|   
 
 Mondo beat/Ma prima del '68 ci fu il '67
 Si avvicina il cinquantenario del '68, l'anno del riversarsi 
                  nelle piazze degli studenti, della ribellione giovanile contro 
                  la società dei papà. Di certo verranno promossi 
                  ovunque eventi ed iniziative e anche gli organi di informazione 
                  non si lasceranno sfuggire la ghiotta ricorrenza per riproporre 
                  analisi di ogni genere: per tessere odi al fenomeno o condannarlo.Ma prima del '68 ci fu il '67 e gli anni appena dietro in cui 
                  in Italia, specie nelle grandi città, sulla spinta dei 
                  movimenti underground sviluppatisi negli Stati Uniti e in vari 
                  Paesi dell'Europa, emersero gruppi (sempre giovanili) che caratterizzarono 
                  gli inizi della stagione della controcultura.
 Un fenomeno minimizzato e trascurato storicamente, che però 
                  anticipò il vortice delle tensioni politiche sessantottesche. 
                  Tra i gruppi più attivi che nel 1967 “scossero” 
                  la Milano del tempo - culla del boom economico amministrata 
                  da giunte di centro-sinistra, “capitale morale” 
                  e della cultura, ma perbenista e rigida nei costumi - ci fu 
                  il “Mondo beat” dei “capelloni”, dei 
                  “figli dei fiori” i quali citavano Henry Miller 
                  (“voi vivete domani e ieri, io vivo solamente oggi. Perciò 
                  vivo in eterno”) e sognavano di dar vita ad una società 
                  nella società, cioè ad un modello di vita comunitaria 
                  impostato sulla pace, l'uguaglianza, l'obiezione di coscienza, 
                  la difesa dell'ambiente, la libertà sessuale.
 
  A 
                  riaccendere un faro su quel microuniverso della stagione del 
                  ribellismo è il docu-film (anno: 2012) del regista Vincenzo 
                  Galante Il mondo di Papà Beat che è anche 
                  una sorta di ritratto di Antonio Di Spagna, uno dei protagonisti 
                  del movimento, scomparso di recente e che tutti chiamavano “Papà 
                  Beat”. Il lavoro di Galante nasce anche come testimonianza 
                  per rimettere in ordine dei tasselli nella storia della controcultura 
                  del Paese: “Papà Beat” e suoi compagni - 
                  che avevano come punto di ritrovo i gradini sotto la statua 
                  di Vittorio Emanuele II in piazza Duomo - vennero scambiati 
                  da pezzi della società meneghina e degli organi di polizia 
                  e delle istituzioni per tossicodipendenti e pericolosi sovvertitori 
                  dell'ordine precostituito, ma erano solo dei sognatori di un 
                  mondo-altro, degli idealisti non politicizzati che si ispiravano 
                  a Gandhi e leggevano Bertrand Russell. Frange di intellettuali e di giornalisti li attaccavano, ma 
                  c'era pure chi prese le loro difese come Giorgio Bocca, Camilla 
                  Cederna, Umberto Eco e il poeta Alfonso Gatto il quale scrisse: 
                  “Li trovo esteti, moderati, docili. Cercano un autore: 
                  ma tra loro potrebbe esserci un Messia. E noi certamente lo 
                  metteremmo in croce”. Nel novembre del 1966 Antonio Di 
                  Spagna-Papà Beat e i suoi compagni di avventura, Vittorio 
                  Di Russo, Gerbino Melchiorre, Gennaro De Miranda, avevano dato 
                  alle stampe “Mondo Beat”, la prima testata dell'universo 
                  underground nazionale, pubblicata in ciclostile nei locali del 
                  circolo anarchico “Sacco e Vanzetti” in viale Murillo 
                  a Milano.
 Il periodico si presentò non solo da megafono dei “beatniks”, 
                  ma in una libera tribuna mirante, da una parte, a svecchiare 
                  un certo linguaggio delle lettere e dell'informazione e, dall'altra, 
                  a confrontarsi con gli altri gruppi giovanili, a rigettare l'obbligo 
                  di leva, l'egemonia dei due blocchi (Nato e Varsavia), il consumismo 
                  e i modelli della diseguaglianza; su quest'ultimo tema vennero 
                  citate pure parole di Papa Giovanni XXIII: “Gli esseri 
                  umani sono tutti uguali per dignità naturale: nessuno 
                  può obbligare gli altri interiormente”. Intorno 
                  a “Mondo Beat”, che uscì solo in sette numeri, 
                  nacquero una serie di manifestazioni pacifiste e culturali. 
                  Quando giunse la fine delle sue pubblicazioni mensili, “Papà 
                  Beat” e tutti gli altri “figli dei fiori” 
                  presero percorsi separati, ma lasciarono in eredità un 
                  patrimonio di idee e battaglie avanguardiste di cui il '68, 
                  in parte, se ne appropriò senza però farne tesoro 
                  fino in fondo, a custodia degli anni (tremendi) che seguirono.
 Mimmo Mastrangelo 
 
 Rave/Una storia pesante
  È 
                  uscita l'opera prima (letteraria) del mitico dj e musicista 
                  milanese Pablito el Drito dal titolo Once were ravers. Cronache 
                  da un vortice esistenziale per la casa editrice AgenziaX 
                  (Milano, 2017, pp. 168, € 14,00). Lo ammetto subito. Quando l'autore me lo ha regalato ho pensato 
                  che io ho sempre odiato i rave e soprattutto quello che si sono 
                  portati dietro, ovvero: droghe pesanti e pochi contenuti, oltre 
                  ad amici che hanno perso cervello e vita; ma leggendo questo 
                  romanzo che corre a 200 all'ora ho dovuto almeno in piccola 
                  parte cambiare idea.
 Il libro ha un protagonista, Ernesto, un quasi pischello che 
                  al tramonto dei vent'anni lascia il lavoro e decide di dedicarsi 
                  alla sua passione, la musica, il nomadismo, i rave, oltre - 
                  inutile dirlo - alle droghe pesanti e al sesso. Stupisce molto 
                  pensare che se l'autore del libro è il personaggio principale 
                  oggi sia ancora vivo e capace di parlare e scrivere; significa 
                  che probabilmente era immune a tutte le sostanze buttate giù 
                  senza troppa paura in quel periodo della sua vita.
