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 Un ballo al confine del mondo   Sentili. 
                  Senti come sono diversi, eppure senti come sono sempre uguali. Vi avevo già presentato su queste pagine molto tempo 
                  fa i Marmaja (“A” 
                  287, febbraio 2003) raccontandoveli come un'accozzaglia 
                  sodale di musicisti marginali, piuttosto selvatici e ruvidi 
                  sì ma dal cuore grande. Nonostante la distanza importante 
                  da allora, l'impressione complessiva che ne ricavo oggi non 
                  è affatto cambiata. Sono convinto che sia uno spreco 
                  il mettersi lì a rimuginare sospirando su come passa 
                  il tempo, ma lo faccio adesso anche se sarà senza rimpianti 
                  e solo per qualche riga. Sono stati anni di cambiamenti e di 
                  maturazione, questi. Per loro, e anche per me. Anni di abbandoni 
                  a volte travestiti da partenze e viceversa, di facce nuove e 
                  di catastrofi inattese. Anni di primavere che arrivano in ritardo 
                  ed estati lunghe infinite con in mezzo un riempimento nebbioso 
                  di giorni pesanti portati in spalla verso sera, finiti e poi 
                  ricominciati uguali. Immersi nella noia della provincia immobile 
                  e impegnati in corse a perdifiato dietro ai figli che crescono, 
                  non ci si è messi mai a contare tutte le cadute rovinose 
                  e tutte le volte che ci si è rimessi in piedi, quasi 
                  che questo rialzarsi sia stato non una fatica ma il nostro carburante 
                  e il nostro sole, forse (volendo sorridere con poco) il nostro 
                  sport preferito o più semplicemente uno scherzo del destino, 
                  che va preso così come viene.
 Se ci si ferma alla superficie dell'ascolto, dei Marmaja dei 
                  primi lavori in questo cd Come le pagine dei libri letti 
                  appena uscito (Latlantide, 2013) c'è dentro davvero molto 
                  molto poco (ed ecco perché li chiamavo “diversi”, 
                  giusto a inizio pagina). Abitano suoni diversi qua dentro, c'è 
                  un'aria diversa in queste canzoni nuove. Eppure a guardar bene 
                  di loro – di quella gente, di quei ragazzi d'una volta 
                  – c'è tutto. Proprio tutto. Partiti da casa vent'anni 
                  fa con una valigia ciascuno stracolma di futuri da afferrare 
                  e di buone intenzioni, i Marmaja degli esordi sapevano trovare 
                  pagliuzze d'oro nei suoni del loro Polesine e le trasformavano 
                  in canzoni da regalare in giro: musica fatta senza preoccupazione 
                  se chiamarla folk o rock o chissàchecosa, fatta riflettendo 
                  sì ma senza sragionare su questioni di integrità 
                  di repertorio né perdendo tempo e fiato a discutere di 
                  coerenza e correttezza politica. Il bello dei Marmaja era che 
                  cantavano di se stessi e della loro grande famiglia così 
                  come ne erano capaci. E mica se ne stavano lì fermi, 
                  comparse per i documentari inchiodati a un tavolo del bar del 
                  paese a bere bere bere e commentare le notizie sul giornale 
                  locale e la roba che passa la televisione: stipata l'attrezzatura 
                  in un paio di macchine eccoli dopo il lavoro all'entrata dell'autostrada 
                  per andare a suonare lontano, a macinare chilometri convinti 
                  di essere nel giusto, a pugno chiuso e muso duro. Hanno scavalcato 
                  spesso il Po con un balzo a rubacchiare melodie ferraresi con 
                  la scusa del Buskers Festival, sono venuti col treno del mattino 
                  a Mestre per leggere i volantini distribuiti fuori delle fabbriche 
                  di Porto Marghera, te li ritrovavi a inizio autunno lì 
                  a raccontare fiabe e magie ai bambini tra le castagne del Montello, 
                  hanno cantato a Fano per gli atei e nel cinema parrocchiale, 
                  sono andati a suonare a sud, in montagna, in riva al mare.
 Sono stati dovunque qualcuno li abbia chiamati. Negli autogrill 
                  e nei centri sociali, con la corrente elettrica oppure senza, 
                  a celebrare nomi grossi come Fabrizio de André e Rino 
                  Gaetano e Piero Ciampi, così come a ricordare un amico 
                  anonimo morto di eroina oppure un partigiano con addosso un 
                  nome di battaglia che trasmetteva messaggi radio in codice.
