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                      Tra 
                        le carte di Ugo Fedeli che la moglie Clelia ha lasciato 
                        all’Archivio Pinelli di Milano c’è 
                        anche un consistente dattiloscritto che descrive l’azione 
                        anarchica durante il ventennio fascista.  
                        Questo dattiloscritto non ci risulta esser stato pubblicato 
                        in forma di libro, come suggerirebbe la divisione in capitoli, 
                        anche se non è escluso che una parte di queste 
                        ricerche Fedeli le abbia pubblicate su vari periodici 
                        sotto forma di articoli.  
                        Qui di seguito pubblichiamo alcuni brani tratti da vari 
                        capitoli che ci danno uno spaccato delle attività 
                        anarchiche del periodo: in primo luogo la vita al confino, 
                        che coinvolge centinaia di militanti; poi l’emigrazione 
                        forzata, che ne coinvolge invece migliaia.  | 
                     
                   
                 
                  
                  
                Ugo 
                  Fedeli 
                   
                  Le mense degli anarchici 
                   
                (...). È nel 1928, dopo la fuga dall’isola di 
                  Lipari di Carlo Rosselli, Emiliano Lussu e F. F. Nitti, che 
                  sciolte per i confinati politici le colonie poste in alcune 
                  isole poco sorvegliabili, soprattutto quella di Lipari, vennero 
                  attivate e potenziate quelle della isole di Ponza e di Ventotene. 
                  I primi centocinquanta confinati che sbarcarono a Ponza dal 
                  piroscafo Garibaldi, provenienti da Lipari, portavano, con i 
                  loro indumenti, anche le strutture della loro organizzazione 
                  interna e, parlando sempre ed in modo particolare degli anarchici, 
                  vi portavano le loro mense, la loro biblioteca abbastanza importante 
                  e la loro cooperativa. «A Ponza» scrive Massimo 
                  Salvadori nel suo libro Resistenza ed Azione, «gli 
                  anarchici numericamente erano il secondo gruppo tra i confinati. 
                  Non avevano niente del tipo classico dei lanciatori di bombe. 
                  Quasi tutti operai, erano sempre disposti ad aiutare chiunque 
                  ne avesse bisogno, erano animati da un profondo rispetto per 
                  coloro che non la pensavano come loro, eccettuati i comunisti 
                  ortodossi ai quali non perdonavano di aver distrutto nel 1918 
                  il tentativo che tutti gli anarchici speravano allora venisse 
                  compiuto di trasformare l’intera nazione russa in una 
                  libera federazione di libere comunità di contadini ed 
                  operai.  
                  Venivano da tutte le parti d’Italia: dalla Sicilia come 
                  da Milano, da Roma come da Livorno. Alcuni si dicevano individualisti; 
                  la maggior parte leggeva Kropotkin e si diceva collettivista». 
                  (...).  
                  Quelli che erano stati precedentemente al confino avevano messo 
                  su una piccola biblioteca di alcune centinaia di volumi. I confinati 
                  ricevevano dal governo cinque lire al giorno; alcuni mangiavano 
                  per conto loro; altri si erano organizzati in mense, a seconda 
                  delle loro tendenze politiche.  
                  Si facevano due pasti al giorno, ognuno di un piatto solo, ma 
                  era sufficiente. Nel casermone vi era un locale adibito a spaccio 
                  cooperativo, in un altro un gruppo di anarchici aveva messo 
                  su un caffè i cui proventi andavano alla biblioteca. 
                   
