| riflessioni
 
  Governi, comunità, mutamenti 
                  climatici
 La riunione COP 9 sul clima tenutasi a Milano nei primi giorni 
                  di dicembre si è conclusa. Le aspettative in particolare 
                  afferivano alla possibilità di incrementare le modeste 
                  politiche ambientali nel campo della riduzione delle emissioni 
                  anche attraverso la ratifica da parte di altri paesi della convenzione 
                  di Kyoto, la convenzione ad adesione volontaria che autolimita 
                  le emissioni dei singoli paesi in un programma a medio e lungo 
                  termine. L’esito, come noto, è stato incerto. Da un lato 
                  la politica dell’attuale governo degli Stati Uniti d’America, 
                  tendente alla cancellazione della convenzione e all’annullamento 
                  delle attività in corso, è stata contenuta, dall’altro 
                  la già annunciata non ratifica della Russia ed il comportamento 
                  minimalista di alcuni altri paesi hanno sicuramente rallentato 
                  un processo di per sé non troppo vivace.
 I livelli di alterazione del pianeta sono conosciuti: la concentrazione 
                  di anidride carbonica nell’atmosfera (causa principale 
                  dell’effetto serra da cui dipende l’innalzamento 
                  delle temperature) ha superato le 360 parti per milione in volume 
                  (270 prima della rivoluzione industriale); ogni anno 46 milioni 
                  di persone è vittima di inondazioni; un quarto della 
                  superficie del pianeta è oggetto di desertificazione; 
                  negli ultimi dieci anni sono stati tagliati o bruciati 94 milioni 
                  di ettari di foreste; i terreni fertili (coltivabili) sono in 
                  riduzione; il consumo di petrolio dal 1950 è cresciuto 
                  di 8 volte (il 16% della popolazione, ovvero quella dei paesi 
                  industrializzati, consuma il 62% del petrolio, pari a 2,36 tonnellate 
                  l’anno a persona); i ghiacciai perenni sono in scioglimento 
                  (il Kilimangiaro è ridotto dell’80%, negli Stati 
                  Uniti d’America nel territorio del Glacer National Park, 
                  il Parco nazionale dei ghiacciai, non vi sono più ghiacciai 
                  né ve ne saranno per i prossimi cento anni); con l’aumento 
                  delle temperature il volume dei mari si espande e di conseguenza 
                  il livello sale.
 Nel continuo incremento negativo di questi fenomeni, che avviene 
                  costantemente e indipendentemente dalle dichiarazioni di principio 
                  e dalle innovazioni tecnologiche, si rilegge la difficoltà 
                  dei governi a delineare un percorso concreto e incisivo per 
                  ridurre in tempi brevi le emissioni ed avviare una politica 
                  che tuteli i principali interessi della popolazione del pianeta, 
                  primo tra tutti la salute e la qualità della vita.
 Il Protocollo di Kyoto, ed in genere il percorso tracciato dalla 
                  Conferenza di Rio, prospettava un futuro in cui gli stati governavano 
                  in maniera coordinata i problemi ambientali al fine di migliorare 
                  le condizioni complessive del pianeta. Nella strutturazione 
                  dei documenti e degli obiettivi si intravedeva la possibilità 
                  che le politiche nazionali si potessero orientare verso la regolamentazione 
                  delle attività produttive e verso l’indirizzo dei 
                  processi nel senso di una maggiore efficienza ecologica. Per 
                  quanto riguarda il settore della produzione energetica questo 
                  implicava in maniera dichiarata l’abbandono o la riduzione 
                  dell’impiego dei combustibili fossili e l’avvio 
                  dell’uso in larga scala di sistemi di produzione da fonti 
                  rinnovabili.
 Ma Rio e poi Kyoto ipotizzavano anche di più. Ipotizzavano 
                  che si potesse invertire l’aumento dei consumi, che le 
                  foreste sopravvivessero ai tagli e agli incendi, che le comunità 
                  locali, attraverso l’Agenda 21, partecipassero alla definizione 
                  del loro futuro, che si bloccasse il consumo di biodiversità 
                  in atto e tante e tante altre cose che non è possibile 
                  non condividere.
 L’ipotesi perseguita era che le informazioni sulla profonda 
                  alterazione del pianeta e sulle deprecabili condizioni della 
                  sua popolazione, unite agli scenari, che presentavano un futuro 
                  planetario di dubbia qualità sociale e ambientale, ed 
                  agli enormi rischi diffusi costituissero quei fattori di modificazione 
                  delle politiche e degli interessi degli stati e dei produttori.