 Il libro è ambientato negli anni del berlusconismo, ma 
                  si focalizza soprattutto nel dopo G8, un periodo di estrema 
                  crisi per movimenti politici e controculturali.
 Il testo è scritto bene, molto divertente, anche se in 
                  certi momenti mi sono innervosito molto perché anche 
                  io ho vissuto quegli stessi anni ed ero dalla parte opposta, 
                  quella che cercava di limitare i festoni, che spingeva le feste 
                  libere dalle sostanze, dal sessismo, sperando di far capire 
                  che le droghe pesanti usate in modo massiccio sono un enorme 
                  arma dello stato per tenere le masse giovanili al loro posto 
                  senza critiche, pronte a “brasare” completamente 
                  le loro menti che potrebbero essere ancora non addomesticate 
                  al capitalismo.
 Purtroppo sono convinto che in quegli anni Novanta si sia prodotta 
                  proprio una specie di fabbrica del divertimento, che prevedeva 
                  regole precise e che non hanno portato a nulla di buono per 
                  i movimenti politici e per la cultura underground.
 L'autore però non è acritico e fa capire al lettore 
                  che non tutto era positivo e divertente e che una volta che 
                  si riesce a uscire dall'onda profonda della droga e del divertimento 
                  ci si rende conto che sotto l'effetto delle sostanze sintetiche 
                  sembrano tutti amici, ma spente le luci psichedeliche, ammutoliti 
                  i sound system e svanita la scenografia fiabesca, si capisce 
                  presto che intorno ci si ritrova ad avere solamente colleghi, 
                  clienti e competitor.
 Un romanzo ironico, a tratti poetico e amaro, un punto di vista 
                  originale sul mondo dei rave.
 Andrea Staid 
 
 USA/American Psycho ieri e oggi
  American 
                  Psycho di Bret Easton Ellis (1991) è, secondo me, 
                  un brutto libro. Delle oltre cinquecento pagine che lo compongono, infatti, almeno 
                  trecento sono superflue, ripetitive ben oltre l'ossessione e 
                  fino alla noia. Di queste trecento, poi, almeno la metà 
                  sono di una violenza gratuita, compiaciuta, orripilante.
 Eppure il libro comincia bene. Le prime centocinquanta pagine 
                  sono un vero gioiello di scrittura. Non vi succede praticamente 
                  nulla, ma il mondo degli Yuppies della New York anni '80 è 
                  radiografato con precisione da entomologo e tutta la crudele 
                  ironia che si merita. Il protagonista, poi, è indimenticabile: 
                  difficile trovare un personaggio più spaventoso e comico 
                  (contemporaneamente!) di Patrick Batesman, bravo ragazzo pettinatissimo 
                  e maniaco omicida.
 Poi la violenza prende il sopravvento. Sembra chiaro che il 
                  proposito di Bret Easton Ellis consiste nel prendere per la 
                  mano il lettore, accompagnarlo fin poco oltre l'ingresso di 
                  un bel romanzo psicologico, satirico, arrabbiato, per poi lì, 
                  improvvisamente, abbandonarlo nel bel mezzo del peggiore horror 
                  della sua vita. Solo che, una volta realizzato l'effetto-sorpresa, 
                  tutto è tirato un po' troppo per le lunghe. Finiscono 
                  per stufarci le stralunate ossessioni del caro Patrick e sentiamo 
                  sempre più forte la tentazione di saltare pagine e capitoli, 
                  tanto che va un po' sprecato persino l'intelligentissimo finale, 
                  che invece nella trasposizione cinematografica (Mary Harron, 
                  2000) è esposto in tutta la sua irrisolvibile ambiguità.
 Ma allora perché rileggerlo oggi?
 Perché è difficile non sussultare di meraviglia 
                  e spavento alla lettura di un dettaglio, uno solo, e, a distanza 
                  di mesi, non tornare a sussultare ogni volta che ci torna in 
                  mente. Il protagonista di questa storia, infatti, il broker 
                  macinagrana diplomato in una delle migliori [sic] università 
                  americane; il vicino di casa di Tom Cruise, appassionato di 
                  palestra, moda e ristoranti esclusivi; il “ragazzo della 
                  porta accanto” che nel tempo libero tortura prostitute 
                  e cameriere, sbeffeggia mendicanti e ogni tanto li uccide; Patrick 
                  Batesman, insomma, ha un solo idolo, un solo inarrivabile modello 
                  di comportamento e riuscita: Donald Trump, l'uomo che oggi si 
                  trova a capo del più potente apparato bellico-industriale 
                  al mondo.
 Ecco il lettore nuovamente scaraventato nel bel mezzo del peggiore 
                  horror della sua vita. Salvo che non è un romanzo. 
                  Non si possono saltar le pagine o chiudere il libro.
 Enrico Bonadei 
 
 Berneri/Non Camillo, ma Giovanna e Maria Luisa
  Il 
                  libro di Giorgio Sacchetti Eretiche. Il Novecento di Maria 
                  Luisa Berneri e Giovanna Caleffi (Biblion, Milano 2017, 
                  pp. 134, € 13,00) contiene un necessario recupero delle 
                  due figure di Maria Luisa Berneri e Giovanna Caleffi, spesso 
                  ricordate semplicemente come figlia e moglie di Camillo Berneri. Se è vero che portano avanti il suo pensiero, possiamo 
                  dire che il ricordo del loro amato si trasforma nel motore che 
                  le muove: come lui non si fermano davanti a niente, hanno una 
                  grande capacità di analisi dell'attualità ed una 
                  sensibilità non comune. Le loro figure non vivono all'ombra 
                  del Berneri ma sono certamente in grado di camminare da sole: 
                  fanno propria la sua eredità culturale e politica, sviluppano 
                  il suo pensiero e lo arricchiscono della loro visione di genere.
 Negli ultimi anni grazie al lavoro dell'archivio Chessa-Berneri 
                  ed ai convegni organizzati, si sono analizzate con più 
                  profondità le personalità di queste due donne 
                  che vissero gli eventi cruciali del Novecento sulla loro pelle. 
                  La loro capacità di analisi dell'attualità di 
                  quel momento, il loro slancio per la condivisione delle idee, 
                  il dibattito collettivo e lo smuovere coscienze, risulta davvero 
                  sorprendente per noi così immersi nel mondo capitalista 
                  ed assuefatti alle sue categorie.
