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 Antifascismo, Resistenza, nonviolenza/Sulle orme di Aldo Capitini
  Il 
                  libro di Alfonso Navarra e Laura Tussi Antifascismo e nonviolenza 
                  (Mimesis, Milano, 2017, prefazione di Adelmo Cervi, contributi 
                  di Fabrizio Cracolici e Alessandro Marescotti, pp. 82, € 
                  7,00) rilancia il binomio antifascismo e nonviolenza, un filone 
                  al centro del dibattito politico e culturale del Novecento in 
                  varie parti dell'Europa. In Italia il personaggio chiave di questo pensiero è 
                  certamente Aldo Capitini, fondatore con Guido Calogero del liberalsocialismo, 
                  perseguitato dal regime fascista, arrestato e incarcerato nel 
                  1942 e 1943, a Firenze e Perugia. “Parlare della Resistenza 
                  italiana - scrive Capitini nell'inedito “La Resistenza 
                  italiana” del 1955 - non sarebbe completo né esatto, 
                  se non si estendesse il termine a comprendere non soltanto la 
                  Resistenza armata dall'8 settembre '43 al 25 aprile '45, ma 
                  anche la resistenza politica, morale, ideologica, che fu dal 
                  3 gennaio 1925”.
 Sempre nel 1955, nello scritto autobiografico, “Sull'antifascismo 
                  dal '31 al '43”, Aldo Capitini rafforza ulteriormente 
                  il progetto di una Resistenza non violenta. “Il periodo 
                  della Resistenza armata - osserva Capitini - non esaurisce la 
                  Resistenza, in quanto essa è stata qualche cosa di più 
                  complesso di un'azione armata, anche qualche cosa di più 
                  durevole della fine pura e semplice di quel regime”. E 
                  in un altro scritto del 1967, “Aspetti dell'opposizione 
                  etico-culturale al fascismo”, Capitini osserva che “l'opposizione 
                  non è che la lunga premessa morale, culturale e politica 
                  di quella che poi è stata detta «Resistenza» 
                  e che ne è l'esecuzione, per così dire, armata”.
 In sostanza, Capitini non rinuncia alla lotta contro il fascismo, 
                  non si sottrae allo scontro, anche durissimo, ma sceglie una 
                  seconda via: l'antifascismo della nonviolenza. Si tratta di 
                  un pensiero scomodo nell'Italia dall'8 settembre 1943 al 25 
                  aprile 1945, un periodo in cui le posizioni in campo sono due: 
                  la brutalità del regime fascista e la contrapposizione 
                  dell'opposizione armata.
 “Non volevo né criticare ciò che altri avevano 
                  fatto con tanto coraggio ed eroismo, né perdere quella 
                  doverosa affermazione che mi toccava, di un metodo diverso, 
                  del sogno che gli italiani si liberassero da sé dal fascismo 
                  con un'eroica non collaborazione e disobbedienza civile”. 
                  In “Note di antifascismo nazionale e perugino”, 
                  Capitini cita il metodo gandhiano della non violenza.
 “I miei amici sanno che il mio pensiero e il mio sogno 
                  era che in Italia sorgesse una non collaborazione generale, 
                  coraggiosa, tenace, secondo il metodo di Gandhi, negando ogni 
                  appoggio al fascismo e ogni mezzo, ma senza torcere un capello 
                  a nessuno; e in poche settimane il regime avrebbe finito di 
                  funzionare, e non sarebbero venuti gli immensi disastri di poi”.
 Quella di Capitini non è una teoria isolata, bensì 
                  un sogno interrotto, una utopia non realizzata, una buona pratica 
                  mal interpretata. In molti l'hanno fatta propria prima, durante, 
                  dopo il fascismo: padre Ernesto Balducci, don Lorenzo Milani, 
                  Danilo Dolci, Riccardo Tenerini, Alex Langer, fino a Stéphane 
                  Hessel, a cui si ispira il lavoro di Navarra e Tussi. “La 
                  nonviolenza è il cammino che dobbiamo imparare a percorrere”.
 L'indicazione di Hessel resta attuale, ancora oggi, negli anni 
                  in cui il fascismo sembra imperversare lungo le vie d'Europa.
 Daniele Biacchessi 
 
 Antispecismo/Una questione di passione?
  Si 
                  potrebbe definire l'ultimo libro di Massimo Filippi, Questioni 
                  di specie (Elèuthera, Milano, 2017, pp. 120, € 
                  13.00), un libro sulla passione. La passione degli animali, 
                  innanzitutto: il dolore immane e l'orrore inimmaginabile delle 
                  moltitudini animali sterminate e oppresse dalla violenza istituzionalizzata 
                  del loro sfruttamento e messa a morte. Ma anche la passione, 
                  vitale, dell'antispecismo che ascoltando e amplificando il gioioso 
                  grido libertario del movimento animale indica una nuova politica 
                  della comunità a venire. Il testo di Filippi mira, con profondità e chiarezza 
                  d'analisi e mediante un percorso graduale - che passa attraverso 
                  la preliminare definizione di che cosa siano la questione animale 
                  e lo specismo - proprio alla caratterizzazione di questo antispecismo. 
                  E cioè di «un movimento politico di critica radicale 
                  dell'esistente» (p. 15) che sia in grado di resistere 
                  e di arrestare le contrazioni digestive di quell'eccezionale 
                  «apparato digerente» (p. 16) che è 
                  il capitalismo contemporaneo e di sviluppare, finalmente, altre 
                  specie di prassi e di pensiero chiedendo, né più 
                  né meno, la liberazione animale. Il capitalismo ha mostrato, 
                  infatti, una straordinaria capacità di resilienza di 
                  fronte alle diverse istanze antagoniste che nel corso del tempo 
                  ne hanno perturbato l'ordine: femminismi, movimenti Lgbt, ecologismo, 
                  movimenti per la libertà di migrazione... Non solo 
                  ha resistito e continua a resistere al loro urto, ma ha anche 
                  la forza di neutralizzarne la carica sovversiva e, grazie all'attuale 
                  neoliberalismo imperante, di trasformarle in innocui stili di 
                  vita o, meglio – scrive Filippi –, in redditizi 
                  «stil[i] di consumo» (p. 17). Meccanismi fagocitanti 
                  di questo tipo sono già all'opera anche nel caso del 
                  movimento per la liberazione animale: basta pensare alla crescente 
                  fetta di mercato vegan o al proliferare del concetto 
                  di benessere animale la cui ipocrisia strategica è funzionale 
                  al permanere dello sfruttamento e dell'uccisione dei corpi animali.
 Questioni di specie assume allora un'importante valenza 
                  militante – oltreché teorica – configurandosi 
                  come punto di riferimento, e di partenza, per un pensiero che 
                  aspiri alla resistenza e sovversione dell'ideologia e delle 
                  pratiche di dominio, tanto dell'uomo sull'animale quanto dell'uomo 
                  sull'uomo. La tesi del saggio, sostenuta con fermezza da Filippi, 
                  è infatti che «il sistema di smembramento di tutti 
                  i corpi (umani inclusi) continuerà a funzionare a pieno 
                  regime finché le bestie saranno trattate come sono trattate» 
                  (p. 18). Da ciò segue la necessità stringente 
                  di un antispecismo intersezionale, capace di contaminarsi, a 
                  livello analitico e di lotta, con altri movimenti politici di 
                  liberazione ed emancipazione di più lunga esperienza. 
                  Ma anche la necessità che questi stessi movimenti inizino 
                  a prendere sul serio le questioni di specie, smettendo di considerarle 
                  faccende di secondo piano per poche anime belle e rivedendo, 
                  criticamente, il loro antropocentrismo.
