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                 Premessa: da molto tempo coltivo lambizione 
                  di raccogliere materiale sufficiente per scrivere un libro sulla 
                  Resistenza nel Vicentino e in particolare sui Colli Berici sperando 
                  di contribuire alla conoscenza di episodi, personaggi, situazioni 
                  finora trascurati, soprattutto per larea collinare dove 
                  operò la Brigata Silva. Esiste, infatti, 
                  una discreta documentazione sulla Resistenza operante sui monti 
                  vicentini (dal Pasubio allAltopiano di Asiago, dalla Val 
                  dAstico al Grappa), grazie anche alla diffusione dei libri 
                  di Meneghello (v. Piccoli maestri) ma molto poco 
                  sui Berici, le colline a sud-est di Vicenza.  
                  Intanto il tempo passa e il materiale si accumula invano, rischiando 
                  anche di disperdersi ad ogni trasloco.  
                  Ho deciso quindi di scrivere qualche articolo, senza alcuna 
                  pretesa di fare la Storia delegando ad altri leventuale 
                  realizzazione di unopera sistematica.  
                  Dato che finora la mia fonte principale è costituita 
                  da familiari (genitori, zii
) alla fine il racconto peccherà 
                  inevitabilmente di personalismo. Chiedo venia in 
                  anticipo agli addetti ai lavori ma ritengo che comunque anche 
                  queste testimonianze, per quanto parziali, contribuiscano a 
                  ridare un volto ad alcuni di quei combattenti per la Libertà 
                  che, con le armi o semplicemente rifiutandosi di collaborare, 
                  contribuirono a sconfiggere la peste bruna e nera.  
                  
                Leone 
                  Sartori Marcello 
                  
                  I bombardamenti: unoccasione per salvarsi la vita 
                   
                 
                Fin da piccolo avevo spesso sentito parlare dei devastanti 
                  bombardamenti subiti da Vicenza dato che mio padre, Leone Sartori 
                  detto Marcello, classe 1925, aveva vissuto di persona 
                  i tristissimi momenti. Quei fatti avevano di certo contribuito 
                  alla sua scelta di non arruolarsi nelle fila dellesercito 
                  di Graziani e Mussolini, di rendersi latitante e alla fine di 
                  entrare in contatto con i partigiani della brigata Silva 
                  (dal nome di un partigiano caduto) che operava sui Colli Berici. 
                   
                  «Durante uno dei tanti allarmi aerei mi trovavo al distretto 
                  militare di Vicenza  precisa Marcello non 
                  senza una piccola reticenza dovuta al suo carattere schietto 
                  e schivo  e sicuramente il distretto poteva essere uno 
                  dei tanti obiettivi. Per questo i comandanti avevano fatto uscire 
                  al primo suono della sirena dallarme un gruppo di 60-70 
                  soldati che si diresse verso la zona della stradella dei 
                  nani. Io uscii con il secondo gruppo ma non riuscimmo 
                  a percorrere molta strada. Quando cominciarono a cadere le bombe 
                  ero proprio davanti allo stabilimento del Lanificio Rossi (a 
                  Porta Monte N.d.A.). Mi buttai a terra calcandomi in testa il 
                  berretto.  
                  Approfittando di una breve pausa cercai di raggiungere il ponte 
                  sospeso sul Bacchiglione che era stato danneggiato e penzolava 
                  sostenuto da una sola delle due corde sul fiume. Lo attraversai 
                  aiutandomi a forza di braccia sperando nella sorte. Sapevo che 
                  seguendo il Bacchiglione sarei potuto arrivare a casa mia potendo 
                  usufruire della rigogliosa vegetazione. Mi fermai solo dopo 
                  qualche chilometro, ormai in aperta campagna, e guardai verso 
                  Vicenza.  
                  Il bombardamento era cessato, si distinguevano alte colonne 
                  di fumo sopra la città. Ripresi a correre lungo la riva 
                  sino alla corte dei Dalmaso. Il tempo di far sapere a mia madre 
                  che ero vivo e poi subito a campi. Cominciò così 
                  la mia latitanza di renitente. In zona ero il primo ma presto 
                  diventammo numerosi. Di giorno stavo nascosto nei campi o tra 
                  gli alberi della riva del Bacchiglione. Di notte, col buio, 
                  raggiungevo la tesa (fienile) dei Dalmaso per dormire. 
                  Quale fosse il mio abituale rifugio notturno, oltre ai miei, 
                  lo sapeva solo Bepi, il più anziano dei fratelli Dalmaso. 
                  Non lo sapeva nemmeno Toni Sgarabotto, il mio futuro suocero. 
                   