 
                   
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                    | Maurizio Zannato |  Non c'era (ne c'è mai stata, aggiungo adesso rivedendo 
                  il testo) alcuna pretesa di apparire, di diventare, di convincere 
                  o incantare. Le canzoni dei Marmaja sono trasparenti come storie 
                  semplici, sono prese dalle pareti di casa e dalle finestre spalancate 
                  e dalla bocca dei vicini e dalla polvere della strada, racconti 
                  in forma di scampoli colorati cuciti assieme in una bandiera 
                  che comprende tutte le bandiere del mondo. C'era una volta e 
                  c'è anche adesso la Resistenza raccontata da chi c'era 
                  dentro con la voce malferma, e quel tremore assomiglia proprio 
                  a quello che incrina la voce di chi è scappato via da 
                  chissà quale Bosnia personale per rifugiarsi in questa 
                  periferia grigia. C'è l'umidità del Polesine stretto 
                  tra Adige e Po che si confonde con quella che abita negli occhi 
                  di chi viene qui per sopravvivere ma non capisce quando gli 
                  si parla, sangue dello stesso colore che scorre sotto pelle 
                  colorata in infinite gradazioni, oppure di chi ha perso l'amore 
                  – riccioli neri.
 La storia piccola scritta con la esse minuscola da mille e mille 
                  mani, fatta di libri letti e di ritagli di giornale e delle 
                  parole di tuo padre e tua madre, quella fatta dei sogni traballanti 
                  e sfocati dei più giovani e dei ricordi inossidabili 
                  e irraccontabili dei vecchi, che troppo hanno già visto.
 
                   
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                    | Guido Frezzato |  Vent'anni di strada, percorsa in velocità e spezzata 
                  da frenate brusche e soste non volute. Fermarsi per forza, allontanarsi, 
                  perdersi e poi ritrovarsi. Il loro primo disco In tel vento 
                  sonà è ancora coi piedi piantati nell'altro 
                  millennio, sulla copertina il ritratto del tappo di una bottiglia 
                  di vino fatto in casa mica quello che si vende al supermercato, 
                  riferimento esplicito ad un'allegria che è anche una 
                  maledizione, questione di dosi e testardaggine. Seguono l'ambizioso 
                  Il metro dell'età (2002), l'introspettivo terzo 
                  album omonimo (2004) e il quarto Punta Maistra (2007) 
                  mai stampato e diffuso a gratis via internet. Ma a parlare di 
                  loro solo attraverso i lavori pubblicati si racconta solo una 
                  parte minima della storia, perché restano fuori le decine 
                  di demo e registrazioni casalinghe fatte per gli amici e i compagni, 
                  e soprattutto una presenza forte, costante, importante. Le cento 
                  e cento feste celebrate insieme sul sagrato e sui palchi fatti 
                  a forma di marciapiede, le partecipazioni all'ultimo momento 
                  senza il nome oppure col nome aggiunto a pennarello sui manifesti, 
                  la musica che hanno saputo portare a matrimoni, manifestazioni 
                  di piazza, raduni e funerali, strette di mano e abbracci forti 
                  che vorresti non finissero mai.
 Ascoltando Come le pagine dei libri letti ci si convince 
                  che l'erba che cresce in Polesine sia verde e rigogliosa e soprattutto 
                  buona, molto buona. In Come le pagine dei libri letti 
                  c'è una canzone che sembra rubata a Manu Chao: è 
                  così bella che mi auguro presto se la riprenderà 
                  e la porterà via in giro per il mondo. In Come le 
                  pagine dei libri letti Faber fa rima con Berlinguer: una 
                  rima annodata posticcia ed improbabile sì, ma suona così 
                  bene che il cuore si stringe per queste assenze. In Come 
                  le pagine dei libri letti suonano e cantano, riconoscibilissimi 
                  anche se non presenti nei crediti, Fernanda Pivano, Joe Strummer 
                  e Pier Paolo Pasolini. Un'opera caratterizzata da un sorriso 
                  irriducibile e sfottente, uno sputo sulla brutta faccia liftata 
                  imbrillantinata del ventennio di buio e oppressione che sta 
                  sempre per finire e, cazzo, che ancora non finisce. Un ballo 
                  al confine del mondo, sopra a una musica che non abbassa lo 
                  sguardo ma che sa ridere sguaiatamente di se stessa, e mostra 
                  le rughe del viso senza vergogna. E soprattutto senza paura.
 Se guardo bene, in copertina ci sono anch'io che canto. E ci 
                  sei anche tu, guarda.
 Contatti: marmaja.net.
  Marco Pandin
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