 Il libro di Filippi non è soltanto un libro su 
                  questo antispecismo a venire, ma è già un libro 
                  intersezionalmente antispecista che fin dal titolo si ibrida 
                  con il pensiero femminista-queer, rinviando al suo testo inaugurante, 
                  opera della filosofa americana Judith Butler, Gender Trouble: 
                  Feminism and the Subversion of Identity, tradotto in italiano 
                  come Questione di genere. Il femminismo e la sovversione 
                  dell'identità. Non si tratta di un collegamento puramente 
                  nominale, ma di una continua interlocuzione che, grazie a un'approfondita 
                  conoscenza, può provocare gli strumenti concettuali elaborati 
                  in questo ambito per spingerli oltre le soglie dell'umano.
 Così Filippi può lavorare alla decostruzione della 
                  dicotomia gerarchica di uomo/animale, mostrando che anche il 
                  sostantivo “uomo”, come i suoi attributi di maschio, 
                  bianco, eterosessuale... già decostruiti dalle rispettive 
                  teorie critiche, ha ben poco a che fare con la biologia e molto 
                  con la politica. Anche il dualismo uomo/animale, che legittima 
                  ideologicamente lo smembramento dei corpi, e i dispositivi che 
                  effettuano tale smembramento sono costituiti in modo analogo 
                  a quanto succede nel caso del binarismo di genere con la norma 
                  eterosessuale, ossia sono prodotti da, ed entro, una cornice 
                  normativa: la norma sacrificale.
 L'autore, inoltre, non esita a intersecare ulteriormente il 
                  riferimento alla riflessione femminista e queer con i “suoi” 
                  filosofi (Adorno, Agamben, Nietzsche, Deleuze, Foucault... per 
                  non citarne che alcuni), al fine di sviluppare questo nuovo 
                  antispecismo, che prende il nome di antispecismo del comune. 
                  Dopo i cosiddetti antispecismo dell'identità – 
                  volto all'estensione del riconoscimento morale a certi animali 
                  in quanto dotati di caratteristiche (quasi) propriamente umane 
                  – e antispecismo della differenza – volto alla moltiplicazione 
                  delle linee di differenza tra l'uomo e l'animale – prende 
                  forma un pensiero che non traccia più alcuna linea, rifiuta 
                  l'esistenza stessa di un “proprio” dell'uomo e spicca 
                  il volo verso l'impropria relazionalità del comune. «Il 
                  comune – scrive Filippi – è lo spazio in 
                  perenne mutamento dove la vulnerabilità e finitudine 
                  dei differenti corpi sensuali incontrano la capacità 
                  tutta “animale” di gioire, di giocare, 
                  di rendersi inoperosi, ossia di muoversi e sentire senza 
                  un fine prestabilito, sottraendosi in tal modo agli imperativi 
                  categorici della produttività e della riproduzione» 
                  (p. 76).
 Chiara Stefanoni 
1. Che cosa sia il fenomeno del dominio, nel suo diversificarsi da quello del potere e dalla violenza, è precisato dall'autore in una pagina tanto agile quanto concettualmente fondamentale. «Il dominio si realizza nell'assoggettamento annichilente, nel controllo sistematico, assoluto, totale, capillare e completo sulla vita di chi, più che oppresso, è già-morto. [...] In ambito intraumano il nonluogo dove il dominio si manifesta compiutamente è il campo di sterminio, dove impossibilità di resistenza e invisibilità sociale raggiungono il loro acme» (p. 35).  
 
 Sacco e Vanzetti/La loro storia, i funerali, le ceneri
  Novant'anni 
                  fa due lavoratori anarchici - innocenti - vengono uccisi sulla 
                  sedia elettrica nel carcere di Charlestown, Boston Massachusetts, 
                  pochi minuti dopo la mezzanotte tra il 22 e il 23 agosto 1927, 
                  a distanza di pochi minuti l'uno dall'altro. I loro nomi e la loro storia sono noti in tutto il mondo. Sono 
                  il calzolaio pugliese Nicola Sacco (Torremaggiore, Fg, 1881) 
                  e il pescivendolo piemontese Bartolomeo Vanzetti (Villafalletto, 
                  Cn, 1888), emigrati negli Stati Uniti e attivi politicamente 
                  nei circoli e nei giornali anarchici, lettori e collaboratori 
                  del settimanale «Cronaca Sovversiva». La notte del 
                  3 maggio 1920 il tipografo anarchico Andrea Salsedo «vola» 
                  dal 14° piano del palazzo della polizia di New York sfracellandosi 
                  sul marciapiede. La sera del 5 maggio, in compagnia di Nicola 
                  Sacco, su un tram, Vanzetti - che si era già occupato 
                  dell'arresto segreto di Salsedo - è arrestato e gli trovano 
                  in tasca un volantino per un comizio di protesta per l'illecita 
                  detenzione e per la tragica morte del tipografo siciliano. Li 
                  incolpano di una rapina a mano armata e della morte di due persone. 
                  Sulla base dei pregiudizi politici e razziali sono condannati 
                  alla pena capitale. Al processo il Procuratore Generale Fedrerik 
                  Katzmann era stato chiaro: «Se anche non fossero colpevoli 
                  di rapina e di omicidio, sono colpevoli di essere anarchici 
                  ed italiani». In tutto il mondo si susseguono manifestazioni 
                  per strapparli alla sedia elettrica. All'inizio il quotidiano 
                  anarchico «Umanità Nova» e altre testate 
                  registrano in Italia oltre seicento manifestazioni a loro favore. 
                  Poi il fascismo mette tutto a tacere. Solo qualche giorno prima 
                  dell'esecuzione, mentre il re tace, Mussolini - che ha riempito 
                  le prigioni e il confino di anarchici - senza alcuna convinzione, 
                  fa un superficiale intervento a loro favore.
 Vanzetti esprime il desiderio di vedere una delle sorelle ed 
                  è raggiunto da Luigina. Sacco vorrebbe essere sepolto 
                  al suo paese. Dopo l'esecuzione e il funerale del 28 agosto 
                  i loro corpi vengono cremati e una metà delle ceneri 
                  destinate in Italia. In carcere respingono coerentemente più 
                  volte l'offerta dei conforti religiosi. Sacco muore da solo, 
                  senza aver visto nessuno dei suoi familiari, che non si sono 
                  spostati e Rosa Zambelli, la moglie, nei sette anni di galera 
                  del marito, non ha quasi mai avuto rapporti con Torremaggiore.
 Al funerale, otto miglia sotto la pioggia, partecipa una folla 
                  di oltre mezzo milione: uomini e donne sfilano con un feltro 
                  rosso - distribuito dagli anarchici - al braccio con la scritta 
                  nera in inglese: «Remember. Justice Crucified August 23, 
                  1927». «Ricordate! La Giustizia è stata 
                  crocefissa il 23 agosto 1927!». Eleganti, composti 
                  e tristi, in giacca e cravatta o con il papillon, gli operai, 
                  i minatori, i calzolai, i contadini anarchici. La polizia, che 
                  vieta bandiere e cartelloni, carica i partecipanti. Il Defense 
                  Committee «Sacco and Vanzetti» di Boston, consapevole 
                  dell'importanza dell'evento funebre, incarica alcuni cineoperatori 
                  di riprendere di nascosto e clandestinamente il funerale con 
                  cineprese collocate lungo il percorso, per documentarlo ai posteri. 
                  Lo stesso giorno il governo ordina tassativamente la distruzione 
                  dei filmati, ma la preziosa pellicola di 4'30'' viene sottratta 
                  alla distruzione, finendo in mani anonime e solo nel 2014 è 
                  stata restaurata e resa pubblica.