                  Toni arrivava ogni mattina prestissimo per guernare 
                  la stalla e le mucche. Alla sera dalla tesa recuperavo la scala 
                  che, al mattino, rimettevo al suo posto per scendere. A volte 
                  capitava che Toni arrivasse troppo presto e, mentre andava in 
                  giro brontolando in cerca della scala, la calavo giù 
                  e filavo via. Anni dopo mi ha detto di aver avuto qualche sospetto 
                  ma di non averne mai fatto parola con nessuno. Quando poteva 
                  mia madre mi portava da mangiare, badando bene a non dare nellocchio. 
                  Qualche volta nascondeva il cibo in fondo alla secchia e veniva 
                  a lavare al fiume.  
                  Altre volte arrivava con la traversa (grembiule 
                  N.d.A.) piena di erba raccolta per i conigli e, sotto, qualcosa 
                  da mangiare.  
                  Non si può dire che in famiglia fossimo consapevolmente 
                  antifascisti ma di sicuro la notizia della morte di mio fratello 
                  Danilo in Grecia mi aveva fatto capire molte cose.  
                  Comunque cera stato qualche precedente. Mio padre, Augusto, 
                  era obbligato, una specie di bracciante. Durante 
                  una lotta contro i proprietari, parecchi anni prima della guerra, 
                  lui e i suoi compagni avevano nottetempo aperto le stalle e 
                  fatto scappare le mucche per la campagna (e in questo, se permettete, 
                  oltre che un momento della lotta di classe vedo un preannuncio 
                  della mia militanza animalista N.d.A.). Per rappresaglia, il 
                  giorno dopo, ricevette la visita di tre squadristi. Lo avevano 
                  già immobilizzato e stavano per fargli bere lolio 
                  di ricino quando mia mamma (mia nonna, Evoli Marta, detta Pina 
                  N.d.A.) arrivò con la forca e ne infilzò un paio. 
                  Se non ricordo male uno alla gamba e laltro ad una chiappa. 
                  Se ne andarono di corsa, nonostante le ferite, senza farsi più 
                  rivedere».  
                  Purtroppo le cose andarono diversamente per un mio zio (marito 
                  di Marcella Sgarabotto, sorella maggiore di mia madre) Tilio 
                  (Attilio) Fasolato, operaio allo stabilimento Rossi di Debba 
                  (prima canapificio poi cotonificio, da non confondere con laltro 
                  cotonificio Rossi di Porta Monte, in città), principale 
                  industria della zona. Qui andarono a lavorare anche mia zia 
                  e poi mia madre, Rosa Sgarabotto, alletà di tredici-quattordici 
                  anni. Tilio, socialista e sindacalista, venne aggredito 
                  dai fascisti che evidentemente non apprezzavano i suoi tentativi 
                  di organizzare i compagni di lavoro; subì lonta 
                  di dover ingurgitare a forza lolio di ricino e rischiò 
                  di morirne. Un altro operaio dello stabilimento che subì 
                  angherie e persecuzioni (anche dopo la fine della guerra) fu 
                  il mitico Battistella, comunista e agitatore, ma anche grande 
                  amico personale dellaltrettanto mitico Don Camillo, parroco 
                  di Debba, laureato in ingegneria e assai energico, anche se 
                  viveva con un solo polmone. Durante la Resistenza divenne una 
                  sorta di cappellano militare dei partigiani della 
                  Brigata Silva. Scoperto dai nazifascisti era già 
                  stato messo al muro per essere fucilato; venne salvato in extremis 
                  dallintervento di un ufficiale tedesco. Don Camillo ebbe 
                  poi modo di ricambiare alla fine della guerra.  
                  Quanto alla violenza fascista nei confronti dei lavoratori, 
                  operai o contadini, essa non esprimeva altro che quella intrinseca 
                  ai rapporti sociali del tempo. Cè un episodio nellinfanzia 
                  di mio padre che, a mio avviso, potrebbe trovare posto in Novecento 
                  o anche tra le pagine di Ragazzo negro. A Longara 
                  cè ancora una villa padronale, allepoca (inizio 
                  degli anni trenta) provvista anche di campo da tennis, dove 
                  i rampolli del signor ricco si dilettavano con i loro amici 
                  e ospiti.  
                  Capitò a Leone (che abitava allora poco lontano, al Tormeno), 
                  mentre rientrava con una fascina di legna raccolta nel bosco, 
                  di vedere una palla fuoriuscire e rotolare tra le stoppie. La 
                  raccolse prontamente, come un bene prezioso data labituale 
                  indigenza in cui versava la sua famiglia, dandosi alla fuga. 
                  Venne raggiunto da grida e minacce ma non si fermò. A 
                  questo punto si ritrovò inseguito da alcuni cani di grossa 
                  taglia che i signori avevano liberato, non tollerando evidentemente 
                  latto di scortesia, se non proprio di ribellione, del 
                  bambino.  
                  
