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 Tra ghiacciai e Lavallière 
 intervista di Dino Taddei a Paolo Cognetti 
 
 Ha vinto il premio Strega 2017. Si è presentato alla premiazione con un fiocco alla Lavallière che ha spiazzato i presenti. Nella sua vita non solo montagne e belle riflessioni: una coscienza ecologica, centri sociali, uno sguardo anarchico, letture “giuste”. Lo intervista il Dinone, fondatore a Milano della Trattoria Popolare, dove è andato a trovarlo il vecchio amico e compagno Cognetti. Le interviste vere alle volte assomigliano a un duello a colpi di fioretto e, talvolta, di sciabola. Si attacca e ci si difende, si omettono e si forzano le parole, non sempre chi attacca è l'intervistatore e non sempre l'intervistato subisce.
 Ma quando, come nel caso mio e di Paolo Cognetti, siamo stati spadaccini con la stessa casacca facendo decine di interviste, serate con ospite e radiospettacoli assieme, risulta difficile mettere in campo le schermaglie. Meglio trovarsi nei nostri quartieri milanesi, in Trattoria Popolare con un bel mezzo litro, appoggiati al bancone che Paolo costruì qualche anno fa, saltando i preamboli con il suo cane Lucky tra le gambe.
 D'altronde cosa dire di Cognetti? Uno scrittore divenuto un 
                  caso editoriale, sia per copie vendute del suo ultimo libro 
                  Le otto montagne (Einaudi 2016) in Italia ma, 
                  cosa ancor più strabiliante, tradotto in 34 lingue e 
                  pubblicato in infiniti Paesi sparsi in tutti i continenti. Un 
                  versante internazionale molto raro per gli scrittori di lingua 
                  italiana e che a me francamente mette di buon umore pensando 
                  al libro di Paolo tradotto in norvegese o in mandarino. Ma Cognetti 
                  ha anche un'altra qualità che non ha mai nascosto e che 
                  compare nei suoi romanzi: la sua vicinanza al pensiero e all'azione 
                  anarchica.
 D.T.  
  Dino - Caro Paolo, giacché questa è 
                  un'intervista per “A”, passerei di lato le questioni 
                  squisitamente letterarie e punterei agli aspetti più 
                  politici della tua opera. Iniziamo con un tuo gesto di alto valore simbolico e comunicativo: 
                  alla finale del Premio Strega (che hai vinto) ti sei presentato 
                  con una cravatta alla Lavallière. Avrebbe dovuto suscitare 
                  quantomeno la curiosità della presentatrice e invece 
                  niente...
 Paolo - È vero, è stata ignorata completamente, 
                  addirittura alcuni giornali la mattina dopo hanno commentato: 
                  “Aveva un fiocco da scolaretto” per cui più 
                  che di rimozione, si tratta di aver dimenticato il significato... 
                  Due o tre giornalisti me l'hanno chiesto e io ho provato a spiegarglielo 
                  ma ho visto in loro un grande stupore, addirittura la giornalista 
                  di Repubblica mi ha chiesto sconcertata: “Cosa 
                  intendi per anarchia?” a quel punto ho realizzato che 
                  il vero problema è riprendere dall'inizio i concetti 
                  perché si sono persi.
 
 Forse perché da un romanziere non ci si attende 
                  che abbia delle idee politiche esplicite?
 Oggi in Italia un po' è così ma non lo è 
                  sempre stato, penso alla grande generazione di scrittori usciti 
                  dalla Resistenza e alla mia casa editrice in particolare, l'Einaudi 
                  degli anni '50-'60 in cui, tutti insieme, si incontravano Pavese, 
                  Calvino, Fenoglio, Levi, la Ginzburg, Rigoni Stern... Scrittori 
                  che hanno sempre espresso con forza le loro idee politiche.
 
 Pertanto quella cravatta è stata una provocazione?
 Io non la sento così. È stata una scelta meditata 
                  pensando che alle foto che sarebbero girate e alle migliaia 
                  di persone che le avrebbero viste. Sento molto la responsabilità 
                  di veicolare, in questo momento di forte esposizione mediatica, 
                  alcune idee. Insomma, vuoi dire un po' di cazzi tuoi, oppure: 
                  “Federica ti amo!” o, al contrario, portare due 
                  simboli che significano molto per me: il fiocco anarchico e 
                  un rametto di abete rosso nel taschino. L'anarchia e la montagna.
 