                  Nel 1934, quando i primi confinati vi avevano già scontata 
                  la loro pena e alcuni vennero rilasciati, il confino si andò 
                  popolando anche di molti giovani, qualcuno cresciuto sotto il 
                  fascismo, altri deportati dall’estero; molti di questi 
                  non erano ancora trentenni e non facevano parte della prima 
                  variopinta opposizione. Innanzi tutto i popolari erano spariti: 
                  la chiesa benediva largamente i gagliardetti fascisti e i cannoni; 
                  non vi era che qualche rarissimo liberale e repubblicano – 
                  ma questo soprattutto perché facevano parte del movimento 
                  Giustizia e Libertà – e qualche raro socialista. 
                  In generale erano giovani comunisti e giovani anarchici e questi 
                  apportavano, oltre che il loro ardore, anche nuove caratteristiche, 
                  soprattutto nessun strascico delle vecchie polemiche interne 
                  che avevano devastato ogni partito e tendenza.  
                  Gli anarchici, anche se molti mangiavano isolati o in piccole 
                  mense, erano riuniti in due grandi mense. Una era chiamata del 
                  «convento nero», composta in maggioranza da vecchi 
                  militanti, soprattutto romani, che provenivano da altre isole 
                  ed avevano quasi tutti al loro attivo il raddoppio della condanna 
                  perché, finiti i primi cinque anni, non essendosi ravveduti 
                  ne avevano ricevuto altri cinque. Vi era poi la mensa degli 
                  «acquatici», definita così perché 
                  in mensa non si distribuiva vino e la maggioranza non ne beveva. 
                  Questa era composta da qualche militante livornese, anche se 
                  il nucleo centrale era formato da giovani anarchici deportati 
                  dall’Argentina e dall’Uruguay, quali Grossuti, Barca, 
                  De Marco, Barbetti, Bidoli (che era stato invece deportato dalla 
                  Spagna), e da un altro gruppo di giovani molto capaci e sinceri. 
                  Anche se non vi erano molti intellettuali fra di loro, il tono 
                  delle discussioni e il loro comportamento, in generale, era 
                  sempre elevato. A questa mensa aveva aderito anche Paolo Schicchi 
                  quando dal carcere venne inviato al confino.(...).  
                  
