.  
                    Il Paese viaggia alla media di un debito estero pari a 16 
                    miliardi di dollari l'anno. Avrebbe dovuto versare quasi 60 
                    milioni di dollari al Fondo monetario internazionale che, 
                    nel 1993, taglia al Sudan i finanziamenti.  
                    All'inizio del 1999 viene terminato l'oleodotto (1.600 chilometri) 
                    che collega l’area dei giacimenti con Port Sudan. Il 
                    30 agosto 1999 (quando l'oleodotto entra in funzione) il Fondo 
                    monetario internazionale promuove il Sudan da Paese “inaffidabile” 
                    ad “affidabile” (6). 
                     
                    Entrano in gioco grossi capitali stranieri.  
                    Il 30 agosto parte la prima petroliera con 600 mila barili 
                    di greggio. Destinazione: la raffineria della Royal Duth Shell 
                    di Singapore. Il Sudan può esportare 450 mila barili 
                    al giorno e garantirsi un'autonomia energetica per 15 anni. 
                    Un affare enorme, che El-Bashir sfrutta anche per reprimere 
                    le popolazioni del Sud.  
                    Il maggiore investitore estero nella costruzione dell'oleodotto 
                    è la China National Petroleum Corporation; la Cina 
                    è anche il principale fornitore di armi del Sudan. 
                   
				  
                  Il 
                    Sudan ha cominciato ad esportare petrolio nel 1999. L'anno 
                    scorso, questa esportazione ha fruttato 1,2 miliardi di dollari. 
                    Nel 2005, saranno 2 miliardi di dollari. Il più grande 
                    acquirente del petrolio sudanese è la Repubblica popolare 
                    cinese. Ecco la vera ragione della preoccupazione americana 
                    (7).
                   
                  I dissidi etnico-religiosi transitano in secondo ordine rispetto 
                    al controllo delle risorse produttive, specie quelle petrolifere, 
                    che peraltro, nel 2000, hanno acquisito ulteriore importanza 
                    per la scoperta di altri consistenti giacimenti.  
                    Se le cospicue ricchezze del sud hanno costituito nel passato 
                    un fortissimo richiamo per la classe dirigente del Paese, 
                    oggi sono diventate il vero motivo della guerra civile.  
                    Nell’Alto Nilo Occidentale si verificano scontri tra 
                    le diverse forze governative, per stabilire chi siano le responsabili 
                    della sicurezza dei campi petroliferi. I combattimenti causano 
                    l’ennesima ondata di profughi e la sospensione delle 
                    prospezioni petrolifere. Nel maggio 1999 l’oleodotto 
                    viene attaccato e danneggiato dalle forze dell’opposizione 
                    armata.  
                    Il 30 agosto 1999 (giorno in cui la prima petroliera lascia 
                    Port Sudan per Singapore) diventa una data storica. L'inizio 
                    dello sfruttamento di più di 2 miliardi di barili. 
                    La fine per le popolazioni delle aree petrolifere, costrette 
                    a lasciare le loro terre per permettere alle compagnie di 
                    lavorare indisturbate.  
                    Così, quando la Shell inizia a trasferire i primi 30.000 
                    barili di petrolio, si fa ricorso agli elicotteri governativi 
                    che, utilizzando le basi logistiche delle compagnie petrolifere 
                    (8), uccidono e cacciano la popolazione. 
                    Il governo sospende il permesso di atterraggio a tutti i voli 
                    umanitari e, dando prova di notevole cinismo, sostiene la 
                    tesi che le uccisioni e il massiccio esodo di popolazione 
                    siano causa di conflitti tra gruppi etnici locali, su cui 
                    non ha alcun controllo.  
                    
                    Petrolio: effetti collaterali  
                  Le principali compagnie petrolifere straniere che partecipano 
                    al Progetto petrolifero del Grande Nilo (una partnership da 
                    1,4 miliardi di dollari) sono la canadese Talisman Energy, 
                    la svedese IPC/Lundin, l’austriaca ÖMV (tutte private, 
                    partecipano al 25%), e la China National Petroleum Corporation 
                    (40%) la Malaysia's Oil Company Petronas (30%) e la sudanese 
                    Sudapet (5%), di proprietà dei rispettivi governi. 
                     
                    La Talisman Energy (ritiratasi dal paese nella prima metà 
                    del 2004) è oggi sotto accusa per complicità 
                    con il governo integralista di Khartoum, violazioni dei diritti 
                    umani, genocidio, pulizia etnica, schiavitù.
					 
                  La 
                    Talisman è in prima linea nella violazione dei diritti 
                    umani in Sudan ed è tempo che sia riconosciuta responsabile 
                    per il ruolo svolto nella brutale Jihad che sta uccidendo 
                    il mio popolo (9).   
                  Con 
                    l'inizio dello sfruttamento del petrolio la guerra ha preso 
                    una drastica svolta. E le responsabilità occidentali 
                    sono grandi. A cominciare da quelle delle compagnie petrolifere. 
                    Ma non solo. Prima era un conflitto tra poveri. Ora il governo 
                    di Khartoum dispone di armi sempre più micidiali. Molte 
                    sono state vendute dalla Cina in cambio delle concessioni. 
                    Ma è la Russia che oggi sta fornendo gli elicotteri 
                    e gli armamenti più sofisticati, che vengono usati 
                    per colpire la popolazione civile, per allontanarla dalle 
                    aree petrolifere e da quelle in cui si stanno facendo nuove 
                    prospezioni (10). 
					
