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 La mela di Ippocrate 1.
 Sappiamo tutti com'è nata la guerra di Troia – 
                  per questioni estetiche. Andò così: Eris, dea 
                  della discordia, ovviamente – con la nomea che aveva – 
                  non viene invitata al banchetto – e lei si vendica. Butta 
                  lì tra gli invitati bicchieri e vol au vent in 
                  mano una mela tutta d'oro su cui aveva scritto “alla più 
                  bella”.
 Da subito, l'atmosfera non è più quella di prima: 
                  a chi tocca? Chi è la più bella? Com'è 
                  giusto che fosse, tirano per la giacca Zeus – decida lui 
                  che è il capo – ma quello da quell'orecchio non 
                  ci sente – un capo davvero sveglio, fin che può 
                  cerca di non inimicarsi nessuno dei suoi potenziali elettori. 
                  Dice: “La più bella? Decida il più bello?”. 
                  E chi è il più bello? Tal Paride, principe di 
                  Troia che, al momento, come tirocinio fa il pastore.
 Portano allora a Paride le tre pretendenti principali e lì, 
                  prima che lui si pronunci, cominciano le manovre di corruzione: 
                  in cambio del voto, una gli promette la sapienza e l'imbattibilità, 
                  l'altra la ricchezza e il potere e l'altra ancora, tal Afrodite, 
                  una che evidentemente la sa lunga sulla vita sessuale dei giovani 
                  pastori, gli promette l'amore della più bella donna del 
                  mondo. Paride abbocca e, detto e fatto – addio pecore 
                  –, consegna la mela a quest'ultima e in un amen si ritrova 
                  fra le braccia accoglienti di Elena, legittima moglie di Menelao, 
                  re di Sparta. Non l'avesse mai fatto – chissà quanti 
                  accidenti gli hanno mandato quelli che, poi, ci hanno rimesso 
                  la pelle.
 
 2.
 La vita di Ippocrate di Coo sembra collocabile tra il 460 e 
                  il 377 a. C. A costui si deve il testo di un giuramento al quale 
                  – fatti i dovuti aggiornamenti – hanno il dovere 
                  di sottostare tutti coloro che hanno scelto la professione medica. 
                  Tuttora.
 Nei vari articoli di cui si compone questo giuramento si parla 
                  della stima che il medico deve avere per il proprio Maestro; 
                  della necessità che, in cambio dell'insegnamento della 
                  propria arte, non debba essere richiesto compenso alcuno; dell'opportunità 
                  di riservare il proprio sapere per i propri figli e per i figli 
                  del Maestro e, ovviamente, dell'impegno che il medico contrae 
                  nei confronti del malato: deve fare del proprio meglio per lui, 
                  non può somministrargli farmaci mortali e dovrà 
                  astenersi da ogni azione corruttrice, non lo potrà operare 
                  del “mal della pietra” – per il quale, evidentemente, 
                  si doveva richiedere l'intervento di un macellaio di altra corporazione 
                  – e, ovviamente, dovrà mantenere il segreto su 
                  quanto venuto a sapere, riguardo al paziente, nell'esercizio 
                  delle proprie funzioni.
 
 3.
 Come dicevo, come tutti i giuramenti anche il giuramento di 
                  Ippocrate, di tanto in tanto, va aggiornato. Del “mal 
                  della pietra”, ovvero della calcolosi, oggi si occupano 
                  i medici che, con i chirurghi, nel frattempo, sono diventati 
                  pappa e ciccia. Scorro il Codice di Deontologia Medica approvato 
                  recentemente dalla Federazione Nazionali degli Ordini dei Medici 
                  Chirurghi e degli Odontoiatri e, constatando innanzitutto come 
                  il testo, nei secoli, tenda ad espandersi, giungo all'articolo 
                  76 – titolato “Medicina potenziativa ed estetica” 
                  – e lì mi fermo.
 
  Dice 
                  questo articolo, infatti, che “il medico, quando gli siano 
                  richiesti interventi medici finalizzati al potenziamento delle 
                  fisiologiche capacità psico-fisiche dell'individuo, opera 
                  (...) secondo i principi di precauzione, proporzionalità 
                  e rispetto dell'autodeterminazione della persona, acquisendo 
                  il consenso informato in forma scritta”. Immagino che 
                  produttori di viagra e di sostanze dopanti in genere stiano 
                  festeggiando: la ratifica sociale del “potenziativo” 
                  è avviata – con tutti gli utili conseguenti – 
                  e sembra mancare pochissimo a quel “soma” – 
                  o droga di Stato – che, allo scopo di estirpare alla radice 
                  il pensiero negativo, veniva distribuito agli abitanti de Il 
                  mondo nuovo preconizzato da Aldous Huxley già nel 1932. 
 Glossa al punto 3.
 Che cosa sia l'autodeterminazione della persona, ovviamente, 
                  è tutto da vedere. Non solo sul piano strettamente epistemologico 
                  è difficile definirla – e più passa il tempo 
                  e sempre meno contorni chiari ha (si pensi a come le neuroscienze 
                  hanno messo in crisi la vecchia nozione di “libero arbitrio”) 
                  –, ma anche sul piano, diciamo così, della pratica 
                  alla buona – si veda la discussione in atto sull'obbligatorietà 
                  delle vaccinazioni – lascia parecchio a desiderare. Ci 
                  sono momenti della vita in cui te la attribuiscono volentieri, 
                  questa autodeterminazione – per esempio, quando sei accusato 
                  di un reato –, e momenti in cui – per esempio, quando 
                  sei bambino e quando sei anziano – non te l'attribuiscono 
                  nemmeno per scherzo.
 