 Come ben ricorda l'autore, troviamo nei loro scritti e nel loro 
                  lavoro “un'innaturale continuità figlia-madre” 
                  dato che è per prima la giovanissima Maria Luisa dall'Inghilterra 
                  a farsi notare poichè molto attiva nella propaganda e 
                  nelle pubblicazioni. Già nel 1936 è segnalata 
                  dalle autorità italiane a Londra, e a 18 anni è 
                  una delle più giovani donne schedate dal regime. Insieme 
                  al marito Vernon Richards formano la redazione della rivista 
                  di Spain and the World (1936-1938), poi di War Commentary 
                  (1939-1945) e infine di Freedom (1939-1945). La loro 
                  posizione antibellicista, contraria all'idea di una “guerra 
                  giusta” contro il fascismo, fa guadagnare loro la simpatia 
                  di alcuni settori della sinistra e addirittura dell'esercito; 
                  vengono infatti accusati di attività sediziosa antinazionale: 
                  le loro campagne contro i bombardamenti di massa e la pubblicazione 
                  di Fight! For what? andavano certo contro il sentimento 
                  patriottico e la costruzione di un'identità nazionale 
                  a cui si voleva contribuire con la guerra.
 Gli interessi di Maria Luisa spaziano dalle condizioni dei lavoratori 
                  in Russia, sulle quali pubblica nel 1944 una raccolta di scritti, 
                  agli studi di psicologia che si concretizzano nell'analisi dell'opera 
                  di Reich Sexuality and Freedom (articolo pubblicato nel 
                  1945). Il suo lavoro più grande è certo Viaggio 
                  attraverso Utopia, un'accurata disamina delle utopie dal 
                  passato fino ai suoi tempi, pubblicato dopo la sua morte improvvisa 
                  a soli 31 anni nel 1949 a causa di complicazioni post-parto.
 Dal 1946 invece la madre Giovanna Caleffi aveva fondato la rivista 
                  Volontà a Napoli insieme a Cesare Zaccaria dove 
                  porta avanti una serie di temi cari anche alla figlia e diventa 
                  negli anni Cinquanta punto di riferimento per il dibattito teorico 
                  sull'anarchismo ma anche per altre correnti di sinistra del 
                  nostro Paese. Oltre che dell'antimilitarismo la rivista si occupa 
                  di temi importanti come l'emancipazione femminile, il controllo 
                  delle nascite e la pedagogia d'avanguardia, argomenti spesso 
                  dimenticati a favore di un dibattito più politico.
 Sacchetti studia minuziosamente i contributi alla rivista della 
                  Caleffi per ricostruire la sua figura e ci mette al corrente 
                  del suo metodo di lavoro: riusciamo a farci un'idea delle personalità 
                  di queste due donne non solo grazie all'analisi metodica dei 
                  loro scritti, ma anche attraverso gli scritti minori, o semplicemente 
                  la scelta dei temi e del materiale da recensire. Le loro lettere 
                  poi costituiscono un'inedita mappa dell'esilio negli anni Quaranta 
                  e dimostrano la fitta rete di relazioni sociali, altra eredità 
                  del Berneri.
 Gli stralci riportati dalle riviste ci permettono di conoscere 
                  la loro voce in prima persona e l'entusiasmo che le muoveva 
                  nella diffusione delle loro opinioni. Per quanto riguarda Giovanna 
                  la delusione per la riorganizzazione dell'Italia nel dopoguerra 
                  è il leit motiv dei suoi interventi: critica il crescente 
                  potere dello Stato, affermando che si è combattuto contro 
                  il fascismo ma ora ci si abbandona ad uno Stato democratico 
                  che non è tanto diverso. Insiste sulla continuità 
                  del fascismo che avendo forgiato menti gregarie continua ad 
                  essere presente anche nel popolo della sinistra, che si proclama 
                  antifascista ma ancora desidera “essere comandato”. 
                  Contesta fortemente l'ingerenza della Chiesa nello stato e nelle 
                  questioni di tutti i giorni, come “l'etica sessuofobica 
                  religiosa che caratterizza lo stagnante ambiente culturale italiano”. 
                  Una rubrica molto seguita è Conversazioni tra amici, 
                  che ospita personaggi anche illustri come Gaetano Salvemini 
                  o Ignazio Silone, e sottolinea la funzione di dialogo della 
                  rivista, caratteristica delle pubblicazioni anarchiche che non 
                  aspirano a trasmettere una verità bensì fornire 
                  strumenti per il dibattito.
 In ricordo della figlia maggiore fonda la Colonia Maria Luisa 
                  Berneri per “sottrarre i figli dei nostri compagni bisognosi 
                  alle varie interessate opere assistenziali” che funziona 
                  non senza difficoltà economiche a Piano di Sorrento dal 
                  1951 al 1957, e poi a Ronchi (Massa Carrara) dal 1960. Questo 
                  progetto di pedagogia antiautoritaria, come sognava Maria Luisa, 
                  termina due anni dopo la morte della sua ispiratrice, nel 1964.
 L'instancabile attività di entrambe e la loro capacità 
                  di analisi lega indissolubilmente le loro vite all'attualità 
                  di quegli anni, vicende che abbiamo la possibilità di 
                  ripercorrere attraverso questa importante monografia.
 Valeria Giacomoni 
 
 A proposito di Iris/Una cooperativa agricola in Pianura Padana
  “Quando 
                  stai per arrivare alla cascina Corteregona, la casa di Iris, 
                  la strada diventa una sottile lingua catramata che scorre in 
                  alto, sopra canali che lambiscono dolcemente i campi, e tu che 
                  guidi puoi osservare da una posizione privilegiata, campi coltivati 
                  senza soluzione di continuità da ogni lato... La cascina 
                  ti offre il lato che costeggia la strada, al centro c'è 
                  un murales che rappresenta dei campesinos sudamericani e questo 
                  primo colpo d'occhio colorato e caldo ti svela che questa non 
                  è una cooperativa agricola come le altre.” Le impressioni 
                  descritte da Monia Andreani sono molto simili a quelle che ho 
                  avuto io stesso un mattino di fine giugno varcando la soglia 
                  di questa coop. Ero là per partecipare a “Un giorno in cascina” 
                  la festa aperta a tutti che la Cooperativa Iris tiene ogni anno 
                  nella propria sede di Calvatone. C'è da dire che la semplice 
                  cascina, come ce la potremmo immaginare, ha lasciato il posto 
                  ad una ampia e strutturata fattoria. Monia Andreani, professoressa 
                  di Teorie dei Diritti Umani all'Università per Stranieri 
                  di Perugia, ha condotto una ricerca dove ci racconta la storia 
                  di Iris, i suoi esordi e il suo presente, le incognite legate 
                  alle sue attuali trasformazioni. Il testo di questa ricerca 
                  è contenuto nel libro Biologico, Colletivo, Solidale. 
