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 Esiste un mondo a venire?  Alluvioni, 
                  terremoti, siccità estrema, frane, sono all'ordine del 
                  giorno in tutto il pianeta. Inutile dire “è la 
                  natura che fa il suo corso” perché la realtà 
                  è diversa e lo sappiamo bene. Il nostro stile di vita 
                  ha distrutto “Gaia”, i nostri consumi, le nostre 
                  pratiche sono insostenibili e cominciamo tutti a pagarne le 
                  conseguenze. Siamo nell'era dell'antropocene, l'era geologica 
                  attuale nella quale noi animali umani con i nostri iper consumi 
                  e stili di vita abbiamo modificato interi territori in modo 
                  strutturale, inquinato acqua aria e terra e portando a cambiamenti 
                  climatici senza precedenti. Sono decenni che gli ecologisti, e più in generale tutte 
                  le persone con un minimo di coscienza, hanno capito l'importanza 
                  di vivere in modo diverso da quello dell'iper consumo capitalista.
 Fin da piccolo ho sempre avuto a cuore la questione ecologista 
                  profonda e tanti sono stati i movimenti libertari che mi hanno 
                  influenzato, movimenti conflittuali e intellettuali che hanno 
                  posto al centro del loro discorso politico la natura, gli animali 
                  non umani e i loro rapporto con gli animali umani. Imprescindibili 
                  le letture dei teorici come Murray Bookchin, Élisée 
                  Reclus, Pëtr Kropotkin, Henry David Thoreau, delle riviste 
                  militanti come Earth First, Terra Selvaggia, Green 
                  Anarchism.
 Gli “anarchici verdi” si sono opposti fin dagli 
                  anni Settanta all'antropocentrismo e alla tecnocrazia, propugnando 
                  una profonda e intima connessione dell'individuo con la natura. 
                  Per i nuovi “anarchici verdi”, l'individualità 
                  viene quindi percepita come uno dei tanti elementi dell'universo, 
                  ognuno dei quali unico e indispensabile, senza alcuna gerarchia 
                  d'importanza; secondo molti individualisti questo sarebbe anche 
                  un modo per percepire l'unicità della propria esistenza, 
                  permettendo l'inizio della propria emancipazione individuale. 
                  Tanti di questi concetti e altri ancora più profondi 
                  e innovativi li ho ritrovati nel bellissimo volume pubblicato 
                  da Nottetempo e scritto a quattro mani da Déborah Danowski 
                  ed Eduardo Viveiros de Castro dal titolo Esiste un mondo 
                  a venire? Saggio sulle paure della fine (Nottetempo, Milano, 
                  2017, pp. 320, € 17,00) tradotto in modo egregio da Alessandro 
                  Lucera e Alessandro Palmieri.
 Un testo importante che, attraverso un approccio filosofico 
                  antropologico, analizza il perché dei cambiamenti climatici, 
                  della sparizione di molte specie animali e delle catastrofi 
                  naturali in relazione alla possibilità che possa esistere 
                  un futuro per noi animali umani sul pianeta Terra. Un testo 
                  che non ci dice solamente che stiamo per scomparire e che abbiamo 
                  violentato Gaia e lo stiamo ancora facendo, ma che ci dà 
                  anche qualche possibilità di resistenza e di costruzione 
                  di un avvenire possibile. Secondo gli autori per “salvarci” 
                  sarebbe utile una ripresa di concetti cari agli indigeni amerindiani, 
                  alla loro cosmopolitica ovvero la loro concezione pluralista 
                  delle specie viventi. Noi animali umani non siamo superiori 
                  a nessun animale o vegetale, non dobbiamo dominare gli altri, 
                  ma metterci in relazione con essi. Del resto già Günther 
                  Anders molti anni addietro scriveva che il crollo della cosmologia 
                  geocentrica è stato rapidamente compensato, nel pensiero 
                  moderno, da un'assolutizzazione antropocentrica della storia. 
                  Questo modo di pensarsi nel mondo ha reso gli animali umani 
                  un'entità biologica divenuta forza geofisica capace di 
                  destabilizzare le condizioni limite della propria esistenza. 
                  Il soggetto costituente moderno è un'allucinazione narcisistica, 
                  noi umani ci guardiamo continuamente allo specchio e vediamo 
                  solo la nostra immagine riflessa senza vedere il resto che ci 
                  sta crollando sopra.
 Il nostro mondo è divenuto troppo umano, questo è 
                  il problema centrale da risolvere. Per le popolazioni amerindie, 
                  per questi “altri umani”, i concetti sugli animali 
                  umani sono diversi dai nostri. Il mondo, quello che noi chiamiamo 
                  mondo naturale è per le popolazioni amazzoniche una molteplicità 
                  di moltiplicità intrinsecamente connesse. Gli animali 
                  e le altre specie sono concepite come altrettanti tipi di persone, 
                  come delle entità politiche. Non è il giaguaro 
                  a essere “umano”: sono i giaguari individuali ad 
                  acquisire una dimensione soggettiva, grazie al fatto di essere 
                  percepiti con una “società” alle spalle. 