 4.
 Ma l'articolo 76 prosegue: “il medico, nell'esercizio 
                  di attività diagnostico-terapeutiche con finalità 
                  estetiche, garantisce il possesso di idonee competenze e (...) 
                  non suscita né alimenta aspettative illusorie, individua 
                  le possibili soluzioni alternative di pari efficacia e” 
                  – ci mancherebbe altro – “opera al fine di 
                  garantire la massima sicurezza delle prestazioni erogate”. 
                  E qui l'espansionismo della medicalizzazione, andando ben oltre 
                  l'ambito circoscritto da Ippocrate, raggiunge il suo apice. 
                  A costo del buon senso, d'accordo, perché stabilire la 
                  “pari efficacia” delle alternative – ovvero 
                  uno stato futuro – e nella “massima sicurezza” 
                  lo si può fare, davvero, soltanto suscitando “aspettative 
                  illusorie”. Ma anche a costo della correttezza metodologica 
                  o, per dirla in altri termini, della scientificità stessa 
                  della disciplina.
 D'accordo, come viene giustificato il doping, viene anche giustificata 
                  la chirurgia estetica – questo è il senso delle 
                  cose –, perché alle ghiotte e promettenti fette 
                  di mercato non si può rinunciare a cuor leggero. Ma, 
                  annoverando fra le attività diagnostiche anche quelle 
                  con “finalità estetiche”, al medico tocca 
                  una facoltà del tutto nuova, una facoltà che nella 
                  sua tribolata storia mai ha avuto – riequilibrare due 
                  zigomi, gonfiare labbra, rialzare palpebre, tagliar via pannicoli 
                  adiposi, raddrizzare tibie, e via manipolando per un catalogo 
                  in offerta sempre più vasto – e che ne fa, hic 
                  et nunc, un novello Paride.
 
 5.
 Con ciò tutta la gamma dei criteri estetici prodotti 
                  dall'evoluzione naturale – si pensi ai manti delle zebre, 
                  alle penne dei pavoni o ai colori aposematici di certi insetti 
                  e ai corrispettivi di queste soluzioni negli esseri umani – 
                  finisce nella pattumiera della Storia – della nostra Storia 
                  e, prima o poi, per lo strapotere dell'uomo, della Storia di 
                  tutti i viventi. Nel momento stesso in cui sanano una differenza, 
                  i novelli Paride ottemperano ad un paradigma, ovvero ad un termine 
                  di confronto, e non sarà inutile, allora, far notare 
                  che questo paradigma è deciso da qualcuno – qualcuno 
                  che stabilisce i modelli vincenti, quelli cui, in nome dell'estetica, 
                  vengono ridotte tutte le differenze e che non si fa fatica alcuna 
                  ad individuare come “mercato”.
 
 Glossa al punto 5.
 Aposematici sono quei colori di cui sono dotati alcuni insetti 
                  e che, a quanto pare, hanno la funzione di avvertire a distanza 
                  l'incauto predatore che è meglio lasciar perdere – 
                  che come alimento, il soggetto che li può sfoderare, 
                  fa veramente schifo. Perlopiù sono il rosso, il giallo, 
                  l'azzurro e l'arancione. Mi stavo chiedendo se, come strategia 
                  diversiva per reperire un partner sessuale, non stia avvenendo 
                  qualcosa di analogo – pensavo alle estese planimetrie 
                  di certi tatuaggi - nell'evoluzione culturale dei corpi umani: 
                  come dire che, al rapporto si è disponibili, ma che questo 
                  rapporto è molto impegnativo.
 
 6.
 La leggenda di Paride, però, insegna anche un'altra cosa 
                  – politicamente più rilevante: che il criterio 
                  estetico – peraltro non definito da nessuno – lascia 
                  il tempo che trova, visto che, alla finfine, il giudizio conclusivo 
                  è ottenuto con la corruzione. Ciascuna delle tre concorrenti 
                  promette qualcosa in cambio del voto. Di concorrere per la loro 
                  sola bellezza non ci pensano neppure. Paride sceglie in base 
                  a tutt'altri criteri. Ed è la guerra. Ci si pensi: tanta 
                  deontologia professionale – tanto tradimento della deontologia 
                  professionale, tanti argomenti zoppicanti a giustificazione 
                  del proprio operato – e, alla fine, i motivi sono altri.
  Felice Accame  Post scriptum: Mi accorgo anche – leggendo 
                  l'articolo successivo – titolato alla “Medicina 
                  militare” (concetto su cui si potrebbe spendere un libro 
                  intero) – che le “conoscenze scientifiche più 
                  aggiornate” sono richieste al “medico militare”, 
                  ma non a quello “potenziativo ed estetico”. La virtù 
                  guerresca, insomma, ha ancora il predominio sulla vanità. |