                  Dalla filiera agricola alle azioni mutualistiche pubblicato 
                  dalle Edizioni Altreconomia nel 2016 (Milano, pp. 128, € 
                  13,00).
 Andreani per oltre un anno è stata a stretto contatto 
                  con le persone che hanno visto nascere e diventare adulta “la 
                  Iris”, come viene familiarmente chiamata, e ne ha raccolto 
                  le testimonianze. Molte testimonianze che raccontano una storia 
                  lunga quasi 40 anni, sbocciata sul finire degli anni '70, gli 
                  anni che ricordiamo come quelli della grande ondata rivoluzionaria 
                  e creativa, politica ed esistenziale. Anni che vedono protagonisti 
                  un gruppo di ragazzi anarchici, libertari e comunisti della 
                  provincia cremonese che insieme decidono di coltivare la terra 
                  con metodi biologici, ben prima dunque di quella che diverrà 
                  in seguito la “moda” industriale del biologico. 
                  Il loro intento è chiaro: rispettare la natura intima 
                  della terra, la madre che nutre tutti noi umani e non umani.
 Una scelta netta, in controtendenza alla diffusione dell'agro-industria 
                  convenzionale. Ma non si limitano a questo, vogliono fare gli 
                  agricoltori seguendo criteri di autogestione e di solidarietà, 
                  condividendo questi valori quando possibile con altri.
 Il libro è denso delle testimonianze di coloro che in 
                  qualche misura hanno condiviso e tuttora condividono la vita 
                  della cooperativa: i soci fondatori e quelli lavoratori, i soci 
                  consumatori e quelli finanziatori, e non mancano gli amministratori 
                  e gli abitanti di questa parte di campagna cremonese. Attraverso 
                  le testimonianze in particolare di Maurizio Gritta presidente 
                  di Iris, di Paolo Morelli e Fulvia Mantovani vengono illustrati 
                  gli avvenimenti che nel corso del tempo hanno portato a modificare 
                  l'organigramma della cooperativa. La ricercatrice sottolinea 
                  più volte come Iris a suo giudizio abbia salvaguardato 
                  nel corso del tempo la forma cooperativa come autentica espressione 
                  dell'economia del bene comune, e invita il lettore a farne una 
                  comparazione con le tante degenerazioni avvenute nel mondo cooperativo 
                  agricolo e industriale. A questo scopo vengono citati i princìpi 
                  fondativi di Iris che non solo fanno riferimento all'agricoltura 
                  biologica e al rispetto della fertilità naturale della 
                  terra, ma anche alla forma cooperativa come proprietà 
                  collettiva a capitale non cumulativo, alla solidarietà 
                  e al mutualismo declinati all'ambito lavorativo e produttivo 
                  della cooperativa e della filiera che la rifornisce e la sostiene.
 Iris negli anni ha avuto un ampliamento considerevole, la cooperativa 
                  agricola ha assunto anche la veste di coop. industriale nella 
                  produzione di pasta biologica, e recentemente ha avviato un 
                  nuovo pastificio a Casteldidone, a pochi km dalla cascina di 
                  Calvatone. Questa nuova impresa industriale, finanziata anche 
                  con l'emissione da parte di Iris di azioni mutualistiche, affiancata 
                  da una struttura per servizi educativi, culturali, ludici e 
                  la recente costituzione della Fondazione Iris rappresentano 
                  per tutti i soci della cooperativa, e non solo per loro, una 
                  nuova sfida.
 Questa recente “metamorfosi” può indurre 
                  noi lettori a porci alcune domande, Andreani ci offre una risposta 
                  esemplificativa: “La cooperativa Iris può essere 
                  considerata una realtà medio-grande nel panorama dell'economia 
                  solidale italiana che è costituita per lo più 
                  da aziende piccole o piccolissime. Quello che è davvero 
                  grande in Iris è il tessuto organico, perchè pulsante 
                  e vitale, una vera e propria rete eco-solidale che la cooperativa 
                  è riuscita con grande caparbietà a tessere negli 
                  anni: con la filiera, con la rete economica tra le cooperative 
                  consociate, con il sostegno alla sperimentazione portate avanti 
                  dai GAS, con il sostegno a chi vuole fare percorsi simili nell'ambito 
                  della cooperazione”.
 Un libro scritto con partecipazione, che a tratti forse pecca 
                  di eccessiva enfasi per l'oggetto della ricerca, che ha il merito 
                  di offrire al movimento libertario e solidale degli utili strumenti 
                  di riflessione sui possibili e praticabili percorsi di uscita 
                  dall'economia capitalista.
 Orazio Gobbi 
 
 L'inventrice del Sistema/Cronache (on-line) di fantapolitica
  Alessandra 
                  Daniele ha finalmente brevettato il modo di far pagare l'aria. 
                  Da tanto tempo, da prima della Rivoluzione industriale, se ne 
                  parlava. Ma mai nessuno aveva potuto stabilire come sarebbe 
                  successo. L'inventrice scrive su Carmillaonline da quasi dodici 
                  anni, ha iniziato con una serie di schede sugli scrittori di 
                  fantascienza della Golden Age, (Asimov, Sturgeon, Fredric Brown, 
                  Robert Sheckley, Philip K. Dick...) i quali, ci scrive “sono 
                  stati anche la mia principale fonte d'ispirazione, e non mi 
                  stanco di consigliare a tutti di leggerli”. Le sue cronache di fantapolitica hanno raccolto un pubblico 
                  di entusiasti lettori e di recente sono state collezionate in 
                  un ebook1. Ma la portata dei 
                  “brevetti” di questa scrittrice è tale da 
                  meritare la carta stampata, oggetto ormai feticistico, collezionato 
                  da Previti, bianchi fogli profumati di inchiostro e status, 
                  sprecati per libri bianchi di Fabio Volo.
