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                 Un’agra vita  
                Maremma 1954. Nella miniera di Ribolla un’esplosione 
                  provoca la morte di quarantatré minatori. Come tante, 
                  troppe altre volte, causa della tragedia è il mancato 
                  rispetto delle misure di sicurezza, sacrificate dalla proprietà 
                  alle ragioni del profitto. Di fronte alle responsabilità 
                  morali e alle inadempienze materiali dei padroni, un giovane 
                  del luogo, un intellettuale socialista fortemente segnato dalle 
                  tensioni libertarie presenti nella sua terra, si reca a Milano 
                  per vendicare le vittime del grisou.  
                  Nelle sue intenzioni, distruggere con un ordigno, anch’esso 
                  al grisou, il Torracchione, l’imponente grattacielo della 
                  Montecatini, nel quale siedono, disponendo delle vite altrui, 
                  i proprietari della miniera. Impiegatosi prima ad un giornale, 
                  poi come correttore di bozze e infine come apprezzato traduttore 
                  dall’inglese, il protagonista, giorno dopo giorno, lascia 
                  però sfumare nelle brume del capoluogo lombardo i motivi 
                  e le tensioni che lo hanno spinto a cambiare vita e città. 
                   
                  Infatti la metropoli, così diversa, così alienante 
                  e caotica rispetto ai ritmi della provincia toscana, lo avvolge 
                  nel suo scorrere quotidiano, e gradualmente, ma inesorabilmente, 
                  ne avviluppa corpo e volontà, fino a fargli dimenticare 
                  i propositi di vendetta e di palingenesi sociale che lo avevano 
                  spinto al nord.  
                  La sua diventa così una vita appiattita sul tran tran 
                  quotidiano, sostanzialmente estraniata rispetto alla realtà 
                  circostante, ma al tempo stesso pienamente integrata in quel 
                  processo di trasformazione epocale che, attraverso il tumultuoso 
                  miracolo economico, il famoso boom, trasformò uomini 
                  e cose, il paese e la società, in modo irreversibile. 
                  Quella che era un’esistenza segnata dalla tensione politica 
                  e sociale, si trasforma così in una vita agra, dura e 
                  sempre più povera di slanci e afflati etici, trascorsa 
                  pigramente alla giornata ma attenta ad afferrare le opportunità 
                  materiali che si aprono: la macchina, la lavatrice, un dignitoso 
                  appartamento in affitto.  
                  E come è per lui, è così anche per Anna, 
                  la sensibile militante della locale sezione del PCI, conosciuta 
                  a una manifestazione caricata dalla polizia, ma ormai sempre 
                  più propensa a sganciarsi dalla disciplina di partito, 
                  dall’impegno e dal lavoro politico: attenta a non farsi 
                  travolgere, ma al tempo stesso ad approfittare delle mille opportunità 
                  che offre a loro, come a tutti gli italiani, il travolgente 
                  sviluppo economico.  
                  La Vita Agra (Rizzoli, 1962), è il romanzo che 
                  lanciò e fece conoscere al grande pubblico Luciano Bianciardi, 
                  già apprezzato e scomodo giornalista, protagonista, con 
                  l’amico Carlo Cassola, di una straordinaria avventura 
                  giornalistica sfociata nella pubblicazione, nel 1956 del libro-inchiesta 
                  I minatori della Maremma.  
                  Dopo la pubblicazione de L’Integrazione e Da 
                  Quarto a Torino. Breve storia della spedizione dei Mille, 
                  quest’ultimo romanzo fortemente autobiografico fu subito 
                  salutato come il romanzo-simbolo del tumultuoso processo di 
                  integrazione nel miracolo economico di quegli anni: la descrizione 
                  più attenta e pertinente, proprio perchè così 
                  autobiografica, dello svanire delle antiche velleità 
                  ribellistiche a fronte delle opportunità che la grande 
                  città, concreta metafora della nuova struttura sociale, 
                  veniva offrendo a vite ancora segnate dalla difficoltà 
                  a far quadrare, mese per mese, i conti di casa. Ed è 
                  anche la narrazione di come, quando queste opportunità 
                  si trasformano nel principale obiettivo di una esistenza vissuta 
                  giorno per giorno, la vita agra cominci a trasformarsi 
                  in un alienante processo involutivo, per diventare sempre meno 
                  amara e sempre più “dolce”, nonostante le 
                  aspre contraddizioni che questo processo comporta.  
                  Le prime difficoltà economiche si stemperano gradualmente 
                  con l’affermarsi di una professionalità che trova, 
                  nella Milano dalle mille occasioni, continue possibilità 
                  di esprimersi. E parallelamente si stemperano le asprezze di 
                  una vita fino allora caratterizzata dai vecchi valori ora messi 
                  in disparte con l’emergere di nuovi “valori” 
                  e nuove “qualità” tipiche del boom 
                  e della comunicazione di massa.  
                  I valori della comunità, piccola e chiusa, cedono infatti 
                  il passo ai modelli di vita che nascono e si riproducono in 
                  una metropoli sintesi emblematica del miracolo italiano: modelli 
                  capaci di trasformare la precedente umanità del protagonista, 
                  come quella degli italiani, in un grumo di atteggiamenti sempre 
                  più indifferenti e parcellizzati.  
                  E il drammatico episodio del barbone alcolizzato, lasciato morire, 
                  rantolante e sofferente, nella solitudine di un marciapiede 
                  fra l’indifferenza di una folla che passa oltre, sembra 
                  racchiudere, nella sua cruda banalità, tutta l’angoscia 
                  del protagonista. Quel ribellismo, dunque, che non era solo 
                  tensione etica, ma anche il portato di condizioni di vita che 
                  esigevano un cambiamento, viene dapprima a scontrarsi con il 
                  “pacchetto” di opportunità che offre la città, 
                  per poi estinguersi negli ingranaggi della produzione, dell’efficienza 
                  e della ricerca dei danè. Ingranaggi che chiedono, 
                  e pretendono, che alla solidarietà si sostituisca l’estraniazione, 
                  il duro pedaggio per partecipare al nuovo benessere.  
                  La vicenda narrata da Bianciardi richiama, a mio parere, un’altra 
                  vicenda collettiva che interessò, nei primi anni sessanta, 
                  altri compagni, non solo anarchici ma, più in generale, 
                  di tutto lo schieramento di sinistra.  
                  La storia di esistenze militanti che, dopo aver partecipato 
                  alle dure lotte di anni segnati non solo dai morti, dalle tragedie 
                  e dalle infamie del processo di accumulazione capitalista che 
                  avrebbe portato al boom, ma anche da tensioni e ricchezze morali 
                  irriproducibili, vennero poi ad adagiarsi sul piano di una rassegnata 
                  e inevitabile accettazione dell’esistente. Un esistente 
                  che, anche se non del tutto assimilato – perché 
                  sopravviveva un po’ dell’antico spirito critico 
                  e non si erano abbandonate del tutto le armi – riuscì 
                  comunque a mettere in secondo piano il primitivo spirito ribelle. 
                   
