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 Mujeres libresRivoluzionarie, ma in un mondo maschile
 La guerra civile spagnola è un tema che mi appassiona 
                  e che mi ha portato a vivere tanti anni in Spagna: ho letto 
                  molto sull'argomento e spesso mi emoziono rivivendo la storia 
                  di quegli anni. Ho avuto anche l'occasione di conoscere vari 
                  personaggi che quella storia l'hanno vissuta in prima persona, 
                  ma forse perchè ero troppo giovane e presa a scoprire 
                  il mondo dell'anarchismo, non ho saputo approfittare per fare 
                  loro delle interviste approfondite, ho più goduto della 
                  loro compagnia. Bisogna dire che molti avevano già lasciato 
                  testimonianza scritta della loro esperienza con delle memorie 
                  ed è sempre difficile far ripetere una storia che è 
                  già stata narrata.
  Il 
                  merito di trovare delle voci poco ascoltate e saperne valorizzare 
                  il punto di vista è di Eulalia Vega con il libro Pioniere 
                  e rivoluzionarie. Donne anarchiche in Spagna (1931-1975), 
                  Zero in Condotta, Milano 2017, pp. 320, € 23,00: l'autrice 
                  riesce a scavare nelle emozioni delle protagoniste e ad offrire 
                  un quadro di quegli anni molto più completo di quello 
                  che avevo finora. È molto diverso, oltre a conoscere 
                  come sono andati i fatti, riuscire a capire anche come si sentivano 
                  le persone in quel momento, come sono cambiate le relazioni 
                  di coppia, in famiglia, in ambito lavorativo e come, nonostante 
                  quella situazione si trattasse di una novità, abbiano 
                  saputo reagire con naturalezza ed entusiasmo. La volontà dell'autrice sta proprio nell'approfondire 
                  le motivazioni che hanno in primo luogo avvicinato queste donne 
                  all'anarchismo, dando poi spazio alle loro sensazioni e alla 
                  loro crescita personale, senza fermarsi alla mera riproduzione 
                  dei fatti. Ho trovato molto interessante anche la spiegazione 
                  della metodologia: non basta utilizzare interviste per fare 
                  storia orale; si parla invece di creare le proprie fonti in 
                  funzione degli obiettivi della ricerca storica.
 La scelta di seguire l'ordine cronologico ed inserire le testimonianze 
                  poco a poco, ci permette di ricostruire un quadro completo: 
                  le storie personali si trasformano in una vicenda corale; che 
                  si sofferma non solo sulla storia delle donne, ma anche sulla 
                  storia delle strutture anarchiche, di come si diffondevano gli 
                  ideali (il peso di famiglia, amici, inquietudini personali...) 
                  e delle diverse tendenze. Si mette a fuoco il momento della 
                  presa di coscienza di ogni protagonista, che poi lentamente 
                  alza lo sguardo e abbraccia la militanza con entusiasmo cercando 
                  di far aprire gli occhi a più donne possibili.
 Erano gli anni Trenta e con la Repubblica in Spagna si iniziava 
                  a parlare di donne, voto e diritti. C'era una generazione di 
                  donne, poche e molto colte, che aveva già preso la parola 
                  e creato un precedente. Furono loro a preparare e ad appoggiare 
                  le giovani che nel 35-36 riuscirono a dare vita ad una struttura 
                  dedicata all'emancipazione delle donne. Non si consideravano 
                  femministe, termine che ricordava le suffraggette, ma lavoravano 
                  appunto per l'emancipazione della donna. È già 
                  del 1934 un intervento di Lucía Sánchez Saornil 
                  sulla rivista Solidaridad Obrera, con contributi quasi 
                  esclusivamente maschili, che polemizzava sulle vite private 
                  degli anarcosindacalisti denunciando come vigesse il patriarcato 
                  anche tra le mura domestiche di chi voleva fare la rivoluzione.
 Leggendo la storia con gli occhi degli uomini (come sempre) 
                  sembra di capire che accettassero di buon grado la presenza 
                  di qualche donna emancipata nel sindacato e negli atenei, ma 
                  che non si chiedessero perché la loro compagna o le altre 
                  non facessero altrettanto. Sembrano troppo impegnati nel portare 
                  avanti la rivoluzione per accorgersi delle disuguaglianze dentro 
                  casa loro, e mostrarono anche poco interesse quando le donne 
                  cominciarono ad organizzarsi.
 Fu proprio per contrastare questa assenza silenziosa che nasce 
                  quasi contemporaneamente a Madrid e a Barcellona un gruppo femminile 
                  con obiettivi simili: l'esigenza di accompagnare il processo 
                  di emancipazione di ogni donna. È l'inizio di Mujeres 
                  Libres, ramo femminile della CNT mai ufficialmente riconosciuto 
                  come struttura indipendente.
 Alcune donne anarchiche non consideravano necessaria un'organizzazione 
                  esclusivamente femminile, come Federica Montseny, che comunque 
                  parteciperà come oratrice e con scritti al movimento, 
                  cogliendone l'importanza. Le poche donne cresciute senza subire 
                  le forti differenze pedagogiche con cui si educavano i figli 
                  dei diversi sessi (spesso in famiglie anarchiche), non trovavano 
                  giusto dividere la militanza femminile da quella maschile; altre 
                  credevano che se l'emancipazione non è fatta insieme 
                  all'uomo non ha senso. Ma Mujeres Libres si proponeva 
                  come una “palestra” per diventare forti prima di 
                  confrontarsi con l'uomo, un gruppo in cui sentirsi libere di 
                  parlare, esprimere le proprie opinioni e rafforzarle. A posteriori 
                  possiamo dire che erano certo avanti per aver capito questa 
                  necessità di consolidare l'autostima femminile e fornire 
                  solide basi culturali alle ragazze prima di mandarle allo sbaraglio 
                  in un mondo rivoluzionario sí, ma ancora prettamente 
                  maschile.
 Rispetto alle organizzazioni femminili comuniste e socialiste, 
                  che si svilupparono negli stessi anni, l'originalità 
                  di Mujeres Libres risiede nella lotta non solo al capitalismo 
                  ma anche al patriarcato: portavano avanti un chiaro programma 
                  per avere gli stessi diritti e non rimanere sempre “come 
                  delle minorenni, adulte ma minorenni”.
 L'autrice si sofferma sui cambiamenti nella vita quotidiana 
                  di queste donne che dalla sfera privata si aprono a quella pubblica. 
                  Con la rivoluzione cambiarono completamente gli orari (spesso 
                  arrivarono ad avere delle libertà prima impensabili), 
                  l'abbigliamento (uso dei cappelli da parte dei lavoratori, donne 
                  con gonne pantalone oltre alle famose tute da lavoro), le relazioni 
                  amorose: si parla del famoso amore libero, spesso frainteso, 
                  ma inteso semplicemente come unione libera tra uomo e donna, 
                  senza vincoli legali e basata sul consenso di entrambi. Si insiste 
                  anche sull'educazione sessuale ed il controllo delle nascite 
                  con la diffusione dei contraccettivi e la legalizazzione dell'aborto 
                  nel 1936 in Spagna, tra i primi paesi in Europa.
 Mujeres Libres organizzò formazioni completamente 
                  gratuite per accedere ad un lavoro e inserirsi nella società; 
                  in questo modo permettevano alle donne di essere indipendenti 
                  economicamente oltre che di supplire ai ruoli lasciati liberi 
                  dagli uomini al fronte. Le insegnanti erano quelle donne di 
                  una generazione precedente che avevano potuto studiare e che 
                  permisero a tutte le altre di imparare non solo contenuti ma 
                  anche un modo libertario di affrontare la vita: professioniste 
                  che misero a disposizione il loro sapere con trasporto ma con 
                  grande umiltà.
 Come spesso viene ricordato nel libro, le ragazze erano piene 
                  di buona volontà, ma senza una base culturale non avrebbero 
                  potuto arrivare lontano: i loro fratelli avevano studiato, uscivano 
                  e frequentavano il sindacato mentre loro dovevano pulire ed 
                  aiutare in casa.
 Tra le attività organizzate da Mujeres Libres, 
                  oltre a quelle culturali e di propaganda, troviamo i Liberatorios 
                  de prostitución (offrivano una formazione alle prostitute 
                  per poter svolgere un altro lavoro) ed il sostegno morale ai 
                  soldati organizzando servizi di spedizione, lavanderia, ma anche 
                  visite al fronte. In questo frangente non mancano gli equivoci 
                  e chi mette loro le mani addosso o le critica per la futilità 
                  del loro contributo, ma queste donne sanno sempre rispondere 
                  brillantemente: affermano che il loro contributo è portare 
                  avanti la rivoluzione nella retroguardia, fronte fondamentale 
                  come la difesa della prima linea.