 Lo si capisce da subito, si è di fronte ad una visione 
                  limpida, pitagorica, dello scenario politico italiano (ma alcune 
                  istantanee sono dedicate alla guerra globale). Pensiamo ad esempio 
                  alla geniale previsione del nuovo partito post PD... il PD, 
                  cioè il Partito Demopratico. Oppure alla definizione 
                  del Predariato, mutazione del Precariato, il nuovo rapporto 
                  tra datore di lavoro e lavoratore: un contratto di lavoro a 
                  tutele crescenti che segua criteri evoluzionistici, per cui 
                  appena assunto il lavoratore avrà gli stessi diritti 
                  di un protozoo unicellulare.
 L'Era del Cazzaro descritta dall'inventrice è un dejà 
                  vu, un “ritorno al Cazzaro” quale figura ricorrente 
                  (Mussolini, Craxi, Berlusconi) alternata a periodi di quaresima, 
                  personaggio di una sorta di Ubik (dall'omonima opera di P. K. 
                  Dick) in cui si alternano episodi quali “Il paradosso 
                  dei gemelli” (Matteo e Matteo) e si attuano fantasiosi 
                  schemi politici, quali la “Repubblica presenziale”, 
                  quella cioè nella quale diventa premier chi ottiene più 
                  passaggi televisivi.
 La “cazzaria” è semplicemente, dunque, l'evoluzione 
                  da un “bi-polmonarismo perfetto” a quello in cui 
                  uno dei polmoni riciclerà smog, grazie al bonus da 80 
                  euro impregnato di un virus mutageno, a tutto vantaggio dell'economia 
                  che così riuscirà a vendere inquinamento. Lo stesso 
                  iperrealistico sistema economico beneficia di un Welfare perfetto, 
                  quello che invia all'italiano che non ha ricevuto dall'Inps 
                  la busta arancione, una busta nera con la comunicazione che 
                  l'importo della sua pensione è un numero negativo, e 
                  che quindi dovrà versare un mensile allo Stato.
 Se l'insieme dello stupidario politico riassunto nel Cazzarometro 
                  vi divertirà, l'analisi di Alessandra Daniele vi stupirà 
                  (o preoccuperà) per la sua teoria basica che tende a 
                  definire una “fine del futuro” ed a semplificare 
                  l'universo mediatico-politico in una chiarissima tesi: “... 
                  Renzi dimostra che è ancora Berlusconi il demiurgo morente 
                  del nostro inferno privato, costruito dall'immaginario televisivo 
                  ben prima che politico”.
 Francesca Palazzi Arduini  1. L'Era del Cazzaro è disponibile in ebook 
                  con licenza Creative Commons su carmillaonline.com 
 
 Utopie concrete/Né servi né padroni
 Tutti quelli che hanno esperienza di militanza (più 
                  o meno calda e intensa) nei gruppi politici (ma anche nel volontariato 
                  sociale) ricordano sicuramente le molte situazioni in cui la 
                  “struttura informale” ha avuto la meglio sulla “struttura 
                  formale” del gruppo causando piccoli e grandi guai. Formalmente 
                  si assumeva che ci fosse una parità tra i membri del 
                  gruppo, che ci fosse insomma un'organizzazione “orizzontale”, 
                  mentre nei fatti e nelle situazioni concrete emergevano relazioni 
                  gerarchiche più o meno occulte.
  A 
                  volte si arrivava a considerare questa situazione come qualcosa 
                  di naturale, altre volte invece imputabile a singoli membri 
                  del gruppo oppure ancora alla pressione del mondo esterno sul 
                  piccolo gruppo. Qualunque fossero le ragioni si creavano dei 
                  conflitti che alla lunga potevano condurre alla disgregazione 
                  e allo scioglimento del gruppo. In effetti non è difficile 
                  capire perché la gerarchia come struttura organizzativa 
                  sembra più stabile: ingessa i partecipanti e limita le 
                  scelte in funzione di obiettivi esterni e di una catena di comando 
                  che difficilmente può essere modificata ai livelli più 
                  bassi della piramide. Ma lo fa appunto a discapito dell'autonomia 
                  degli individui. La sfida di un'organizzazione egualitaria, 
                  veramente orizzontale è davvero ardua ma è ciò 
                  che, con il mai dimenticato Colin Ward, si può chiamare 
                  “anarchia come organizzazione”. Il libro di Yona Friedman, Come vivere con gli altri senza 
                  essere né servi né padroni (Elèuthera. 
                  Milano 2017, pp. 184, € 15,00), come si spiega nell'introduzione 
                  e nella postfazione, nasce da esperienze concrete: nei kibbutz, 
                  all'università, a contatto con gli organismi internazionali 
                  (ad esempio il Consiglio europeo).
 Friedman architetto e urbanista, autore tra l'altro di Utopie 
                  realizzabili (riedito in italiano nel 2016) è stato 
                  protagonista dell'architettura utopica negli anni Sessanta. 
                  Questo libro originale, pubblicato per la prima volta più 
                  di quarant'anni fa e riedito da poco in Francia, è diviso 
                  in due parti dedicate rispettivamente alla dimensione micro 
                  e alla dimensione macro. Nella prima ci troviamo davanti a un 
                  saggio a fumetti in cui l'autore utilizzando grafi e vettori, 
                  visualizza la rete di influenze nel gruppo in modo simile al 
                  metodo dei sociogrammi. Mostra i limiti e le possibilità 
                  dell'influenza del gruppo, la valenza (ossia la capacità 
                  di influenzare gli altri) degli individui in funzione delle 
                  dimensioni del gruppo e del tempo a disposizione, i limiti nella 
                  capacità di trasmissione e arriva a definire alcune caratteristiche 
                  strutturali del gruppo egualitario.
 Centrale è la questione delle dimensioni: “un gruppo 
                  umano caratterizzato da una qualsiasi struttura sociale non 
                  può funzionare se non a patto che il numero dei componenti 
                  del gruppo stesso non superi un numero limite che dipende dalla 
                  “valenza” e dalla “capacità di trasmissione” 
                  proprie della specie umana. Questo numero limite lo definiremo 
                  dimensione critica del gruppo” (124).