                  Un mondo ai margini  
                 
                Ma torniamo al tempo di guerra. La terra di mezzo, 
                  compresa tra la strada che da Vicenza, passando per Casale, 
                  porta a San Piero Intrigogna e le anse del Bacchiglione, era 
                  quindi diventata il rifugio temporaneo di Leone Sartori e altri 
                  renitenti. Solo unesigua striscia di terra in prossimità 
                  dei Colli Berici, che allepoca però offriva diversi 
                  ripari naturali, sia di giorno che di notte. In particolare 
                  le rive coperte di alberi, le piantà e le 
                  siese. Senza dimenticare il rilievo del monteseo, 
                  detto dei Dalmaso, ricoperto dalla vegetazione di 
                  un rocolo e in cui si apriva anche una piccola cavità 
                  naturale, il classico buso della Stria. Una sorta 
                  di terra di nessuno, costituita da interstizi marginali 
                  e sconosciuti che furono anche i luoghi prediletti delle mie 
                  scorribande infantili negli anni cinquanta. Luoghi che ora nella 
                  mia memoria ritrovo avvolti in una atmosfera un po magica, 
                  forse per il fatto di essere legati allacqua, alle grotte, 
                  alla vegetazione
 Percorsi ignoti ai foresti 
                  (in senso lato, intendendo sia i tedeschi che la gente di città) 
                  che intersecavano quelli normali (ufficiali) dando 
                  vita quasi ad una realtà parallela, offrendo vie di fuga 
                  e rifugi. Tutto ciò però non poteva accadere se 
                  non ci fosse stata la robusta e tacita complicità degli 
                  abitanti della zona. Si sapeva tutto e nessuno sarebbe sfuggito 
                  alla cattura se le notizie fossero arrivate alle orecchie sbagliate. 
                   