 La Conferenza di Rio e i successivi atti sono stati l’esito 
                  di una pressione popolare basata sulla diffusione di consapevolezza 
                  ambientale mossa dalla rivoluzione culturale degli anni sessanta-settanta 
                  e confermata dai tragici incidenti nucleari e chimici che sconvolsero 
                  l’opinione pubblica.
 Questa pressione si è principalmente orientata ad esercitare 
                  un indirizzo nelle politiche delle amministrazioni pubbliche 
                  sembrando, allora, che esse avessero la capacità di modificarsi 
                  e gestire il processo di trasformazione che doveva interessare 
                  l’intero sistema produttivo.
 La sensibilizzazione sui temi ambientali di tecnici ed amministratori 
                  fece in modo che le politiche avviate rispondessero anche alle 
                  ragioni del miglioramento delle condizioni ambientali. Le stesse 
                  ragioni pervasero i rapporti con le aziende che si risolsero 
                  in una continua richiesta di miglioramenti di efficienza dei 
                  processi.
 I nuovi modelli apparivano praticabili in termini di costi economici 
                  e politici, e aziende e amministrazioni pubbliche si mostravano 
                  nel loro insieme generalmente disponibili.
 Gli Stati Uniti d’America erano ad un passo dalla firma 
                  e gli altri paesi promossero subito delle modificazioni alle 
                  politiche energetiche. Per anni sembrò possibile che 
                  quanto avviato potesse finalmente affrontare i problemi che 
                  interessavano l’umanità: i consumi ebbero una flessione 
                  (quasi tutta derivante dalla flessione di produzione dei paesi 
                  dell’est), la politica dei paesi massimi consumatori di 
                  energia e controllori della quasi totalità delle risorse 
                  del pianeta (e in primo luogo quella degli Stati Uniti d’America) 
                  era incerta lasciando speranze a percorsi alternativi.
 Ma questo scenario si è rapidamente modificato. A dieci 
                  anni di distanza dalla Conferenza di Rio, dopo una breve pausa, 
                  i consumi sono aumentati in tutto il mondo anche nei paesi che 
                  in precedenza hanno sostenuto il Protocollo di Kyoto e per esso 
                  si erano impegnati. Le emissioni inquinanti degli USA sono aumentate 
                  del 13-14%, la posizione assunta dal governo di questo paese 
                  è di aperto boicottaggio al Protocollo; la Russia non 
                  ha ancora aderito ed anche la politica di paesi come l’Italia, 
                  tradizionale sostenitore del percorso avviato, è oggi 
                  più ambivalente e comunque inadeguata agli obiettivi 
                  di riduzione proposte. In Italia le emissioni sono aumentate 
                  del 7,3% (invece che ridursi come previsto del 20%), non solo, 
                  ma i finanziamenti pubblici si concentrano in opere stradali 
                  (69% contro il 31% delle ferrovie, di cui la quasi totalità 
                  in linee ad alta velocità), ed è prevista la costruzione 
                  di centrali elettriche a combustibili fossili che aumenteranno 
                  del 16% la potenza installata e quindi le emissioni).
 Che cosa è successo. La base attiva e la capacità 
                  di relazionarsi con la società dei movimenti ambientalisti 
                  si è ridotta; se la consapevolezza delle problematiche 
                  ambientali risulta nei paesi occidentali maggiormente diffusa 
                  essa ha assunto caratteri di maggiore superficialità 
                  e alla generica crescita di sensibilità non ha corrisposto 
                  una altrettanto significativa azione di indirizzo e controllo 
                  da parte della popolazione.
 Contemporaneamente è aumentata la pressione dei produttori 
                  sui governi.
 Un grande cambiamento è avvenuto negli ultimi venti anni.
 I fondamenti di questo cambiamento sono stati la consacrazione 
                  della centralità del mercato all’interno della 
                  società come unico modello per il raggiungimento del 
                  benessere, la penetrazione delle merci nella vita degli individui, 
                  la commercializzazione dell’intero sistema planetario, 
                  naturale e antropico.
 I gruppi imprenditoriali, dotati di un sempre maggiore potere 
                  derivante dalla concentrazione della produzione e dai grandi 
                  monopoli merceologici, nella ricerca di continui profitti hanno 
                  messo in atto azioni molto aggressive, fino a pervenire a livelli 
                  di voracità nello sfruttamento delle persone e delle 
                  risorse non più mistificabili.