                  La guerra prosegue per tutto il 1999 nel sud e nell’est 
                    del Paese. In un conflitto dove le regole di guerra vengono 
                    sistematicamente violate, i civili costretti a lasciare i 
                    villaggi sono le principali vittime. Tra queste, soprattutto 
                    le donne e i bambini finiscono per essere assassinati, sottoposti 
                    a stupri, saccheggi e sequestri e ridotti in stato di schiavitù. 
                    I bambini vengono costretti ad arruolarsi nelle varie milizie. 
                     
                    Nessuno viene processato per questi crimini.  
                    Nel dicembre 1999 El-Bashir scioglie il Parlamento del fondamentalista 
                    El-Tourabi privandolo di ogni potere e proclama lo stato d’emergenza. 
                     
                    Viene nominato un nuovo governo ma la guerra civile non sembra 
                    prossima ad una soluzione.  
                    
                    
                    A chi giova la guerra  
                  Nel 2002-2003 il petrolio è la prima fonte per l’export 
                    sudanese. Attualmente il valore dell’esportazione annua 
                    ha superato il miliardo di dollari. I proventi petroliferi 
                    sono tra le principali risorse del governo per le sue politiche 
                    di rafforzamento di sistemi militari.  
                    Alenia Marconi Systems, paritetica tra la britannica Bae Systems 
                    e l’italiana Finmeccanica, fornisce all’autorità 
                    di aviazione civile sudanese attrezzatura radar nell’ambito 
                    di un programma di implementazione del sistema radar civile. 
                    Dopo la fornitura della strumentazione per l’aeroporto 
                    civile della capitale, la seconda fase prevede l’installazione 
                    di radar di sorveglianza e controllo del traffico aereo in 
                    aeroporti del nord, del centro e del sud come Port Sudan, 
                    El Obeid, Juba. Quest’ultima località, che ospita 
                    un aeroporto internazionale, è in piena zona di conflitto, 
                    quindi con un traffico prevalentemente commerciale e di aiuti 
                    internazionali ma, soprattutto, militare. Nella vendita di 
                    questo tipo di tecnologie l’Italia si preoccupa poco 
                    del doppio uso – civile o militare – che ne può 
                    essere fatto, nonostante una legge che regola l’esportazione 
                    di prodotti ad elevata tecnologia imponga controlli sull’effettiva 
                    destinazione d’uso. In questo caso però, il governo 
                    italiano non ha ritenuto opportuno effettuare contestazioni, 
                    nonostante la posizione non certo trasparente del governo 
                    sudanese in materia di armi.  
                    Non c’è dubbio che il petrolio – o meglio, 
                    a chi appartiene e chi ci guadagna – sia la nuova causa 
                    di questo vecchio disastro. Il governo sudanese è riuscito 
                    facilmente a rompere il precedente isolamento internazionale 
                    ed ha potuto lanciare una campagna militare per “bonificare” 
                    una vasta area intorno ai campi petroliferi, così da 
                    garantire la sicurezza delle nuove prospezioni.  
                    Il petrolio costituisce il 70% delle esportazioni e concorre 
                    a bilanciare gli altri settori produttivi ma il Paese ha anche 
                    un forte indebitamento dovuto alle spese militari che, oltre 
                    ad assorbire gli introiti della maggiore risorsa sudanese, 
                    impediscono anche di stanziare fondi in investimenti di natura 
                    sociale.  
                    Accanto all’aumento degli sforzi militari nel sud e 
                    nell’est del Paese, il governo sudanese ha intensificato 
                    anche la repressione politica, ponendo agli arresti presunti 
                    oppositori (giornalisti, avvocati ed esponenti politici), 
                    sottoponendo ad intimidazioni e torture studenti e attivisti 
                    per i diritti umani e sopprimendo alcune testate giornalistiche. 
                     
                    Anche le organizzazioni non governative impegnate a portare 
                    soccorso alle popolazioni sudanesi hanno incontrato seri problemi: 
                    il capo dell’Ufficio Programmi dell’UNICEF, Hamid 
                    el-Basher Ibrahim, è stato arrestato nella sua abitazione, 
                    dalla quale sono stati prelevati il fax, il telefono e il 
                    computer. L’arresto dell’uomo, successivamente 
                    rilasciato senza alcuna accusa, è da mettere in relazione 
                    a un rapporto pubblicato dall’UNICEF sulla schiavitù 
                    nella zona di Wau, nel quale l’esercito e le PDF venivano 
                    accusati di sequestro e stupro di donne e bambini.  
                    Particolarmente vessate sono le donne, che nel Sudan centrale 
                    e anche nella capitale Khartoum, subiscono gravi limitazioni 
                    della loro libertà di movimento. L’Atto sull’Ordine 
                    Pubblico del 1992 impedisce alle donne che vogliono vendere 
                    i loro prodotti di circolare dalle 5 della sera alla stessa 
                    ora della mattina successiva. I passaporti per le donne che 
                    vogliono viaggiare all’estero sono emessi solo dietro 
                    permesso scritto di un tutore di sesso maschile. La violenza 
                    all’interno dei nuclei familiari – in cui i parenti 
                    maschi hanno un controllo totale sul corpo, i figli e i beni 
                    delle donne – si riproduce senza sosta.  
                    A Khartoum 24 studenti e studentesse sono stati arrestati 
                    e condannati dal Tribunale per l’Ordine Pubblico a 40 
                    frustate e a una multa per aver commesso atti indecenti e 
                    immorali e aver indossato abiti che “hanno causato reazioni 
                    negative nel pubblico”. Gli studenti stavano prendendo 
                    parte a un pic-nic organizzato col permesso dell’Università: 
                    le ragazze indossavano abiti occidentali (camicie, magliette 
                    e pantaloni) e tenevano per mano i loro colleghi mentre ballavano 
                    una danza tradizionale.  
                    Il 30 novembre 2003 (dopo due decenni di indifferenza da parte 
                    della comunità internazionale) sono stati ripresi in 
                    Kenya i colloqui tra il Governo di Khartoum e i ribelli del 
                    Sudan People's Liberation Army (SPLA) per porre fine alla 
                    guerra civile. I colloqui di pace, fra alterni e discontinui 
                    risultati, hanno portato ad un cessate-il-fuoco che dovrebbe 
                    preludere ad una pace definitiva, per cui, dopo sei anni di 
                    “transizione”, il sud del Paese dovrà raggiungere 
                    una larga autonomia da Khartoum.  
                    Le trattative sono supportate dal-l'IGAD (Inter-Governmental 
                    Authority for Developement), che abbraccia diversi Paesi confinanti, 
                    oltre anche agli USA. Proprio l'intervento del governo americano, 
                    anche se non certamente mirato per questioni umanitarie, è 
                    stato determinante nel raggiungimento di una intesa di massima: 
                    Washington ha, infatti, promesso enormi finanziamenti alle 
                    parti in cambio di un accordo di pace, che dovrebbe portare 
                    ad un significativo aumento della produzione di petrolio. 
                   