 Proprio per questo coinvolgimento totale fanno quasi fatica 
                  a rendersi conto dell'avvicinarsi della sconfitta; la solidarietà 
                  continua ad essere il motore che le muove anche nell'esodo verso 
                  la frontiera e i primi durissimi anni di esilio che non diminuiscono 
                  assolutamente il loro impegno. La maggioranza di loro non vuole 
                  lasciare il sud della Francia, e rifiuta l'esilio in America 
                  vedendolo come un allontanarsi da tutto quello per cui avevano 
                  lottato, rifiutano di arrendersi.
 Un'ultima nota importante è la testimonianza di una donna 
                  che visse il golpe militare in Andalusia, dove ebbe subito successo, 
                  e in pochi giorni vide fucilare vari membri della sua famiglia 
                  e poi visse gli angoscianti anni della guerra civil cercando 
                  il modo di sopravvivere portando il marchio di “rossa”.
 Mancava questo punto di vista, e quello che vissero queste donne 
                  arriva dritto al fondo del cuore, come il frammento di una poesia 
                  di una delle intervistate, che rende l'idea del sentimento che 
                  provavano tanti anni dopo: “...Io sono/ la brace spenta 
                  di un grande sogno./ Io sono/ una foglia staccata di uno splendido 
                  albero./...”
 Valeria Giacomoni 
 
 Louise Michel/Una donna anarchica tra esilio e Comune
 La vita di Louise Michel, le vicende tragiche ed esaltanti 
                  della Comune di Parigi del 1871, si confondono nella memoria 
                  di persone e popoli, tesi ancor oggi verso libertà ed 
                  emancipazione umana, oltre e contro ogni confine. Per molti 
                  Louise è anima della Comune, per taluni ne è addirittura 
                  “ispiratrice”. Nella storia italiana l'esperienza 
                  comunarda determina la diffusione dell'“Associazione Internazionale 
                  dei lavoratori”, di quasi tutti i movimenti a orientamento 
                  socialista, compreso quello anarchico. Immenso è il debito 
                  verso il popolo di Parigi insorto, e verso Louise Michel, “quasi 
                  sconosciuta in Italia, se non nella cultura anarchica”.
  Sconcertante 
                  è il vuoto in tal senso nella pubblicistica in lingua 
                  italiana, salvo, ci sembra, due pubblicazioni ormai datate, 
                  tratte dal suo scritto “La Commune”. Anche in campo 
                  anarchico la produzione è scarsa, eccezion fatta per 
                  una delle due opere citate, di alcune biografie tradotte dal 
                  francese, e del volume “Louise Michel”, del gruppo 
                  anarchico napoletano a lei intitolato. L'opera antologica tratta dagli scritti di Louise Michel con 
                  il curioso titolo è che il potere è maledetto 
                  e per questo io sono anarchica (Anna Maria Farabbi, edizioni 
                  Il Ponte, Firenze 2017, pp. 174), curata dalla studiosa e scrittrice 
                  Anna Maria Farabbi, offre conoscenze e sostanziosi spunti a 
                  studiosi e appassionati di storie “controcorrente”, 
                  ed è valido stimolo per nuovi approfondimenti. L'opera 
                  che qui presentiamo concorre in modo importante a colmare lo 
                  sconcertante vuoto.
 La curatrice, anche traduttrice, introduce il lavoro spiegandone 
                  caratteristiche e motivazioni, disegnando nei tratti essenziali 
                  la vita e la formazione dell'anarchica. Dall'opera emerge complessa 
                  e completa la personalità della rivoluzionaria; anche 
                  grazie alla mirata scelta dei brani e alla traduzione rispettosa 
                  ed efficace.
 Gli scritti, sono tratti dalla corrispondenza (notevole e intensa 
                  quella con Victor Hugo); da documenti di tribunale; dai Memoires; 
                  da La Commune, da Prise de possession; e da altri 
                  scritti. Louise si adopera costantemente per sofferenti ed esclusi, 
                  privandosi sovente del minimo indispensabile. Con la mente e 
                  con il cuore produce azioni concrete, incitando alla rivolta. 
                  “Femminista ante litteram” si batte insieme alle 
                  donne, doppiamente oppresse, per la loro piena affermazione 
                  come persone libere sfidando pregiudizi anche fra i compagni. 
                  Non a caso lotta con le prostitute osteggiate nella loro volontà 
                  di offrire il loro contributo alla lotta per la Comune. Sostiene 
                  i Canachi in Nuova Caledonia, ritenuti selvaggi e antropofagi, 
                  per lei ormai fratelli, nella lotta di liberazione dal dominio 
                  coloniale.
 Al ritorno dalla deportazione scende in strada con lavoratori 
                  e disoccupati, affrontando repressione e galera; si reca in 
                  Algeria contro il dominio coloniale. Il “potere maledetto” 
                  e i suoi rappresentanti, sono per lei i maggiori responsabili 
                  delle sofferenze, non solo umane. Si batte con il popolo contro 
                  la violenza statale, sfidando spesso di persona alti esponenti 
                  dell'autorità, dimostrando, come nel tentativo di eliminare 
                  Thiers, di saper perfino uccidere con freddezza per la giusta 
                  causa. Combatte sulle barricate; è fra le “petroleuse” 
                  nel tentativo di fermare le armate di Versailles. Denominata 
                  “vergine rossa, santa laica, la lupa assetata di sangue, 
                  la buona Louise, la grande regina della luce”, è 
                  mossa sempre da compassione, anche quando incita alla ribellione 
                  e alla “presa di possesso” di ciò che è 
                  necessario a dare dignità alla vita.
 La rivoluzione per Louise non è solo quella esplosiva, 
                  che tutto travolge; essa si realizza e si prepara giorno dopo 
                  giorno con paziente intelligenza; come nell'attività 
                  di “educatrice libertaria” attenta alle “inclinazioni” 
                  personali e considerando bambine e bambini (insieme, non separati 
                  come nella scuola statale di allora) soggetti attivi al centro 
                  dell'azione educativa. Pone fiducia nella scienza umanizzata, 
                  volta ad alleviare sofferenze, a favorire pari e massime opportunità 
                  a tutti, anche ai cosiddetti malati di mente o ai “criminali”, 
                  formulando lei stessa proposte. Si rivela donna di scienza, 
                  studiosa delle culture indigene e delle forme di vita nella 
                  terra dei Canachi.
 È atea. La natura non è realtà esterna 
                  o separata: donne, uomini, ogni particolare ne sono parte integrante. 
                  È contro tutte le guerre. Si schiera in difesa degli 
                  animali anch'essi vittime dell'oppressione. Scopre di essere 
                  anarchica grazie a Nathalie Lemel, discorrendo con lei durante 
                  la navigazione da deportata verso la Nuova Caledonia.
 Louise è non solo persona forte nella sua azione, è 
                  anche donna dai sentimenti teneri e profondi verso tutti, eccezion 
                  fatta per gli oppressori. Difende perfino l'uomo che con gesto 
                  folle tenta di ucciderla. Rivolge nelle lettere parole affettuose 
                  ai nonni, ai compagni e alle compagne di lotta, a Victor Hugo, 
                  a Tehophile Ferré e soprattutto alla madre, che torna 
                  sempre nei suoi pensieri anche in momenti estremi.
 La rivoluzione anarchica voluta da Louise Michel comprende ogni 
                  aspetto della vita e dell'essere, senza esclusioni.
 Il libro offre al lettore pagine interessanti e “istruttive”; 
                  sempre appassionanti e di sorprendente attualità.
 Antonio Pedone 
 
 Atti di un convegno/Il prisma dell'anarchismo
  Il 
                  libro L'anarchismo italiano. Storia e storiografia (a 
                  cura di Giampietro Berti e Carlo De Maria, Biblion Edizioni, 
                  Milano 2016, pg. 595, € 35,00) consiste nella messa a punto 
                  storiografica e bibliografica dell'anarchismo italiano degli 
                  ultimi 50 anni. Il libro, che è cronologicamente e metodologicamente 
                  successivo al Seminario pubblico (2013) “La storiografia 
                  dell'anarchismo italiano dal 1945 ad oggi” ed al correlato 
                  Convegno nazionale (2014), ne estende i temi dibattuti in quegli 
                  eventi. Le iniziative, che sono state promosse dall'Archivio 
                  Famiglia Berneri-Aurelio Chessa e dalla Biblioteca Panizzi di 
                  Reggio Emilia, con il concerto di studiosi che in questi anni 
                  si sono dedicati alla storia dell'anarchismo, hanno costituito 
                  un importante terreno di confronto tra le diverse letture ed 
                  interpretazioni, che in sede storiografica vengono date alla 
                  sua presenza nella società e nel contesto politico. Sarebbe riduttivo considerare il libro come una macrorecensione 
                  di quasi la totalità di ciò che è stato 
                  pubblicato sull'anarchismo italiano dal 1945 in avanti. I diversi 
                  autori che si sono incaricati di illustrare le sezioni tematiche, 
                  non si sono limitati a redarre delle schede bibliografiche sugli 
                  argomenti di loro competenza, ma hanno approfondito i temi e 
                  le vicende che hanno attraversto le assai numerose pubblicazioni 
                  recuperate dall'oblio delle biblioteche e dagli archivi e dalla 
                  rete editoriale attuale, inquadrandole nelle gradi ripartizioni 
                  che compongono il libro.