 Il ruolo di mediazione tra interessi privati e interessi comuni 
                  svolto dalle amministrazioni si è molto ridotto ed i 
                  governi hanno riassunto palesemente quel ruolo di formalizzatori 
                  degli interessi privati che già in passato avevano ricoperto 
                  .
 La marginalizzazione del ruolo del potere pubblico, teorizzato 
                  ed applicato diffusamente nell’ultimo decennio, ha invalidato 
                  il progetto politico dell’ambientalismo che lo vedeva 
                  come partner principale della modificazione delle attività 
                  e dei comportamenti al fine di ridurre le emissioni e riqualificare 
                  l’ambiente.
 Paradossalmente lo “stallo” del Protocollo di Kyoto 
                  e quindi gli esisti della COP 9 sono da considerarsi un successo 
                  non tanto per essere riusciti a mantenere in vita un ambito 
                  di azione comune ai governi ma proprio per avere dimostrata 
                  l’incapacità di questi a risolvere in tempi rapidi 
                  i problemi che interessano l’intera popolazione planetaria.
 Visti gli esiti della COP 9, la lentezza e la scarsa incisività 
                  delle azioni avviate, il continuo peggioramento delle condizioni 
                  ambientali del pianeta, si può con tranquillità 
                  sostenere, dopo più di dieci anni dal formale avvio dell’azione 
                  ambientale degli stati (Conferenza di Rio), che:
 • I governi sono più sensibili agli interessi delle 
                  compagnie che gestiscono la produzione energetica mondiale piuttosto 
                  che agli interessi dei miliardi di persone che subiscono le 
                  modificazioni climatiche.
 • I governi hanno scarsa capacità nel risolvere 
                  i problemi planetari.
 • I governi pongono molta attenzione alla demagogia dell’informazione 
                  e appare questa l’unica plausibile motivazione dell’avvio 
                  del programma di finanziamenti per ridurre gli effetti negativi 
                  nei paesi poveri, ridicolo per entità, colpevole per 
                  ideazione (non si lavora sulle cause connesse alle grandi compagnie 
                  imprenditoriali, ma sugli effetti maggiormente localizzati in 
                  territori poveri).
 • I governi perseguono una impostazione commerciale (si 
                  interviene nell’ambiente quando questo è un affare) 
                  che riduce l’incidenza di altri parametri e non permette 
                  di modificare significativamente l’organizzazione produttiva.
 • I governi usano strumentalmente ogni occasione per sostenere 
                  l’interesse di alcune grandi compagnie statunitensi, come 
                  provato dalla promozione in sede di COP9 dell’uso dei 
                  rimboschimenti geneticamente modificati che sono assolutamente 
                  marginali alla soluzione del problema.
 In sintesi la COP9 ha dimostrato al mondo che è errato 
                  ipotizzare un ruolo sostanziale degli stati nel garantire gli 
                  interessi comuni in quanto sottomessi agli interessi dei pochi 
                  soggetti privati in cui si concentra gran parte dello sfruttamento 
                  delle risorse e delle popolazioni del pianeta.
 Questa constatazione, che dovrebbe essere alla portata di tutti, 
                  potrebbe portare alla modificazione delle politiche dei movimenti 
                  ambientalisti ridimensionando le aspettative nei confronti dei 
                  governi nazionali e dei soggetti internazionali che sono di 
                  loro emanazione, a fronte di un contemporaneo incremento delle 
                  attività volte alla promozione autonoma di comunità 
                  e di individui che perseguano comportamenti ambientalmente sostenibili.
 Ciò non implicherebbe l’eliminazione della pressione 
                  sui governi ma l’acquisizione di una criticità 
                  che sostituisca quella ingenua fiducia riposta in organismi, 
                  quali quelli governativi, che non hanno mai mostrato una capacità 
                  di essere conflittuali con gli apparati da cui sono sostenuti.
 Se così fosse le comunità e gli individui avranno 
                  comunque un futuro segnato dai problemi ambientali perché 
                  l’inettitudine e il disinteresse palesati in questi anni 
                  dai governi ha già preparato le tragedie e i danni che 
                  vivremo nei prossimi anni.
