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                 La lunga marcia di Jean Ferrat 
                 Jean Ferrat è uno dei grandi autori della canzone francofona 
                  del secondo ’900. Su questo non ci piove.  
                  Una gavetta durissima portò il giovane proletario francese, 
                  che aveva sulle spalle la tragedia personale di un padre deportato 
                  e assassinato ad Auschwitz, ad essere conosciuto e poi a trionfare 
                  nei teatri e nelle Hit Parades del suo paese. I cabaret più 
                  infimi accolsero le sue prime, timidissime esibizioni, le feste 
                  politiche e i teatri sancirono la permanenza della sua voce 
                  originale. E meno male per lui!  
                  Anche perché proprio per l’abitudine a cantare 
                  temi forti Ferrat è stato uno dei “clienti abituali” 
                  della censura francese.  
                Notte 
                  e nebbia  
                  Erano venti e cento, erano mille  
                  Nudi e magri e tremanti nei vagoni di piombo  
                  Che ferivano la notte con le unghie battenti  
                  Erano venti e cento, erano mille(…)  
                  I tedeschi sorvegliavano dalle torri di guardia  
                  La luna taceva, come tacevate voi  
                  Un accenno a uno sguardo gettato fuori  
                  E la vostra carne era tenera per i cani poliziotto  
                  Mi dicono adesso che queste parole non sono più di moda, 
                   
                  Che vale la pena di cantare solo l’amore,  
                  Che il sangue secca presto nei libri di storia  
                  E che non serve a nulla prendere la chitarra.  
                  Ma chi avrà il coraggio di fermarmi?  
                  L’ombra s’è fatta umana, oggi è estate, 
                   
                  Twisterei le parole se occorresse twistarle  
                  Perché un giorno i bambini sappiano chi eravate.(…) 
                    
                A dispetto dunque dell’aperta antipatia e talvolta del 
                  ferreo ostracismo di radio e televisioni, molte sue canzoni 
                  sono entrate in quella meravigliosa fase di dominio popolare 
                  che fa si che la gente fischietti per strada La montagne 
                  dimenticando financo il nome dell’autore. Ci si perde 
                  in gloria, ci si guadagna in eternità, diceva un poeta. 
                   
                  Ferrat è peraltro un uomo schivo, un antidivo nato. Fermissimo 
                  nella sua convinzione di essere un solido artigiano musicale, 
                  più che un semidio onnisciente, ha limitato la composizione 
                  dei suoi propri testi solo a quelli che giudicava meglio riusciti 
                  (e ce ne sono non pochi) o più urgenti, “limitandosi” 
                  invece spesso a mettere in musica alcuni parolieri di fiducia 
                  (da Coulonges e Gougaud fino ad Allain Leprest, di cui già 
                  s’è parlato in questa rubrica) o intraprendendo 
                  con la voce poetica di Luis Aragon, un dialogo durato trentacinque 
                  anni (dal ’61), e culminato in quella che a tutt’oggi 
                  rimane la sua produzione più recente: il disco di inediti 
                  del ’95 che presenta 16 versioni cantate di altrettante 
                  poesie del grande Luis. Si aggiunga che, pur nel rispetto totale 
                  del pubblico, il buon Jean non ha mai nascosto di detestare 
                  il necessario esibizionismo del mestiere. Così dal ’74, 
                  anno di una tournée trionfale culminata nelle tre settimane 
                  di tutto esaurito al Palais des sports, Ferrat ha rinunciato 
                  a dare concerti, preferendo dedicare le sue energie alla composizione 
                  e all’incisione di dischi.  
                  Ferrat è un figlio prediletto della tradizione popolare 
                  e “realiste”, un melodista incantato e un interprete 
                  in possesso di una meravigliosa voce di baritono, sonora, intonata, 
                  ricca di armonici, una delle più piacevoli e tranquillizzanti 
                  che abbiano frequentato i microsolchi dei vecchi vinili. La 
                  sua umanità e una simpatia molto “gauloise” 
                  lo mettono al riparo dal rischio di passare per un “crooner” 
                  fuori tempo massimo, per un sussurratore stantio.  
                  In possesso di tali mezzi avrebbe potuto facilmente dare l’assalto 
                  a una carriera di tutto riposo, invece il nostro, morso dal 
                  serpe dell’impegno sin dai primi anni ha voluto disseminare 
                  i suoi dischi di canzoni antimilitariste, anticoloniali, di 
                  celebrazioni emozionate di momenti della storia del movimento 
                  operaio.  
                Mi ascoltereste ancora 
                  se vi parlassi di un mondo  
                  Che mi canta sul fondo con rumore d’oceano  
                  Mi ascoltereste ancora se la rivolta fluisse  
                  In questo nome che lascio andare ai quattro venti  
                  La mia memoria canta in sordina  
                  Potëmkin (…)  
                Nel bene e nel male Ferrat si è però, dai primi 
                  anni della sua carriera, assunto un impegno che in qualche modo 
                  ha pesato anche sulla qualità estetica e, soprattutto, 
                  sull’indipendenza etica delle sue canzoni: Ferrat è 
                  stato un cantore ortodossamente legato al partito comunista 
                  francese, la voce dei festival dell’“Humanité”; 
                  talvolta, purtroppo, anche stigmatizzando il movimento studentesco 
                  che criticava da sinistra il PCF. In una canzone del 1967 si 
                  può in effetti sentire:  
                (…) Figli di 
                  borghesi ordinari, figli di dio sa chi  
                  Mettete i piedi sulla terra e avete già tutto  
                  Soprattutto il diritto di star zitti per parlare in nome  
                  Della gioventù operaia, poveri piccoli stronzi.  
                  Quando il tempo della vostra rabbia quando le vostre contorsioni 
                   