 Da qui segue una conseguenza all'apparenza paradossale che in 
                  un certo senso fa da cerniera tra le due parti e che riguarda 
                  la comunicazione: la comunicazione globale è impossibile. 
                  Ma come, nella società della comunicazione, si asserisce 
                  che la comunicazione è impossibile? Per quanto sia sofisticata 
                  la tecnologia impiegata, il superamento delle dimensioni del 
                  gruppo critico fa sì che non ci sia comunicazione in 
                  senso proprio ma solo trasmissione unidirezionale dall'esito 
                  imprevedibile. È quella che Friedman chiama la sindrome 
                  della Torre di Babele. Qui forse si dovrebbe inserire, ma 
                  non era forse nelle possibilità e nelle intenzioni dell'autore, 
                  una riflessione più approfondita sul ruolo dei social 
                  e degli smartphone oggi che coinvolgono miliardi di persone 
                  nel mondo1.
 Nella seconda parte del libro l'autore tenta una sintesi generale 
                  che tragga le conclusioni dalle premesse sulla struttura delle 
                  organizzazioni e delinea quella che può definirsi un'utopia 
                  concreta del mondo povero che, per dirla in breve e in 
                  un modo che è familiare ha il sapore kropotkiniano della 
                  de-centralizzazione2. “Le 
                  grandi organizzazioni sono divenute ingovernabili perché 
                  tutte le istruzioni, che provengano dall'alto o dal basso, vengono 
                  comunque bloccate a un certo punto del loro percorso” 
                  (129).
 Ecco la necessità di una de-centralizzazione che crei 
                  dei sistemi economici su base regionale/locale (che definisce 
                  economia di “serbatoi specializzati”), con una distribuzione 
                  di beni e energia basata sul baratto, con una progressiva riduzione 
                  del lavoro parcellizzato e dei trasporti. Un mondo in cui il 
                  commercio è fortemente ridotto, quasi annullato, perché 
                  è venuta meno l'esigenza dell'accumulo e la logica dell'equivalenza.
 E in conclusione arriva ad abbozzare quella che definisce una 
                  “economia animale”, che per l'autore non ha nulla 
                  di peggiorativo e che non va confusa con il primitivismo. “Un 
                  “mondo povero” nel quale la scala dei valori quantitativi 
                  non ha alcuna ragion d'essere al pari del commercio, dove non 
                  si mangia più di ciò che è necessario, 
                  dove si prestano e ci si fa prestare gli oggetti di cui si ha 
                  bisogno, oggetti che non vengono più accumulati 
                  per semplici “ragioni di prestigio”, io la definisco 
                  un'economia animale” (134).
 La tecnologia continua ad esistere ma in una forma che potremmo 
                  definire con Illich “conviviale” basata sull'autodeterminazione, 
                  sulle conoscenze e sulle necessità dei componenti dei 
                  piccoli gruppi, senza sfruttamento né lavoro salariato.
 Alla fine di questo breve e intenso percorso, si resta senza 
                  fiato. Si alzano gli occhi dal libro, ci si ricorda del mondo 
                  in cui viviamo. E ora?
 Qui ci aiuta nella postfazione Bunuga ricordandoci che Friedman 
                  parla di utopie concrete e non totalizzanti. Riferendosi al 
                  mutamento significativo tra le due edizioni del 1974 e del 2016, 
                  Comment vivre entre les autres sans être chef et sans 
                  être esclave?, in cui entre è oggi diventato 
                  avec, scrive: “Oggi realizzare utopie concrete 
                  vuol dire produrre modelli ed esperienze in conflitto e in concorrenza 
                  con – avec – altri opposti o alternativi 
                  con i quali bisogna convivere e confrontarsi” (174).
 Un buon punto di partenza per non essere schiacciati né 
                  dal senso di impotenza né da quello di onnipotenza.
 Filippo Trasatti 
					Per un'analisi critica del fenomeno si veda ad esempio Nell'acquario di Facebook del gruppo Ippolita e il più recente Tecnologie del dominio.
					Come ci ricordano i curatori il riferimento diretto dell'autore è a Martin Buber che a sua volta conosceva Kropotkin e il pensiero anarchico. 
 
 Identità meridionale?/Il Sud e le sue specificità
  Un 
                  Sud fuori dai luoghi comuni e dagli stereotipi è quello 
                  che viene fuori da una nutrita serie di saggi, raccolti e curati 
                  da Isabella Loiodice e Giuseppe Annacontini (Pedagogie meridiane, 
                  Progedit, Bari, 2017, pp. 170, € 20,00) che, rivisitando 
                  la natura e le caratteristiche dello spirito pubblico meridionale, 
                  articolano l'idea di una pedagogia “del Mezzogiorno e 
                  che guarda al Mezzogiorno”, volta a dare alla gente del 
                  sud la coscienza delle sue più autentiche, libere e progressive 
                  modalità di vita, di relazione e di lavoro: molto diverse 
                  da come, a lungo ed erroneamente sono state tratteggiate, cioè 
                  come infide, egoistiche, amoralmente familiste, passive, arretrate 
                  e fatalistiche. Perché questo è quanto tanta letteratura 
                  e saggistica mal documentata e tendenziosa ha saputo raccontare 
                  del meridione, etichettandolo come subalterno e arretrato rispetto 
                  ad una presunta modernità. Da un po' di tempo, invece si riscopre e si rivaluta una 'identità 
                  meridionale' fatta di altruismo, benevolenza, capacità 
                  di donare; caratteristiche positive di cui è depositario 
                  l'individuo nel meridione, che in larga misura, nel passato, 
                  viveva i suoi buoni sentimenti dentro un congeniale ambiente 
                  cittadino, dove l'appartenenza sociale era scandita da un 'tempo 
                  locale' fatto di riti, feste, fiere, diverso, più denso 
                  e sensato, dal tempo della storia generale e dove la città 
                  era il luogo dell'appartenenza civica, un reticolo architettonico 
                  in cui tutto, dalle piazze ai vicoli, era memoria di antiche 
                  storie e oggetto degli sguardi incantati dei viaggiatori europei.