                  E nonostante il protagonista cerchi disperatamente di mantenersi 
                  estraneo a questa realtà per riafferrare la vera ragione 
                  della venuta a Milano, la vendetta contro l’industria 
                  mineraria, tuttavia le sue motivazioni si trasformano per poter 
                  cogliere le opportunità, economiche ed esistenziali, 
                  che la città offre. Non è un arrendersi completo 
                  quello del protagonista, come non fu resa totale quella di una 
                  generazione di proletari e popolani che finalmente poterono 
                  mandare i figli a scuola e godersi una settimana di ferie. Ma 
                  se anche permane, e si fa sentire, la lucidità che permette 
                  di capire i mutamenti in atto, al tempo stesso si concretizza 
                  un progressivo avvicinarsi alle ragioni del “nemico”, 
                  un progressivo arrendersi alle opportunità di vita che 
                  queste ragioni offrono.  
                  Fu forte, a cavallo degli anni cinquanta e sessanta, il rifluire 
                  di tanti militanti dall’impegno politico. Anarchici, comunisti, 
                  socialisti, proletari e operai che non trovando più gli 
                  strumenti e le motivazioni per agire sui processi in corso, 
                  furono spinti a cogliere, e far proprie, le opportunità 
                  che si aprivano per condurre vite meno agre e stentate.  
                  Furono anni che videro una potente offensiva del capitalismo 
                  e del padronato più aperto e intelligente, condotta sia 
                  sul piano della diffusione generalizzata di un benessere materiale 
                  mai visto in precedenza, che su quello dell’offerta di 
                  nuovi stimoli intellettuali. Un’offensiva sancita, sul 
                  piano sociale, da una inedita fase di pace e di collaborazione 
                  fra le classi, finalmente raggiunte con la tormentata nascita 
                  del centro sinistra, con quell’epocale avvicinamento alla 
                  fatidica stanza dei bottoni, come la definì il leader 
                  socialista Nenni, di un partito proletario che ancora si riteneva 
                  di classe.  
                  E per effetto di questa apparente e incruenta “presa del 
                  potere” proletaria, con il suo carico di riforme sociali 
                  lungamente attese, si aprirono momenti estremamente difficili 
                  per un movimento genuinamente rivoluzionario come quello anarchico. 
                   