 
                   
                    |  |   
                    | Luglio 1921. Dal carcere al tribunale di Dedham il percorso è breve:Bartolomeo Vanzetti e Nicola Sacco, ammanettati, vengono
 accompagnati a piedi, tra due ali di folla, dagli ispettori di polizia
 |   Dopo la cremazione, viene deciso che una porzione delle ceneri 
                  di Sacco verrà mandata in Italia e una delle ceneri di 
                  Vanzetti rimarrà negli Stati Uniti e saranno entrambe 
                  custodite da Rosa Zambelli. Luigina accompagna nel viaggio per 
                  l'Italia le ceneri di entrambi, che sono custodite in due urne 
                  separate e distinte collocate in una cassetta. All'arrivo in 
                  Francia la polizia le sequestra per consegnarle alla polizia 
                  italiana che le porterà a Villafalletto, dove - senza 
                  tener conto del rifiuto ai conforti religiosi opposto in carcere 
                  - sono benedette dal parroco. Il 14 ottobre le ceneri di Vanzetti 
                  vengono seppellite, quelle di Sacco proseguono per Torremaggiore 
                  e sono seppellite il giorno dopo. Temendo manifestazioni sovversive 
                  il paese è presidiato dai carabinieri. Ciò nonostante 
                  al loculo - sul quale le autorità vietano di scrivere 
                  il nome - appesa ad un chiodo, viene trovata una corona di fiori 
                  rossi. Il colore fa infuriare le autorità, che fermano 
                  il fioraio Gino Moffa, ma è rilasciato poco dopo. Per 
                  paura di altre manifestazioni, la tomba è sorvegliata 
                  anche di notte! E il due novembre, il giorno dei morti, è 
                  guardata a vista per impedire capannelli e depositi di fiori. 
                   
                    |  |   
                    | Dall'interno della gabbia dove sono collocati, in una pausa duranteprocesso, i due italiani riescono anche a dialogare con la moglie di Nicola
 Sacco, «Rosina», ovvero Marianna Teresa Rosa Zambelli, nata a
 Lonato sul Garda (Brescia) il 13 giugno 1895
 |  
                   
                    |  |   
                    | Due cartoline su Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti(Archivio Galzerano Editore)
 |   Intanto in America le ceneri sono custodite da Rosa Zambelli 
                  nel giardino di casa, a Millis dove si è trasferita. 
                  Luigina vorrebbe quelle del fratello a Villafalletto e nel 1930 
                  vengono recuperate dall'anarchico Emilio Coda, che le affida 
                  alla famiglia di Alfonsina e Vincenzo Brini, con i quali Vanzetti 
                  ha vissuto a lungo. Nel 1949, in occasione del suo primo viaggio 
                  in Italia, Alfonsina pensa di consegnarle a Luigina, ma Aldino 
                  Felicani, giornalista anarchico, responsabile del Comitato, 
                  amico dei due anarchici, è contrario e - spiega in una 
                  lettera a Luigina - vorrebbe custodirle in un monumento da costruire 
                  a Boston per perpetuare la memoria di Sacco e Vanzetti. Rimangono 
                  ancora nelle mani di Alfonsina Brini che nel 1966 le consegna 
                  ad Aldino Felicani, che scompare l'anno dopo. Il 26 ottobre 
                  1979 i figli Anteo e Arthur Felicani donano l'urna con le ceneri 
                  di Vanzetti e tutto il prezioso materiale del padre (lettere, 
                  foto, giornali, libri, ecc.) alla Boston Public Library, che 
                  lo custodisce e ha digitalizzato il fondo Felicani. Le ceneri 
                  di Nicola Sacco invece sono andate disperse. 
                   
                    |  |   
                    | Il 7 agosto 1927, durante il viaggio verso gli Stati Uniti, Luigina Vanzettipartecipa ad una grandiosa manifestazione di protesta a Parigi
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                    |  |   
                    | A Boston, il 28 agosto 1927, il funerale di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti,la «Marcia del dolore», prende l'avvio da Hanover Street, dove ha sede l'impresa di pompe
 funebri di Joseph Langone, e raggiunge il cimitero di Forest Hills, dov'è
 il «crematorium». Si snoda per un percorso di 13 km
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                  Alla vicenda del funerale e delle ceneri è dedicato l'appassionante 
                  volume con la ricerca di Luigi Botta La marcia del dolore. 
                  I funerali di Sacco e Vanzetti, una storia del novecento 
                  (Nova Delphi Editrice, Roma, 2017, pp. 190, € 18,00) che 
                  ricostruisce e documenta nei minimi dettagli tutti i passaggi. 
                  È un argomento insolito, inedito e sconosciuto, il funerale 
                  e le ceneri. Analizzando e ordinando cronologicamente i vari 
                  documenti, Botta segue i fatti con meticolosa precisione e con 
                  una straordinaria partecipazione umana, culturale e politica, 
                  chiarendo - con linguaggio toccante e penetrante - i passaggi 
                  oscuri. Narra in maniera avvincente, passo dopo passo, particolari 
                  inediti e di grande interesse e, documenti alla mano, smentisce 
                  la diceria delle ceneri mescolate e sepolte insieme. Nel bel 
                  libro - al quale è allegato il dvd di Fabiana Antonioli 
                  della Filmika di Torino, con il prezioso filmato del funerale, 
                  The March of Sorrow, e un'intervista all'autore - Luigi 
                  Botta, che da anni raccoglie in tutto il mondo materiale sulla 
                  vicenda, troviamo la cronaca puntuale e in presa diretta di 
                  quei drammatici e ancora oggi coinvolgenti e indelebili eventi, 
                  che da novant'anni fanno parte della storia del movimento anarchico, 
                  operaio e rivoluzionario. Giuseppe Galzerano 
 
 Rivoluzione russa/La disillusione di Emma Goldman
 È uscito da poco Un sogno infranto. Russia 1917 (Zero in Condotta, Milano, 2017, pp. 120, € 10,00), antologia di scritti di Emma Goldman, inediti in italiano, a cura della nostra redattrice Carlotta Pedrazzini e con postfazione di Daniele Ratti. Ne pubblichiamo qui l'introduzione della curatrice.  
 Ad un secolo esatto dalla rivoluzione russa, il mito bolscevico non è 
                  ancora stato sfatato, così come la credenza che rivoluzione 
                  e bolscevismo siano sinonimi.È questo che rende gli scritti sulla rivoluzione russa 
                  di Emma Goldman (1869-1940) così ostinatamente attuali, 
                  nonostante i decenni trascorsi. E tali resteranno fino a che 
                  la verità su quegli anni non confuterà le analisi 
                  falsate che hanno influenzato il mondo fin dai primi mesi che 
                  seguirono la rivoluzione.
 
  Quando, 
                  il 21 dicembre 1919, il governo degli Stati Uniti imbarcò 
                  forzosamente Emma Goldman sulla nave Buford diretta in Russia 
                  – insieme ad Alexander Berkman e ad altri 247 immigrati 
                  colpevoli di avere opinioni politiche non gradite – l'anarchica 
                  “più pericolosa d'America” era sinceramente 
                  convinta che i bolscevichi fossero i portatori delle istanze 
                  libertarie espresse dal popolo russo durante le sollevazioni 
                  del febbraio e dell'ottobre 1917. Goldman, una delle esponenti più influenti del movimento 
                  anarchico statunitense, si schierò inizialmente dalla 
                  parte dei bolscevichi, seppur marxisti, difendendoli dagli attacchi 
                  che la stampa e le forze politiche statunitensi avevano rivolto 
                  ai rivoluzionari russi. Tra il 1917 e il 1918 scrisse articoli 
                  in loro sostegno e tenne conferenze in diversi stati americani 
                  per far conoscere quella che, in quel momento, riteneva fosse 
                  la verità sui bolscevichi.
 Una volta messo piede sul suolo russo, però, la scoperta 
                  della dittatura instaurata dal partito comunista trasformò 
                  il sogno di essere approdata nella terra della rivoluzione sociale 
                  in un orribile incubo. Alla sua entrata in Russia, nel gennaio 
                  del 1920, il regime dittatoriale era già nel pieno delle 
                  sue forze. Persecuzioni, uccisioni sommarie, incarcerazioni, 
                  privilegi, militarizzazione del lavoro, povertà, carestie, 
                  requisizioni forzate dei raccolti, violenze, prevaricazioni, 
                  tutto questo e molto altro accadeva nella Russia post-rivoluzionaria.