 Un meridione segnato positivamente dalla solidarietà 
                  che regnava sovrana nei rapporti familiari, parentali e comunitari, 
                  dal senso dell'aiuto attraverso lo scambio di reciproci lavori 
                  e favori, che è stato umiliato, frenato e costretto alla 
                  'delega' da un ceto oligarchico di 'professionisti' della politica, 
                  che, con scopi affaristici, dall'800 in avanti, si è 
                  prepotentemente assunto il compito, non senza profitto, di fare 
                  da intermediario, parassitario e dominatore, tra Stato e Governi 
                  e la gran massa di popolazione del sud, imponendo un modello 
                  di sviluppo capitalistica, che ha cancellato, con la sua logica 
                  del profitto e del consumo, l'autoproduzione e le diversità 
                  locali, sostituendo al senso del limite e della misura, al creativo 
                  'perder tempo' delle comunità meridionali, il credo del 
                  primato economico, della crescita illimitata e ad ogni costo, 
                  del successo e del denaro come fini della vita.
 Scopo delle pedagogie meridiane (delle quali, i contenuti, le 
                  analisi e le proposte scorrono convinte e convincenti negli 
                  interessanti e densi saggi di accademici e studiosi degli Atenei 
                  meridionali) sarà quello di ridare stimoli e motivazione 
                  al popolo del Sud per ritrovare un modello alternativo a quello 
                  liberista e fallimentare che nel Sud ha prodotto solo devastazione 
                  ambientale, precarietà occupazionale (la scarsa e disorganica 
                  industrializzazione non è riuscita a dare soluzioni durature 
                  e forti all'economia meridionale, accelerando negativamente 
                  e al contempo, il declino dell'agricoltura) e sterminio dell' 
                  infinito patrimonio delle culture materiali e dei lavori e dei 
                  mestieri popolari.
 Senza rimpianto per il mondo arcaico e per il folklore retrivo, 
                  negli interventi presenti nel volume si analizzano le contraddizioni 
                  della realtà meridionale contemporanea e si propongono, 
                  ad ampio raggio, idee e soluzioni che possano ridare speranza 
                  ad un futuro di autonomia e libertà a genti che abitano 
                  terre che furono, e sono, approdi accoglienti e rispettosi delle 
                  diversità.
 Per esempio: come scrive, nel suo intervento, a proposito di 
                  didattica plurilinguistica, Rosa Galleli: “occorre immaginare 
                  un insegnamento della lingua scritta che sappia teorizzare la 
                  particolarità espressive dei vernacoli meridiani come 
                  anche dei linguaggi non verbali che qui si concentrano all'incrocio 
                  tra le storie di guerra e di pace; di dono e di furto, di amore 
                  e di tradimento provenienti dalle infinite sponde del Mediterraneo”.
 Silvestro Livolsi 
 
 Un romanzo sull'Urbe/Ma a Roma c'è anche “A_”
 È sempre notte. A Roma è sempre notte. A Roma 
                  e, probabilmente, ovunque. Una sensazione, un'oggettività? 
                  Roma è l'ultimo romanzo di Vittorio Giacopini 
                  (Il Saggiatore, Milano 2017, pp. 414, € 21,00): ambientato 
                  nel 2014 con rimandi ai decenni precedenti e agganci storici 
                  locali ed internazionali.Una prima lettura mi ha suscitato quei “crampi del pensiero” 
                  capaci di sviare l'attenzione: che Giacopini abbia voluto omaggiare 
                  l'Urbe e tutto ciò che la caratterizza in modo da rendere 
                  impalpabile il confronto ad elementi più complessi, tracciando 
                  con esilarante sarcasmo un groviglio vischioso dove la quotidianità 
                  inciampa sempre alla presenza ingombrante di politici, suore, 
                  papi, palazzinari, faccendieri di ogni risma? Amore e odio? 
                  Forse sì, ma non è tutto. Roma può 
                  avere diversi codici di lettura.
 
  In 
                  primo piano si scorgono aspetti dell'esistenza del protagonista 
                  che rasenta una condizione di claustrofobica alienazione (stilisticamente 
                  affidati a lunghi elenchi di assurdi souvenir, gratta e vinci, 
                  passatempi, luoghi deturpati ma santificati, immondizie di ogni 
                  ordine e grado, realtà cadute nell'oblio ecc. quasi a 
                  voler archiviare scampoli di vita senza scampo) tanto da stare 
                  per lo più al buio, in una cripta che è rifugio, 
                  alcova, caverna, covo e dalla quale percorre il suo labirintico 
                  sottomondo: una città segreta, “il gran privilegio 
                  di attraversare Roma senza salire allo scoperto” e di 
                  incontrare, soltanto per necessità, alcuni - e alquanto 
                  romanescamente strambi – personaggi. Per Lucio 
                  Lunfardi, “l'abominevole ex giornalista e come tale titolare 
                  di informazioni riservate”, che via via acquisisce ogni 
                  sorta di appellativo, tutto è fastidio, rumore, interferenza: 
                  nella memoria del suo vissuto trova alibi e conferme, speranze 
                  e disillusioni, affetti e passioni. “Essere adeguati significa 
                  solo accettare, accettare tutto”. No, lui non si adegua, ha le sue utopie, i suoi riferimenti 
                  ideali e agisce. Il Lunfa ha un piano, svelato fin dalle prime 
                  pagine. Roma deve essere distrutta, sommersa dalle sue stesse 
                  acque, inciampare per sempre nella melma informe: tanto che 
                  differenza c'è fra i sorci e tutti gli invasori che l'hanno 
                  trasformata in un luogo di pellegrinaggio per appetiti conformisti 
                  o affaristici dove la violenza peggiore si consuma nelle stratificazioni 
                  di una legalità ad uso e consumo di un mondo iniquo, 
                  dove ogni speculazione ha la sua aureola, dove vige “l'intrallazzo 
                  eretto a regola e sistema, metodo, dogma”?