 Il rapporto con i soldi Questa vicenda ci riporta direttamente ai tuoi libri, 
                  nei quali compaiono costantemente idee e pensatori anarchici, 
                  addirittura nel romanzo Sofia si veste 
                  sempre di nero (Minimum Fax, 2012) dedichi un capitolo intero 
                  dal titolo: Quando l'Anarchia verrà a Leo, personaggio 
                  immerso tra le periferie, i centri sociali e i cortei, profondo 
                  conoscitore di Kropotkin, del pirata Misson, di Hakim Bey e 
                  le TAZ. Ma poi in altri tuoi romanzi compare un filone più 
                  specificatamente ecologico: Thoreau, Reclus e, ne Le otto 
                  montagne, Murray Bookchin e l'ecologia sociale. Considerando 
                  che non scrivi saggi ma romanzi, non mi sembra poco, e poi questi 
                  ultimi pensatori sembrano appartenere alle tue scelte di vita...
 Forse perché ho vissuto a Milano dove ho cercato di lavorare, 
                  di portare avanti dei progetti ma a un certo punto ho capito 
                  che la città non era adatta a me o io a lei, non mi stimolava 
                  più e quindi andare in montagna è stata una svolta 
                  consapevole, ora è nelle montagne valdostane che vivo 
                  e progetto iniziative. Anche perché non credo che andare 
                  in montagna sia ritirarsi dalla vita pubblica, dall'impegno, 
                  dalle cose che cerchi di fare nel mondo. Non è il luogo 
                  dell'eremita, ma dove io mi trovo meglio e più adatto 
                  a lavorare politicamente. Naturalmente non sono situazioni che 
                  ho inventato io, ma ad esempio se leggi Thoreau, scopri una 
                  persona evidentemente inadatta ad una società urbana. 
                  Le sue energie danno il meglio in un altro luogo. Il primo esperimento 
                  di Thoreau non è dettato dalla filosofia, dall'estetica 
                  o dalla poesia ma la motivazione è economica: un ventisettenne 
                  stanco di lavorare nella fabbrica di matite del padre, molto 
                  in conflitto con chi gli è attorno che pensa: “vediamo 
                  come me la cavo andando a vivere nel bosco” si fa prestare 
                  un terreno, compra una baracca da dei contadini, la smonta e 
                  se la rimonta.
 La sfida di questo esperimento era dimostrare di riuscire a 
                  vivere senza (o con pochissimi) soldi, unica strada per liberarsi 
                  dal lavoro salariato e dal modello di vita che ne consegue. 
                  E per me è stata una grande lezione: il bisogno di spazio 
                  viene dopo. In montagna il rapporto con i soldi è più 
                  elastico che in città. Io non sono nato in montagna, 
                  non sono Rigoni Stern o Corona che hanno raccontato dei loro 
                  luoghi, la loro civiltà, il loro paese, la loro umanità. 
                  Io sono un nuovo montanaro per scelta, un immigrato.
 Per questo ho amato molto anche New York, perché è 
                  la città di chi l'ha conquistata, di chi ha desiderato 
                  andarci per diventare newyorkese, lottando per andare là. 
                  Appartiene molto a me e alla mia famiglia l'idea che un posto 
                  non è dato ma lo si sceglie e conquista. Bisogna provare 
                  a trovarlo almeno.
 