                  Tanti dei suoi uomini, soprattutto quelli avvicinatisi negli 
                  anni dell’immediato dopoguerra e non temprati dalla lotta 
                  antifascista, si allontanarono dall’impegno e dalle sedi, 
                  sfiduciati sulla possibilità di aperture rivoluzionarie 
                  e incapaci di opporsi ai prezzi morali e materiali che questo 
                  nuovo e attraente benessere, con le sue luci e le sue merci, 
                  pretendeva. I gruppi si svuotavano, sul posto di lavoro la nostra 
                  parola era sempre meno presente ed ascoltata, fra i compagni 
                  l’unica vitalità sembrava essere quella delle feroci 
                  polemiche interne.  
                  È per questo che la vicenda di vita di Bianciardi, partito 
                  per distruggere la Montecatini e disordinatamente morto, nel 
                  1971, nella Milano tanto amata ed odiata, sembra riprodurre, 
                  nelle sue linee essenziali, quella di tanti militanti, continuamente 
                  sospesi fra le ragioni di un’etica nonostante tutto mai 
                  rinnegata e le chimere dell’integrazione e del disimpegno. 
                  Compagni non più estranei alla società, come prima 
                  li rendeva “estranei” il rifiuto all’integrazione, 
                  ma neppure partecipi e complici di un processo sociale che avrebbe 
                  voluto annullare, con il trionfo delle merci, l’eterno 
                  conflitto fra capitale e lavoro  
                  Figure che ancora brancolavano per trovare una ragione di vita 
                  che fosse la loro e non quella che gli si voleva imporre, e 
                  che soltanto con il ciclo di lotte che si aprì alla fine 
                  degli anni sessanta poterono ritrovare, rivivere e riaffermare 
                  quella tensione alla libertà che qualcuno avrebbe voluto 
                  far loro identificare con la Cinquecento comprata a rate.  
  