 Esse sono così articolate: le interpretazioni, le biografie 
                  e le generazioni, gli insediamenti territoriali e l'internazionalizzazione, 
                  l'esilio e le comunità italiane all'estero, l'ecologia 
                  e il neo-anarchismo, l'arte e la letteratura, gli strumenti, 
                  i repertori e le fonti.
 Le interpretazioni confrontano tra di loro le storie generali 
                  dell'anarchismo e mettono in evidenza come ciascun autore, che 
                  si è cimentato nel tentativo di racchiudere in una interpretazione 
                  generale fatti e vicende di un movimento complesso e variegato, 
                  sebbene abbia fatto opera pregevole scolpendo i principi che 
                  lo caratterizzano, non sia riuscito a dire una parola definitiva 
                  e conclusiva su una teoria sociale e politica in perenne rinnovamento.
 Poiché gli anarchici sono donne ed uomini in carne ed 
                  ossa, il cui destino oltre ad essere determinato dall'idea è 
                  condizionato dal tempo storico nel quale hanno la ventura di 
                  vivere, le biografie sviluppano il tema del vissuto, al fine 
                  di meglio comprendere sia le militanti e i militanti presi in 
                  esame sia il tempo storico con il quale questi si sono confrontati. 
                  In tale parte i biografati sono scansionati secondo le fasi 
                  storico-politiche che il Paese ha attraversato nel secondo Ottocento 
                  ed in età moderna. Da quando la I Internazionale venne 
                  fondata ed, ancora prima, da quando una parte del Risorgimento, 
                  con Carlo Pisacane ed altri seguaci di Mazzini e di Garibaldi, 
                  che sarebbero diventati internazionalisti, pose a base delle 
                  sue tesi l'esigenza della giustizia sociale, fino all'anarchismo 
                  ecologico ed al neoanarchismo.
 Se ho trovato alcune biografie intense, altre le ho trovate 
                  meno vicine alle figure studiate, ma nel complesso tutte sono 
                  sostenute da notevole ricerca storica e molte indicano linee 
                  di ulteriore ricerca per la realizzazione storiografica di un 
                  quadro più completo del mondo anarchico. Affinchè 
                  a stagliarsi sul palcoscenico della storia non siano soltanto 
                  le figure di prima grandezza, ma anche compagni di più 
                  modesta levatura, ma di sentire uguale alle predette figure, 
                  come indicato dallo spirito del Dizionario Biografico degli 
                  anarchici italiani. Se le biografie non possono sostituire la 
                  lettura diretta di quanto hanno scritto i biografati, per quanti 
                  vogliono approfondire il loro pensiero, esse sono molto utili 
                  per avere una traccia di lettura, grazie alla quale districarsi 
                  in un panorama editoriale più attento alla vendita che 
                  non alla ricostruzione del pensiero anarchico dei biografati.
 Gli insediamenti territoriali e l'internazionalizzazione entrano 
                  nel merito del movimento anarchico come soggetto politico, con 
                  gli altti e bassi che ne hanno caratterizzato le vicende. A 
                  partire dalla predicazione del Bakuninismo in Spagna di Fanelli, 
                  dal cui incontro con Anselmo Lorenzo e con gli altri militanti 
                  sarebbero state poste le basi per la nascita successiva della 
                  CNT, passando attraverso il complicato rapporto con il Giolittismo 
                  e la svolta libertaria promossa soprattutto da Luigi Fabbri 
                  e Pietro Gori, attraversando il fascismo e la Resistenza, per 
                  giungere alle problematiche nuove che la nascita della Repubblica 
                  pose al movimento organizzato.
 Se finora gli studi sull'esilio sono stati soprattutto effettuati 
                  sulla diaspora degli anarchici in Francia, durante il periodo 
                  fascista, nella parte dedicata all'esilio ed alle comunità 
                  italiane all'estero, si apprezza un radicale spostamento assiologico 
                  degli studi sull'esilio degli anarchici ed anche del significato 
                  che viene dato all'esilio. Sono descritte le ricerche che nel 
                  mondo anglossasone sono state effettuate e che sono in corso 
                  sugli anarchici emigrati in Inghilterra e negli Stati Uniti, 
                  ossia sul loro ruolo nell Paese di accoglienza, nella formazione 
                  della coscienza di classe e nello sviluppo della cultura dei 
                  lavoratori. All'esilio, pur personalmente doloroso, viene conferito 
                  il significato positivo che gli deriva dalla crescita culturale 
                  e relazionale che produce nel Paese di accoglienza. Spesso Pietro 
                  Gori viene ricordato nell'ambito della sua opera, all'interno 
                  di una rete di solidarietà dell'emigrazione diffusa in 
                  Europa ed in America del Nord e del Sud, che gli storici dedicati 
                  a queste specifiche ricerche stanno tentando di far riemergere 
                  dal passato.
 Con la storiografia sulla presenza dell'anarchismo in Brasile 
                  viene confermato che sempre di più la storia degli anarchici 
                  viene scritta da studiosi non necessariamente anarchici.
 La parte relativa all'ecologia ed al neo-anarchismo fanno rientrare 
                  il lettore in periodi più vicini all'attualità 
                  quotidiana. È una parte breve che è stata trattata 
                  nell'editoria di movimento ampiamente, ma che nel libro non 
                  è sfortunamente sviluppata.
 I molteplici rapporti tra arte, letteratura, attività 
                  politica ed anarchismo sono descritti nella penultima parte 
                  del libro con viva sensibilità. Attraverso una completa 
                  rassegna bibliografica emerge dal passato l'attenzione che il 
                  movimento ha dedicato all'arte.
 Attenzione verosimilmente misconosciuta sul piano cosciente 
                  di come si rappresentano gli anarchici a se stessi, come viene 
                  dimostrato da questo libro, prevalentemente impostato sulla 
                  storia e la storiografia politica. Dalla lettura delle diverse 
                  esperienze narrate dagli autori, scaturisce un anarchismo meno 
                  appesantito dalle inevitabili problematiche relazionali proprie 
                  del movimento a confronto con le forze sindacali e politiche. 
                  Questa declinazione dell'anarchismo, che spazia dalla presenza 
                  degli anarchici nel futurismo e negli altri ismi che hanno segnato 
                  la scena artistica del secolo scorso, all'urbanistica ed all'architettura 
                  autogestibile, racconta anche “quindici anni di agitazione 
                  cuturale” attraverso la Rivista ApARTE.
 Strumenti, Repertori e Fonti, a chiusura del libro, svolge una 
                  rassegna critica delle monografie che sono state pubblicate 
                  dall'immediato secondo dopoguerra. In questa parte è 
                  sottolineata l'importanza del libro scritto da Pier Carlo Masini 
                  nel 1969 “Storia degi anarchici italiani da Bakunin 
                  a Malatesta”, degli Atti del Convegno promosso dalla 
                  Fondazione Einaudi, sempre nel 1969, “Anarchici ed 
                  anarchia nel mondo contemporaneo”, al quale partecipò 
                  il compianto Gino Cerrito con analisi accurate. Viene anche 
                  affermato che i libri dei primi storici dell'anarchismo, anarchici 
                  militanti degli anni 70 ed il rinnovamento della storiografia 
                  marxista, (fra cui Della Peruta e altri) hanno contribuito a 
                  ridare dignità e spessore storico al movimento anarchico 
                  nella storia d'Italia.
 Come si conservano e si valorizzano le fonti per la storia dell'anarchismo 
                  e come la Biblioteca di Nanterre sia stata e sia tuttora fondamentale 
                  per le ricerche della storia dell'anarchismo e dell'esilio degi 
                  anarchici in Francia durante il fascismo, sono gli ulteriori 
                  interventi della parte conclusiva del libro. All'interno di 
                  una riflessione sullo sviluppo davvero notevole che si è 
                  avuto recentemente in campo accademico nella storia dell'anarchismo, 
                  viene formulata la domanda se questo sviluppo sia dovuto alla 
                  scarsa incidenza dell'anarchismo sul piano sociale.