 Ma più in generale la cultura americana e 
                  i suoi scrittori, mi sembrano che siano un punto saldo di riferimento 
                  della tua opera, così come le radici profonde alle quali 
                  hai dedicato anche un bellissimo documentario su la Piave (fiume 
                  chiamato al femminile almeno fino agli inizi del Novecento). 
                  Un lungo fluire da quelle montagne venete ancestrali, alle coste 
                  americane.
 Già, l'America dei profughi, di chi scappava dalla povertà 
                  o dalla galera, di chi era perseguitato. Di chi in definitiva 
                  se l'è inventata e non certo l'America attuale. E poi 
                  c'è l'America della frontiera, un mito al quale sono 
                  molto legato, questo conflitto dialettico tra Est e Ovest. Tra 
                  un Est civile fatto di città ma anche di corruzione, 
                  un mondo nel quale è facile sentirsi sconfitti, traditi, 
                  ma si ha sempre l'opportunità di partire verso l'Ovest 
                  anche in senso figurato. Può essere imbarcarsi su una 
                  baleniera come per Melville o partire verso il grande Nord come 
                  per Jack London. Una frontiera dalla quale si può ricominciare.
 Questo secondo me è il cuore pulsante del mito americano. 
                  In fondo le Alpi sono un West che mi sono trovato sotto casa. 
                  Naturalmente oggi il mito non può essere la California 
                  ma il Nord, l'Alaska è l'ultima frontiera americana. 
                  Di Nord si parla anche in Into the Wild di Sean Penn, 
                  un film che per me è stato veramente importante sia per 
                  il contenuto sia per la mia vicinanza al protagonista. Provai 
                  una profonda commozione nel riconoscermi in Cristopher McCandless: 
                  un bravo ragazzo, un ottimo studente con un padre molto prepotente 
                  e volitivo, ma che a un certo punto rompe tutto questo per cercare 
                  la sua strada. In fondo anch'io non sono stato un adolescente 
                  ribelle, un ragazzo di strada, al contrario sono stato un ottimo 
                  studente, bravo in tutto, sino a quando ho deciso di emanciparmi.
 Per quanto riguarda le mie radici familiari, più che 
                  il Veneto di mia madre, sento molto di più quelle paterne. 
                  Forse per questa nostra tradizione che ogni figlio se ne va 
                  da qualche altra parte. Una storia che risale almeno a mio trisnonno 
                  barese che ottenne una cattedra a Torino, divenendo maestro 
                  di Luigi Einaudi. E poi ogni generazione continuò la 
                  trasmigrazione, da Torino a Mantova, e poi Parma, il Veneto 
                  e infine Milano. Il vero lascito familiare è questa consapevolezza 
                  che ti devi cercare un posto nel mondo e non è detto 
                  che sia quello dove sei nato.
 
                   
                    |  |   
                    | Milano, Trattoria Popolare - Federica e Paolo |  
 “Per me è stato un po' aprire gli occhi” Consapevolezza che ti spinge a conquistare le cose 
                  con determinazione, anche non in senso topografico: se mai ce 
                  ne fosse bisogno vorrei che tu spendessi due parole sulla fatica 
                  di essere scrittore. Sfatare il mito del genio maledetto e che 
                  il tuo grande successo editoriale è frutto di lavoro.Certo. Mi è passato velocemente il mito dello scrittore ubriacone che produce solo di notte in preda all'ispirazione: per intenderci come in un'intervista di Fernanda Pivano a Bukowski (Quel che importa è grattarmi sotto le ascelle, Feltrinelli) nella quale lo scrittore si dileguava su per una scala con due bottiglie di Valpolicella (il suo vino preferito) dichiarando che avrebbe scritto sino a quando durava il vino. Anch'io fino a vent'anni ho creduto a queste cose.
 Poi una svolta è avvenuta andando in America ad intervistare per un documentario diversi scrittori americani e tutti mi ripetevano la loro grande disciplina, della scrittura come lavoro che se non la vedevi sotto questa luce non saresti andato molto lontano, l'ubriacarsi tutto il giorno possono permetterselo pochi scrittori affermati, non certo chi deve imparare e cerca di farsi strada. Quasi una vita monastica che, a ben vedere, si addice al mio carattere: per anni ho messo la sveglia due ore prima tutti i giorni per scrivere prima di fare qualsiasi altro lavoro.
 