 Di ciò per cui la popolazione aveva lottato tra il febbraio 
                  e l'ottobre del 1917 – ossia uguaglianza, giustizia sociale, 
                  autodeterminazione, libertà, un sistema di soviet autonomi 
                  – non c'era traccia. Se non nella propaganda del governo 
                  bolscevico.
 Il popolo russo si era battuto per la rivoluzione sociale, ma 
                  il processo di emancipazione che aveva messo in moto si era 
                  scontrato con la sete di potere dei bolscevichi, arrestandosi 
                  definitivamente. Con il pretesto della guerra civile, del blocco 
                  da parte dei paesi occidentali e della controrivoluzione, Lenin 
                  e il suo partito avevano messo da parte le richieste della popolazione, 
                  chiedendo di attendere tempi migliori per la loro realizzazione. 
                  Ma quel futuro, come sappiamo, non arrivò mai.
 Quando giunse in Russia, la cinquantenne Emma Goldman aveva 
                  alle spalle tre decenni di lotta per l'emancipazione sociale 
                  spesi tra le file del movimento anarchico statunitense. La convinzione 
                  che in Russia si fosse realizzato ciò per cui aveva sempre 
                  combattuto ostacolò la presa di distanza dai bolscevichi, 
                  anche quando i segnali di una deriva negativa erano evidenti. 
                  A quel tempo (gennaio 1920-dicembre 1921, tanto durò 
                  la sua permanenza in Russia) molti anarchici in tutto il mondo 
                  avevano già espresso critiche e perplessità nei 
                  confronti del governo comunista e della cosiddetta “dittatura 
                  del proletariato” instaurata nel paese. Eppure Goldman 
                  faticava ad ammettere il fallimento.
 Solo dopo quindici mesi di attente osservazioni e analisi della 
                  situazione sociale, politica ed economica, Goldman riuscì 
                  a riconoscere che la rivoluzione sociale era stata definitivamente 
                  sconfitta. Non dai controrivoluzionari, ma dai bolscevichi. 
                  Gli stessi per i quali in passato aveva speso parole entusiastiche.
 
 Una sola possibilità: andare 
                  all'estero e...
 Mentre tutto volgeva al peggio, mentre la Ceka imprigionava 
                  e giustiziava arbitrariamente anarchici e oppositori e la carestia 
                  uccideva la popolazione, mentre il governo disponeva la militarizzazione 
                  del lavoro e le requisizioni, accanendosi su operai e contadini, 
                  Goldman non era rimasta a guardare. Aveva incontrato diversi 
                  leader comunisti per esporre le sue perplessità e tentare 
                  di far valere le istanze degli oppressi; aveva persino incontrato 
                  Lenin per avere chiarimenti, nella speranza di riuscire in qualche 
                  modo ad influenzare il terribile corso degli eventi. Fu nel 
                  marzo 1921, dopo la rivolta dei marinai di Kronstadt repressa 
                  nel sangue, che Goldman capì di non aver alcun margine 
                  di azione. Nello Stato comunista russo non c'era spazio per 
                  quei rivoluzionari che, come i marinai di Kronstadt, chiedevano 
                  che venissero rispettate le richieste di libertà, uguaglianza 
                  e autodeterminazione avanzate dal popolo nel 1917.
 Goldman realizzò così di avere un'unica possibilità: 
                  recarsi all'estero per raccontare al mondo cosa stesse effettivamente 
                  succedendo in Russia, nella speranza di innescare un movimento 
                  di solidarietà internazionale con i prigionieri politici. 
                  Insieme agli anarchici Alexander Berkman e Alexander Shapiro, 
                  l'1 dicembre 1921, ventitré mesi dopo il suo arrivo, 
                  Emma Goldman lasciò definitivamente la Russia per non 
                  farvi mai più ritorno.
 A partire dal 1922, redasse diversi articoli a denuncia della 
                  situazione politica e socio-economica russa, alcuni dei quali 
                  sono raccolti in questo libro. Il senso di pubblicarli oggi, 
                  a un secolo di distanza dalla loro stesura, è dato dal 
                  principio “didattico” con il quale furono scritti 
                  e dall'amore per la verità che, a suo tempo, li ispirò.
 I testi di Emma Goldman sulla rivoluzione e sul seguente regime 
                  comunista possono essere considerati un manuale di interpretazione 
                  e di riferimento per tutti i movimenti sociali, non solo per 
                  quello anarchico. Le riflessioni che Goldman concepì 
                  sulla rivoluzione hanno travalicato lo spazio e il tempo di 
                  quegli accadimenti e si sono spinte a toccare le più 
                  generali questioni dell'autoritarismo, del significato delle 
                  rivoluzioni, del potere, della dittatura, della violenza. Considerazioni 
                  importanti, straordinariamente valide, con le quali tutti gli 
                  esponenti dei movimenti socialisti e alternativi del mondo dovrebbero 
                  fare i conti. Inoltre, riportare le testimonianze dirette – 
                  e per lungo tempo ignorate – di un'esponente del movimento 
                  rivoluzionario, riguardanti un evento così significativo 
                  come la rivoluzione russa, è un essenziale esercizio 
                  di verità storica. Reso ancora più importante 
                  dalla completa dissonanza rispetto alle versioni ufficiali di 
                  regime.
 Sarebbe positivo se la stessa credibilità che quasi unanimemente 
                  è riconosciuta a Emma Goldman nel campo dell'emancipazione 
                  femminile si estendesse anche alle sue analisi sulla rivoluzione 
                  russa. Si tratta di riflessioni che certamente si inseriscono 
                  in una più vasta concezione anarchica, ma che – 
                  proprio per la ricerca della verità che le ha ispirate 
                  – non sono affatto il frutto dell'ideologia. Lo dimostra 
                  il drastico cambiamento di valutazione sull'operato dei bolscevichi 
                  avuto da Goldman tra il 1917 e il 1921.
 
 Profonda e indiscutibile onestà
 Proprio questo cambio di rotta le procurò, e le procura 
                  tuttora, critiche da alcuni aderenti al movimento anarchico 
                  che non le perdonano il ritardo con cui arrivò a prendere 
                  le distanze dai comunisti al potere. In realtà, quella 
                  che alcuni considerano una sbavatura o una debolezza di pensiero 
                  è ciò che, ancor di più, conferisce valore 
                  alle sue valutazioni, unicamente frutto di un'incontrovertibile 
                  realtà che le si pose di fronte e con cui dovette fare 
                  i conti.
 Sebbene fosse una donna con solidi riferimenti ideologici, Emma 
                  Goldman non lasciò mai che la rigidità teorica 
                  offuscasse il suo sguardo scientifico e sincero sul mondo. Probabilmente 
                  una visione più dogmatica degli eventi russi le avrebbe 
                  impedito di esprimersi inizialmente a favore del regime bolscevico, 
                  risparmiandole quella che fu per lei una delle più drammatiche 
                  disillusioni politiche e personali. Di certo, però, le 
                  sue considerazioni non avrebbero avuto lo stesso valore. D'altra 
                  parte, la riconosciuta rilevanza di Goldman non deriva dalla 
                  sua infallibilità, ma dall'aver prodotto delle analisi 
                  sul mondo, sull'emancipazione sociale e sull'anarchismo tanto 
                  valide quanto sofferte. Sempre pervase da una profonda e indiscutibile 
                  onestà. [...]
 Carlotta Pedrazzini 
 
 Pedagogia/Buoni e cattivi maestri
  I 
                  cattivi maestri, quelli, veri, sono altrettanto rari e preziosi 
                  dei buoni maestri, particolarmente in un'epoca di uniformizzazione 
                  e conformismo nascosti sotto la coltre delle immagini scintillanti 
                  dello spettacolo. Entrambi, lontani dall'accademia e dal mainstream, 
                  rischiano strade poco frequentate in prima persona, senza titoli, 
                  paraventi, inclassificabili e irrecuperabili. Entrambi ci insegnano 
                  a pensare con loro e contro di loro. Forse mentre i buoni maestri 
                  ci spingono a trovare le nostre strade scavando in profondità, 
                  i cattivi maestri aprono vie di fuga inaspettate, Di questi ultimi si occupa il libro di Paolo Mottana, Cattivi 
                  maestri. La controeducazione di René Schérer, 
                  Raoul Vaneigem e Hakim Bey (Castelvecchi, Roma, 2014, pp. 