                  Massimo Ortalli 
                 
                  
                  La missione 
                     di Luciano Bianciardi 
                 
                L’aspiratore nuovo, i gas di accumulo, i fuochi alla 
                  discenderia 32 – come se i fuochi non ci fossero sempre, 
                  in un banco di lignite. Stavolta era stufo: meno storie, disse 
                  ai capisquadra, mandate cinque uomini della squadra antincendi 
                  a spegnere i fuochi, ma intanto sotto anche la prima gita. La 
                  mattina del giorno dopo, alle sette, la miniera esplose.  
                  Rimasi quattro giorni nella piana sotto Montemassi, dallo scoppio 
                  fino ai funerali, e li vidi tirare su quarantatré morti, 
                  tanti fagotti dentro una coperta militare. Li portavano all’autorimessa 
                  per ricomporli e incassarli, mentre il procuratore della repubblica 
                  accertava che fossero morti davvero, in caso di contestazione, 
                  poi, da parte della sede centrale. Alla sala del cinema, ora 
                  per ora, cresceva la fila delle bare sotto il palcoscenico, 
                  ciascuna con sopra l’elmetto di materia plastica, e in 
                  fondo le bandiere rosse. Venivano a vederli da tutte le parti 
                  d’Italia, giornalisti con la camicia a scacchi, il berrettino 
                  e la pipetta, critici d’arte, sindacalisti, monsignor 
                  vescovo, un paio di ministri che però furono buttati 
                  fuori in malo modo.  
                  Venne il povero Di Vittorio a raccomandare la calma e la moderazione. 
                  Non venne la celere e anche i carabinieri del servizio d’ordine 
                  si tennero accosto al cancello della direzione. Ai funerali 
                  ci saranno state cinquantamila persone, tutte in fila con le 
                  bandiere, le corone dei fiori, il vescovo con la mitra e il 
                  pastorale. E quando le bare furono sotto terra, alla spicciolata 
                  se ne andarono via tutti, col caldo e col polverone di tante 
                  macchine sugli sterrati.  
                  Io mi ritrovai solo sugli scalini dello spaccio, che aveva già 
                  chiuso, e mi sembrò impossibile che fosse finita, che 
                  non ci fosse più niente da fare.  
                  Nella bacheca al cancello stava scritto che alle famiglie delle 
                  vittime il ministero offriva contribuzioni straordinarie e immediate 
                  varianti dalle 60 alle 100 mila lire, oltre il normale trattamento 
                  previdenziale previsto dall’Inail. La direzione offriva 
                  assegni assistenziali di 500 mila lire e di un milione, secondo 
                  i relativi carichi familiari. A conti fatti ci scapitava una 
                  ventina di milioni. Ma in compenso poteva chiudere subito la 
                  miniera.  
                Ora appunto io venivo ogni giorno a guardare il torracchione 
                  di vetro e di cemento, chiedendomi a quale finestra, in quale 
                  stanza, in quale cassetto, potevano aver messo la pratica degli 
                  assegni assistenziali, dove la cartella personale di Femia, 
                  di Calabrò, di tutti e quarantatré i morti del 
                  quattro maggio. Chiedendomi dove in che cantone, in che angolo, 
                  inserire un tubo flessibile ma resistente per farci poi affluire 
                  il metano, tanto metano da saturare tutto il torracchione; metano 
                  miscelato con aria in proporzioni fra il sei e il sedici per 
                  cento. Tanto ce ne vuole perché diventi grisù, 
                  un miscuglio gassoso esplosivo se lo inneschi a contatto con 
                  qualsiasi sorgente di calore superiore ai seicento gradi centigradi. 
                   
                  La missione mia, di cui dicevo pocanzi, era questa: far saltare 
                  tutti e quattro i palazzi e, in ipotesi secondaria, occuparli, 
                  sbattere fuori le circa duemila persone che ci lavoravano, chine 
                  sul fatturato, sui disegni tecnici e sui testi delle umane relazioni, 
                  e poi tenerli a disposizione di altra gente. Veramente nessuno 
                  venne a dirmi che questa era la mia missione, che dovevo fare 
                  così e così, ma era pacifico; toccava a me. Del 
                  resto bastava come mi guardarono, gli altri, salutandomi prima 
                  della partenza. “Fai la persona seria, mi raccomando. 
                  Ora sei in prima linea, lo sai?” E non era un rimprovero 
                  – che fino a quel momento fossi stato persona poco seria. 
                  No, era come quando una pattuglia scola il gavettino di cognac 
                  ed esce a notte dal camminamento coi tubi della gelatina e le 
                  pinze tagliafili. Al caporale che sta in testa dicono “in 
                  gamba, non fare il fesso”, ma è un modo di dire. 
                  Che cos’altro, se no?  
                  
                 
                  “… un deviazionista, un opportunista” 
                   
                  di Luciano Bianciardi  
                La Viganò si divertiva a sentire i miei discorsi, ma 
                  quando poi capì che dicevo sul serio, che veramente pensavo 
                  a uno scoppio di grisù, e in linea subordinata a una 
                  occupazione forzosa dell’edificio, con grande pazienza 
                  si mise a spiegarmi che questo era un atteggiamento opportunistico. 
                   