                Alfonso Failla 
                   
                  Qualche agitazione tra i 
                  confinati  
                (...). Benché i cameroni fossero guardati internamente 
                  ed esternamente, giorno e notte, da pattuglie di polizia e dalla 
                  milizia fascista, venne impartito l’ordine di tenere le 
                  porte dei cameroni aperte e le luci accese, proibendo ad uno 
                  di un camerone di frequentarne un altro. Con questo si voleva 
                  soprattutto levare la possibilità di studiare. Era con 
                  gioia veramente sadica che quegli analfabeti volevano strappare 
                  ai confinati anche quell’ultimo rifugio che era lo studio, 
                  nel quale ognuno cercava di affinare le proprie conoscenze, 
                  ma anche di dimenticare la dura vita di disciplina e di soprusi. 
                  Se si ricevevano libri da parte di privati, venivano sequestrati. 
                  Se se ne volevano comprare, bisognava spiegare alla direzione 
                  o all’ufficio censura il perché; ed a volte un 
                  libro veniva autorizzato o rifiutato a seconda che il richiedente 
                  fosse un operaio o un contadino o un intellettuale.  
                  Per gli studi non si potevano tenere note. Per poter scrivere 
                  era indispensabile avere un quaderno le cui pagine erano contate, 
                  numerate e controllate una ad una dalla polizia, pagine che 
                  per nessuna ragione potevano essere strappate.  
                  La direzione faceva di tutto per far piombare nell’istupidimento 
                  o nella violenza il confinato, per disgregare gli aggruppamenti 
                  che nonostante tutte le restrizioni si era riusciti a creare, 
                  lottando per conservarli. Con queste sue misure la direzione 
                  pensava di poter arrivare con maggiore facilità a realizzare 
                  il tentativo di spezzare la resistenza di ognuno e di spingere 
                  i meno resistenti a cedere, ad abbandonare ogni velleità 
                  d’indipendenza di pensiero e di vita.  
                  Chiunque intendesse difendere il proprio diritto alla vita ed 
                  alla dignità d’uomo, era costretto ad una continua, 
                  anche se sorda, lotta contro la direzione. La lotta era certamente 
                  impari e le varie agitazioni che si ebbero al confino e che 
                  assunsero un fermo carattere di resistenza, non riuscirono che 
                  a dimostrare come fosse difficile far valere un diritto o impedire 
                  un sopruso. In favore dei confinati, oltre alla propria dignità 
                  e volontà, non vi era nulla. La stessa legalità 
                  fascista non valeva nei loro confronti: il confinato era un 
                  nemico che andava spezzato, abbattuto, e tutto era valido e 
                  buono per arrivare a questo risultato. «Voi non siete 
                  qui per fare della villeggiatura né per vivere tranquilli» 
                  ebbe a dire il direttore Di Meo a qualche confinato che si era 
                  recato da lui per protestare contro un sopruso più grande 
                  dei soliti, «siete qui per punizione e ci devono essere 
                  delle punizioni». E concludeva ogni sua concione, da piccolo 
                  dittatore: «Del resto qui comando io e faccio quel che 
                  voglio». Da una mentalità del genere si possono 
                  facilmente dedurre i metodi che ne scaturivano.  
                  Anche i confinati però erano duri. Vi era dignità 
                  e fermezza, e contro la fermezza dei confinati, ministero e 
                  direzione batterono dei colpi feroci che costarono lunghi mesi 
                  di carcere, così a Ponza nel 1933 e nel 1935, così 