                    
                   
                    
                    Darfur: grave crisi umanitaria  
                  Mentre a sud sembra faticosamente aprirsi uno spiraglio di 
                    pace, nuovi timori sorgono per le crescenti violenze nella 
                    provincia del Darfur, regione desertica situata nel nord-ovest 
                    del Paese, ed abitata per lo più da tribù islamico-animiste 
                    nomadi. Negli ultimi anni quest’area è stata 
                    al centro di una campagna di repressione da parte del regime, 
                    che ha cercato di stabilirne il controllo utilizzando il pugno 
                    di ferro, tramite rastrellamenti, arresti e condanne a morte 
                    di oppositori, oltre ad abusi sulla popolazione civile da 
                    parte dell'esercito stesso o di squadre paramilitari.  
                    Alcune delle etnie locali più rappresentate (fra cui 
                    i Fur e i Masalit), sostenute dallo SPLA, hanno cominciato 
                    una nuova campagna di lotta armata contro il governo che, 
                    a sua volta, ha reagito rifiutando qualsiasi soluzione negoziale 
                    e replicando agli attacchi. I gruppi ribelli accusano il governo 
                    d’averli estromessi dalle trattative di pace e di sostenere 
                    le milizie arabe Janjaweed (“uomini a cavallo”, 
                    miliziani al soldo del governo centrale), responsabili di 
                    violenze contro la popolazione nera in Darfur.  
                    Amnesty International (11) si è 
                    recata nel Darfur. I suoi ricercatori raccolgono numerose 
                    testimonianze su massicce violazioni dei diritti umani compiute 
                    dai Janjaweed, aiutati dalle truppe regolari dell’esercito 
                    sudanese che, attraverso l’aviazione, lancia bombardamenti 
                    indiscriminati contro i villaggi. Le testimonianze confermano 
                    l’esistenza di un sistema di uccisioni illegali, stupri, 
                    sequestri, incendi di villaggi ed espulsione della popolazione 
                    civile; notizie di uomini uccisi all’interno delle moschee, 
                    giovani donne stuprate di fronte ai mariti, donne anziane 
                    bruciate vive all’interno delle loro abitazioni: crimini 
                    commessi con l’intento di umiliare la popolazione civile 
                    e distruggere la vita comunitaria.  
                    I governi della comunità internazionale, l’Unione 
                    Africana, l’Unione Europea e la Lega Araba condannano 
                    all’unisono le violazioni dei diritti umani nel Darfur. 
                    Tuttavia, queste parole non si sono tradotte in azioni concrete: 
                    la popolazione civile del Darfur continua a vivere nel terrore 
                    del prossimo attacco dei Janjaweed. I profughi interni sono 
                    in pericolo e con l’incubo della carestia; quelli che 
                    sono riusciti ad entrare in Ciad rimangono a rischio sia per 
                    l’insicurezza della frontiera che per l’insufficienza 
                    degli aiuti umanitari.  
                    Il giudizio di Human Rights Watch e dell’Alto commissariato 
                    delle Nazioni Unite è unanime: il governo sudanese 
                    è responsabile di genocidio e di crimini contro l’umanità. 
                    (…).  
                    Il conflitto che da oltre un anno e mezzo sconvolge la provincia 
                    del Darfur e le comunità d’accoglienza dei rifugiati 
                    sudanesi in Ciad orientale, ha prodotto una delle più 
                    gravi crisi umanitarie del continente, caratterizzata da scontri 
                    persistenti, diffuse violazioni dei diritti umani e da un 
                    massiccio sfollamento di popolazioni.  
                    I 2/3 delle popolazioni colpite sono costituiti da donne e 
                    bambini, ridotte in condizioni di vita disastrose ed esposte 
                    al costante pericolo di malattie, abusi e violenze. I tassi 
                    di mortalità tra le popolazioni sfollate sono fino 
                    a 10 volte superiori ai livelli registrati per il resto della 
                    popolazione sudanese e hanno di gran lunga superato la soglia 
                    di riferimento sulla cui base le agenzie umanitarie definiscono 
                    le situazioni di crisi: un decesso al giorno ogni 10.000 persone. 
                    Ogni mese tra le 6.000 e le 10.000 persone muoiono per le 
                    conseguenze del conflitto: tra questi, migliaia di bambini 
                    che, ogni mese, perdono la vita a causa di malattie che potrebbero 
                    essere prevenute o curate, per le conseguenze delle violenze 
                    inferte loro o per le insostenibili condizioni di vita a cui 
                    sono costretti nei campi di accoglienza.  
                    Nonostante le pressioni esercitate dalla comunità internazionale 
                    la situazione di crisi non accenna ad affievolirsi. Lo scorso 
                    30 agosto, alla scadenza del periodo indicato dal Consiglio 
                    di Sicurezza dell’ONU perché Khartoum desse prova 
                    concreta del proprio impegno nel disarmo delle milizie Janjaweed 
                    o, in alternativa, si preparasse a subire la possibilità 
                    di sanzioni e di un intervento internazionale, si sono registrati 
                    nuovi attacchi dell’esercito regolare a danno di civili, 
                    confermati sia dagli osservatori ONU sia da quelli dell’Unione 
                    Africana presenti nel Darfur. Il 18 settembre, il Consiglio 
                    di Sicurezza ha approvato una nuova risoluzione in cui si 
                    minacciano sanzioni a danno dell’industria petrolifera 
                    sudanese, se il Governo di Khartoum non provvederà 
                    concretamente alla protezione delle popolazioni civili.  
                    