                  “Come opportunistico? C’è da lasciarci la 
                  pelle.”  
                  “E che vuol dire la pelle? Opportunista è chiunque 
                  abbandona la linea del partito per sostituirvi il proprio tornaconto 
                  individuale.”  
                  “Tornaconto? Ma che cosa me ne viene in tasca, a me, da 
                  un’esplosione di grisù? Se salta per aria il torracchione 
                  io non ci guadagno proprio un bel niente, lo sai?”  
                  “Materialmente non ci guadagni nulla, lo so, ma se lo 
                  fai tu affermi una tua linea individuale, una tua ideologia 
                  personale, contro quella del partito, e sei un deviazionista, 
                  un opportunista.”  
                  “E allora cosa dobbiamo fare?”  
                  “Come, lo chiedi a me? Mi sembra chiaro: condurre insieme 
                  la lotta comune, giorno per giorno. Eh, se tutto si risolvesse 
                  con uno scoppio, sarebbe comodo. L’epoca degli anarchici 
                  è finita, tu lo sai meglio di me, storicamente superata. 
                  Del resto i colpi di mano isolati non hanno mai dato nessun 
                  frutto. Oggi la lotta è delle masse. In parlamento, sui 
                  luoghi di lavoro, ciascuno al suo posto.”  
                
                 
                  “… è un locale per 
                  bene…”  
                  di Luciano Bianciardi  
                L’uomo per terra aveva i capelli bianchi e adesso guardava 
                  me con un sorriso ebete.  
                  “Come va?” gli chiesi. “Vuoi una mano?” 
                   
                  Brontolò qualcosa in dialetto, di gola, si tirò 
                  su a sedere e mi tese la mano. Avevo capito che intendeva dirmi 
                  aiutami a rialzarmi in piedi, e infatti lo aiutai. Per un poco 
                  anzi lo sostenni sotto le ascelle, ma appena l’ebbi lasciato, 
                  e lui tentò di andarsene con le gambe sue, barcollò 
                  e cadde all’indietro.  
                  Ci rimase secco, e mi guardava ancora, ma senza più il 
                  sorriso ebete, anzi con occhi di vetro, e quando mi chinai a 
                  vedere meglio scorsi un filo di sangue che gli usciva dalla 
                  nuca e si spandeva nero sul selciato. Al bar lì accanto 
                  avevo già visto quattro uomini senza cravatta che giocavano 
                  a carte, e così andai là, a dire che c’era 
                  un ubriaco ferito, e che da solo non ce la facevo a rimetterlo 
                  in piedi, e che anzi provandoci m’era caduto battendo 
                  la testa. I quattro alzarono appena gli occhi, senza dire niente. 
                   
                  “Be’” fece poi uno, visto che io non me ne 
                  andavo.  
                  “C’è un ubriaco là per terra.” 
                   
                  “E allora?”  
                  “Datemi una mano a rialzarlo.”  
                  “Si rialzerà da sé.”  
                  “Non ce la fa. L’ho aiutato io, ma m’è 
                  ricaduto e perde sangue.”  
                  “E noi cosa ci entriamo? È successo a lei, no? 
                  Se la veda lei.” E riattaccarono a giocare a carte.  
                  “La croce rossa” mi disse allora una donna che stava 
                  lì vicino seduta davanti a un bicchiere. “Telefoni 
                  alla croce rossa.”  
                  Andai al banco e chiesi dov’era il telefono.  
                  “Non è a gettone” mi disse l’uomo. 
                   
                  “Mi faccia telefonare lo stesso.”  
                  “Non è a gettone” ripeté. “Là 
                  davanti, vada. Quello è a gettone.”  
                  Là davanti mi rivolsi alla cassiera: “C’è 
                  un ferito per strada, mi dia il numero della croce rossa, per 
                  favore ”.  
                  “Vuol telefonare da qui?”  
                  “Sì, non è un telefono pubblico?” 
                   
                  “Sì, ma mi raccomando, non faccia il nome del locale, 
                  questo è un locale per bene e non vogliamo storie con 
                  la croce rossa.”  
                  “Va bene, non faccio nomi. Mi dia il numero.”  
                  “Se lo cerchi sulla guida.” E mi indicò il 
                  mobiletto sotto il telefono. Cercai il numero, poi chiesi il 
                  gettone.  
                  “La moneta” fece la donna.  
                  “Cosa?”  
                  “Le venti lire.”  
                  Gliele diedi ed ebbi il gettone. La croce rossa prima risultò 
                  occupata, poi mi dissero che l’autoambulanza era fuori, 
                  ma che avrebbero provveduto subito: chiesero la strada, e io 
                  gliela indicai. Rimasi là fuori sul marciapiede, con 
                  le mani in tasca, e di fronte vedevo la figura del vecchio sempre 
                  stesa sul selciato. Qualche larva, rincasando, quasi ci inciampò. 
                  Venne una coppia, scartarono per non pestarlo, e tirarono diritto. 
                   