 Lavorare per vivere ma anche lavorare politicamente.
 Certo, nella seconda metà degli anni Novanta sono stato un assiduo frequentatore dei centri sociali milanesi, in particolare del Bulk, allora sembrava un panorama ancora stimolante o forse semplicemente avevo vent'anni, ma la mia prima vera formazione politica avviene presso la Scuola Civica di Cinema, un'istituzione storica milanese fondata negli anni Cinquanta, dove ho avuto modo di incontrare persone determinanti nel mio cammino come la regista Marina Spada e Marco Philopat. Più in generale il corpo docente era formato da superstiti, sovversivi vari e reduci, i quali mi permettevano di conoscere le storie milanesi che non avrei potuto sapere da mio padre immigrato da poco. Mentre la città degli anni Settanta e Ottanta me la hanno raccontata loro. E per me è stato un po' aprire gli occhi.
 E poi la Scighera, il circolo casualmente vicino a casa mia in Bovisa che è stato l'approdo che cercavo, un'osteria ma anche un luogo culturale dove esprimermi. Un amore a prima vista che mi ha trasformato per alcuni anni in oste. Tre anni molto intensi nei quali ho dedicato anima e corpo. Mi diverte ricordare che in quel luogo io abbia intervistato Paolo Finzi e giocato a carte con Aurora Failla, le colonne di A Rivista. Oggi molti si stupiscono della mia capacità a stare sul palco a condurre serate e interviste, ma sarebbe troppo lunga spiegargli che gavetta abbiamo fatto assieme alla Scighera. E sempre assieme siamo stati tra i fondatori della Trattoria Popolare dove ci troviamo in questo momento, come vedi le nostre strade continuano ad intrecciarsi.
 E nel 2019 apriremo un rifugio (con “A”) È vero. Benché tu ora abbia una notorietà 
                  impressionante, mi sembra che non ti sia fatto snaturare, ma 
                  al contrario la stai usando per raggiungere nuovi obiettivi 
                  con al centro la montagna. Hai messo in piedi da zero un festival 
                  di grande successo dal nome indicativo: 'Il richiamo della foresta' 
                  a Brusson dove vivi e nel futuro prossimo ti lancerai in una 
                  nuova sfida che ti chiedo di anticipare.La mia necessità di lasciare la città e andare in montagna è partita da un bisogno privato, ma in breve ho scoperto che è una scelta che appartiene a molti della mia generazione. Così ho iniziato a documentarmi facendo un viaggio in Trentino (zona tradizionalmente più innovativa rispetto alle Alpi Occidentali) andando a incontrare i “nuovi montanari”. Persone che sono andate a vivere in montagna portandosi però un bagaglio culturale cittadino, che hanno viaggiato e magari studiato all'estero, ma anche portatori di una carica utopica e ideologica molto forte. Insomma gente che non è andata in montagna solo per pascolare le capre ma con un'idea più strutturata di ritorno alla montagna. Un'esperienza condivisa da molti.
 Così e nata l'idea di questo festival che raccogliesse tutte queste esperienze e declinasse questo ritorno in tutte le accezioni possibili. Dal ritorno di chi va a coltivare le patate, ma anche il ritorno di uno scrittore. Il ritorno di un pittore o di un musicista che vuole fare un concerto in mezzo a un bosco. Anche perché il dialogo tra le arti e la vita pratica di un contadino a me sembra molto fruttuoso. Io non uso il termine “Natura” che è una parola dei cittadini. Nessun abitante di montagna usa quella parola. Anche perché natura per un montanaro vuol dire nomi specifici: l'orto sotto casa, l'alpeggio, il torrente, il bosco. E poi la montagna è fatta da paesaggi selvaggi e da paesaggi densamente antropizzati e per un cittadino è sempre “natura” così come andare al Parco Sempione di Milano. Io preferisco parlare di paesaggio montano, di entrarci e cercare di raccontarlo nei miei libri.
 Per quanto riguarda il festival sono partito dall'idea che il coltivatore di patate ha bisogno di uno scrittore che canti la sua vita, che la renda poetica che ne faccia letteratura. Queste due realtà non sono così distanti come si potrebbe credere. Anche perché spesso il nuovo montanaro arriva da una grande città e quello che gli manca tremendamente è proprio la musica, la letteratura, la socialità, situazioni che non trova in montagna. L'idea di portare delle cose buone dalla città in montagna è alla base di questo festival.
 Per quanto riguarda il futuro, abbiamo fondato l'associazione “Gli urogalli” che aprirà un rifugio nel 2019. Un progetto che vorremmo a metà strada tra un classico rifugio alpino e un centro culturale, diciamo un circolo culturale di montagna. Per intenderci uno sviluppo della Scighera e della Trattoria Popolare a duemila metri. Di certo avremo anche un bancone su cui ti inviterò a posare i gomiti, e una biblioteca dove A sarà in bella mostra.
  Dino Taddei |