                  «Qualche volta  continua Leone  mi arrischiai 
                  anche a dormire a casa. Avevo tagliato una delle inferriate 
                  che chiudevano la finestrella in alto (in granaro, 
                  dove negli anni cinquanta ricavò la stanzetta in cui 
                  trascorsi la mia infanzia N.d.A.), così da potermici 
                  infilare. Oltre alla comoda tesa dei Dalmaso avevo 
                  altri rifugi demergenza. Me ne scavai qualcuno lungo la 
                  sponda dei fossi, in particolare alle pendici del monteseo. 
                  Scavavo via la terra della riva e mettevo dentro un gabbiotto 
                  per i conigli, di quelli lunghi. Poi ricoprivo con zolle ed 
                  erba. Ma ci dormivo il meno possibile, temendo di venir preso 
                  come un topo in gabbia.  
                  Dopo qualche tempo dalla mia fuga dal distretto furono in parecchi 
                  a trovarsi nella mia stessa situazione. Chi dormiva nei campi, 
                  chi in qualche rifugio, chi nelle tese. A quel punto 
                  la gente della zona di Casale, Casaletto, San Piero Intrigogna 
                  sapeva bene che eravamo fuggiti dalle caserme. Che eravamo alla 
                  macchia. Sbandati, come si diceva allora. Nessuno 
                  però fece la spia.  
                  Una volta partecipai addirittura alla sesola; per 
                  dieci-quindici giorni raccolsi il frumento insieme a tutta la 
                  gente della mia contrada, che mi conosceva benissimo ma che 
                  mi proteggeva con il suo silenzio. Ricordo che a quella sesola 
                  partecipò anche il Moro, Luigi Sgarabotto. 
                  Era appena ritornato dal fronte, ferito ad una gamba. Della 
                  guerra, diceva, ne aveva avuto abbastanza. Anche mio fratello 
                  Vittorio lavorava con noi, aveva un figlio a cui avevamo insegnato 
                  di chiamarmi con un altro nome. Un giorno dovetti restare nascosto 
                  in mezzo al grano (che allepoca cresceva più alto 
                  N.d.A.) perché i brigatisti neri facevano il bagno lì 
                  vicino, nel Bacchiglione. Prima che decidessero di tornare a 
                  riva (dalla parte opposta, verso Longara, dove avevano la caserma) 
                  trascorsero delle lunghe ore».  
                  
                Gianni 
                  Sartori in una foto degli anni 70 con sua nonna "Pina" 
                  (Marta Evoli) che durante la Resistenza cacciò i fascisti 
                  con il forcone 
                  
                  Tra rastrellamenti e furti campestri...  
                 
                Successivamente Leone Sartori si rifugiò per qualche 
                  giorno dalle parti di Montegalda, in una fattoria. Poi però 
                  dovette ritornare al monteseo e il fratello Giovanni, 
                  operaio allo stabilimento di Debba, andò a prenderlo 
                  in bici
 Il ritorno, di notte naturalmente, si svolse così: 
                  «ci davamo il cambio; uno pedalava e laltro stava 
                  seduto sul palo. Prima di ogni curva, a scanso di brutte sorprese, 
                  io scendevo e saltavo al di là del fosso, proseguendo 
                  a campi. Poi, visto che tutto era tranquillo, risalivo sulla 
                  bici fino alla curva successiva».  
                  «In seguito tornai per un altro breve periodo dalle parti 
                  di Montegalda, ospite nella tesa di Neno Fraca 
                  dove per la prima volta entrai in contatto con alcuni partigiani. 
                  Lo conoscevo perché prima della guerra mio fratello aveva 
                  lavorato sui suoi campi. Il fratello di Neno venne poi assassinato 
                  dai fascisti, proprio da quelli della Nera di Longara. 
                  Venne fucilato vicino alla ferrovia, accusato di essere un partigiano. 
                  In realtà si era solo rifiutato di consegnare ad un plotone 
                  di tedeschi e di fascisti il suo mezzo di trasporto, non ricordo 
                  se la bici o il cavallo. Qualche giorno dopo i partigiani uccisero 
                  nello stesso punto un tedesco e lo seppellirono a testa in giù, 
                  in modo che sporgessero solo i piedi. In conseguenza di questo 
                  episodio ci fu un rastrellamento. Quel giorno mi trovavo sui 
                  campi al di qua del fiume, verso Ghizzolle. La giornata era 
                  limpidissima, si riusciva a scorgere il pendio del Monte Lungo 
                  di Montegalda, dove era in corso una vera caccia alluomo. 
                  Alla fine due partigiani rimasero uccisi e sei o sette catturati. 
                  Venimmo a sapere poi che loperazione di rastrellamento 
                  era andata a colpo sicuro perché qualcuno del posto aveva 
                  informato i fascisti sui luoghi dove si nascondevano partigiani 
                  e renitenti (ribelli e sbandati)». 
                  Ma non cerano solo i periodici rastrellamenti a turbare 
                  il sonno di Leone e compagni.  
                  «Una notte, mentre dormivo nella stalla di Neno (invece 
                  che nella solita tesa, forse perché pioveva) 
                  in mezzo alla paglia, vennero i ladri. Rubarono alcune galline 
                  e cercarono di portarsi appresso due maiali. Accortisi della 
                  mia presenza fuggirono precipitosamente. Per la porta rimasta 
                  aperta, anche i due maiali colsero loccasione per scappare. 
                  Ormai però qualcuno sapeva che dal Fraca 
                  si nascondeva un renitente e così dovetti andarmene. 
                   