                  Io restavo lì, fermo, e non potevo farci nulla: non muovere 
                  l’ubriaco, perché aveva battuto il capo e io sapevo 
                  che può essere molto pericoloso. Non chiedere aiuto a 
                  qualcuno, perché tutti badavano ai fatti loro. Solo attendere 
                  che arrivasse l’ambulanza. Dopo un po’ decisi di 
                  tornare a casa, anche per raccontarlo ad Anna, ma lei era sempre 
                  rabbiosa contro di me, e se ne stava curva al tavolino, a far 
                  finta di leggere. Mi stesi sul letto senza spegnere la luce, 
                  e sentivo quanto era ostile, Anna, dietro l’armadio, perciò 
                  non le dissi nulla. Stavo così, zitto e teso, a occhi 
                  aperti. Passò un’ora prima della sirena dell’ambulanza. 
                  Il giorno dopo, in tram, cercai nella cronaca e ci lessi appunto 
                  che un ubriaco sessantacinquenne, non identificato sinora, era 
                  morto per frattura della base cranica, in seguito a una caduta 
                  da ritenersi accidentale.  
                  Del resto succedeva ogni giorno, mi spiegarono i colleghi in 
                  ufficio quando glielo raccontai: un malato d’infarto che 
                  muore sul marciapiede davanti all’ingresso dell’ospedale, 
                  senza poterci entrare perché non ha pronti i soldi del 
                  deposito o in regola le marchette della mutua; intere famiglie 
                  falciate da un camion con rimorchio, vecchiette stritolate dalle 
                  ruote del tram perché non hanno saputo salire a tempo, 
                  e sono rimaste con un piede impigliato nelle porte automatiche. 
                   
                  Ingenuo ero io a meravigliarmene. A New York, per esempio, altro 
                  che qui! Centinaia di morti ogni giorno in incidenti del genere. 
                  E anche a Londra. E a Calcutta migliaia di morti di fame, ogni 
                  giorno. Il mondo è fatto in questo modo, non l’avevo 
                  ancora capito?  
                
                
                Purché tutti lavorino  
                  di Luciano Bianciardi  
                I miracoli veri sono sempre stati questi. E invece ora sembra 
                  che tutti ci credano, a quest’altro miracolo balordo: 
                  quelli che lo dicono già compiuto e anche gli altri, 
                  quelli che affermano non è vero, ma lasciate fare a noi 
                  e il miracolo ve lo montiamo sul serio, noi.  
                  È aumentata la produzione lorda e netta, il reddito nazionale 
                  cumulativo e pro capite, l’occupazione assoluta e relativa, 
                  il numero delle auto in circolazione e degli elettrodomestici 
                  in funzione, la tariffa delle ragazze squillo, la paga oraria, 
                  il biglietto del tram e il totale dei circolanti su detto mezzo, 
                  il consumo del pollame, il tasso di sconto, l’età 
                  media, la statura media, la valetudinarietà media, la 
                  produttività media e la media oraria al giro d’Italia. 
                   