                    L'emergenza nei tre stati del Darfur  
                  Il 31 agosto, il Governo di Khartoum e il principale gruppo 
                    ribelle del Sud Sudan, il Sudan People’s Lieberation 
                    Army (SPLA), hanno prolungato di 3 mesi il cessate il fuoco 
                    in atto nel quadro degli accordi di pace firmati lo scorso 
                    6 giugno, con i quali si tenta di porre fine al conflitto 
                    tra Nord e Sud del paese.  
                    Gli accordi di pace, però, non interessano la regione 
                    occidentale del Darfur, dove la situazione umanitaria rimane 
                    drammatica e in costante peggioramento.  
                    La provincia sudanese del Darfur si estende su una superficie 
                    paragonabile a quella della Francia ed è suddivisa 
                    nei 3 Stati del Darfur settentrionale, meridionale e occidentale, 
                    la cui popolazione – 6,7 milioni di abitanti – 
                    rappresenta il 20% del totale della popolazione del Sudan. 
                     
                    Nel febbraio 2003, tre gruppi a base etnica africana hanno 
                    preso le armi contro il Governo di Khartoum, costituendo 2 
                    diverse formazioni ribelli, il Sudan Liberation Movement/Army 
                    e il Justice and Equality Movement (JEM).  
                    Obiettivo dei ribelli è contrapporsi agli attacchi 
                    sferrati contro i villaggi africani dalle Janjaweed, armate 
                    dal governo centrale.  
                    La guerra civile che ne è scaturita ha prodotto la 
                    più grave crisi umanitaria dal 1998, caratterizzata 
                    da gravissime violazioni dei diritti umani, da violenze efferate 
                    a danno dei civili e dalla distruzione e il saccheggio di 
                    interi villaggi d’etnia africana.  
                    Il conflitto è proseguito nonostante l’accordo 
                    di cessate il fuoco. Aerei governativi hanno bombardato case 
                    nel Darfur, uccidendo decine di civili, mentre le milizie 
                    Janjaweed hanno attaccato villaggi, uccidendo deliberatamente 
                    civili, bruciando le case e facendo razzia del bestiame e 
                    di altre proprietà. Come risultato, centinaia di migliaia 
                    di persone si sono rifugiate nelle città della zona 
                    o hanno varcato il confine con il Ciad.  
                    Le autorità governative hanno commesso numerose violazioni 
                    dei diritti umani in risposta al conflitto. Decine di persone 
                    sono state arrestate e tenute in isolamento prolungato dalle 
                    forze di sicurezza nazionale, dalla sicurezza militare e dalla 
                    polizia. Nei centri della sicurezza militare nel Darfur la 
                    tortura è sistematica, comprese percosse e scosse elettriche. 
                    I detenuti trattenuti per reati come furto, omicidio o banditismo 
                    hanno subito processi sommari e iniqui. Centinaia di prigionieri 
                    sono stati rilasciati dal governo e dallo SPLA dopo il cessate 
                    il fuoco di settembre, ma gli arresti e la carcerazione di 
                    persone sospettate di collegamenti con gruppi di opposizione 
                    armata continuano.  
                    Tra giugno e settembre, le città di al-Tina, Kornoy 
                    e Kutum, nel Darfur settentrionale, e i villaggi limitrofi 
                    sono stati ripetutamente bombardati da aerei governativi. 
                    Durante il bombardamento di Kutum sono stati distrutti l’ospedale 
                    e la prigione e sarebbero morte 42 persone, compresi pazienti, 
                    guardie carcerarie e detenuti. Sono stati riferiti bombardamenti 
                    indiscriminati anche durante il periodo del cessate il fuoco, 
                    nel corso dei quali sono rimasti uccisi decine di civili. 
                    Case e edifici pubblici sono stati distrutti.  
                    SPLA e JEM hanno posto in pericolo la popolazione civile stanziando 
                    le loro forze in zone civili. Sono state inoltre segnalati 
                    saccheggi e torture da parte del JEM. 
                   