                  Nel frattempo era stata concessa unamnistia e, evidentemente 
                  malconsigliato, mi ripresentai al distretto. Venni subito trasferito 
                  alla caserma dei bersaglieri in via san Silvestro ma, capito 
                  che con ogni probabilità la nostra destinazione sarebbe 
                  stata la Germania, alla prima occasione tolsi il disturbo (sulle 
                  deportazioni di soldati italiani dal vicentino, dopo l8 
                  settembre, esistono le prove inoppugnabili di alcune fotografie: 
                  ammassati a centinaia nei cortili della caserma Cella, a Schio, 
                  in attesa di essere fatti salire su decine e decine di pullman 
                  con destinazione Germania N.d.A.). Approfittai del solito allarme 
                  per i bombardamenti e stavolta mi diressi verso la Gogna. Nonostante 
                  loscurità riconobbi tra le persone in fuga il Moro 
                  (Luigi Sgarabotto, fratello di Rosa che poi sarebbe diventata 
                  moglie di Leone e quindi mia madre N.d.A.)».  
                  In seguito anche Luigi si sarebbe rifugiato nei dintorni del 
                  monteseo, costruendosi un rifugio nel buso 
                  della stria dopo aver ampliato la cavità con lesplosivo. 
                   
                  «A questo punto,  prosegue Leone  nella totale 
                  confusione provocata dal bombardamento, ritornai indietro, verso 
                  Monteberico. Poco dopo il 10 Giugno, dove inizia 
                  la salita verso il santuario, entrai nella grande galleria (ancora 
                  visibile ai nostri giorni, anche se murata N.d.A.) che si apre 
                  alla base del monte. Non saprei dire quanto sia lunga e nemmeno 
                  dove esca di preciso, probabilmente nella Valletta del Silenzio, 
                  da dove è abbastanza agevole raggiungere Longara e Debba. 
                  Ricordo di averla percorsa completamente al buio, tenendomi 
                  aderente al muro mentre intorno sentivo i passi di decine di 
                  altre persone in fuga».  
                  Leone rientrò poi nella sua piccola patria, 
                  in mezzo ai campi o sulle rive del fiume in attesa di unirsi 
                  ai partigiani della brigata Silva, allora già 
                  attivi sui Colli Berici.  
                  
                  Precedenti di militarizzazione nel sottosuolo berico 
                   
                 
                Come è noto, attualmente alcune cavità dei Colli 
                  Berici sono un vero e proprio ripostiglio per lesercito 
                  americano, sia a Longare che al Tormeno. Ricorda mio padre che 
                  durante la guerra cerano stati precedenti significativi 
                  nellopera di militarizzazione delle cavità collinari 
                  nostrane.  
                  I Tedeschi avevano pensato di utilizzare come deposito sotterraneo 
                  per gli impianti industriali le antiche cave di Costozza, in 
                  modo da proteggerli dai bombardamenti degli Americani. Questi 
                  ultimi evidentemente appresero bene la lezione e in seguito 
                  lapplicarono alla grande con la base denominata Pluto. 
                   