 Ma se così fosse le comunità e gli individui individuerebbero 
                  un percorso indipendente dalla demagogia e dagli interessi dei 
                  governi, risparmierebbero un mucchio di tempo di ingiustificate 
                  speranze e di conseguenti delusioni e riacquisterebbero il piacere 
                  dell’azione diretta.
  testimonianze
 
  Ambiente e modelli sociali
  Partiamo dalla fine. Nel dicembre 1835 novecento guerrieri 
                  maori sbarcarono sulle isole Chatham e massacrarono circa 2.000 
                  Moriori che le abitavano. In questo ci fu lo zampino degli uomini occidentali: una barca 
                  di australiani cacciatori di foche informò i Maori dell’esistenza 
                  delle isole Chatham a loro ignote e della pacifica e praticamente 
                  disarmata popolazione che le abitava.
 Siamo in Polinesia. I Maori discendono da un gruppo di agricoltori 
                  polinesiani che hanno occupato la Nuova Zelanda intorno al 1000 
                  d.C. Avevano trovato in essa le condizioni ottimali per le proprie 
                  coltivazioni; crebbero fino ad arrivare a 100.000 unità 
                  solo nell’isola del Nord; divisero il territorio in parti 
                  densamente popolate e costantemente impegnate tra esse in guerre; 
                  sovrapproducevano alimenti e ciò permetteva loro di mantenere 
                  gruppi improduttivi (burocrati, militari); il costante aumento 
                  di produzione alimentare era necessario per mantenere gli improduttivi 
                  e la crescita demografica era necessaria agli eserciti e alle 
                  guerre utilizzate come sistemi per l’appropriazione di 
                  terreni agricoli di altri gruppi. Tutto ciò produsse 
                  uno “sviluppo” tecnologico e sociale..
 I Moriori discendevano da un gruppo di agricoltori polinesiani 
                  che avevano occupato la Nuova Zelanda intorno al 100 d.C. e 
                  che da lì si spostarono subito dopo nelle isole Chatham 
                  dove furono cacciatori-raccoglitori; non produssero eccedenze 
                  alimentari; non mantennero eserciti e burocrati; non praticarono 
                  la guerra; erano dotati delle tecnologie sufficienti a prelevare 
                  ciò che era necessario per la loro esistenza.
 I due sistemi sociali erano totalmente diversi: i Maori avevano 
                  una organizzazione verticistica, specializzata, iper-produttiva 
                  e quindi aggressiva, militarizzata,
 I Moriori praticavano una organizzazione non specializzata, 
                  non volta alla produzione, pacifica.
 I Maori avevano un rapporto con la natura del tutto produttiva, 
                  essa serviva a dare da mangiare alla popolazione e non avevano 
                  alcuna consapevolezza dei limiti del sistema in cui erano insediati 
                  sfruttandolo al di la della sua capacità, in primo luogo 
                  attraverso una serrata riproduzione (aumento della popolazione 
                  che spingeva alla ricerca di nuove terre).
 I Moriori avevano un rapporto equilibrato con il sistema in 
                  cui erano insediati: utilizzavano le risorse senza danneggiarle 
                  e nel far questo cercavano un equilibrio interno, in primo luogo 
                  limitando il numero degli individui in ragione delle disponibilità 
                  delle risorse (alcuni maschi venivano castrati).
 L’esito dei due modelli nell’ambiente fu notevolmente 
                  diverso: l’Isola del Nord era fortemente sfruttata e non 
                  garantiva in termini di risorse il mantenimento del modello 
                  sociale praticato; le isole Chatman furono descritte dai cacciatori 
                  dei foche ai Maori come un paradiso: “c’è 
                  abbondanza di pesci e molluschi, nei laghi nuotano miriadi di 
                  anguille e sulla terra il Karake dà le sue bacche mature…”.
 I Moriori erano riusciti a conservare la ricchezza di individui 
                  e la diversità delle specie naturali, condizione necessaria 
                  per rendere facile il prelievo della risorsa, facilità 
                  di prelievo che era posto alla base della loro organizzazione 
                  sociale.
 Le informazioni sono prese dal recente e interessante libro 
                  di Jared Diamond Armi, acciaio e malattie, edito da 
                  Einaudi (Torino, 1998). L’autore considera la Polinesia 
                  un buon laboratorio per la verifica delle relazioni tra ambiente 
                  e tipo di società insediata in ragione della grande diversità 
                  degli ambienti e delle organizzazioni sociali. Egli, proprio 
                  utilizzando l’esempio dei Moriori, arriva alla conclusione 
                  che proprio le condizioni delle isole Chatman impedì 
                  l’impianto delle specie tradizionalmente coltivate e impose 
                  una trasformazione alle popolazioni lì pervenute.