                  Non saranno più che una vecchia effimera illusione (…) 
                   
                  Voi voterete come i vostri padri, poveri piccoli stronzi.  
                  Non partirò in guerra contro i vostri mulini  
                  Ma alla prossima guerra, la cosa è certa  
                  Chi si farà manganellare per le vostre opinioni  
                  Saremo ancora noi, parola mia, poveri piccoli stronzi.  
                A partire proprio dal ’68 però Ferrat cominciò 
                  una lunga marcia, solitaria, coraggiosa e in anticipo sul suo 
                  stesso partito. Una marcia verso la dignità e la libertà 
                  di pensiero, verso un individualismo che senza nulla negare 
                  e rinnegare, si poneva in maniera critica rispetto all’ortodossia 
                  d’un tempo.  
                  I primi timidi echi di questa maturazione critica si intravidero 
                  nella canzone Camarade dove, riferendosi alla repressione 
                  della primavera di Praga, diceva:  
                Che siete venuti 
                  a fare compagni? Che siete venuti a fare qui?  
                  Fu alle cinque a Praga che il cielo d’agosto si oscurò 
                    
                Certo, ancora ben poco, ma il segno di un’inquietudine, 
                  di un dubbio penetrato nell’ordinata fortezza di una fede. 
                   
                  Il brano che però sancisce la ritrovata coscienza critica 
                  di Ferrat viene pubblicato, in uno dei suoi più bei dischi, 
                  nel 1980, ed è l’emozionata risposta ai vaneggiamenti 
                  che, di fronte alle sempre più dilaganti rivelazioni 
                  della tragedia del popolo Russo vuole assurdamente opporre una 
                  specie di bilancio generale positivo dell’esperienza sovietica, 
                  quasi la vita dei popoli fosse questione di contabilità. 
                 
                Il bilancio 
                   
                  Ah, quanti rospi ci hanno fatto ingoiare  
                  Da Praga a Budapest, da Sofia a Mosca  
                  Zelanti stalinisti, impegnati ad adoperarsi  
                  Per ottenere con ogni mezzo deliranti confessioni  
                  Voi che combatteste ovunque la bestia immonda  
                  Dalle brigate di Spagna alla lotta partigiana  
                  Voi che donaste la giovinezza alla storia del mondo  
                  Voi: Kostov o London o Slansky  
                  In nome dell’ideale che ci faceva battere  
                  E che ci spinge ancora a batterci oggi  
                Ah ci hanno fatto 
                  applaudire le ingiurie  
                  I complotti sgominati, le delazioni  
                  Traditori smascherati, processi senza difese  
                  Gulag meritati, giuste impiccagioni  
                  Ah, la follia di credere ai deviazionisti  
                  Agli scienziati degenerati, agli scrittori spie  
                  Ai sionisti borghesi, ai titoisti rinnegati  
                  Ai calunniatori della rivoluzione  
                  In nome dell’ideale che ci faceva battere  
                  E che ci spinge ancora a batterci oggi  
                Ah, ci hanno fatto 
                  approvare massacri  
                  Che qualcuno continua a chiamare errori  
                  L’errore è umano, due più due fa quattro 
                   
                  E così si cancellano anni di terrore  
                  Questo socialismo era una caricatura  
                  Se i tempi sono cambiati, restano le ombre  
                  Conservo nel cuore una ferita aperta  
                  Conservo in bocca la sete di verità  
                  In nome dell’ideale che ci faceva battere  
                  E che ci spinge ancora a batterci oggi  
                E se sento parlare 
                  di “bilancio positivo”  
                  Mi chiedo sempre “a quale prezzo?”  
                  E ai milioni di morti che formano il passivo  
                  Perché non provate a chiedere a loro?  
                  Non chiedetemi l’anima del contabile  
                  Per cantare oggi le tragedie del secolo  
                  (…)  
                  Bisogna reinventarsi un altro avvenire  
                  Senz’idoli o modelli, passo a passo umilmente  
                  Senza verità tracciate, senza slogan predeterminati  
                  Una felicità inventata definitivamente  
                  Un avvenire che non nasca solo dalla sofferenza  
                  Ma dai nostri occhi spalancati sulla realtà  
                  Un avvenire garantito dalla nostra vigilanza  
                  Contro tutti i poteri della terra e del cielo  
                  In nome dell’ideale che ci faceva battere  
                  E che ci spinge ancora a batterci oggi.  
                Da allora, senza nessun pietismo e autocommiserazione, senza 
                  tentazioni verso la disgustosa pratica – piuttosto di 
                  moda fra gli “ex” nostrani – dell’autodafé 
                  pubblico, proprio perché frutto di maturazione e non 
                  di svendita o di capitolazione, la lunga marcia di Jean Ferrat 
                  continua, incontro alla verità e alla giustizia. Con 
                  più dubbi di un tempo, forse, ma senza per questo disarmare 
                  la voce contro le grandi storture della civiltà capitalista. 
                 
                  Alessio 
                  Lega 
                  alessio.lega@fastwebnet.it 
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