                  Racconta Leone: «A Costozza, dentro alle grotte, avevano 
                  trasportato gli impianti di numerose industrie. Ricordo che 
                  cerano le Reggiane, la CARI, la Ducati, lAlfa Romeo, 
                  anche la Laverda, mi pare
 Tutti i macchinari erano stati 
                  messi al sicuro. I tedeschi non erano molti, qualche decina
più 
                  che altro per controllare i lasciapassare. Dentro poi cerano 
                  delle guardie alle dipendenze delle varie ditte, della CARI 
                  in particolare. Tra i civili cera molta gente in contatto 
                  con la Resistenza. La consegna era di salvare i macchinari ma 
                  di non produrre niente, niente di utilizzabile almeno. Questa 
                  era stata una precisa consegna del CLN durante lultimo 
                  inverno di guerra: scendere a valle ed eventualmente guadagnarsi 
                  anche da vivere lavorando per la TODT (valeva per chi non era 
                  troppo compromesso, ovviamente) salvaguardando gli impianti, 
                  i macchinari in vista della ricostruzione postbellica (e magari 
                  delloccupazione delle fabbriche N.d.A.), sabotando invece 
                  la produzione».  
                  Il racconto di mio padre continua: «A Costozza nessuno 
                  produceva niente perché nessuno voleva produrre per i 
                  tedeschi. Se per esempio si doveva fare un pezzo di ricambio 
                  si faceva in modo che fosse inutilizzabile
» 
                  «Dentro a Costozza cerano anche diversi partigiani 
                  della Silva (ovviamente in incognito). I Tedeschi 
                  si erano sistemati in basso, prima del Volto (il 
                  caratteristico torrione sotto cui passa la strada per Lumignano 
                  N.d.A.), in una palazzina. Il padrone delle grotte, mi dicevano, 
                  era un conte; dentro era immenso. Cera una strada sotterranea 
                  che usciva in Col de Ruga, dove adesso ci sono gli Americani 
                  (la comunicazione tra larea delle grotte rivolta a Costozza 
                  e quella verso Col de Ruga-Longare, dove si trova la base Pluto, 
                  venne poi murata dagli Americani N.d.A.). Ricordo degli spazi 
                  immensi, dei pilastroni enormi. A mezzogiorno si usciva per 
                  la mensa che si trovava sulla sinistra, in direzione di Lumignano. 
                  Eravamo tantissimi. Per la strada, alluscita, si faceva 
                  fatica a procedere. Con noi mangiavano anche i dirigenti, gli 
                  ingegneri che alloggiavano presso i Buoni Fanciulli 
                  dellOpera Don Calabria».  
                  In merito ai ricordi sulle incursioni alleate, aggiunge: «A 
                  Costozza gli aerei hanno attaccato 3-4 volte sparando dentro 
                  alla bocca principale con le mitragliere (con il 75, 
                  si diceva). Per avere qualche possibilità di infilare 
                  i proiettili nellimbocco, scendevano in picchiata; mitragliavano 
                  e, quasi subito, dovevano immediatamente impennarsi e risalire 
                  per non schiantarsi contro il monte. Ricordo invece che una 
                  volta sono passati, molto in alto, così tanti apparecchi 
                  da far spavento
Hanno continuato a passare dalla mattina 
                  alla sera. Spuntavano sopra Lumignano e si dirigevano verso 
                  Vicenza. Sopra la città poi si diramavano; una parte 
                  andava a bombardare Verona, altri si dirigevano altrove. Qui 
                  in genere non bombardavano forse perché i Colli Berici 
                  erano una zona controllata dai partigiani».  
                  Alla fine il piccolo presidio di Tedeschi, prima di abbandonare 
                  la posizione trattò con i partigiani la consegna di un 
                  salvacondotto per potersene andare senza essere attaccati. In 
                  cambio non avrebbero fatto saltare i macchinari. Così 
                  avvenne anche se, da notizie non confermate raccolte a Pianezze 
                  (da una fonte solitamente ben informata ma che vuole restare 
                  assolutamente anonima), questi tedeschi sarebbero stati poi 
                  sterminati da un altro gruppo di partigiani a Motta, sulla strada 
                  per la Valdastico.  
                  