 Non vi è dubbio che i libri come il presente, non siano 
                  una lettura di immediata utilità per vivere, dalla prospettiva 
                  ideale che ci è propria, la vita quotidiana; ma li ritengo 
                  essere fondamentali per contribuire alla formazione della coscienza 
                  di sé.
 Enrico Calandri 
 
 Sì, viaggiare/C'era una volta l'Eden
 Oggi è giornalista e inviato speciale in molte parti 
                  del mondo, agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso 
                  Emanuele Giordana era tra quei tanti giovani che sognarono e 
                  misero in atto il “grande viaggio”, quello verso 
                  Oriente, che durava mesi, da cui si tornava smagriti, diversi, 
                  a volte anche profondamente cambiati. La meta era lontana: India, 
                  Nepal, Afghanistan. Era molto lontana perchè si viaggiava 
                  senza aereo, senza carte di credito, i cellulari non esistevano 
                  e nemmeno i bed and breakfast, c'erano uffici del telegrafo 
                  scassati, fermo posta, ostelli, pochi traveller's cheque 
                  in tasca e in agguato malattie gastrointestinali. Qualcuno partiva 
                  con utilitarie poco utili su quei lunghi percorsi, i più 
                  fortunati avevano il pulmino Volkswagen, per tutti c'erano autobus, 
                  treni, autostop e il tempo del viaggio faceva assumere al tempo 
                  un altro ritmo.
  Sembrava 
                  una specie di migrazione giovanile, ma non era in cerca di fortuna. 
                  Per alcuni era un viaggio interiore, individuale e collettivo, 
                  alla ricerca di spiritualità, allargamento della coscienza 
                  e della conoscenza, a cui hashish e altre sostanze contribuivano 
                  non poco. Per quasi tutti era reazione alla famiglia, alla vita 
                  materialistica, competitiva e violenta che si conduceva in Occidente. Cosa ci muovesse, allora, alla volta dell'Eden, non saprei 
                  dire: una specie di febbre il cui batterio originario – 
                  covato sottopelle dall'epopea dei grandi viaggiatori – 
                  veniva forse da lontano o era magari appena nato, si sarebbe 
                  detto allora, con i pidocchi che allignavano nelle nostre folte 
                  capigliature. Quella febbre era il sintomo di una malattia che 
                  attraversava tutta l'Europa e l'intero mondo occidentale che, 
                  dagli anni Sessanta in avanti, aveva incominciato a fremere, 
                  scalpitare, ribellarsi. E se ci sembrava giusto ribellarsi (...) 
                  ci sembrava anche giusto liberarci di tutti quegli orpelli (li 
                  chiamavamo allora marxianamente 'sovrastrutture') che potevano 
                  frenare il nostro desiderio rivoluzionario di cambiare il mondo: 
                  famiglia, matrimonio, fabbrica e sacrestia.
 Giordana ritrova un diario di quel viaggio fatto da ragazzo, 
                  un quadernino pieno di appunti meticolosi, e parte da lì, 
                  dalla memoria che tutte quelle note evocano; ricorda, racconta, 
                  riflette col senno di poi e dei molti altri viaggi fatti in 
                  seguito negli stessi luoghi. C'è il passato col suo grande 
                  sogno e le sue tragedie, l'attualità coi sogni infranti 
                  e nuove necessità, c'è il tempo, trascorso nel 
                  mezzo, che ha operato trasformazioni e cambiamenti, nei luoghi 
                  e nelle persone.
 Sto parlando di Viaggio all'eden – Da Milano a Kathmandu 
                  (Laterza, Bari 2017, pp. 138, € 16,00). Se chi lo leggerà 
                  a quell'epoca viveva a Milano e aveva più o meno vent'anni 
                  come me, anche se quel viaggio non l'ha mai fatto - a partire 
                  poi erano soprattutto i maschi, perchè la cultura di 
                  allora rendeva tutto più difficile a noi femmine, compreso 
                  viaggiare - ritroverà tra le pagine luoghi, atmosfere 
                  e persone conosciute un tempo, in un'ondata di ricordi giovanili.
 Per chi ha vent'anni oggi invece può essere interessante 
                  conoscere quel modo di stare nel tempo e vivere i luoghi, quel 
                  modo di intendere i viaggi e le relazioni; non dico per far 
                  lo stesso, che nulla mai si ripete uguale, ma per pensarci, 
                  per pensare al proprio stare nel mondo e scegliere come orientarsi.
 Da Milano il viaggio verso l'Eden partiva dalla Stazione centrale 
                  in direzione Trieste per poi attraversare la Jugoslavia, allora 
                  unita e titina. Quindi Salonicco, dove – se a corto di 
                  soldi – si poteva vendere sangue, e Istanbul, la porta 
                  d'Oriente. Dopo c'erano l'Iran dello Scià, con il suo 
                  oppio legalizzato, fino a Mashhad, Afghanistan, e poi Kabul 
                  allora città libera, aperta, con dischi di jazz e cinema 
                  internazionali. Fino a raggiungere l'India, New e Old Delhi, 
                  Benares; per qualcuno la tappa era Goa, altri proseguivano fino 
                  a Kathmandu, capitale del Nepal, con la “Freak Street” 
                  delle fumerie d'oppio legali, all'ombra del favoloso palazzo 
                  reale.
 Immagini, ricordi e aneddoti fanno da sottofondo a una riflessione 
                  che, partendo da lì e da allora, guarda all'oggi attraverso 
                  i quarant'anni passati. Non c'è più niente di 
                  uguale e il cambiamento spesso non è stato in meglio, 
                  compreso i viaggiatori che oggi a Kathmandu ci arrivano in poche 
                  ore con tariffe low-cost tutto compreso e a far cosa 
                  non si sa.
 Allora erano gli anni a seguito del '68, quelli della “politica” 
                  ma anche di tante altre suggestioni: c'erano le rivolte americane, 
                  i figli dei fiori e naturalmente anche le droghe i cui santoni 
                  spiegavano come fossero una via per allargare la coscienza, 
                  per guardarsi dentro, per liberare il mondo dalle catene non 
                  solo della fabbrica, ma da quelle che ci imprigionavano nella 
                  vita quotidiana. Perchè ognuno potesse risvegliarsi e 
                  finalmente liberarsi dal proprio ego. E non si partiva solo 
                  dall'Italia, sulla strada i ragazzi arrivavano da tutto l'Occidente, 
                  inseguendo un mito probabilmente iniziato con la decolonizzazione 
                  dell'India e i metodi nonviolenti con cui Gandhi ebbe ragione 
                  dell'imperialismo inglese; la suggestione era quella delle filosofie 
                  indiane e alludeva a un percorso di liberazione che richiedeva 
                  di “mettersi in viaggio”.
 Arriva un'epoca nella vita nella quale si tirano le fila del 
                  tempo che abbiamo attraversato cercando di legarle al presente 
                  in una maniera che restituisca il senso di una vita vissuta. 
                  Emanuele Giordana dopo quel primo viaggio non ha più 
                  smesso di partire e forse fu proprio quell'inizio a influenzare 
                  così fortemente la sua esistenza. Diventato giornalista 
                  esperto in questioni geopolitiche riguardanti quell'area del 
                  mondo, dal 2016 è presidente di un'associazione per la 
                  ricerca e il sostegno della società civile afgana.
 Col suo libro oggi, a noi, restituisce la possibilità 
                  di fare un altro viaggio, quello a ritroso, sospeso tra presente 
                  e passato, consapevolezza e incoscienza, stupore e soprattutto 
                  curiosità. Un viaggio che, mentre leggiamo, invita a 
                  porsi più di una domanda su come sono andate e su come 
                  vanno le cose, ma soprattutto su dove è andato a finire 
                  quel desiderio giovanile di essere migliori e poter modificare 
                  la realtà, quali sono le strade che ha preso.
 Silvia Papi 
 
 Anarchici/Tra Pietro Gori e Bob Dylan
 Bisogna dialogare con le “Sentinelle perdute”, 
                  con chi ha “il futuro al posto del viso”; bisogna 
                  ricercare la contaminazione per “dilatare il proprio sguardo 
                  sul passato”.  L'imperativo 
                  categorico è: indagare l'uomo nella vita di tutti i giorni. 