 Come nel suo precedente romanzo La mappa, Giacopini inserisce 
                  una co-protagonista femminile: un'antieroina che assume un ruolo 
                  fondamentale, non tanto per ciò che fa, ma per ciò 
                  che comunica, per il carisma che emana, perché sa suggerire 
                  un'interpretazione differente della realtà, anche quando 
                  tutto appare immerso in una bieca linearità. In Roma 
                  c'è Ariela, graffitara dalla firma “A_” (variante 
                  della A cerchiata?) che riesce a superare le inevitabili e subdoli 
                  difficoltà di chi sceglie di “vivere contro” 
                  grazie a quel qualcosa in più che finge di non cogliere 
                  ma sa regalare, grazie alle sue sfide artistiche, alla ricerca 
                  di spazi perduti, sempre sospettosa nei confronti del potere, 
                  “tutti i poteri, quelli ufficiali – contro cui era 
                  schierata da una vita – quelli ribelli complottardi parolai, 
                  artistico-furiosi, avanguardistici”. In Ariela c'è 
                  l'energia della bella Zoraide de La mappa, anche se il 
                  richiamo esplicito è alquanto fugace.
 A_ disegna ovunque “Uccellacci e uccellini” (il 
                  rimando pasoliniano è un motivo conduttore di questo 
                  libro ricco di citazioni letterarie, filosofiche, musicali o 
                  cinematografiche a titolo di omaggio o di sberleffo tanto da 
                  rendere la prosa particolarmente ironica) e sono proprio i volatili 
                  e la loro capacità di guardare tutto dall'alto, a suddividere 
                  in sezioni i capitoli del romanzo, a differenziare le “claustrofobie 
                  all'aria aperta” dell'oggi e di un passato recente alla 
                  ricerca di una comprensione meno didascalica, a scandagliare 
                  il tempo inglobato nello spazio, a svelare le dimenticanze. 
                  É così che – ad esempio - gli anni '90, 
                  anni di cornacchie, sono gli anni dei simulacri, delle fiction 
                  inesorabili, della guerra in diretta televisiva che appiattisce 
                  i sentimenti e li rende virtuali nell'alternanza fra spot pubblicitari 
                  e massacri, che pianifica l'abitudine: “la rarefazione 
                  delle immagini di guerra (...) finiva per creare un'immane, 
                  un'assoluta, una sorprendente carenza di immaginazione”.
 Ecco che il romanzo sovverte i canoni narrativi alla ricerca 
                  di linguaggi eretici che diventano parte integrante del racconto, 
                  un amaro sfogo privo di retorica: se la percezione è 
                  continuamente disturbata da interpretazioni indotte e se alla 
                  disfatta sociale si può rispondere con irriverenza, il 
                  tempo degli sconti è finito, bisogna modificare le competenze 
                  comunicative. Giacopini non si discosta dai temi a lui più 
                  cari, il suo ultimo libro – a tratti imprevedibile, epico 
                  o autobiografico – sembra volerci accompagnare, in un'alternanza 
                  di flashback e dissolvenze emotive, nel ritrovare le mappe della 
                  memoria, scovando magari fra i dubbi che emergono quando i sensi 
                  prendono il sopravvento e, accada quel che accada, chiunque 
                  si merita un po' di sana solitudine!
 E se il Lunfa guarda il mondo dal basso non è però 
                  incapace di individuare, fra le peculiarità urbanistiche, 
                  un sentire più universale: si può sempre scegliere 
                  fra subire o resistere, fuggire o sparire, distruggere o neutralizzare 
                  tutto un sapere che sapere che non è, ma merce! E che 
                  il “redivivo” possieda le mappe dell'Urbe sotterranea, 
                  che si senta l'unico vivente fra spaventapasseri, che la sua 
                  sia un'utopia indolente, che confonda l'alfa con l'omega o inverta 
                  il principio e la fine, che si strugga fra il Che, Bakunin, 
                  Cagliostro o Nerone, lo ritroviamo a scontrarsi con una “verità 
                  che nasconde il fatto che non c'è alcuna verità”: 
                  diventa prioritario sapersi orientare, eliminare l'annebbiamento 
                  dello sguardo, rendere i pensieri meno rarefatti.
 Quanti hanno giocato a Risiko, su quel mappamondo srotolato 
                  ad uso e consumo di istinti bellici? E quanto sarebbe necessario 
                  ridefinire geografie e topografie, uscire dall'ombra dei significanti 
                  di una conoscenza apparentemente oggettiva? Nella sua contraddittorietà 
                  il protagonista ama “vivere la propria autobiografia con 
                  puntiglio cartografico, e con grazia”: una geo-definizione 
                  per cogliere, dai luoghi segnati dal tempo, un respiro critico 
                  purché la geografia non coincida con la piatta descrizione 
                  di una carta.
 É così che il centro di Roma, là dove sta 
                  “Giordano l'abbruciato”, cambierà colore 
                  dopo che ne è stato sfrattato, o che il colle di Monteverde 
                  rimarrà associato al “clima sereno dell'infanzia”. 
                  Ma probabilmente mi sono lasciata prendere la mano su riflessioni 
                  dal tono quasi didattico, tono che in Roma è assente. 
                  L'autore lancia sassolini, ma poi sembra divertirsi, ad esempio 
                  elevando ad acronimo le più svariate locuzioni: da GCEM 
                  (Grande Crisi Economica Mondiale) con la sua “fabbrica 
                  di bolle” a GF (no, non il Grande Fratello, ma il Gran 
                  Finale) e poi GTR (Grandi Temi Ricorrenti), CPBDM (Campionato 
                  Più Bello Del Mondo), OVNI (Oggetti Volanti Non Identificati) 
                  e PGR (Per Grazia Ricevuta) o VFGA (Votium Feci Gratiam Accepi) 
                  su gentile concessione del marketing benedetto. “Devoti 
                  e paraculi i romani, come ti sbagli?” e fra turisti, pellegrini 
                  e fascisti è tutta una nave che merita di affondare.
 Così l'acqua, per la quale si fanno le “guerre 
                  guerreggiate” e le “guerre striscianti”, ridiventa 
                  “fonte di vita”: il piano “aberrante”, 
                  “liberatorio” e “futurista” di una pace 
                  che è morte, “senza soluzione di continuità 
                  dal Mega-Catto-Bingo al Mega-Fatto” in una giornata speciale 
                  e simbolica per questa città “calamita e tiranna”... 
                  ma, nello sfacelo, rimane un enigma.
 E, se preferite, accendete la luce ma sappiate che qui è 
                  sempre notte; nel credere che Il mattino ha l'oro in bocca 
                  si finisce male: Jack (Lunfa) Nicholson di Shining diretto 
                  da S. Kubrick ce l'ha insegnato! Buona lettura, ça 
                  va sans dire!
 Chiara Gazzola |