                    
                  - Il 16 agosto, la Janjaweed ha attaccato 
                    Garaday, un villaggio di circa 400 abitanti vicino alla città 
                    di Silaya e, secondo quanto riferito, avrebbero ucciso circa 
                    200 civili, alcuni nelle loro abitazioni, e picchiato e arrestato 
                    altri. Tutti i superstiti sono fuggiti.  
                    - Il 20 agosto il villaggio di Murli ha subito l’incursione 
                    di milizie sostenute dal governo, nel corso della quale sono 
                    rimaste uccise a colpi d’arma da fuoco o bruciate vive 
                    nelle loro abitazioni, 82 persone. Murli è stato nuovamente 
                    attaccato dalle milizie Janjaweed a settembre, in un giorno 
                    di mercato, e 72 persone sono state uccise.  
                    - Durante le incursioni delle Janjaweed contro i villaggi 
                    sono state commessi atti di violenza contro le donne, comprese 
                    violenze sessuali. Secondo quanto riferito, a Murli, tre ragazze, 
                    di 10, 15 e 17 anni, sono state stuprate da appartenenti alla 
                    Janjaweed mentre cercavano di fuggire dall’attacco. 
                    Fonti riferiscono che due donne, dell’età di 
                    20 e 25 anni, sono state stuprate da appartenenti alla Janjaweed 
                    mentre raccoglievano legna nei pressi del villaggio. 
                    - A settembre, sei persone sono state arrestate dal JEM come 
                    spie e picchiate col calcio dei fucili. Appartenenti al JEM 
                    hanno poi hanno versato nella bocca, nel naso e nelle orecchie 
                    di due di loro una miscela di acido, peperoncino e benzina. 
                  
					
                    
                  Nell’insieme, scontri tra truppe regolari, SPLA e altre 
                    milizie continuano in tutti e tre gli Stati del Darfur, anche 
                    se risultano più intensi nel Darfur settentrionale 
                    e meridionale. La grave situazione di instabilità è 
                    inoltre acuita dai ricorrenti scontri tra tribù di 
                    origine araba ed africana, con numerosi villaggi dati alle 
                    fiamme e un ingente numero di morti e feriti.  
                    
                    
                    Situazione delle popolazione sfollate  
                  Nonostante i colloqui di pace avviati alla fine di agosto 
                    da Governo e ribelli ad Abuja, in Nigeria, sotto l’egida 
                    dell’Unione Africana, la situazione delle popolazioni 
                    sfollate nel Darfur rimane estremamente precaria: stupri e 
                    violenze a danno di donne e bambine continuano impunemente; 
                    il Governo di Khartoum insiste affinché gli sfollati 
                    facciano ritorno alle rispettive terre di origine, senza che 
                    vi siano le condizioni minime di sicurezza per il loro reinsediamento; 
                    le milizie Janjaweed proseguono indisturbate a commettere 
                    violenze ed abusi nelle aree intorno ai campi per sfollati. 
                     
                    Alla fine di agosto, gli sfollati registrati in 130 siti di 
                    accoglienza – che vanno da campi che accolgono migliaia 
                    di persone a edifici pubblici e scuole occupate – risultavano 
                    1.227.460: 326.422 nel Darfur meridionale, 398.773 nel Darfur 
                    settentrionale, 502.265 nel Darfur occidentale.  
                    Nonostante le rassicurazioni del Governo sudanese circa l’accesso 
                    degli aiuti umanitari alle popolazioni civili, durante il 
                    mese di agosto numerosi sono stati gli ostacoli opposti alle 
                    operazioni umanitarie.  
                    Le difficoltà maggiori continuano a essere legate alla 
                    prosecuzione degli scontri e ai frequenti atti di banditismo, 
                    che rallentano, quando non impediscono, l’invio degli 
                    aiuti e lo spostamento degli operatori umanitari.  
                    
                    Mortalità infantile  
                  Nel Darfur i tassi di mortalità tra le popolazioni 
                    sfollate sono fino a 10 volte superiori ai livelli registrati 
                    per il resto della popolazione sudanese e hanno di gran lunga 
                    superato il livello di riferimento usato dalle agenzie umanitarie 
                    per indicare le situazioni di crisi umanitaria; 1 decesso 
                    al giorno ogni 10.000 persone: nel Darfur settentrionale il 
                    tasso di mortalità ha raggiunto il livello di 1,4 morti 
                    al giorno ogni 10.000 persone, nel Darfur occidentale quello 
                    del 2,9.  
                    Sono le disastrose condizioni di vita nei campi di accoglienza 
                    – con temperature che di notte scendono sotto lo zero, 
                    scarso accesso ad acqua, cibo e generi di prima necessità, 
                    carenza di servizi igienico-sanitari e condizioni igienico-ambientali 
                    aggravate dagli effetti della stagione delle piogge – 
                    a moltiplicare i pericoli di epidemie e malattie che, insieme 
                    a tassi di malnutrizione infantile in costante aumento, hanno 
                    prodotto un drammatico aumento dei tassi di mortalità 
                    infantile.  
                    La diarrea acuta è legata al 75% delle morti tra i 
                    bambini; febbre, infezioni respiratorie acute e le ferite 
                    prodotte durante gli attacchi ai villaggi rappresentano le 
                    prime cause di mortalità infantile.  
                    Finché gli attacchi alle popolazioni civili non cesseranno, 
                    difficilmente sarà possibile fornire loro assistenza 
                    e aiuti adeguati, invertendo la drammatica situazione attuale, 
                    che vede migliaia di bambini morire ogni mese a causa di malattie 
                    prevenibili o comunque curabili.  
                    