                  Nel pantheon dell'autore di questo denso volume c'è Tomas 
                  Tranströmer, premio Nobel della letteratura e poeta del 
                  silenzio. Ma ci sono anche Charles Baudelaire, Pietro Gori, 
                  Robert Zimmerman (alias Bob Dylan) e Patti Smith. E tutti vanno 
                  “a braccetto”. Questo nuovo libro di Maurizio Antonioli 
                  (Un'ardua gioconda utopia. Il «prometeo liberato», 
                  simboli e miti degli anarchici tra '800 e '900, BFS Edizioni, 
                  Pisa 2017, pp. 158+ ill., € 16,00), che raccoglie in massima 
                  parte contributi pregressi rielaborati e qualcosa di inedito, 
                  si distingue per una particolarità: tutti i saggi che 
                  lo compongono hanno a che vedere con storie di singole persone 
                  ma, ovviamente, non si tratta di biografie stricto sensu. 
                  Nel caso però l'elemento biografico funge da strumento 
                  per ricostruire l'immaginario collettivo. Sul piano euristico e dell'approccio metodologico Antonioli 
                  prosegue sul filo di un suo antico discorso che, nel tempo, 
                  si è sempre più affinato e sistematicamente palesato 
                  nelle sue opere. L'utopia, il “prometeo liberato” 
                  ed altri miti e simboli connotano l'analisi delle vicende otto-novecentesche 
                  dell'anarchismo e le restituiscono ad una narrazione intensa 
                  e profonda. Sono queste fra l'altro categorie di acquisizione 
                  abbastanza recente nella storiografia sull'età contemporanea, 
                  che ci consentono visuali inaspettate attraverso un'indagine 
                  interdisciplinare, che ci fanno non solo “zoomare” 
                  sulle vite “minuscole” dei senza storia, ma che 
                  ci fanno anche intravedere le mille reti di relazione che vi 
                  sottendono. Insomma non si deve solo descrivere ma anche interpretare 
                  (ma per interpretare occorre prima conoscere). Esegesi sull'universo 
                  libertario così come si è palesato dai gorghi 
                  della modernità, questo non è un “libro 
                  sui libri”, ma la risultante di una lunga personale esperienza 
                  di ricerca, fatta in prima persona e direttamente sulle fonti 
                  (con una particolare attenzione per quelle “imperfette”).
 Antonioli, con garbo ma non senza ironia e sarcasmo, si toglie 
                  anche qualche sassolino dalle scarpe. Nella prefazione rivolge 
                  critiche circostanziate a chi scrive di anarchismo “per 
                  infernali e detestabili meccanismi universitari”, a chi 
                  pubblica avulsi medaglioni biografici tipo Selezione del Reader's 
                  Digest, a chi propone storie locali e ignora l'approccio translocale 
                  e transnazionale, a chi si butta sul genere sintesi che sembra 
                  vada tanto di moda.
 ”...vorrei tuttavia segnalare la caducità di lavori 
                  di sintesi, che non assolvono né una funzione efficacemente 
                  divulgativa, per la quale occorrono un editore importante, doti 
                  di scrittura non comuni e la capacità intuitiva di cogliere 
                  il momento, né utilizzano criteri interpretativi innovativi. 
                  Qualcuno è riuscito a farlo in passato, ma era il 1969, 
                  l'editore era Rizzoli e il nostro amico era una penna fine...” 
                  (p. 13).
 Sono otto i saggi che compongono l'insieme della pubblicazione 
                  e c'è un unico fil rouge, che poi è scritto nel 
                  titolo e nel sottotitolo del libro. Nel menu: “Un simbolo 
                  grande e luminoso”. Gli anarchici italiani e l'agitazione 
                  pro Ferrer 1906-1907; Umberto e Bresci. Mito regale e damnatio 
                  del regicida; “Banditi senza tregua / andrem di terra 
                  in terra”. Le vite degli altri: anarchici lombardi ed 
                  emigrazioni tra Otto e Novecento; Alla ricerca dello pseudonimo 
                  perduto; “Libertà dolce sorella”. La nascita 
                  del mito di Pietro Gori; Il teatro sociale di Pietro Gori; Carlo 
                  Della Giacoma e Pietro Gori; Il giudizio di Michels sugli anarchici.
 Parlando di Sessantotto – tema che esula dalla specifica 
                  trattazione di questo volume (ma che tuttavia vi si può 
                  connettere attraverso anche il vissuto esperienziale dei lettori 
                  meno giovani) – Jean Maitron, insigne storico francese, 
                  affermava: “La pensée anarchiste traditionnelle 
                  inspire la révolte des jeunes en ce qu'elle a d'essentiel, 
                  son esprit plus que ses thèses...”.
 Proprio sul peso e l'entità di questo esprit riferito 
                  ai tempi lunghi della storia anarchica scrive Antonioli: “L'anarchismo 
                  di lingua italiana è stato un movimento politico e sociale 
                  che, con le sue personalità ed esperienze, ha profondamente 
                  caratterizzato l'età classica della storia del movimento 
                  operaio e socialista. Ma come è stato possibile il suo 
                  radicamento in importanti settori del proletariato italiano? 
                  Si può rileggerne la storia non tanto attraverso l'adesione 
                  a un preciso programma politico, ma individuando una molteplicità 
                  di personaggi, simboli e vettori che hanno caratterizzato la 
                  sua immagine collettiva? È possibile dare un'interpretazione 
                  della fortuna e del declino del movimento libertario a partire 
                  dall'analisi di alcuni personaggi ed eventi che hanno sicuramente 
                  alimentato l'immaginario sociale libertario, favorendo quel 
                  processo collettivo di rielaborazione del proprio pensiero e 
                  della propria storia che ha portato all'interpretazione della 
                  realtà in termini mitologici?...” (quarta di copertina)
 Ebbene l'autore, interrogando i due secoli dell'anarchismo con 
                  il medesimo piglio e sulla medesima questione posta da Maitron, 
                  ha dato un risposta plausibile in questo libro.
 Giorgio Sacchetti 
 
 A come Africa/E come anarchia
 Questo testo (Sam Mbah e I.E. Igariwey, Anarchismo in Africa. 
                  Storia, movimenti e prospettive, edizioni Immanenza, Napoli 
                  2017, pp. 240, € 25,00) è interessante sia per la 
                  proposta originale, il testo di Mbah e Igariwey del 1997, sia 
                  per le riflessioni su questo incluse nell'edizione italiana 
                  (la nota dell'editore della prima edizione inglese, la prefazione 
                  all'edizione spagnola, un'intervista di Mbah e la postfazione 
                  di Casciano), offrendo spunti di riflessione polifonici che 
                  aggiungono complessità al testo originario.
  Il 
                  principale merito dell'opera, a mio avviso, è di farci 
                  riflettere sulla genealogia culturalmente specifica delle riflessioni 
                  anarchiche e di farle dialogare con forme di organizzazione 
                  che partono da storie e concezioni distanti da quelle sviluppate 
                  nel Nord-Atlantico e da lì diffuse su scala globale. Il testo inizia con un riassunto della storia e delle proposte 
                  anarchiche, non discostandosi troppo dalle ricostruzioni, dalle 
                  citazioni e dagli autori noti alla tradizione europea. La parte 
                  più interessante è l'applicazione degli ideali 
                  anarchici alla realtà africana con un'analisi di lungo 
                  periodo su quello che gli autori chiamano il “comunalismo” 
                  precoloniale africano; l'instaurazione del colonialismo e del 
                  capitalismo; una discussione della proposta dei governi socialisti 
                  africani, con una evidente simpatia per la proposta teorica 
                  di alcuni di questi, sebbene gli autori ne ammettano il fallimento 
                  pratico; le lotte sindacali, soprattutto quelle degli anni Ottanta 
                  e Novanta in cui gli autori individuano strumenti e obiettivi 
                  anarchici, intesi principalmente nella richiesta di sovranità 
                  e autonomia delle comunità.
 Gli autori sostengono che le potenzialità di un radicamento 
                  dell'anarchismo in Africa, da scovare in un “comunalismo” 
                  effettivamente praticato e non spazzato via completamente dallo 
                  Stato e dal Capitale, apparentemente non germogliano ma, a loro 
                  avviso, rimangono latenti nella forma di valori culturali diffusi 
                  che potrebbero riproporsi con forza per innescare un cammino 
                  emancipatorio in un contesto di etnicismi violenti, regimi militari, 
                  corruzione, sfruttamento e devastazione ecologica.