 Ma in Polinesia si passa dalle società di cacciatori-raccoglitori 
                  delle Chatman, con densità di 5 abitanti per kmq, fino 
                  ad arrivare ad Anuta, un’isola di 40 ettari e 160 abitanti, 
                  con una densità pari a 400 ab/kmq; si passa quindi da 
                  sistemi sociali verticistici a società non autoritarie 
                  e questo spesso in condizioni ambientali simili.
 Il caratteri principale e comune appare l’isolamento dei 
                  diversi territori che ha comunque comportato la necessità 
                  di rendere le popolazioni insediate autonome e tendenzialmente 
                  equilibrate con le risorse.
 Si sono così definiti dei sistemi chiusi in cui la definizione 
                  del modello produttivo e sociale dipendeva sicuramente dal contesto 
                  ambientale ma non era esente dall’interpretazione che 
                  a quel contesto ambientale veniva data dalla cultura delle comunità.
    osservazioni 
                  sulla contemporaneità  
  Storie di grattacieli 1: la demagogia del progresso
 A Taipei in Taiwan è stata inaugurata il mese scorso 
                  una prima parte del grattacielo più alto del mondo. Taipei 101, con i suoi 508 metri di altezza, 101 piani, ha superato 
                  le Torri Petronas, 452 metri, situate in Kuala Lampur (Indonesia), 
                  precedenti detentrici del record di altezza.
 Le sue forme ricordano quelle della Torre Jinmao di Shanghai 
                  (il più alto grattacielo della Cina, 421 metri).
 La costruzione di grattacieli è molto diffusa anche in 
                  quei paesi del sud-est asiatico, vittime-carnefici dell’economia 
                  globale e dei nuovi mercati, ed è una componente essenziale 
                  del modello insediativo imperante.
 I grattacieli comportano degli impatti molto elevati sia in 
                  termini ambientali (aumento dei consumi energetici nella fase 
                  di costruzione, di manutenzione e di funzionamento) ed anche 
                  sociali (mancanza di relazioni tra l’edificio e la città, 
                  l’edificio svolge al suo interno tutte le funzioni) ed 
                  in sintesi non risponde ad alcuna domanda da parte della popolazione 
                  (non si capisce a quale benessere abitativo diffuso vuole rispondere).
 Ma attraverso di essi si riescono ad ottenere enormi profitti 
                  (aumento della densità su di una ridotta area, quantità 
                  di metri quadrati vendibili per area edificabile) proprio nei 
                  luoghi delle città dove è maggiore la domanda 
                  di uffici e residenze di lusso, che ben si confondono con la 
                  demagogia del monumento. Tanto da lasciar dire al presidente 
                  di Taiwan, paese con problemi ambientali e sociali elevatissimi 
                  e con città invivibili, a proposito di Taipei 101, “è 
                  il nuovo punto di riferimento della capitale, creerà 
                  opportunità di mercato, di prosperità e di progresso 
                  e collocherà Taiwan nella scena mondiale”.
  Storie di grattacieli 2: la clonazione del bisnonno
 Come noto il giorno 11 settembre a New York (Stati Uniti d’America) 
                  sono crollati, in seguito ad un attentato, due grattacieli. 
                  Forse meno noto è che il comune ha rapidamente bandito 
                  un concorso per un progetto di larga massima di sistemazione 
                  delle aree.
 I progetti presentati sono stati 5200. La quasi totalità 
                  dei progetti, e comunque nessuno dei primi 10, ha ipotizzato 
                  altro che costruire di nuovo dei grattacieli; come se si dovesse 
                  negare l’esistenza di un fatto quale l’abbattimento 
                  delle torri gemelle, come se si dovesse per forza sostituire 
                  quello che non c’è con la stessa cosa, come se 
                  fosse necessario che il nuovo fosse più grande del vecchio 
                  come se ad una persona gli morisse il bisnonno e lo rimpiazzasse 
                  con uno, qualunque, ma più alto.