                  a Tremiti, quando ad esempio si tentò di imporre il saluto 
                  romano obbligatorio e i confinati, in gran parte anarchici, 
                  preferirono andare in prigione per un anno piuttosto che cedere. 
                  Fra i partecipanti a questa agitazione ricordiamo, fra i numerosi 
                  nomi, quelli di Alfonso Failla e Santiago Barca.  
                  I fatti di Tremiti avvennero in seguito ad un tentativo da parte 
                  delle autorità di spezzare l’omogeneità 
                  e la resistenza dei confinati. Essa pensò di separare 
                  una parte di confinati di Ponza mandandoli all’isola di 
                  Tremiti, dove si era trasformato quell’arido scoglio in 
                  una nuova colonia di confinati politici, e vi avviò un 
                  centinaio di confinati, fra i più giovani che si trovavano 
                  a Ponza. Appena giunto questo contingente, il direttore della 
                  colonia di Tremiti emise un’ordinanza che imponeva ai 
                  confinati di salutare romanamente i «superiori» 
                  quando li si incontrava, di salutare romanamente quando si entrava 
                  in direzione, quando si rispondeva all’appello e in tutte 
                  le occasioni che comportavano un rapporto fra confinato e autorità. 
                  L’ordinanza creò subito uno stato di agitazione 
                  e la risposta dei confinati fu la sola possibile: il rifiuto. 
                  Avvennero nuovi arresti e nuove condanne e quasi tutto il gruppo 
                  partito da Ponza andò a finire nelle carceri di Lucera. 
                  Gli arrestati all’isola di Tremiti per il rifiuto di salutare 
                  romanamente – fra i protestanti numerosissimi erano gli 
                  anarchici già recidivi al rifiuto – furono più 
                  di cento. Affrontarono la punizione e fecero un anno di carcere 
                  tenendo sempre duro, e il saluto fascista non venne più 
                  richiesto.  
                  La triste processione di confinati protestatari che da Tremiti 
                  sbarcavano a Manfredonia per raggiungere in carrozzella, in 
                  littorina o a piedi, le carceri di Foggia, Lucera e San Severo 
                  colpiva la popolazione e destava se non altro curiosità 
                  richiamando l’attenzione pubblica sui confinati. Furono 
                  le autorità a cedere. Il governò comunicò 
                  che sarebbero rimasti all’isola di Tremiti quanti avessero 
                  accettato di alzare il braccio. Gli altri, dopo aver scontata 
                  per la seconda volta la loro condanna in carcere, sarebbero 
                  stati trasferiti a Ponza. […]  
                  Un’altra agitazione molto caratteristica che i confinati 
                  dovettero sostenere all’isola di Ponza nel 1932 è 
                  quella che culminò nello sciopero della corrispondenza. 
                  I confinati dovevano consegnare tutte le lettere senza chiuderle 
                  e quelle in arrivo erano loro consegnate del pari aperte. Gli 
                  addetti alla censura erano semplici poliziotti che nei casi 
                  speciali e dubbi sottoponevano il caso o la corrispondenza al 
                  vicedirettore della colonia; ma erano tipi piuttosto ignoranti 
                  e grossolani i quali si facevano un merito a raccontare in paese 
                  tutti gli interessi dei confinati e le loro cose più 
                  intime.  
                  In proposito avvennero casi di evidente intromissione in fatti 
                  personali che, in altri momenti, avrebbero portato a seri provvedimenti 
                  contro i responsabili. Anche i pacchi in arrivo erano esaminati 
                  con cura e molti sequestrati.  
                   