                  128, € 14,50). Insegna filosofia dell'educazione in Bicocca 
                  a Milano, è autore tra l'altro di Antipedagogie del 
                  piacere. Sade Fourier e altri erotismi (Angeli 2008), Piccolo 
                  manuale di controeducazione (Mimesis 2012) e tiene da anni 
                  un blog dal titolo Controeducazione (contreducazione.blogspot.it), 
                  in cui insegue pensieri controvento e in cui si può leggere:
 “La controeducazione, contrapposta alla triste scienza 
                  dell'ortopedia e dell'ingessatura, della mummificazione del 
                  cucciolo d'uomo e delle sue ulteriori figure sull'altare del 
                  conformismo e della passivizzazione, dell'ascetismo e della 
                  rinuncia, dell'immolazione al sacrificio, alla fatica, alla 
                  crocifissione, all'inginocchiamento, reali o metaforici, contrappone 
                  l'esaltazione affermativa dell'immaginazione, delle emozioni, 
                  del corpo e del piacere”. Bello no?
 È emozionante trovare in qualcuno che non si conosce 
                  direttamente, frequentazioni e passioni verso autori amati, 
                  in particolare, almeno per me, Vaneigem, che continuo a leggere 
                  dai tempi del bellissimo Trattato di saper vivere a uso delle 
                  giovani generazioni, testo che ha mezzo secolo, ma a rileggerlo 
                  oggi è di una freschezza e di un'attualità sorprendenti, 
                  cosa che raramente accade ai testi “militanti” che 
                  a volte oltre che triti diventato tristi.
 Uno dei fili comuni che legano il pensiero di questi autori 
                  diversi è il tema del desiderio e delle passioni che 
                  si riallaccia alla grande esplosione del Sessantotto (e forse 
                  ancor di più per l'Italia del Settantasette), o per dir 
                  meglio della liberazione dei desideri, dal principio di produzione 
                  e prestazione e dalla mercificazione dominante.
 Il primo, Schérer (nato nel 1922), filosofo, autore di 
                  alcuni testi fondamentali e purtroppo (non a caso) dimenticati 
                  (e occultati) come Emilio pervertito (1974 della benemerita 
                  Emme edizioni, reperibile sul sito educareallaliberta.org) e 
                  Co-ire. Album sistematico dell'infanzia (Feltrinelli 
                  1979), ha cercato di restituire al bambino quella passionalità 
                  e quel desiderio anche erotico che, se non sono stati negati, 
                  sono stati deviati e inquadrati dentro le maglie dei regimi 
                  pedagogico, familiare, psicologico. Sono bambini in fuga quelli 
                  di Schérer (e di Deligny1), 
                  come quelli di Truffaut, in fuga dalla scuola, dalla famiglia, 
                  dall'infantilizzazione che li priva di passioni e desideri esorbitanti 
                  e improduttivi, gioiosi ma talvolta selvaggi, che ci guidano 
                  in una sorta di wilderness poco frequentata dagli educatori2.
 Ma, e qui è un punto centrale, e critico, l'uscita dal 
                  “campo pedagogico”, comunque qualificato, porta 
                  a vedere il bambino e l'infanzia liberati come cifre essenziale 
                  della liberazione totale. La sua apparente incompletezza e imperfezione 
                  su cui si accaniscono le orto-pedagogie è in realtà 
                  tensione continua verso l'alterità, vitalità ingovernabile, 
                  sovrabbondanza d'essere, apertura verso altri regni, oltre-umani. 
                  I riferimenti essenziali di questa traversata oltre l'umanismo 
                  (che fa del bambino un uomo in divenire), sono senz'altro Gilles 
                  Deleuze e Charles Fourier a cui Schérer ha dedicato diversi 
                  studi, autore di una utopia al cui centro stanno le passioni, 
                  le loro composizioni e scomposizioni per la realizzazione di 
                  una nuova armonia sociale.
 Altro appassionato di Fourier è un altro cattivo maestro 
                  del libro di Mottana, Hakim Bey, pseudonimo di Peter Lamborn 
                  Wilson (nato nel 1945), noto in Italia soprattutto per il suo 
                  scritto sulle TAZ. Zone temporaneamente autonome, (Shake 
                  edizioni 1993, disponibile online). Inclassificabile rivoluzionario 
                  (o forse meglio dire insorgente), sufi, mistico, sciamano, cyberpunk, 
                  luddista e primitivista, poeta e visionario. Molto contestato 
                  e chiacchierato anche nel mondo anarchico per le sue tendenze 
                  mistiche, accomunato ai primitivisti come Zerzan, Hakim Bey 
                  ha continuato il suo percorso solitario per fortuna senza ingessarsi, 
                  né lesinare in autocritiche e cambiamenti di rotta. Come 
                  scrive all'inizio della prefazione alla sua ultima raccolta 
                  di scritti Anarchist Ephemera “questa raccolta 
                  di pezzi effimeri e fuggiaschi degli ultimi vent'anni più 
                  o meno (dal 1990 al 2013) dev'essere incorniciata da una prefazione 
                  in cui io possa dissentire da me stesso”3.
 L'insistenza di Hakim Bey sulla liberazione ora (il suo immediatismo) 
                  deriva dalla delusione e la totale mancanza di fiducia verso 
                  progetti messianici ed escatologici che, come dice scherzosamente 
                  citando l'Alice di Lewis Carroll, parlano di “marmellata 
                  ieri o marmellata domani, ma mai marmellata oggi”4, 
                  in fondo figli di una cultura del sacrificio.
 Nell'immediatismo di Hakim Bey, dice Mottana, si cerca di eliminare 
                  ogni strumento che riduca l'impatto fisico e sensuale della 
                  creazione e che soprattutto renda più facile la sua recuperazione 
                  da parte dei sistemi di mediazione egemonizzati dal Capitale”5. 
                  Ecco allora l'irruzione delle TAZ, zone autonome temporanee, 
                  atti di creazione effimera che attraverso la liberazione del 
                  desiderio letteralmente creano un nuovo spazio-tempo che è 
                  un tempo di festa, lo spazio di un'utopia realizzata, instabile 
                  e repentina. “la TAZ è “utopica” nel 
                  senso che prevede un'intensificazione della vita quotidiana 
                  o come avrebbero potuto dire i surrealisti, la penetrazione 
                  della Vita da parte del Meraviglioso”6. 
                  Sono piccole isole le TAZ che esistono anche in esperienze storicamente 
                  lontane: nelle comunità di pirati, nelle azioni luddiste, 
                  nelle comuni di Parigi e Marsiglia, ma che continuamente si 
                  creano e scompaiono come onde nell'Oceano del caos.
 La grande suggestione del pensiero di Hakim Bey sta nella sua 
                  capacità straordinaria di montare nel suoi costrutti 
                  teorici materiali del tutto eterogenei, appunto come si diceva 
                  dal sufismo e sciamanesimo a Stirner e Nietzsche, senza tema 
                  di contraddizione. Come scrive Mottana, si tratta di quello 
                  che Bey definisce terrorismo poetico, “pratica 
                  attiva di sabotaggio e destabilizzazione ironica e arguta, autentica 
                  messa in pratica di quell'”anarchismo ontologico” 
                  esso stesso generato dalla inarrestabile facoltà di invenzione 
                  ossimorica di Bey, di autentica prassi contraddittoriale del 
                  pensiero”7.