 La preziosa postfazione di Casciano ridimensiona l'applicabilità 
                  delle proposte di Mbah. Da un lato il tentativo di proiettare 
                  sull'intero continente un'etica anarchica, riproposta in termini 
                  di “comunalismo” è problematica: gli autori 
                  oscillano tra un'applicazione circoscritta del “comunalismo” 
                  ad alcune società acefale ad una sua erronea estensione 
                  indiscriminata, fino a farlo diventare tratto specifico di una 
                  cultura continentale. Dall'altro, la tesi degli autori per cui 
                  “le società comunaliste [africane] erano e sono, 
                  per loro stessa natura, in larga misura autogestite, egualitarie 
                  e repubblicane” (p. 65) è difficilmente sostenibile; 
                  se è vero che erano in buona parte comunità autonome 
                  in termini economici e, in alcuni casi politici, l'autonomia 
                  ha spesso lasciato ampio spazio alla gerarchia (di genere, età, 
                  schiavista) anche nelle società “tradizionali”.
 L'Africa, quella sotto il Sahara e a nord del Sud-Africa, è 
                  probabilmente il continente che ha avuto nella storia recente 
                  minori riferimenti espliciti alla genealogia anarchica. Ovvero 
                  sono rare, se non rarissime le forme di attivismo, produzione 
                  intellettuale, strutture organizzative che si rifanno esplicitamente 
                  all'anarchia.
 Eppure l'Africa è stato anche un continente che, grazie 
                  ad una estensione tardiva o incompleta dello Stato moderno, 
                  rispetto ad altre regioni, ha mantenuto vive fino ad un passato 
                  non troppo distante pratiche parziali di autogestione comunitaria 
                  in quelli che Graeber definisce “spazi interstiziali”. 
                  Il libro di Mbah e i commenti che lo accompagnano sono un prezioso 
                  inizio per riflettere sulla forza delle pratiche culturali “comunaliste”, 
                  in che contesti si siano diffuse e perché abbiano mantenuto, 
                  in quasi tutti i casi, con l'eccezione delle società 
                  di caccia e raccolta, una combinazione tra autonomia e dipendenza, 
                  tra partecipazione ed esclusione, tra egualitarismo e gerarchia.
 Questa dialettica africana può nutrire riflessioni feconde 
                  in grado, tra l'altro, di promuovere la coscienza che l'anarchismo 
                  della genealogia nord-Atlantica è un anarchismo e non 
                  l'Anarchismo e che il dialogo con altre traiettorie politico-culturali 
                  offre sempre ottimi spunti per ripensarsi.
 Vedere nella diversità di pratiche e nozioni semplicemente 
                  traiettorie sbagliate, impure, immature e da ripudiare, ci condanna 
                  a accontentarci delle nostre fragili certezze.
 Stefano Boni 
 
 Agricoltura e alimentazione/Il pianeta delle aziende-locusta
 I signori del cibo. Viaggio nell'industria alimentare che 
                  sta distruggendo il pianeta, di Stefano Liberti (Minimum 
                  Fax, Milano 2016, pg. 327, € 19,00), è un'inchiesta 
                  globale che indaga e denuncia gli effetti sociali, ambientali 
                  e culturali dell'industrializzazione dell'agricoltura e della 
                  mercificazione del cibo. Seguendo la filiera di quattro delle 
                  principali “materie prime” alimentari (la carne 
                  di maiale, la soia, il tonno, il pomodoro) Liberti ci accompagna 
                  a visitare gli allevamenti e i mattatoi delle principali multinazionali 
                  della carne; le sterminate piantagioni di soia OGM del Mato 
                  Grosso brasiliano; i mega-pescherecci oceanici per la cattura 
                  e la lavorazione del tonno; la Tomatoland cinese dove 
                  - sotto il rigido controllo dell'esercito - viene prodotto un 
                  terzo del concentrato di pomodoro mondiale; le fabbriche dismesse 
                  e i mercati di strada del Ghana; la Puglia delle baraccopoli 
                  e del caporalato.
  Come 
                  il precedente reportage di Liberti, Land Grabbing. 
                  Come il mercato delle terre crea il nuovo colonialismo (Minimum 
                  Fax, Milano 2011, pg. 248, € 13,00), di cui rappresenta 
                  l'ideale continuazione, anche questo libro è rigoroso, 
                  ben documentato e di facile lettura. L'autore si basa su informazioni 
                  raccolte di prima mano e sulla conoscenza approfondita della 
                  letteratura prodotta su questi temi da università e organizzazioni 
                  non governative di tutto il mondo per mostrarci come “l'inedita 
                  alleanza tra grandi gruppi alimentari e fondi finanziari ha 
                  portato allo sviluppo di quelle che definisco aziende-locusta: 
                  gruppi interessati a produrre su larga scala al minor costo 
                  possibile, che stabiliscono con l'ambiente un rapporto puramente 
                  estrattivo e sfruttano le risorse in modo intensivo, fino al 
                  loro totale dissipamento. Esaurite le capacità di un 
                  luogo, passano oltre, proprio come uno sciame di locuste”. 
                  Tutto questo - ci spiega l'autore - non sarebbe possibile senza 
                  la complicità dei governi locali e delle istituzioni 
                  internazionali (Fondo monetario, Banca mondiale, Organizzazione 
                  mondiale del commercio) che - attraverso i cosiddetti “trattati 
                  di libero scambio” - hanno creato il contesto politico 
                  e normativo in cui le aziende-locusta (Cargill, Monsanto, Shanghui...) 
                  possono agire indisturbate e prosperare. Principali vittime di questo colossale processo di espropriazione 
                  e devastazione sono le comunità locali: contadini e pescatori 
                  costretti a lasciare la propria terra e il proprio tradizionale 
                  sistema di vita per trasformarsi in braccianti o operai al servizio 
                  dei “signori del cibo”, ad emigrare verso gli slums 
                  delle megalopoli o a tentare la fortuna (e rischiare la vita) 
                  nel lungo viaggio verso i paesi ricchi del Nord del pianeta. 
                  Ma vittime sono anche i “consumatori poveri” di 
                  tutto il mondo, indotti a nutrirsi di “cibo spazzatura” 
                  sempre più standardizzato, prodotto industrialmente con 
                  l'aggiunta di sostanze chimiche pericolose per la salute.
 Questo di Liberti è dunque un eccellente libro-inchiesta, 
                  che ha il merito di suscitare - senza retorica ma con la sola 
                  forza dei fatti - l'indignazione del lettore.
 Mi permetto però di segnalarne una lacuna nell'analisi 
                  ed un limite politico. La lacuna è costituita dal fatto 
                  che - curiosamente - Liberti trascura il ruolo che hanno nella 
                  produzione e nel commercio globale del cibo le centrali d'acquisto 
                  delle grandi catene di supermercati e di fast food (Walmart, 
                  Carrefour, Tesco, McDonald's, Burger King...). Come ha raccontato 
                  in modo brillante Christophe Brusset (Siete pazzi a mangiarlo!, 
                  Piemme 2016, pg. 277, € 17,00) esse rappresentano infatti 
                  per le aziende-locusta un alleato imprescindibile nella ossessiva 
                  ricerca del profitto attraverso la compressione dei costi di 
                  produzione a scapito della qualità.
 Il limite è invece di carattere politico. Liberti liquida 
                  a mio parere un po' troppo frettolosamente, definendola “una 
                  specie di anacronismo romantico”, l'idea di “sovranità 
                  alimentare basata sull' agricoltura contadina” elaborata 
                  e praticata da La Via Campesina*.
 Avrebbe invece dovuto considerare che, per quanto possa sembrare 
                  strano, l'agricoltura contadina - famigliare, di comunità, 
                  cooperativa, prioritariamente orientata alla produzione di cibo 
                  per l'autoconsumo e la vendita diretta nei mercati locali - 
                  nutre ancora oggi circa il 70% della popolazione mondiale, e 
                  quindi non costituisce affatto un fenomeno marginale o residuale.
 Come ha riconosciuto Silvia Pérez-Vitoria nel suo appassionato 
                  Manifesto per un XXI secolo contadino (Jaca Book, Milano 
                  2016, pg. 128, € 18,00) il paradigma della sovranità 
                  alimentare ha inoltre rappresentato in questi ultimi venti anni 
                  una “concreta utopia”, saldamente ancorata nel presente 
                  e proiettata nel futuro, capace di aggregare e mobilitare in 
                  tutto il mondo coloro che si oppongono al modello di agricoltura 
                  industriale propugnato dalle multinazionali dell'agrobusiness.
 Grazie anche alla forza di questa utopia La Via Campesina 
                  è diventato il più radicato e rispettato movimento 
                  trasnazionale di base, attivamente impegnato a contrastare - 
                  sia sul piano locale che su quello globale - le aziende-locusta 
                  e le loro politiche predatorie. Per questo le sue pratiche e 
                  le sue lotte - che puntano a riportare il controllo della terra, 
                  dell'acqua, delle sementi, dei saperi e dei beni comuni nelle 
                  mani delle comunità locali - avrebbero meritato di essere 
                  presentate in modo più approfondito e con maggiore simpatia.