                  Lo sciopero della corrispondenza 
                   
                Ricordo un piccolo episodio personale che riguarda mio figlio, 
                  il quale allora aveva forse quattro anni. Un’amica di 
                  famiglia, la governante della famiglia Bauer, arrestata più 
                  volte anche lei per attività antifasciste, aveva inviato 
                  a mio figlio un pacchetto contenente due giocattoli e un dolce. 
                  Il pacco venne aperto, come di norma, in mia presenza, ma il 
                  contenuto venne subito sequestrato perché l’indirizzo 
                  dello speditore non era quello della mia famiglia. «Ecco» 
                  disse l’agente della censura, «questi saranno un 
                  bel regalo per i nostri balilla». Mio figlio, per ragioni 
                  che tutti capiranno, non poté mai avere un giocattolo. 
                   
                  Oltre a tutte queste difficoltà la direzione, per ordine 
                  del ministero, emise una disposizione che proibiva ai confinati 
                  di scrivere se non agli strettissimi parenti. Si cercò 
                  di ottenere un addolcimento di quelle norme restrittive, ma 
                  non si approdò a nulla.  
                  Si pensò allora di protestare in maniera radicale: non 
                  scrivere più a nessuno. Così ebbe inizio lo sciopero 
                  della corrispondenza. Decidere di non scrivere più significava 
                  non rispondere, per nessuna ragione, né alle lettere 
                  né ai telegrammi che le famiglie allarmate dal lungo 
                  ed inaspettato silenzio inviavano. Non ottenendo nessuna risposta 
                  né a lettere né a telegrammi, molte famiglie incominciarono 
                  a chiedere notizie, oltre che alla direzione della colonia anche 
                  al ministero degli interni: era quello che si voleva. La direzione 
                  cercò di fare pressione e chiamava all’ufficio 
                  censura gli interessati per incitarli a rispondere almeno alle 
                  lettere urgenti e ai telegrammi.  
                  Tutti si rifiutarono, cosicché in breve tempo da parte 
                  dei familiari si elevò un vero coro di proteste da ogni 
                  parte d’Italia. Per assicurarsi che nessuno scrivesse, 
                  venne stabilito da parte di tutti i confinati, turni di guardia 
                  per vigilare la cassetta della posta che si trovava all’ingresso 
                  dei cameroni. Veniva fatto un turno di guardia di un’ora 
                  a testa per non destare sospetti, appostati in un angolo o nell’altro, 
                  da dove si poteva tenere d’occhio chi si appressava alla 
                  cassetta. Nessuno scriveva, ad eccezione fatta dei “manciuriani”, 
                  nonostante che la direzione, venuta a conoscenza che si faceva 
                  la guardia alla cassetta della posta, avesse fatto installare 
                  una cassetta supplementare in un angolo dei suoi uffici, fuori 
                  dalla possibilità di sorveglianza dei confinati. Questa 
                  volta (ma poi venne ristretta ai soli strettissimi parenti) 
                  il ministero dovette cedere. Dopo un mese di sciopero il direttore 
                  comunicò che il ministero, aderendo alle nostre richieste, 
                  aveva stabilito che si potesse corrispondere con chi si voleva 
                  a condizione però di presentare una lista delle persone 
                  con le quali si volevano mantenere relazioni epistolari. Così, 
                  aggirando l’ostacolo, il ministero dette ordine alla polizia 
                  di fare un’inchiesta sulle persone che avevano relazioni 
                  con i confinati, di chiamarle in questura e dimostrare loro 
                  che, a scanso di possibili disturbi, era meglio che cessassero 
                  ogni relazione con i confinati. Ed ogni volta che uno di questi 
                  corrispondenti, pur di avere un momento di pace, sottoscriveva 
                  la dichiarazione impostagli dalla questura, il confinato veniva 
                  chiamato all’ufficio censura dove gli si comunicava con 
                  grande soddisfazione che questo o quel parente od amico si rifiutava 
                  di continuare a corrispondere, quindi di non scrivere più 
                  a quell’indirizzo.  
                  