 
 Kuala Lumpur (Malesia), Le torri 
                  Petronas  Storie di grattacieli 3: gestione del sentimento
 Il progetto vincitore del concorso per la sistemazione dell’area 
                  delle due Torri di New York pone le sue basi in quella miscellanea 
                  di sensazioni definite dalla campagna governativa dove si mischiano 
                  un superficiale senso del dolore, il disinteresse alla comprensione, 
                  il senso patriottico, il martirio per la civiltà, la 
                  grandezza e la superiorità del popolo, tutto strumentalmente 
                  volto al sostegno delle politiche internazionali e nazionali 
                  del governo. L’edificio più alto raggiunge i 1.776, piedi la 
                  stessa data della dichiarazione di indipendenza degli Stati 
                  Uniti d’America, e così diviene il grattacielo 
                  più alto del mondo; esso ricorda il profilo della statua 
                  della libertà come essa si presentò al progettista, 
                  giovane immigrato, quando arrivò a New York; la disposizione 
                  degli edifici è tale che un giardino denominato “Parco 
                  degli eroi” si illumini completamente di luce solare solo 
                  in corrispondenza dell’ora e del giorno dell’attentato; 
                  a venti metri di profondità viene conservato un muro 
                  di contenimento del fiume Hudson quale “simbolo eloquente 
                  della ferma resistenza della democrazia al terrorismo”; 
                  gli ultimi piani del grattacielo maggiore sono occupati da vegetazione 
                  che vuole richiamare il senso della vita della rinascita. L’elenco 
                  potrebbe continuare in questo che più che un progetto 
                  è un insieme di luoghi comuni afferenti al tema presi 
                  da culture diverse e unite come in un catalogo del compassionevole 
                  dove però non si dimentica il commercio, così 
                  da fare comparire la “zona zero” come un misto tra 
                  demagogia della memoria e mercato, un cimitero e un supermercato 
                  dove si prega e si compra garantendo così i fondamenti 
                  di quella alienazione propria dell’infelice modello globale 
                  senza tentennamenti sostenuto dal governo statunitense.
 Ma il progetto ha vinto anche perché l’ideatore 
                  è egli stesso un progetto.
 L’architetto D. Libeskind è un immigrato, polacco, 
                  figlio di sopravvissuti dei campi di sterminio nazisti, progettista 
                  del museo ebraico di Berlino. Egli si è proposto come 
                  il rappresentate di un dolore che si voleva richiamare per rendere 
                  ancora più tragico il già di per sé tragico 
                  evento.
 Ma il progetto della figura dell’architetto non è 
                  stato casuale: D. Libskind si è presentato ai media con 
                  spilla raffigurante bandiera americana sulla giacca, presentandosi 
                  sempre come statunitense immigrato, ammiratore del paese e sostenitore 
                  dei principi governativi ed ha sempre tentato di muovere quella 
                  melassa di sentimenti su cui aveva fondato la sua attività 
                  progettuale sottolineando la sacralità del progetto, 
                  anche perché svolto da una persona “segnata” 
                  dalla tragedia e quindi tanto pura da poter essere sacerdote 
                  di quella sacralità che è la ricostruzione degli 
                  edifici.
  Storie di grattacieli 4: gestione dell’interesse economico
 
 Una volta comunicati con grande risonanza i contenuti del progetto 
                  vincitore per la sistemazione dell’area già occupata 
                  dalle torri gemelle in New York, il processo progettuale ha 
                  subito un brusco cambiamento di direzione.
 I proprietari dei suoli, che non erano il soggetto che ha bandito 
                  il concorso, recependo le indicazioni del progetto vincitore, 
                  hanno affidato la progettazione esecutiva ad una società, 
                  denominata OMS, di propria fiducia.
 La società ha avviato una profonda rivisitazione degli 
                  edifici tesa a ridurre i costi ed aumentare la quantità 
                  di superficie coperta vendibile. Le principali modificazioni 
                  hanno riguardato l’eliminazione del giardino posto nella 
                  parte alta del grattacielo più alto, sostituito da uffici, 
                  e dalla riduzione della profondità della parte interrata; 
                  ma tutto il progetto vincitore è in trasformazione.
 La progettazione esecutiva dei parcheggi, anch’essi considerevolmente 
                  aumentati, è stata affidata ad un architetto spagnolo.
 Completata la strumentalizzazione demagogica, costituita l’immagine, 
                  entra in gioco l’interesse economico che modifica e adatta 
                  ai propri obiettivi indipendentemente dai valori espressi e 
                  comunicati.
 Il libero mercato può fare anche questo: affliggere con 
                  contenuti lacrimosi e squallidi e tessere interessi con essi 
                  conflittuali, abboffare i media di memoria, tragedia, vendetta, 
                  simbologia e concludere all’ombra di questo i propri affari.
  Adriano Paolella antiglo@mclink.it
 La prima puntata di questa rubrica, dedicata a 
                  “Energia e comunità”, 
                  è stata pubblicata sul n. 295 di “A”. La 
                  prossima apparirà sul n. 298.  |