                  Darfur settentrionale: durante il mese di agosto, si sono 
                    registrati nuovi attacchi delle milizie Janjaweed a danno 
                    di villaggi abitati da popolazioni di origine africana. A 
                    causa dei duri scontri tra forze governative e SPLA, diverse 
                    aree rimangono inaccessibili agli aiuti.  
                    Nonostante ciò, grazie a delicate trattative condotte 
                    con i capi ribelli del SPLA, l’8 settembre l’UNICEF 
                    ha potuto avviare, nelle aree sotto il loro controllo, la 
                    vaccinazione di 150.000 bambini che non era stato possibile 
                    vaccinare durante la campagna di vaccinazione di giugno-luglio. 
                   
                  Darfur meridionale: ai primi di agosto, diversi operatori 
                    ONU hanno ricevuto informazioni su attacchi sferrati da milizie 
                    di cammellieri, appoggiate da soldati in uniforme, a danno 
                    di almeno 3 diversi villaggi con popolazione di origine africana. 
                    Molti sfollati sono ancora sistemati in numerosi edifici pubblici, 
                    dove si registrano infiltrazioni di Janjaweed, con il saccheggio 
                    di beni e attacchi ai civili che vi sono accolti.  
                    Le condizioni delle popolazioni sfollate si sono ora aggravate 
                    con l’inizio della stagione delle piogge, che ha reso 
                    molte strade e sentieri impraticabili, ostacolando ulteriormente 
                    l’invio degli aiuti umanitari. Aumentano inoltre le 
                    preoccupazioni per la diffusione di malattie come la diarrea 
                    acuta, il colera e la malaria, i cui rischi risultano maggiori 
                    alla luce delle mutate condizioni climatiche e igienico sanitarie. 
                   
                  Darfur occidentale: durante il mese di agosto si sono registrati 
                    nuovi attacchi e violenze nelle aree circostanti i campi per 
                    sfollati.  
                    Le agenzie dell’ONU hanno constatato un significativo 
                    aumento di milizie Janjaweed intorno ai campi di accoglienza, 
                    rendendo di conseguenza impossibile i movimenti al di fuori 
                    dei campi stessi: la maggior parte delle violenze a danno 
                    di civili avviene infatti presso i campi e le comunità 
                    di accoglienza, soprattutto a danno di donne e bambine in 
                    cerca di legna da ardere.  
                    Le condizioni di vita degli sfollati restano drammatiche: 
                    la maggior parte dei bambini e delle donne non dispone di 
                    vestiario adeguato e incontra notevoli difficoltà d’accesso 
                    all’acqua potabile.  
                    Le principali malattie riscontrate tra la popolazione infantile 
                    sono il morbillo, le infezioni respiratorie acute, le malattie 
                    cutanee, le infezioni oculari e all’apparato uditivo, 
                    tutte dovute alle pessime condizioni sanitarie, igieniche 
                    ed abitative in cui versano gli sfollati.  
                    
                    Torture sistematiche  
                  La tortura è praticata in modo sistematico dalle forze 
                    di sicurezza nazionale e militare nel Darfur, oltre ad essere 
                    applicata frequentemente altrove. 
                   
					
                  – Cinque persone, di etnia nuba, 
                    di Dongola, sono state arrestate dalla sicurezza nazionale 
                    a maggio, al termine di un incontro per discutere delle fasi 
                    del rimpatrio dopo il processo di pace. Secondo quanto riferito, 
                    le forze di sicurezza nazionale li hanno picchiati con violenza 
                    e hanno versato loro addosso acido da batteria. Uno di loro, 
                    Awad Ibrahim, è morto in custodia. A giugno, altri 
                    due sono stati portati all’ospedale di Khartoum. Sono 
                    stati rilasciati senza accuse a luglio. Non è stata 
                    condotta alcuna indagine indipendente sulla tortura e la morte 
                    di Awad Ibrahim. 
                  – Quarantaquattro persone per lo più 
                    di etnia ma’aliya sono state torturate a Aduma 
                    nel Darfur meridionale dopo essere state arrestate a luglio 
                    dalla polizia e dall’esercito, apparentemente per ottenere 
                    informazioni o per costringerli a confessare di essere coinvolti 
                    nell’uccisione di un uomo di etnia rizayqat. 
                    Secondo quanto riferito, sono stati picchiati con violenza 
                    con bastoni, tubi di plastica e con il calcio dei fucili. 
                    Alcuni sarebbero stati torturati con scosse elettriche, a 
                    uno di loro è stato inserito nell’ano un manganello 
                    metallico. Un medico ha confermato che le lesioni erano compatibili 
                    con le denunce. Dopo che la loro tortura aveva ottenuto ampia 
                    pubblicità, le loro “confessioni” sono 
                    state rifiutate da un Tribunale penale speciale a Nyala e 
                    43 di loro sono stati rilasciati. 
                    