 Ivan Bettini  * La Via Campesina è una 
                  rete internazionale che raggruppa circa 200 milioni di agricoltori, 
                  contadini senza terra, donne rurali, pescatori e comunità 
                  indigene appartenenti a 164 organizzazioni locali di 79 paesi 
                  di Africa, America, Asia e Europa. La sovranità alimentare 
                  è il diritto dei popoli a produrre con metodi ecologicamente 
                  sostenibili (agroecologia) il cibo sano e culturalmente appropriato 
                  di cui hanno bisogno, e quindi il diritto a determinare autonomamente 
                  i propri sistemi agricoli e alimentari (www.viacampesina.org). 
 
 Situazionismo/Il sogno “tecnologico” si è fatto incubo
 Per la felicità dei cultori della nanogalassia situazionista, 
                  mai sazi dei contributi di quel manipolo di tenaci miscelatori 
                  che per un paio di decenni provarono a rivitalizzare la tradizione 
                  delle avanguardie artistico-filosofico-rivoluzionarie europee, 
                  questa traduzione rende disponibile alcuni brevi scritti di 
                  Constant Nieuwenhuys che hanno per oggetto la sua creatura prediletta: 
                  New Babylon (New Babylon. La città nomade, 
                  Nautilus, Torino 2017, pp. 60, € 4,00).
  Nieuwenhuys 
                  viene ricordato in particolare per essere stato tra i fondatori 
                  del CoBrA, effimero ma influente gruppo di eclettici 
                  pittori che nel 1948 si era proposto come Internazionale degli 
                  Artisti sperimentali, più che per il suo transito nell'Internazionale 
                  Situazionista di Guy Debord. I suoi interessi nel campo dell'urbanistica 
                  vennero illuminati dalla lettura dell'Homo ludens del 
                  connazionale Johan Huizinga, capace di dare nuova luce all'idea 
                  di futura convivenza nelle libere metropoli che lo sviluppo 
                  tecnologico renderà possibili, una nuova civiltà 
                  basata sulla naturale propensione al gioco e all'imprevisto 
                  propria della specie umana. Constant (come viene comunemente chiamato, aggirando l'ostico 
                  cognome) forse ancor più degli altri situazionisti aveva 
                  infatti una fiducia pressoché illimitata nelle potenzialità 
                  che si sarebbero dispiegate con la fine della schiavitù 
                  del lavoro dovuta all'automazione e nelle possibilità 
                  di realizzare architetture instabilmente e meravigliosamente 
                  ludiche. Per oltre un decennio si dedicò instancabilmente 
                  a creare modellini che anticipassero la New Babylon del futuro, 
                  sempre precisando che solo i neobabilonesi saranno i veri creatori 
                  dell'abitare nella società ludica che sostituirà 
                  la società utilitaristica, vale a dire quella basata 
                  sullo sfruttamento della capacità dell'essere umano di 
                  lavorare. È significativo come l'autore definisse utilitaristici 
                  tanto il capitalismo moderno quanto lo Stato socialista (ai 
                  tempi ben saldo con Russia e Cina in cabina di comando), mentre 
                  la sua Nuova Babilonia per realizzarsi avrebbe avuto bisogno 
                  di un mondo senza classi, dove il lavoro produttivo fosse completamente 
                  automatizzato, i mezzi di produzione socializzati e capaci di 
                  procurare a ognuno i beni adeguati. In conseguenza di ciò 
                  la minoranza avrebbe cessato di esercitare il suo potere sulla 
                  maggioranza così da attuare quello che Nieuwenhuys definisce 
                  con parole cristalline “il regno marxista della libertà”.
 Oggi queste parole fanno quasi tenerezza, ma in quegli anni 
                  i poveri artisti comunisti, costretti a barcamenarsi tra folle 
                  osannanti a Chrušcev, Brenev o Mao Zedong, e al tempo 
                  stesso consapevoli che ognuno di quegli avveduti leader avrebbe 
                  mostrato loro “il regno marxista” da una prospettiva 
                  schiettamente siberiana, qualcosa dovevano pur inventarsi. E 
                  Constant si giocò le sue carte senza risparmio d'inventiva.
 New Babylon non avrà frontiere e la sua umanità 
                  fluttuerà tra i settori che costituiranno i gangli vitali, 
                  le unità base di una rete modulare, sospesi su pilastri 
                  alti venti metri, con la rete stradale al livello del suolo. 
                  I settori saranno grandi strutture, da 100.000 metri quadrati 
                  in su, incorporanti spazi orizzontali sovrapposti e collegati, 
                  facilmente modificabili perché costituiti da materiali 
                  leggeri, smontabili e riutilizzabili, prevedendo dunque standardizzazione 
                  della produzione e normalizzazione dei moduli (vi assicuro che 
                  non sto recensendo per sbaglio un catalogo dell'Ikea, sono tutte 
                  espressioni dell'autore); la luce del sole sarà di trascurabile 
                  importanza, tutto all'interno del settore verrà illuminato 
                  artificialmente e climatizzato a seconda dei gusti. L'importante 
                  sarà che i neobabilonesi possano cambiare sempre ogni 
                  cosa in un atto creativo ludico e sociale al tempo stesso, visto 
                  che nella dinamica delle interazioni ogni azione perde il suo 
                  carattere individuale, come viene adeguatamente illustrato nella 
                  concisa scrittura del nostro futurbanista.
 La lettura di queste pagine è sorprendente in quanto 
                  Nieuwenhuys nel suo sforzo immaginativo anticipa soluzioni che 
                  si dispiegheranno negli anni successivi, solo che invece di 
                  andare a costituire quell'auspicato labirinto dinamico di libertà 
                  creativa, tutto “impermanenza” e trasformazione 
                  giocosa, divengono un moltiplicatore di precaria alienazione. 
                  Dell'utopia post-futurista di Constant resta una specie di ghigno 
                  cariato, il sogno tecnologico sboccia in un concreto incubo 
                  di metropoli modulari che si sfasciano ancor prima che si finisca 
                  di costruirle, in una frenetica costruzione perpetua che di 
                  ludens conserva veramente poco.
 Giuseppe Aiello 
 
 Cibo/Quando l'attore principale è la fame
 Con una prefazione di Vittorio Sgorbi (gag che Trerè 
                  porta anche nel suo cabaret), il poeta ed attore Andrea Trerè 
                  ci offre questo agile volumetto (Cibi tempestosi. Da Dante 
                  Alighieri ad Aldo Fabrizi, Edizioni Ics Fectori Art, Modigliana 
                  - FC - 2016, pp. 35, € 5,00) che rivisita famosi brani 
                  di prosa e di poesia italiana in chiave gastro-politica. “Mi 
                  sedetti dalla parte del Porto perché tutti gli altri 
                  liquori erano già stati scolati”, la parafrasi 
                  brechtiana sottolinea l'avventura parodistica in un universo 
                  umano in cui la fame è l'attrice principale. 
  Tante scene teatrali dettate da un allegro stomaco vuoto, 
                  sfrontato e senza colpa, oppure affumicate in ambienti nei quali 
                  l'avidità allupata agisce senza mai saziarsi, come nel 
                  Quinto canto dell'Inferno dantesco. Dante è invece correttamente 
                  citato a fine volume col suo “Poscia più che il 
                  dolor, poté il digiuno” sul conte Ugolino, un finale 
                  che sottolinea l'ingovernabilità della fame.Abbiamo però, per celebrare la ricchezza del rapporto 
                  col cibo come fondamentale risorsa umana, poesia pura come quella 
                  leopardiana (“...e questa sfoglia, che da tanta parte 
                  dell'ultimo vassoio, lo sguardo esclude...”), rilievi 
                  animalisti (“Verrà l'arrosto, e avrà i tuoi 
                  occhi”), e non manca il “gatto libero magnator” 
                  nella parodia di Trilussa o il dialogo con una contessa trasformata 
                  in cuoca, da Palazzeschi. Termina la maratona culinaria la parodia 
                  di Fabrizi, con una visione di classe estremamente attuale nell'epoca 
                  del cibo spazzatura e delle Chef parade, il poeta ci ricorda 
                  che: “l'italiano, escluso il proletario, mangia tre volte 
                  più del necessario”.
 Il libretto, con copertina di Patrizia Diamante, può 
                  essere richiesto ad Andrea Trerè, andreyesfor4@libero.it.
 Francesca Palazzi Arduini 
 
 Meglio le donne?/No, il problema è il potere
 L'unico modo che abbiamo per verificare un'ipotesi storica 
                  è quella di scrutare il passato e analizzare gli eventi. 