 È una pratica creativa che affonda chiaramente le sue 
                  radici nell'estetica dell'avanguardia, in particolare dadaismo 
                  e surrealismo, avanguardie a cui è legato attraverso 
                  il situazionismo anche l'ultimo maestro di cui si occupa il 
                  libro, Raoul Vaneigem (nato nel 1934). Dopo il successo del 
                  Trattato del 1967 già citato, ha continuato a 
                  lavorare in disparte a ricerche sulle eresie e senza lasciare 
                  mai il punto di una contestazione sociale radicale.
 Ha scritto tra gli altri8 un 
                  bel libro contro la scuola, La scuola è vostra, 
                  recensito qui anni fa9. Anche 
                  lui fourierista, mette al centro della sua riflessione il desiderio 
                  e le passioni, prosciugate dal potere mortifero della società 
                  mediatica e mercantile e in via di sparizione. In questo modo 
                  la vita diventa sopravvivenza, un banchetto di avvoltoi sopra 
                  un mondo in rovina. “Non c'è niente che uccida 
                  con maggiore certezza che l'accontentarsi di sopravvivere”10. 
                  E ci sono pochi testi, almeno per me, che abbiano come quelli 
                  di Vaneigem il potere di scuotermi dal torpore della sopravvivenza, 
                  di riaccendere le passioni, di spingermi alla rivolta contro 
                  la rassegnazione con un linguaggio poetico straordinario. La 
                  creatività non è qualcosa destinata a poeti, grafici 
                  e stilisti: ci appartiene, a noi tutti, ed è in grado 
                  di fare quella rivoluzione della vita quotidiana di cui abbiamo 
                  sempre e comunque bisogno per vivere e non sopravvivere. E il 
                  cattivo maestro Vaneigem non può che proporci la sua 
                  visione della scuola trasmutata: “Occupate dunque gli 
                  edifici scolastici invece di lasciarvi contagiare dalla rovina 
                  programmata. Abbelliteli a vostro piacimento, la bellezza infatti 
                  incita alla creazione e all'amore, mentre la bruttezza attira 
                  l'odio e l'annientamento. Trasformateli in laboratori creativi, 
                  centri d'incontro, in parchi d'intelligenza attrattiva. Che 
                  le scuole siano i frutteti di un gaio sapere, alla maniera degli 
                  orti che i disoccupati e i bisognosi non hanno ancora avuto 
                  l'immaginazione di impiantare nelle grandi città, sfondando 
                  l'asfalto e il cemento”11.
 Dobbiamo ringraziare Paolo Mottana che, con la sua vendemmia, 
                  ci ricorda che vino inebriante stilla dai cattivi maestri e 
                  quanto, al contrario, è insipida l'acquetta in cui è 
                  immerso il chiacchiericcio pedagogico corrente. A noi, come 
                  bravi sommelier, la sfida di abituare il palato a gusti e combinazioni 
                  sempre nuove e sorprendenti. Un buon bicchiere di vino al giorno, 
                  toglie il pedagogico di torno.
 Filippo Trasatti 
                  Mottana riprende da Schérer una citazione di Deligny 
                    particolarmente significativa: “Il paradosso è 
                    che guardando Summerhill (che per molti rimane un modello 
                    del suo genere), ritrovate Makarenko (l'educatore stalinista 
                    nel suo massimo splendore), l'assemblea generale, il diritto 
                    di parola; i ragazzi, la gente, tutti presi nella responsabilità 
                    dell'assemblea generale. Dappertutto direttori, è la 
                    parola che dirige. Le funzioni distribuite [...] fino alla 
                    parola obbligatoria. In alternativa al diritto di parola, 
                    io metto il diritto di tenere la bocca chiusa” (p. 21). 
                  Non è il caso qui di riprendere la cronaca del processo 
                    che ha visto coinvolto il filosofo (scagionato anni dopo), 
                    accusato insieme ad altri educatori di abusi sessuali su minori 
                    e che Mottana riferisce in modo puntuale e con una nota critica 
                    pienamente condivisibile (pp. 23 e seguenti) ma è ovvio 
                    che si tratta di un terreno estremamente scivoloso, scabroso, 
                    quasi al limite del dicibile, soprattutto oggi, su cui Schérer 
                    tra i pochissimi ci invita a pensare. Per provare a capire 
                    come è cambiato il clima sulla questione della “pedofilia” 
                    e dell'eros dei bambini, vi invito a leggere un libro a cura 
                    di Egle Becchi, L'amore dei bambini, (Feltrinelli 1981) 
                    che contiene diversi interventi tra cui quelli dello stesse 
                    Schérer e di Foucault. Oggi sarebbe impensabile, credo. 
                  Peter Lamborn Wilson, Anarchist Ephemera, Ardent 
                    Press 2016, p. I. 
                  Cit. in Mottana, p.89. 
                  Id., 89. 
                  Id., 89. 
                  Id., p. 92. 
                  Voglio ricordare almeno il bellissimo, Noi che desideriamo 
                    senza fine, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1999. 
                  L'allevamento intensivo degli studenti, A rivista, 
                    n. 229, 1996. 
                  Raoul Vaneigem, Trattato di saper vivere, Vallecchi, 
                    Firenze 1973, p. 44. 
                  cit. in Mottana, p. 61. 
                 
 
 L'antifascismo a Livorno/Proletario, popolare, con tante donne
 Siamo ormai al secondo volume di una serie che si annuncia 
                  editorialmente fortunata e che, ci auguriamo, possa proseguire 
                  sul medesimo filone d'indagine magari con altre pubblicazioni 
                  in sequenza. Il soggetto storiografico focalizzato da Marco 
                  Rossi (Livorno clandestina. Un ventennio di opposizione antifascista 
                  (1923-1943), BFS Edizioni, Pisa, 2017, pp. 130 + ill., € 
                  14,00) è una comunità con caratteristiche antropologiche 
                  e sociali assai peculiari, città portuale “all'ombra 
                  dei Quattro Mori” marcata da una cultura cosmopolita, 
                  da un pronunciato protagonismo proletario.
  Dopo 
                  la Livorno “ribelle e sovversiva” degli Arditi del 
                  popolo, ecco ora – stesso autore e stesso editore – 
                  quella “clandestina” dedicata al periodo tra le 
                  due guerre e all'antifascismo militante e popolare. In questo 
                  nuovo lavoro Rossi, con il consueto stile narrativo asciutto 
                  ma intenso, ci disvela un mondo in gran parte misconosciuto 
                  dal grande pubblico e che spesso è stato ignorato dalla 
                  tradizionale storiografia sul movimento operaio e socialista. 
                  Come si legge in premessa “Nessuna ricerca storica sarebbe 
                  possibile senza l'apporto di altri studi, memorie e condivisioni...”; 
                  così il saggio si basa su una solida conoscenza della 
                  letteratura sull'argomento, sia a carattere locale che nazionale, 
                  delle opere classiche come di quelle più recenti e innovative. 
                  Le fonti, compulsate con scrupolo e metodo, spaziano moltissimo; 
                  una consistente bibliografia si incrocia con carte da archivi 
                  pubblici e privati, con testimonianze orali e articoli tratti 
                  dalla stampa coeva. Affresco efficace e narrazione brillante, questa ricerca, lungi 
                  dall'essere relegata nella dimensione angusta di mera storia 
                  locale, deve essere piuttosto inquadrata nella specie dei case-studies. 
                  Il punto di partenza è un interrogativo che, sebbene 
                  rimandi a diatribe politiche e storiografiche tardo novecentesche, 
                  di fatto si presenta ancora oggi in tutta la sua brutalità: 
                  ossia la natura del rapporto tra masse e capi. In specifico 
                  si tratterebbe di valutare, indirettamente – in un ambito 
                  territoriale predeterminato e dai connotati molto speciali – 
                  i due parametri classici: la consistenza effettiva del “consenso” 
                  di massa al fascismo; l'indefinita cosiddetta “zona grigia” 
                  (intesa come tacito dissenso o anche come adesione obtorto 
                  collo). Su quest'ultimo punto, assai delicato e controverso, 
                  l'autore enuncia un metodo interpretativo che ci pare convincente 
                  nella sua semplicità:
 ”...In altre parole, nella ricerca storica è necessario 
                  tenere presente come il silenzio non coincida con l'assenso: 
                  infatti chi tace, in primo luogo sta zitto. Inoltre, sovente, 
                  l'adesione passiva o l'estraneità silenziosa costituirono 
                  la premessa per successive scelte di resistenza attiva...” 