                    
                    
                    Tribunali speciali  
                  Tribunali speciali nel Darfur settentrionale e occidentale 
                    e Tribunali penali speciali nel Darfur meridionale hanno continuato 
                    a comminare pesanti pene al termine di processi iniqui. Spesso 
                    agli avvocati non è stato permesso di presentarsi se 
                    non in qualità di “amici”, e le “confessioni” 
                    estorte con la forza sono state di frequente acquisite agli 
                    atti.  
                    Trentotto persone sono state giudicate davanti al Tribunale 
                    penale speciale di Nyala e 26, tra cui un minorenne, sono 
                    state condannate a morte ad aprile, con l’accusa di 
                    avere ucciso 35 persone e averne ferite altre 28 durante un’incursione 
                    nel villaggio di Singita, nel Darfur.  
                    Gli accusati sono stati tutti rappresentati da tre avvocati 
                    ai quali non è stato concesso di consultare i loro 
                    assistiti o la documentazione relativa fino a cinque giorni 
                    prima dell’inizio del processo, a marzo.  
                    I tre giudici, dei quali uno apparteneva alla polizia, uno 
                    all’esercito e il terzo, presidente della corte, era 
                    un civile, hanno permesso agli avvocati della difesa di porre 
                    soltanto quattro domande a ciascun accusato e a ciascun testimone. 
                     
                    All’accusa è stato consentito di porre un numero 
                    di domande illimitato. La sentenza di morte per il minorenne 
                    è stata commutata in appello a 25 frustate a maggio. 
                    La sentenza è stata eseguita immediatamente. 
                    
                    Restrizioni alla libertà di espressione  
                  Nonostante le promesse in agosto che la censura sarebbe stata 
                    tolta, la libertà di espressione ha continuato a essere 
                    limitata.  
                    Il “Khartoum Monitor”, un quotidiano in lingua 
                    inglese, ha subito numerose sanzioni: ne è stata sospesa 
                    la pubblicazione, sono state confiscate tutte le copie ed 
                    è stato multato in diverse occasioni. Un giornalista 
                    del quotidiano ha trascorso 18 giorni in carcere a marzo e 
                    a maggio il direttore amministrativo è stato tratto 
                    in stato di fermo per una notte e malmenato.  
                  Difensori dei diritti umani hanno continuato a subire vessazioni 
                    e talvolta sono stati arrestati. Ghazi Suleiman, presidente 
                    del Gruppo sudanese per i diritti umani, è stato arrestato 
                    a luglio e trattenuto nel carcere di Kober mentre l’associazione 
                    stava per organizzare una cerimonia in occasione della Dichiarazione 
                    di Khartoum con la quale veniva chiesto di porre fine alla 
                    legge islamica e al governo monopartitico del Sudan.  
                    
                    
                    Rifugiati sudanesi nel Ciad Orientale  
                  Durante il mese di agosto si è registrato un intensificarsi 
                    dei raid oltre confine delle milizie Janjaweed – a danno 
                    dei rifugiati sudanesi in Ciad – e dei combattimenti 
                    lungo la frontiera, mentre numerosi profughi sudanesi hanno 
                    riferito che tanto i Janjaweed quanto l’esercito regolare 
                    impediscono ai civili in fuga di varcare il confine con il 
                    Ciad.  
                    Le autorità del Ciad hanno dispiegato 5.000 soldati 
                    lungo la frontiera, mentre un contingente militare francese 
                    è stato schierato tra André e Birak, sempre 
                    al confine con il Sudan: la situazione rimane tesa, facendo 
                    temere un’internazionalizzazione del conflitto.  
                    Delle 190.000 persone rifugiatesi in Ciad, la maggior parte 
                    sono donne e bambini, costretti a vivere in una situazione 
                    di estrema difficoltà, per lo più in piccole 
                    capanne di emergenza, in condizioni climatiche avverse e con 
                    scarso accesso ad acqua, cibo e servizi essenziali. I civili 
                    sudanesi continuano a oltrepassare il confine per sfuggire 
                    ai brutali attacchi sferrati contro i loro villaggi, arrivando 
                    in Ciad spesso con i soli indumenti che indossavano al momento 
                    della fuga. Molti bambini sono stati testimoni di violenze 
                    efferate commesse contro i loro familiari ed amici; la maggior 
                    parte di loro non frequenta la scuola da mesi e il loro inserimento 
                    scolastico in Ciad è ostacolato dalla diversa lingua 
                    di insegnamento, dal momento che i programmi didattici in 
                    Sudan sono in lingua araba, in Ciad in lingua francese.  
                    
                    
                    Ostacoli agli aiuti  
                  Gli aiuti ai civili sudanesi sono resi estremamente difficili 
                    non solo dalle insufficienti condizioni di sicurezza lungo 
                    il confine, ma anche dalla vastità dell’area 
                    in cui si trovano le popolazioni rifugiate: oltre 600 km lungo 
                    il confine tra Sudan e Ciad, in territori privi di strade 
                    e spesso perfino di sentieri percorribili che, con l’arrivo 
                    della stagione delle piogge, hanno finito per costituire un 
                    ulteriore ostacolo all’accesso dei veicoli umanitari. 
                    Durante il mese di agosto, la strada principale tra la capitale 
                    N’Djamena e Abéche, nell’area orientale 
                    in cui si trovano i campi profughi, è divenuta impraticabile 
                    per le piogge e lo straripamento di alcuni fiumi, in un caso 
                    isolando del tutto un campo profughi: per far fronte a tale 
                    situazione, si pensa di costruire una piccola pista di atterraggio 
                    per l’invio di piccoli aerei cargo; altri aiuti stanno 
                    venendo inviati sfruttando i cargo messi a disposizione dai 
                    militari francesi. Infine, una devastante invasione di locuste 
                    – il fenomeno interessa la fascia di territorio del 
                    Sahel che va dalla Mauritania al Ciad – ha colpito le 
                    aree orientali del Ciad, tra cui quelle in cui si trovano 
                    i profughi sudanesi, mettendo in serio pericolo le già 
                    scarse riserve alimentari delle comunità di accoglienza, 
                    con drammatiche conseguenze sullo stato nutrizionale dei bambini 
                    rifugiati e di quelli delle comunità di accoglienza. 
                   