                  Stragi nazifasciste nel Vicentino  
                 
                Ma nel vicentino si conserva soprattutto la memoria di svariati 
                  eccidi di civili operati dai nazifascisti; particolarmente efferato 
                  quello di Monte Crocetta (appena fuori da Vicenza) dove vennero 
                  uccisi anche ragazzini di tredici o quattordici anni. A Pedescala, 
                  in Val dAstico, poi vi fu una vera e propria strage (più 
                  di sessanta persone), compresi vecchi e bambini. A Vicenza, 
                  nonostante le recenti derive destrorse (una dozzina di consiglieri 
                  comunali di AN; niente male per una città in cui operarono 
                  anche i GAP e medaglia doro della Resistenza), si ricordano 
                  ancora ogni anno i Dieci Martiri, prelevati dal 
                  carcere di Padova e assassinati dai nazifascisti in prossimità 
                  della ferrovia, vicino al ponte sul Bacchiglione. Meno noto 
                  leccidio di Campedello, forse una rappresaglia per il 
                  tedesco ucciso a Longara, prima dellassalto-saccheggio 
                  al deposito di viveri. Anche in questo caso le vittime civili 
                  ammontarono a una decina. Ricorda mia madre Rosa che un altro 
                  deposito-viveri dei tedeschi si trovava a Debba e che vi era 
                  conservata anche una grande quantità di zucchero, allepoca 
                  raro e prezioso. Prima di scappare un tedesco (proprio quello 
                  che aveva salvato Don Camillo dalla fucilazione!) stava per 
                  incendiarlo, ma venne convinto a desistere dal parroco. In cambio 
                  venne tenuto nascosto in canonica e poi, quando le acque si 
                  erano ormai calmate, poté ripartirsene indisturbato per 
                  la Germania. Sempre mia madre, ricorda di averlo visto in un 
                  paio di occasioni a Debba, dove tornò spesso a salutare 
                  e ringraziare il battagliero parroco. Quanto ai viveri contenuti 
                  nel deposito vennero equamente distribuiti tra i poveri 
                  (la stragrande maggioranza) di Debba e dintorni.  
                  Ma il lieto fine con riconciliazione finale fu senzaltro 
                  uneccezione. Un po dovunque, sia sui Colli Berici 
                  che in città, per non parlare dellAlto Vicentino 
                  (v. Malga Zonta), si trovano lapidi che ricordano la morte per 
                  mano dei nazisti e dei loro complici, i collaborazionisti in 
                  camicia nera, di civili e partigiani. Alcuni casi furono particolarmente 
                  drammatici, come a Pederiva (nella stretta Val Liona che si 
                  insinua tra i Colli, sovrastata da Zovencedo e Grancona) dove 
                  un gruppo di giovani renitenti che si erano radunati nella chiesetta 
                  del paese per raggiungere le formazioni partigiane sullAltopiano 
                  di Asiago, caddero in unimboscata e, prima di essere uccisi, 
                  vennero barbaramente torturati. Ancora oggi cè 
                  chi ricorda con orrore i resti smembrati dei giovani e i muri 
                  ricoperti di sangue. Tanta fu la ferocia che da allora la chiesetta 
                  è rimasta sconsacrata. Altre volte si tratta di episodi 
                  minori come quello ricordato da una lapide ingrigita 
                  di Campedello. Qui due fratelli vennero fucilati per non aver 
                  prontamente consegnato la loro bicicletta a un reparto di Tedeschi 
                  in fuga, forse gli stessi che provenivano da Costozza.  
                  Sempre a Pianezze (dalla stessa fonte che mi ha fornito la sua 
                  versione sui Tedeschi scappati ma intercettati poi dai partigiani 
                  a Motta) ho anche avuto la dritta per identificare dove si trovava 
                  il mitico campo da bocce dei partigiani della Silva. 
                  In effetti, in mezzo a un degradato bosco di castagni, è 
                  ancora ben identificabile un lungo spiazzo che appare sicuramente 
                  spianato dalle mani delluomo. Qui alcuni partigiani si 
                  erano costruiti quel campo per le bocce dove ammazzare il tempo 
                  in attesa dei lanci degli alleati e di cui avevo sentito parlare 
                  anche da mio padre. Non aveva però mai avuto loccasione 
                  di farne uso e si era convinto che si trattasse soltanto di 
                  una leggenda.  
                  
                  Gianni Sartori 
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