                  Ponza 1934 e 1935 
                   
                Una delle ultime agitazioni, certamente una delle più 
                  importanti ed estese sostenute dai confinati politici relegati 
                  all’isola di Ponza, è quella avvenuta nel 1934, 
                  che ebbe una ripresa, forse più dura, nel 1935.  
                  Essa era diretta contro un’ennesima ordinanza della direzione 
                  e del ministero che fra l’altro proibiva ai confinati 
                  di avere camerette in paese, imponendo a chi le aveva di lasciarle 
                  nel termine di dieci giorni; proibiva inoltre ai confinati di 
                  entrare nelle abitazioni dei privati e dei confinati che avevano 
                  casa e assegnava alla direzione la gestione delle mense. Era 
                  indubbiamente un colpo grosso, forse quello che in una sola 
                  volta tentava di stroncare ogni possibilità ai confinati 
                  non solo di studiare, ma anche di pulirsi e soprattutto conservare 
                  una certa sensazione di possedere ancora una vita propria. Soprattutto, 
                  questa ordinanza obbligava i confinati a passare le loro giornate 
                  a bighellonare nelle strade, quasi senza parlarsi perché 
                  non potevano riunirsi in gruppi superiori a tre. L’agitazione 
                  si svolse come al solito e sull’inizio nessuno pensava 
                  al peggio che stava per venire. «Il giorno in cui doveva 
                  andare in vigore l’ordinanza ci riunimmo in un camerone» 
                  scrive Mario Magri nel suo libro di ricordi, «per decidere 
                  il da farsi. Tolti i soliti “manciuriani”, tutti 
                  i confinati erano d’accordo che non si poteva accettare 
                  supinamente una tale nuova vessazione; decidemmo quindi di inviare 
                  una commissione dal direttore e di non uscire dal camerone per 
                  essere pronti a tutte le eventualità.  
                  Il comando della milizia fece bloccare il bagno penale e le 
                  camerette; pattuglie armate si misero a perlustrare i corridoi 
                  per cercare di intimidirci e di provocarci. Noi restammo tutti 
                  ai nostri posti senza rispondere alle loro minacce ed ai loro 
                  insulti avendo ben compreso che cercavano di suscitare in ogni 
                  modo un incidente per poter infierire su di noi». Dai 
                  confinati fu nominata una commissione che andasse a trattare 
                  colla direzione. Nei locali direzionali si erano riuniti anche 
                  tutti gli ufficiali della milizia, i marescialli delle guardie 
                  di PS e dei carabinieri; i locali erano completamente bloccati 
                  da un folto gruppo di agenti e di militi fascisti.  
                  Dalle discussioni risultò subito che le cose avrebbero 
                  potuto trovare una soluzione accettabile. Ma le discussioni 
                  andarono per le lunghe, forse più di due ore, e i confinati, 
                  ammassati nei cameroni, iniziarono ad innervosirsi e cominciò 
                  a circolare la voce che la protesta, per riuscire, doveva prendere 
                  forme più decise e che il meglio era di consegnare le 
                  carte di permanenza e farsi arrestare. Così avvenne in 
                  parte.  
                  L’atto fu compiuto solo da un centinaio di confinati, 
                  gli altri, la maggioranza voleva riservare quest’arma, 
                  l’ultima, nel caso che la direzione non cedesse. Al ritorno, 
                  la commissione andata a parlamentare con la direzione affermava 
                  di aver ottenuto dal direttore l’impegno che avrebbe ritirato 
                  l’ordinanza a condizione che l’agitazione cessasse 
                  immediatamente. Vi fu un momento di perplessità, poi 
                  molti degli stessi che avevano consegnato la carta di permanenza 
                  si accorsero di aver almeno precipitato le cose, se non proprio 
                  di avere fatto un passo falso. Una nuova commissione venne mandata 
                  in direzione per vedere di accomodare le cose. Dopo animato 
                  discorrere, il direttore disse che i dimostranti potevano presentarsi 
                  in ufficio, riprendere i libretti e che tutto sarebbe finito. 
                  La cosa non piacque a tutti e molti fra quelli che avevano consegnato 
                  il libretto affermarono che non l’avrebbero ritirato ma 
                  «che doveva essere la direzione a rimandarglielo». 
                  Fu nominata una nuova commissione questa volta composta solo 
                  da due confinati fra quelli che avevano consegnato il libretto 
                  e mandata dal direttore. Mentre però si svolgevano ancora 
                  tutte queste trattative, arrivava un telegramma dal ministero, 
                  avvisato dal comando della milizia, che ordinava l’arresto 
                  di tutti quelli che avevano preso parte alla protesta consegnando 
                  la carta di permanenza e dei componenti delle varie commissioni. 
                   