                  Ripercussione dell’afflusso di rifugiati 
                    sulle comunità di accoglienza in Ciad 
                     
                    Dalla fine del 2003, il flusso di rifugiati sudanesi in Ciad 
                    è divenuto insostenibile per i servizi di assistenza 
                    delle regioni oltre confine, con gravi ripercussioni sulle 
                    comunità locali delle aree di accoglienza – circa 
                    460.000 persone – che necessitano anch’esse di 
                    un’urgente assistenza umanitaria: le popolazioni delle 
                    comunità di accoglienza sono state costrette a dividere 
                    le proprie scorte alimentari e idriche con i civili sudanesi 
                    e risultano fortemente impoverite dalla presenza dei rifugiati. 
                    I già precari servizi sanitari della regione sono sottoposti 
                    a una pressione insostenibile per l’enorme aumento dei 
                    pazienti: nelle aree di accoglienza vi è una sola struttura 
                    sanitaria sufficiente per non più di 10.000 persone. 
                    In 2 distretti sanitari dell’area, la copertura vaccinale 
                    contro difterite, tubercolosi e tetano non supera il 10% della 
                    popolazione infantile; mancano i farmaci anti-AIDS e le autorità 
                    locali non hanno organizzato alcuna campagna di prevenzione. 
                    Per ciò che riguarda i servizi scolastici, le strutture 
                    esistenti sono insufficienti, mancano insegnanti qualificati 
                    e scarseggiano i materiali essenziali alle attività 
                    didattiche. (…).  
 
                  
                  Edoardo Puglielli 
                Note 
                 
                
                  -  
                    M. Moore, Bowling a Colombine, Dog eat dog films 
                    production, USA, 2002  
                  
 - Si 
                    stima che dal 1983 al 2000, circa 2 milioni di Sudanesi abbiano 
                    perso la vita e che almeno altri 4 milioni e mezzo, una cifra 
                    mai riscontrata in altri paesi, risultino "profughi interni". 
                    Più di 350.000 Sudanesi hanno ottenuto asilo politico 
                    all’estero.  
                  
 - Linea 
                    che attraversa approssimativamente Malakal, Bentiu e Aweil. 
                     
                  
 - Sud 
                    del Nilo Blu, nord dell'Alto Nilo e Sud Kordofan.  
                  
 - Il 
                    governo teme che se le forze principali dello SPLA nel Nilo 
                    Blu e nel Kordofan del Sud iniziassero a cooperare con lo 
                    SPLA-United, che si trova racchiuso fra le due zone, dovrebbe 
                    affrontare due fronti di guerra simultaneamente nel Nord. 
                    Due dei suoi altri obiettivi strategici, garantire la sicurezza 
                    dei pozzi di petrolio nell'Alto Nilo ed essere nella posizione 
                    di destabilizzare il confine Etiopico, sono pure messi in 
                    pericolo dall'esistenza di tali fronti militari.  
                  
 - Riserve 
                    di petrolio: 631 milioni bbl, 1 bbl = 1 miliardo di barili, 
                    1 barile = 159 litri, [Arabia saudita: 260 miliardi bbl, Venezuela: 
                    64 miliardi bbl, Angola: 7 miliardi bbl.]. Riserve di gas: 
                    100 miliardi di m_ [Arabia saudita: 6,3 trilioni di m_, Venezuela: 
                    4,2 trilioni di m_, Angola: 80 miliardi di m_]. Partner di 
                    esportazione: Repubblica popolare cinese (il 53%) Giappone 
                    (il 13%). Partner di importazione: Repubblica popolare cinese 
                    (il 20%) Arabia saudita (il 7,5%) India (il 5,6%) Gran Bretagna 
                    (il 5,4%) Germania (il 5,4%) Indonesia (il 4,7%) Australia 
                    (il 4%).  
                  
 - Mohammed 
                    Hassan, ex diplomatico dell’Etiopia, membro del Partito 
                    Comunista del Sudan, intervista del 2004.  
                  
 - Migliaia 
                    di persone, si ritiene oltre 200.000, sono costrette alla 
                    fuga, interi villaggi vengono rasi al suolo e il bestiame 
                    eliminato.  
                  
 - Dichiarazione 
                    del pastore John Sudan Graduel.  
                  
 - Intervista 
                    rilasciata da monsignor Mazzolari, vescovo di Rumbek, in sud 
                    Sudan.  
                  
 - Amnesty 
                    International chiede al governo del Sudan di: consentire il 
                    dispiegamento di osservatori internazionali sui diritti umani 
                    sotto i mandato dell’Alto commissario per i diritti 
                    umani delle Nazioni Unite; impegnarsi pubblicamente a rispettare 
                    in ogni circostanza i diritti umani e il diritto umanitario 
                    nonché a garantire la tutela della vita e dei mezzi 
                    di sussistenza della popolazione civile in ogni zona del paese; 
                    assumersi la responsabilità per l’operato dei 
                    Janjawid, smobilitare e smantellare queste milizie e garantire 
                    che non saranno più in grado di compiere ulteriori 
                    abusi. 
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