                  Come sono andate le cose? Quale teoria si è rivelata 
                  corretta?
  Per 
                  quanto riguarda la verifica dell'idea – presente già 
                  nella prima ondata di femminismo e mai completamente tramontata 
                  – che le donne al potere possano dimostrarsi figure più 
                  positive rispetto agli uomini, questo metodo non sembra tornarci 
                  molto utile. Certo, negli ultimi due secoli, qualche donna in 
                  posti di potere c'è anche stata (vi ricordate Margaret 
                  Thatcher?), ma il campione statistico risulterebbe troppo limitato 
                  per riuscire a verificare una tesi che riguarda la condotta 
                  di metà della popolazione mondiale. Ma allora, se in questo caso guardare indietro non è 
                  abbastanza, come proseguire? A venirci in aiuto è la 
                  scrittrice Naomi Alderman, che nel suo ultimo libro (Ragazze 
                  elettriche, Nottetempo, Milano 2017, pp. 446, € 20,00) 
                  immagina un futuro in cui le donne – capaci di emanare 
                  scariche di energia elettrica – sono in grado di imporsi 
                  sugli uomini, dapprima fisicamente e poi socialmente. In mancanza 
                  di fatti storici reali, questa distopia ci fornisce un modo 
                  alternativo di testare la nostra ipotesi di partenza. Alderman 
                  offre infatti la possibilità di vedere finalmente all'opera 
                  quella presa di potere delle donne che ancora alcune frange 
                  del femminismo mainstream identificano come obiettivo 
                  principale delle loro lotte. Nel futuro da lei immaginato, la 
                  piramide della gerarchia non vacilla e la struttura rimane invariata. 
                  A cambiare è solo il genere di chi occupa il vertice. 
                  Così, dove prima c'era un uomo, ora c'è una donna.
 Dunque cosa ci mostra Alderman? È vero che il potere 
                  declinato al femminile sia meglio di quello maschile? No. E 
                  il motivo è il potere stesso. Le anarchiche e gli anarchici 
                  lo affermano da più di un secolo e mezzo: il problema 
                  sta nel dominio, non in chi lo esercita. Le anarco-femministe, 
                  poi, hanno sempre condotto battaglie contro chi proponeva l'idea 
                  che l'emancipazione femminile fosse una semplice scalata verso 
                  la vetta della società.
 La prefigurazione fatta da Alderman potrebbe aiutare a rendere 
                  ancora più chiaro ciò che le femministe anarchiche 
                  affermano da sempre. Le donne non dovrebbero combattere una 
                  battaglia tra i sessi per contendersi le posizioni sociali più 
                  privilegiate. Al contrario, uomini e donne farebbero meglio 
                  ad unire le forze, concentrandosi sulle cause di diseguaglianza 
                  e ingiustizia – fra tutti, la struttura gerarchica della 
                  società – e abbatterle insieme.
 Nonostante il messaggio di Alderman sembri chiaro fin dall'inizio, 
                  nei giorni che sono seguiti alla pubblicazione ho letto e ascoltato 
                  diverse interpretazioni. Addirittura, ad una presentazione del 
                  libro cui ho assistito, alcune scrittrici e giornaliste si dicevano 
                  “galvanizzate” (sic!) dalle azioni delle protagoniste. 
                  La forza che dimostravano era la forza di tutte le donne, così 
                  mirabile e ispiratrice in un momento storico come il nostro 
                  fatto di violenza di genere e di abusi. Ma il libro racconta 
                  della crudeltà di una dittatrice di un paese dell'est 
                  Europa, succeduta al marito defunto; dell'assoluta mancanza 
                  di etica e di moralità di una donna a capo di un'organizzazione 
                  criminale, al comando dopo aver scalzato padre e fratelli; del 
                  lavaggio del cervello messo in atto dalla fondatrice di una 
                  nuova religione, incentrata su un dio donna, divenuta presto 
                  fenomeno di massa internazionale. Forse la scelta del titolo 
                  italiano (Ragazze elettriche) diverso dall'originale 
                  (The power) ha contribuito a fare un po' perdere di vista 
                  il cuore del discorso di Alderman: la critica al potere, non 
                  importa se esercitato dalle donne o dagli uomini.
 Carlotta Pedrazzini 
 
 Chiesa e nazismo/Amore a prima vista
  Vaticano 
                  Olocausto e fascismi a cura di Daniele Barbieri e Peter 
                  Gorenflos (Massari Editore, Bolsena – Vt - 2017, pp.208, 
                  € 20,00) è un proseguimento-ampliamento di un libro 
                  storicamente importante Con Dio e con i fascisti di Karlheinz 
                  Deschner (tradotto in italiano con decenni di ritardo) con materiali 
                  di varia natura: in primo luogo dai contributi scritti per l'omonimo 
                  convegno romano con l'analisi di aspetti psicologici, sociali 
                  e culturali legati al nazifascismo (tre dei quali non riconducibili 
                  all'Olocausto: religione come nevrosi, l'oppressione della donna 
                  e la libertà di propaganda per l'ateismo). Compaiono 
                  poi ricerche specifiche sulle aree geografiche in cui si è 
                  verificata una collaborazione tra Chiesa e nazifascismo, come 
                  il Paese Basco all'epoca di Franco, la Francia di Vichy e un 
                  riferimento a storie più recenti di complicità 
                  vaticana con regimi dittatoriali, come nell'Argentina di Videla 
                  e dei Desaparecidos. Nel trattato Con Dio e con i fascisti, Deschner ricordava 
                  che l'appoggio del papa al fascismo italiano fu già chiaro 
                  nei giorni della marcia su Roma, quando il Vaticano esortò 
                  le proprie gerarchie a non identificarsi con il Partito Cattolico 
                  che all'epoca era avverso ai fascisti. Inoltre Deschner documentava 
                  che anche il successore di Pio XII coprì la politica 
                  collaborazionista di Papa Pacelli verso Hitler, Mussolini e 
                  Francisco Franco.
 Dunque sono molte ragioni per diffondere il vecchio testo di 
                  Deschner ma anche per ampliare il discorso come fa Vaticano, 
                  Olocausto e fascismi. Infatti grazie alla massiccia opera 
                  di disinformazione compiuta dai media e da intellettuali compiacenti, 
                  cresce il numero di persone convinte che la Chiesa cattolica 
                  si sarebbe opposta se non al fascismo, almeno al nazismo, cercando 
                  di salvare il maggior numero di ebrei. “È una leggenda 
                  che però va prendendo piede quanto più ci si allontana 
                  da quegli avvenimenti e vengono meno i testimoni diretti delle 
                  responsabilità vaticane”, scrive Daniele Barbieri.
 Il Vaticano sostenne Hitler ma dopo il 1945 – mentre in 
                  silenzio favoriva la fuga di molti gerarchi nazisti – 
                  iniziò a sostenere di essersi opposto al nazismo, riappropriandosi 
                  della memoria di quei pochi religiosi che veramente si schierarono 
                  contro Hitler, pagando anche con la vita, e che erano stati 
                  abbandonati dalle gerarchie nazionali e vaticane.
 Non è solo necessario ristabilire la verità storica, 
                  ma anche il diritto della Chiesa e di ogni altra religione istituzionalizzata 
                  di avere una sorta di immunità per negare la trasparenza 
                  degli eventi. Ogni tanto il Vaticano sostiene che sta per aprire 
                  tutti i suoi archivi contenenti materiali e documenti sulla 
                  Seconda Guerra Mondiale, ma poi non lo fa. E anche la Chiesa 
                  argentina annuncia che renderà accessibili gli archivi 
                  riguardanti gli anni della dittatura militare, ma per ora non 
                  lo ha fatto.
 Intanto lo Ior è sempre complice nel finanziare le guerre 
                  nel mondo. La pedofilia viene tuttora nascosta e difesa. Il 
                  Vaticano continua a difendere e ampliare i suoi privilegi giuridici 
                  e materiali.
 Non si vedono fatti concreti che facciano pensare a un reale 
                  pentimento della Chiesa per le complicità del passato 
                  con il nazifascismo e con i tanti regimi dittatoriali. Come 
                  rammenta Peter Gorenflos, l'altro curatore del libro, “Gli 
                  industriali, i banchieri e i grandi proprietari terrieri avevano 
                  paura di una guerra civile e di una presa del potere da parte 
                  della classe operaia, secondo il modello sovietico. Per questa 
                  ragione sostennero Hitler sia finanziariamente che con la stampa 
                  e la propaganda, dal momento che Hitler aveva esplicitamente 
                  dichiarato di essere pronto a eliminare i socialisti, i comunisti 
                  e anche i liberali con l'uso della violenza”.
 Laura Tussi |