                  Un'alterità politica e collettiva. “Gli amerindi 
                  pensano che, tra il cielo e la terra, esistano molte più 
                  società [...] di quante ne sognino la nostra antropologia 
                  e filosofia. Ciò che noi chiamiamo “ambiente” 
                  è per loro una società di società, un'arena 
                  internazionale, una cosmopoliteia”.
 
  Non 
                  esiste dunque differenza assoluta di statuto tra società 
                  e ambiente, come se la prima fosse il soggetto e il secondo 
                  l'oggetto. Ogni oggetto è sempre un altro soggetto, sia 
                  esso animale umano, giaguaro o montagna. Questa concezione del 
                  mondo plurale ribalta una concezione cara a “noi” 
                  occidentali ossia è la natura che nasce o si separa dalla 
                  cultura e non il contrario come per la nostra antropologia o 
                  filosofia. Gli amerindi fanno parte della gigantesca minoranza 
                  di popoli che non sono mai stati moderni, poiché non 
                  hanno mai avuto un concetto di natura e quindi non l'hanno mai 
                  persa né hanno mai sentito il bisogno di liberarsene. Un punto importante di questo testo è quello che Viveiros 
                  de Castro chiama “prospettivismo amerindio”, secondo 
                  cui ogni specie di esistenti vede se stessa come umana (anatomicamente 
                  e culturalmente), poiché ciò che vede di se stessa 
                  è la sua “anima”, un'immagine interna che 
                  è come l'ombra o l'eco dello stato umanoide ancestrale 
                  di tutti gli esistenti. L'anima è sempre antropomorfa, 
                  è l'aspetto degli esistenti che essi vedono quando guardano 
                  verso o interagiscono con gli esseri della stessa specie - è 
                  questo che, in verità, definisce la nozione stessa di 
                  specie.
 Per capirci meglio, quando un giaguaro guarda un altro giaguaro, 
                  vede un uomo, un indio; ma quando guarda un uomo - quello che 
                  gli indios vedono come un uomo - vede una scimmia, poiché 
                  è la selvaggina più apprezzata tra gli indios 
                  amazzonici. Così tutto ciò che esiste nel cosmo 
                  vede se stesso come umano; ma non vede le altre specie in quanto 
                  tali. L'umanità è sia una condizione universale 
                  che una prospettiva strettamente deittica e autoreferenziale.
 Quindi per gli amerindi gli animali non sono umani, ma non sono 
                  umani per loro, sanno allo stesso tempo che loro non sono umani 
                  per gli animali che tra loro si vedono come umani, ecco perché 
                  ogni interazione interspecifica nel mondo amerindio è 
                  un affare internazionale, una negoziazione diplomatica o un'operazione 
                  di guerra che deve essere condotta con la massima circospezione. 
                  È per l'appunto cosmopolitica. Gli amerindi, come tutti 
                  gli esseri umani e come tutti gli animali, hanno bisogno di 
                  mangiare e quindi di distruggere altre forme di vita per vivere. 
                  Sanno che l'azione umana lascia inevitabilmente un'impronta 
                  ecologica nel mondo. Per loro, la differenza risiede nel fatto 
                  che il suolo che calpestano è anche vivente e sempre 
                  all'erta, essendo spesso un dominio gelosamente custodito da 
                  qualche super-soggetto come lo spirito-padrone della foresta, 
                  del fiume, della montagna o della miniera. Ciò richiede 
                  che si faccia molta attenzione a dove si mettono i piedi perché 
                  ci sono “anime ovunque”.
 La proposta degli autori che condivido quasi completamente è 
                  quella di rilanciare un principio antropomorfico (che prenda 
                  spunto dalle cosmogonie amerindie) in grado di contrastare il 
                  principio antropocentrico che abbiamo come una delle radici 
                  più profonde della metafisica occidentale e che ci ha 
                  portato a distruggere il pianeta che ci ospita. Dire che tutto 
                  è umano come gli amerindi è come dire che gli 
                  umani non sono una specie speciale, un evento eccezionale venuto 
                  a interrompere in modo grandioso o tragico la monotona traiettoria 
                  della materia dell'universo.
 Riposizionarsi nell'universo, non sentirsi superiori ma rispettare 
                  le altre specie viventi cercando di smetterla di distruggere 
                  Gaia, per usare le parole degli autori; dobbiamo fomentare un'insurrezione 
                  culturale contro il processo di zoombificazione del cittadino-consumatore.
  Andrea Staid |