                  Tutto quello che c’è di medio è aumentato, 
                  dicono contenti. E quelli che lo negano propongono però 
                  anche loro di fare aumentare, e non a chiacchiere, le medie; 
                  il prelievo fiscale medio, la scuola media e i ceti medi. Faranno 
                  insorgere bisogni mai sentiti prima. Chi non ha l’automobile 
                  l’avrà, e poi ne daremo due per famiglia, e poi 
                  una a testa, daremo anche un televisore a ciascuno, due televisori, 
                  due frigoriferi, due lavatrici automatiche, tre apparecchi radio, 
                  il rasoio elettrico, la bilancina da bagno, l’asciugacapelli, 
                  il bidet e l’acqua calda.  
                  A tutti. Purché tutti lavorino, purché siano pronti 
                  a scarpinare, a fare polvere, a pestarsi i piedi, a tafanarsi 
                  l’un con l’altro dalla mattina alla sera.  
                  Io mi oppongo.  
                  Quassù io ero venuto non per far crescere le medie e 
                  i bisogni, ma per distruggere il torracchione di vetro e cemento, 
                  con tutte le umane relazioni che ci stanno dentro. Mi ci aveva 
                  mandato Tacconi Otello, oggi stradino per conto della provincia, 
                  con una missione ben precisa, tanto precisa che non occorse 
                  nemmeno dirmela.  
                  E se ora ritorno al mio paese, e ci incontro Tacconi Otello, 
                  che cosa gli dico? Sono certo che nemmeno stavolta lui dirà 
                  niente, ma quel che gli leggerò negli occhi lo so fin 
                  da ora. E io che cosa posso rispondergli? Posso dirgli, guarda, 
                  Tacconi, lassù mi hanno ridotto che a fatica mi difendo, 
                  lassù se caschi per terra nessuno ti raccatta, e la forza 
                  che ho mi basta appena per non farmi mangiare dalle formiche, 
                  e se riesco a campare, credi pure che la vita è agra, 
                  lassù.  
                  Almeno avessi trovato gente come te. Ma la gente come te non 
                  me la fanno vedere, non gli danno il modo di dormire a sazietà, 
                  la tengono distante, staccata, la fanno venire tutte le mattine 
                  presto col treno, e io ho appena fatto in tempo a intravederli, 
                  senza capirci nulla, senza nemmeno potergli dire una parola. 
                   
                  Lo so, potrei andare in sezione, dici tu, ma qui dove mi hanno 
                  chiuso, ai piani alti di via Meneghino 2, come si fa? Non lo 
                  sa nessuno dov’è la sezione, se lo domandi per 
                  strada ti guardano come se tu fossi matto. E se anche la trovassi, 
                  che cosa credi che dicano, là dentro? Parlano del ventiduesimo, 
                  lo sai anche tu. Del torracchione intatto non parlano, e se 
                  mi ci azzardo dicono che è una notizia superata, stravecchia, 
                  che ci vorrebbe un altro scoppio per ritirarla fuori e sfruttarla 
                  politicamente, denunciare all’opinione pubblica e portare 
                  avanti un’azione di massa.  
                  Dicevano così, te lo ricordi? E se poi fosse soltanto 
                  una questione politica, io saprei il da fare. Se si trattasse 
                  soltanto di aprire un vuoto politico, dirigenziale, in Italia, 
                  con pochi mezzi ci riuscirei. Il progetto l’ho già 
                  esposto altrove, ed è semplice. Mi basta da un massimo 
                  di duecento a un minimo di cinque specialisti preparati e volenterosi, 
                  e un mese di tempo, poi in Italia ci sarebbe il vuoto. E nemmeno 
                  con troppe perdite: diciamo una trentina, e nessuno dei nostri. 
                  Con trenta omicidi ben pianificati io ti prometto che farei 
                  il vuoto, in Italia.  
                  Ma il guaio è dopo, perché in quel vuoto si ficcherebbero 
                  automaticamente altri specialisti della dirigenza. Non puoi 
                  scacciarli perché questo è il loro mestiere, e 
                  si sono specializzati sugli stessi libri di quelli che dirigono 
                  adesso, ragionano con lo stesso cervello di quelli di ora, e 
                  farebbero le stesse cose. Lo so, sarebbero più onesti, 
                  dici tu, più seri, ma per ciò appunto più 
                  pericolosi. Farebbero crescere le medie, sul serio, la produttività, 
                  i bisogni mai visti prima. E la gente continuerebbe a scarpinare, 
                  a tafanarsi, più di prima, a dannarsi l’anima. 
                   
                  No, Tacconi, ora so che non basta sganasciare la dirigenza politico-economico-social-divertentistica 
                  italiana. La rivoluzione deve cominciare da ben più lontano, 
                  deve cominciare in interiore homine.  
                 Brani tratti da: Luciano Bianciardi, La vita agra, 
                  Rizzoli, Milano, 1964.  
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