                  (p. 10).
 L'adesione al PNF “tutt'altro che entusiasmante” 
                  registrata a Livorno, in pratica fino agli albori degli anni 
                  Trenta, certifica del resto le difficoltà di relazione 
                  con il “proprio” popolo da parte di un regime totalitario 
                  che pure si era dichiarato fautore di una demagogica rivoluzione 
                  dall'alto. Su questi aspetti, volendo, si potrebbero aggiungere 
                  anche altri dati quantitativi convergenti che riguardano la 
                  Toscana o altre zone a vocazione refrattaria. Ad esempio, da 
                  alcune ricerche si evince che intere federazioni sindacali fasciste 
                  stentino a raccogliere un minimo di aderenti.
 È così che emerge, di contro, un'opposizione diffusa 
                  e latente con tutte le sue opzioni possibili e immaginabili: 
                  antifascismo esistenziale ed etico prima di tutto, ma anche 
                  cospirativo, libertario e d'organizzazione, di semplice contro-propaganda 
                  e di azioni armate in epoca parecchio precedente alla Resistenza. 
                  E le donne – “riottose e intemperanti”, sfuggenti 
                  al disciplinamento sessista – sono sempre in prima fila. 
                  Ecco la Livorno illegale e clandestina di cui ci parlano queste 
                  pagine, solidale e fraterna con chi sta consumando i suoi giorni 
                  nelle sofferenze dell'esilio, del carcere e del confino, risoluta 
                  nell'avversione al regime mussoliniano.
 Rossi analizza bene la figura, peraltro assai ingombrante e 
                  di grande rilievo in ambito nazionale, del gerarca Costanzo 
                  Ciano (consuocero del Duce), definito “primo imprenditore 
                  politico della livornesità” (p. 11). Nonostante 
                  l'agiografia e gli sforzi propagandistici di accreditarne l'immagine 
                  pubblica, di accrescerne la reputazione e il prestigio – 
                  come ci raccontano le stesse carte di polizia – il personaggio 
                  rimarrà ancorato nella memoria popolare al significativo 
                  soprannome di Ganascia, alle sue pose tronfie da macchietta 
                  fatte oggetto di continui sberleffi, alle ruberie di famiglia 
                  di cui tutti parlano.
 Il racconto, riprendendo da dove era rimasto nella precedente 
                  pubblicazione, si snoda avvincente con titoli di paragrafi che 
                  sono una vera guida di lettura: Livornesi contro: una memoria 
                  conflittuale - Tra squadrismo e repressione statale - «Eia 
                  eia... baccalà»: il sovversivismo popolare - «Riottose 
                  e intemperanti» - L'attività anarchica - La rete 
                  comunista - Socialisti e repubblicani - Resistenza di classe 
                  - Marzo 1933: un funerale esplosivo - La propaganda delle armi 
                  - Le armi della propaganda - Contro lo stato di guerra.
 Nell'interessante apparato fotografico che costella queste pagine 
                  si nota l'immagine, curiosa, del famosissimo, prestigioso musicista 
                  e compositore livornese Pietro Mascagni, ritratto in una posa 
                  inconsueta e davvero poco professionale (lo vedranno i lettori).
 Per finire una ricca appendice documentaria, comprendente una 
                  mirata selezione di preziose carte di polizia, riporta anche 
                  una esilarante rassegna di scritte sui muri di Livorno, riferite 
                  al periodo 1929-1943, con epiteti poco gentili rivolti ai fascisti 
                  “bui rotti”.
 Giorgio Sacchetti 
 
 Architettura e controllo sociale/Ma l'anarchia?
  Anche 
                  se con un po' di ritardo (ma per fortuna non tutti i libri irrancidiscono 
                  con il passar dei mesi) è opportuno segnalare il volumetto 
                  pubblicato dalle autoproduzioni editoriali Nautilus nell'ambito 
                  di una serie di brevi contributi riguardanti i processi di sviluppo 
                  dell'urbanizzazione, che raccoglie due lunghi articoli del sociologo-urbanista 
                  Jean-Pierre Garnier sotto un titolo accattivante al punto da 
                  risultare lievemente ingannatore. Architettura e anarchia 
                  – Un binomio impossibile, di Jean-Pierre Garnier, 
                  Nautilus, Torino, 2015, pp. 61, € 4,00) infatti parla assai 
                  poco delle realizzazioni o delle potenzialità del libero 
                  edificare e quando lo fa azzarda bizzarre menzioni come quella 
                  di Léon Krier, misteriosamente definito da Garnier “più 
                  libertario che anarchico”: anche se è evidente 
                  quanto Poundbury sia più bella di Quarto Oggiaro o di 
                  Scampia ciò non basta ad attribuire una tale onorificenza 
                  al tradito progettista di Novoli. Ancora più curioso 
                  il cedere dell'autore a liriche sviolinate (“Come non 
                  sentirsi vibrare di fronte a questi villaggi appollaiati sul 
                  bordo delle falesie che ci danno l'impressione che la neve sia 
                  caduta in piena estate...”) degne dei depliant di una 
                  mediocre agenzia turistica mediterranea, come scivolosissima 
                  appare pure l'apologia del bel tempo che fu, quando la “quarantina 
                  di professioni che compongono l'artigianato del costruire” 
                  non erano state ancora soppiantate dall'edilizia industriale 
                  volta a mortificare ogni creatività del costruire. Assai più incisiva è invece l'analisi della “pianificazione 
                  urbana nell'epoca della sicurezza”, trattata soprattutto 
                  nel secondo contributo, anche perché affronta la questione 
                  della funzione repressiva dell'urbanistica in una prospettiva 
                  che non è immediatamente applicabile alle città 
                  italiane, ma potrebbe appartenere - mutatis mutandis 
                  - al nostro futuro. Le rabbiose rivolte acefale e scarsamente 
                  orientate che, sempre sottaciute o sminuite dai media, coinvolgono 
                  da decenni con imprevedibile ripetitività buona parte 
                  delle periferie francesi, sono una delle conseguenze della storia 
                  politico-militare di una nazione capace di scaricare le proprie 
                  contraddizioni interne su popolazioni, in particolar modo africane, 
                  soggette a una feroce colonizzazione, palese o di basso profilo 
                  a seconda delle fasi.
 Questa gente, alla quale i pallidi invasori distrussero e continuano 
                  a distruggere territorio, forme produttive e cultura, è 
                  stata costretta a collocarsi al gradino più basso della 
                  struttura sociale in terra straniera, faticando tenacemente 
                  nella speranza di un miglioramento economico e culturale per 
                  i propri figli. Speranza che si è dimostrata del tutto 
                  mal riposta, vista la ghettizzazione a ogni livello alla quale 
                  le nuove generazioni sono state sottoposte secondo un processo 
                  poco paragonabile con la nostrana emarginazione dei terroni 
                  in nord Italia. È da loro, innanzitutto, che gli urbanisti 
                  cercano di difendere la metropoli, la società e il suo 
                  spazio perpetuamente minacciato, dalle risonanze tra criminalità 
                  e ribellione ormai totalmente compenetrate in quel sistema di 
                  sviluppo. Quindi non solo telecamere, recinzioni, sorveglianza 
                  privata, realizzazione di fortini residenziali per benestanti 
                  in territorio nemico (tutte realtà ben conosciute anche 
                  da noi) ma proprio una formalizzazione dell'esigenza del dominio 
                  di poter favorire l'intervento della forza pubblica, ridurre 
                  le zone scarsamente visibili e ogni possibilità di assembramento 
                  indesiderato.