                  L’agitazione aveva ottenuto però i suoi effetti 
                  perché la direzione non applicò l’ordinanza 
                  anche se il direttore, ritenuto incapace dalla milizia, venne 
                  subito dopo trasferito. Passò qualche mese di relativa 
                  calma quando, nel febbraio del 1935, la direzione confinaria 
                  di Ponza tornò a mettere in vigore l’ordinanza 
                  ritirata nel 1934. Prima di applicarla, forse per rendersi conto 
                  dell’umore e della resistenza dei confinati, fissò 
                  un termine di dieci giorni. Nuove proteste, ma questa volta 
                  irremovibilità da parte della direzione, allora tenuta 
                  dal commissario di PS Coviello. Tutti i confinati erano convinti 
                  che bisognasse fare qualcosa, ma non tutti erano d’accordo 
                  sulle modalità della protesta. Quelli che avevano consegnato 
                  i libretti nel 1934, pensando che allora il ritiro dell’ordinanza 
                  fosse dovuto alla loro azione, proponevano nuovamente lo stesso 
                  metodo. La direzione era ferma nell’applicare l’ordinanza 
                  che affermava gli era imposta dal ministero, e i confinati nel 
                  non volerla accettare.  
                  Così, dopo lunghe discussioni fra i confinati, si addivenne, 
                  al fine che la protesta riuscisse imponente e vi aderisse il 
                  maggior numero di confinati, che bisognava consegnare la carta 
                  di permanenza. Infatti, il giorno in cui l’ordine doveva 
                  andare in vigore, i confinati, presentandosi all’appello, 
                  consegnarono i loro libretti. Fu una protesta quasi plebiscitaria. 
                  Non vi parteciparono i “manciuriani” e i politici 
                  che erano stati dispensati dai loro compagni perché incaricati 
                  di tenere in vita le iniziative che più a loro premevano 
                  come le mense, le biblioteche e gli spacci. Trecento circa furono 
                  i politici di Ponza che presero parte all’agitazione e 
                  tutti furono arrestati e inviati al carcere napoletano di Poggioreale. 
                  […]  
                  Ora, se le varie grandi agitazioni che si svolsero al confino 
                  non servirono che a dimostrare quanto fosse duro lottare contro 
                  la direzione, d’altra parte risultò chiaro e preciso 
                  che la galera non era un mezzo sufficiente a spezzare o anche 
                  solo a piegare la resistenza dei politici, né a spegnere 
                  il loro ardore di lotta. Anzi, ogni violenza ed ogni nuovo arresto 
                  suscitavano sempre più vivo e profondo il legame di solidarietà 
                  che univa tutti ed un’acuta sensibilità portava 
                  tutti questi uomini obbligati a vivere su uno scoglio, nonostante 
                  le differenze di ideali e di metodi di lotta e di azione, gli 
                  uni a difendere gli altri perché così facendo 
                  ognuno sapeva di difendere anche se stesso e la propria dignità, 
                  il principio di libertà e di giustizia che li animava. 
                  (...).  
                  