 Dopo l'espulsione della plebe dai centri storici, le parole 
                  d'ordine per gli urbanisti sono quelle di parcellizzare il territorio, 
                  privatizzarlo in modo da invitare i cittadini a sentirsi custodi 
                  della pace sociale, eliminare gli spazi di libera condivisione, 
                  modificare la struttura dei quartieri dove la polizia ha difficoltà 
                  di intervento e di controllo con abbattimenti mirati e aumento 
                  della viabilità. L'obiettivo più o meno dichiarato 
                  del potere è quello di una strategia progettuale in cui 
                  l'urbanista divenga al tempo stesso creatore di condizioni controllate 
                  e tutore dell'ordine.
 L'acuta descrizione di Garnier lascia poche speranze sulla riformabilità 
                  di tali processi, facendo risuonare ancora una volta attuali 
                  le acri parole che Vaneigem scrisse oltre mezzo secolo fa: “se 
                  i nazisti avessero conosciuto gli urbanisti di oggi, avrebbero 
                  trasformato i campi di concentramento in progetti di edilizia 
                  residenziale”.
 Giuseppe Aiello 
 
 Africa (e non solo)/La grande finanza alla ricerca di baby-calciatori
 È diventata una vera e propria “tratta”, 
                  quella dei bambini che dal Sudamerica e dall'Africa, principalmente, 
                  vengono condotti in Europa ad inseguire il sogno di una carriera 
                  calcistica che pensano sarà fatta di grandi successi 
                  e quindi di fama e di soldi.
  Negli 
                  ultimi decenni s'è intensificato sempre più il 
                  mercato dei giovani e giovanissimi extracomunitari che, avvicinati 
                  nei loro paesi natii (il Camerun, il Senegal, l'Argentina,il 
                  Brasile) da osservatori ufficiali delle squadre europee di calcio, 
                  o da “agenti” che operano in modo del tutto personale 
                  e indipendente, vengono convinti a sbarcare in Europa a far 
                  prova delle loro abilità calcistiche, dietro un compenso 
                  che dovrebbe servire a lanciarli in squadre che potranno assicurare 
                  loro ingaggi e compensi, mentre in realtà, il più 
                  delle volte serve solo a far guadagnare millantatori o venditori 
                  di speranze. Le cause, le caratteristiche e le rotte di questo “trasferimento”, 
                  ormai planetario, di baby-calciatori, sono ben indagate in un 
                  volume d'analisi e di denuncia di Stefano Scacchi (Materie 
                  prime, Edizioni dell'Asino, Roma, 2017, pp. 168, € 
                  12,00) che informa sui numeri (impressionanti) del fenomeno 
                  e fa nomi e cognomi dei numerosi intermediari (singole persone, 
                  accademia del calcio, società sportive) protagonisti 
                  di questo commercio di giovani uomini che avviene molto spesso 
                  al di fuori di ogni normale e regolare legalità.
 Cercando di diventare i nuovi Messi o Ronaldo, ai quali il calcio 
                  europeo ha cambiato la vita, liberandoli dalla miseria e da 
                  un futuro incerto, migliaia di ragazzini dei paesi poveri del 
                  mondo non esitano a mettersi nelle mani di osservatori e procuratori, 
                  ai quali consegnano cifre che vanno dai 500 ai 2000 dollari, 
                  affinchè li portino in un club calcistico europeo a far 
                  mostra della loro bravura, affidando all'affermazione nello 
                  sport il proprio desiderio di riscatto economico e umano: tanto 
                  pesantemente avvertono la subalternità, la discriminazione 
                  e la marginalità geografica rispetto ad un mondo che 
                  pensano prospero e luccicante, ma di cui si può facilmente 
                  far parte, solo se si riesce, con quattro calci ad un pallone, 
                  a entrare in una squadra che militi in gironi professionistici, 
                  dove i tifosi applaudono, le tv riprendono, gli sponsor investono 
                  e i presidenti pagano e i soldi girano: anche con le scommesse, 
                  quelle in chiaro e quelle clandestine e con le rutilanti compravendite 
                  del calcio-mercato.
 Scacchi, con una mole notevole di riferimenti a casi concreti, 
                  si dedica ad esaminare la situazione italiana, da profondo conoscitore 
                  di vicende e uomini dello sport più popolare della nazione, 
                  quello che catalizza aspettative e illusioni di tanti ragazzi, 
                  quello che è diventato sempre più “professionistico”, 
                  dalle grandi città ai piccoli centri, dove proliferano 
                  le scuole-calcio, dove si viene pagati anche per giocare in 
                  serie “basse” (in Promozione, Eccellenza) e molto 
                  lontane dalla serie A.
 Anche in Italia, dunque, come ampiamente documenta Scacchi, 
                  la “tratta” di calciatori stranieri ha assunto dimensioni 
                  vastissime, con tutte le connotazioni negative che la tratteggiano: 
                  dall'Argentina, soprattutto negli anni in cui la crisi economica 
                  imperversava e dai paesi africani, da dove più forte 
                  viene il flusso migratorio, sono arrivati in Italia, spontaneamente 
                  o pilotati ad hoc, centinaia di giovani calciatori, moltissimi 
                  minorenni, che sono caduti nella rete di direttori sportivi, 
                  tutori, assistenti di comunità e quant'altro di una giungla 
                  di faccendieri e speculatori che anima il mondo del calcio: 
                  qualcuno di questi aspiranti campioni, promettente e talentuoso, 
                  è riuscito ad arrivare nelle serie più alte del 
                  calcio italiano, altri sono rimasti a vivacchiare nei club di 
                  serie minori ma pur sempre professionistiche e i tantissimi, 
                  invece, sono stati costretti ad abbandonare la loro aspirazione 
                  sportiva, a ripiegare in altri e precari lavori, a sopravvivere 
                  tra i permessi di soggiorno sempre più difficili da ottenere, 
                  trovando riparo e assistenza nelle case religiose di accoglienza.
 Di tutto questo mondo sommerso e contraddittorio, perché 
                  è anche vero che il calcio ha offerto una possibilità 
                  reale di miglioramento della vita di tanti extracomunitari ed 
                  è una palestra di vera integrazione in tante realtà 
                  grandi e piccole dell'Italia, il libro di Scacchi racconta tanto, 
                  con dovizia di particolari, seguendo numerose storie reali, 
                  paradigmatiche di un fenomeno oramai mondiale, dai risvolti 
                  veramente gravi, se si pensa, come si legge nel libro, che nel 
                  Laos una scuola di addestramento calcistico riservata ai minori 
                  s'è trasformata in un vero e proprio lager, da cui è 
                  stato difficile liberare i minori-calciatori catturati da avida 
                  gente che voleva “amministrarli” secondo una disumana 
                  logica del profitto: perché i bambini sono diventati 
                  la “materia prima” del calcio mondiale che può 
                  assicurare fortune economiche a chi ne scopre il talento, a 
                  chi riesce a venderli al miglior prezzo e quindi al miglior 
                  club.
 Di questo potenziale mercato milionario s'è accorta finanche 
                  la grande finanza: scrive, amaramente allarmato, Scacchi: “le 
                  grandi banche d'affari internazionali hanno iniziato ad assoldare 
                  esperti di calcio in grado di individuare i giovani più 
                  promettenti sui quali investire acquistando il cartellino oppure 
                  finanziandone l'acquisto prestando soldi ai club meno ricchi. 
                  Vengono creati veri e propri prodotti finanziari basati sul 
                  calcio. Girano brochure nelle quali i calciatori sono diventati 
                  “derivati” umani. D'altronde, dati alla mano, in 
                  questo momento di stallo dell'economia mondiale, pochi prodotti 
                  tirano come il calcio. Nessun altro bene garantisce un ricarico 
                  come un calciatore promettente di 16 anni scoperto in Sud America 
                  o in Africa e rivenduto a 19 anni ad un grande club europeo. 
                  I calciatori sono diventati una merce sulla quale investire 
                  i patrimoni dei miliardari”.
 Silvestro Livolsi |