                Un gruppo di confinati a Ponza 
                  
                  Il prete e il passaporto 
                   
                Se nei primi anni l’emigrazione politica italiana poteva 
                  trovare in Francia una parvenza di libertà che permise 
                  anche agli anarchici di continuare la lotta contro il fascismo, 
                  in seguito, per la continue pressioni esercitate dal governo 
                  fascista, anche in Francia si incominciò ad arrestare 
                  e ad espellere su larga scala. Chi era costretto a lasciare 
                  la Francia cercava asilo nel Belgio, nel Lussemburgo e, quando 
                  proprio non ne poteva più, in qualche Paese d’oltreoceano. 
                  I rifugiati politici espulsi, soprattutto se erano anarchici, 
                  erano continuamente sballottati da una frontiera all’altra. 
                   
                  Dalla Francia al Belgio, al Lussemburgo, all’Olanda e 
                  viceversa, sempre senza documenti e nella impossibilità 
                  di trovare lavoro ed una qualsiasi sistemazione.  
                  I consolati erano stati trasformati in luoghi di polizia e in 
                  covi di spie e di agenti provocatori, dai quali era bene poter 
                  restare lontani. Quando qualcuno spintovi dalla disperazione 
                  vi si rivolgeva per avere le carte necessarie ad ottenere lavoro, 
                  non solo non era ricevuto, ma era quasi sempre denunciato alle 
                  autorità del luogo che si facevano premura di arrestarlo 
                  ed espellerlo.  
                  In tali condizioni, anche dopo il caso di Modugno, si comprende 
                  come si andassero ripetendo gli attentati contro i consolati 
                  e gli agenti consolari. Ai primi del novembre 1928, un militante 
                  anarchico, Angelo Bartolomei, domandava al prete Cavaradossi, 
                  che fungeva da viceconsole a Joeuf, il rinnovo del passaporto. 
                  Sapendolo antifascista, questo prete rispose che non poteva 
                  concedergli nessun rinnovo perché risultava condannato 
                  in Italia a diciassette mesi di carcere e a 4.500 lire di multa 
                  per alcuni articoli scritti contro il governo. Ma aggiungeva 
                  che gli avrebbe potuto premettere il rinnovo solo a condizione 
                  che si mettesse in relazione epistolare con alcuni antifascisti 
                  della regione, in Francia o in Belgio, incitandoli a commettere 
                  atti di terrorismo o di espropriazione. Gli individui compromessi 
                  avrebbero risposto al Bartolomei e le lettere avrebbero dovuto 
                  essere consegnate al prete viceconsole che, a sua volta, le 
                  avrebbe trasmesse al console di Nancy. Il Cavaradossi aggiungeva 
                  che, se il Bartolomei avesse accettato tali condizioni, avrebbe 
                  potuto avere il passaporto e la libertà di rientrare 
                  in Italia. Era un vero e proprio incitamento alla provocazione 
                  ed un uomo che si sentiva ancora tale non poteva che ribellarvisi. 
                  Alle insistenti proposte del Cavaradossi, il Bartolomei rispondeva 
                  con un colpo di pistola e veniva arrestato mentre cercava di 
                  trovare riparo in Belgio. Ai giudici spiegava poi in dettaglio 
                  come si erano svolte le cose: «Volendo approfondire lo 
                  scopo che si proponeva il prete, finsi di accettare le condizioni. 
                  Qualche giorno più tardi, cioè l’8 novembre, 
                  rividi di nuovo quel prete nella via e mi incitò a consegnargli 
                  i documenti richiestimi. Qualche giorno dopo queste insistenze, 
                  l’idea di sopprimerlo si fece strada in me, preferendo 
                  divenire assassino piuttosto che traditore. Uscii e fui da un 
                  libraio. Mi procurai della carta da lettere e feci un pacchetto 
                  che legai con della cordicella rossa. Andai in un bosco dove 
                  avevo nascosto delle armi, mi munii di due revolver automatici. 
                  Così armato ritornai nell’ufficio del prete. Egli 
                  mi raccontò subito che Gamberini, un altro anarchico, 
                  era stato espulso dalla Francia e che altri sessanta italiani 
                  di Joeuf e di Homécourt erano proposti per l’espulsione, 
                  precisando che io figuravo in quella lista.  
                  Il prete insistette perché io abbandonassi le mie opinioni 
                  e entrassi nei ranghi fascisti. Quindi mi domandò i documenti 
                  promessi. Gli rimisi la carta che mi ero procurata e nel medesimo 
                  tempo levai il mio revolver e sparai tre colpi». Riuscito 
                  a fuggire dalla Francia, verrà però arrestato 
                  al varcare la frontiera del Belgio. Sottoposto a procedimento 
                  di estradizione, sarà salvato dalla vasta agitazione 
                  che tanto in Francia che in Belgio avrà luogo.  
                  Quella dello spionaggio e della provocazione è sempre 
                  stata una delle malattie caratteristiche del fascismo, così 
                  come del fascismo erano caratteristici quei consolati. Un altro 
                  caso esemplare è quello dell’operaio anarchico 
                  Gino D’Ascanio. Espulso dalla Francia perché anarchico, 
                  si rifugiò in Belgio da dove venne subito espulso. Fu 
                  in Olanda e nel Lussemburgo, dove subì la stessa sorte. 
                  Senza documenti, le espulsioni avvenivano a catena. Ridotto 
                  alla disperazione, nel maggio del 1930, dopo aver richiesto 
                  i documenti al console italiano del Lussemburgo ed averne avuto 
                  un ennesimo rifiuto, sparava contro un impiegato particolarmente 
                  provocatore di quel consolato.  
                  A Saint Raphael, il 23 agosto 1929, avveniva un attentato di 
                  protesta contro il console di quella località, il marchese 
                  Di Muro, che se la cavò con qualche scalfittura.  
                  Nel settembre del 1929, l’operaio Enrico Manzuoli (Morano) 
                  veniva aggredito a Saarbrucken durante una manifestazione di 
                  caschi d’acciaio. Vedendosi sopraffatto dal numero, sparava 
                  alcuni colpi di rivoltella: uccideva un aggressore e ne feriva 
                  tre. Processato alle Assisi di Saarbrucken il 3 luglio 1930, 
                  si dichiarava anarchico e dolente solo di non aver potuto colpire 
                  i più alti responsabili del fascismo. Si buscò 
                  una condanna a sei anni. L’elenco dei colpi e dei contraccolpi 
                  di questo interminabile stillicidio potrebbe continuare per 
                  pagine e pagine. (…).  
                  
                  Ugo Fedeli 
                Tratto dal n. 5 (luglio 1995) del “Bollettino” 
                  del Centro Studi Libertari. 
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