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                 Dopo aver letto il dossier su Ivan 
                  Illich, curato da Filippo Trasatti, pubblicato sul n. 294 
                  (novembre 2003) della nostra rivista, Adriano Sofri – 
                  da sette anni detenuto nel carcere di Pisa – ha dedicato 
                  la propria rubrica sul settimanale “Panorama” (numero 
                  del 27 novembre scorso) in particolare allo scritto di Pietro 
                  M. Toesca. Titolo dell’articolo di Sofri: Dedicato 
                  al mio professore. Sottotitolo: Scopro che l’ultimo 
                  numero della rivista degli anarchici ricorda la figura di Ivan 
                  Illich, uno dei padri nobili del ’68. E che il primo saggio 
                  lo ha scritto un insegnante. Che conoscevo bene.  
                  Già in altra occasione Sofri – allora in uno scritto 
                  sulla prima pagina del quotidiano “La Repubblica” 
                  – aveva preso spunto da un nostro ricordo di un altro 
                  “maestro”, il pedagogista Marcello Bernardi, per 
                  citare a lungo la nostra rivista.  
                  Ripubblichiamo in queste pagine lo scritto di Sofri apparso 
                  su “Panorama”. Segue la risposta di Toesca.  
                  Cogliamo l’occasione per ribadire la nostra simpatia e 
                  solidarietà ad Adriano Sofri, in coerenza con quanto 
                  da noi scritto nel 1988, subito dopo il primo arresto di Bompressi, 
                  Pietrostefani e Sofri nell’ambito delle indagini sull’uccisione 
                  del commissario Luigi Calabresi.  
                  
                 Dedicato al mio professore  
                  di Adriano Sofri  
                La rivista ormai classica 
                  degli anarchici italiani si chiama “A”, è 
                  un mensile (quasi: salta gennaio, agosto e settembre).  
                  L’ultimo numero dedica una parte alla figura di Ivan Illich 
                  e ne scriverò fra poco. Prima voglio copiare qualche 
                  frase dalla pagina che illustra condizioni di vendita, abbonamento, 
                  diffusione della rivista. Per esempio: “Siamo alla costante 
                  ricerca di diffusori... Il rapporto con i diffusori è 
                  basato sulla fiducia. Noi chiediamo che ci vengano pagate solo 
                  le copie vendute, a un prezzo scontato. Non chiediamo che ci 
                  vengano rispedite le copie invendute e suggeriamo ai diffusori 
                  di venderle sottocosto o di regalarle”. Oppure: “Ai 
                  detenuti che ne facciano richiesta, ‘A’ viene inviata 
                  gratis”.  
                  Ivan Illich è morto un anno fa, era nato nel 1926 a Vienna. 
                  Parlava e ascoltava correntemente una decina di lingue. Fu molte 
                  cose: “Prete cattolico – anzi, monsignore – 
                  poi, uscito dalla Chiesa, rettore, a meno di 30 anni, dell’università 
                  di Porto Rico, professore di non so quante discipline (tra cui 
                  “storia del sistema fognario”) in non so quante 
                  università, animatore del Centro interculturale di Cuernavaca 
                  (in Messico), autore di numerosissimi libri e saggi, uno dei 
                  più radicali critici della civiltà tecnologica, 
                  cui oppone una visione di convivialità: così lo 
                  presentava quasi vent’anni fa Alex Langer, riferendo un 
                  incontro con lui. È difficile sopravvalutare la sua influenza. 
                  Nei primi anni ’70 le sue proposte contro l’invadenza 
                  della sanitarizzazione (La nemesi medica) o della scolarizzazione 
                  (Descolarizzare la società) si guadagnarono 
                  l’adesione di molti, con particolare entusiasmo di Pier 
                  Paolo Pasolini. E, insieme, una rimozione o un confinamento 
                  di sicurezza, da guru affascinante ed eccentrico, alla larga 
                  dalla critica dell’esistenza comune della gente comune. 
                 
                  
                  Libero pensiero lastricato di ma e di se  
                Il primo saggio su “A” è di Pietro M. Toesca, 
                  che per Illich sente una simpatia di quasi coetaneo, soprattutto 
                  di partecipe di uno stesso viaggio. E protesta contro “il 
                  rifiuto di ricominciare dal principio, pazientemente, a tessere 
                  i fili del nostro sapere e del nostro fare”. Protesta, 
                  Toesca, contro la soggezione al fatto compiuto, scambiato per 
                  la realtà, e la rinuncia al pensiero e all’azione 
                  guidata dal pensiero, senza di che non c’è libertà. 
                  Un tal “realismo”, fra l’apologia e la rassegnazione 
                  alle cose come stanno, si appende, dice Toesca, a “una 
                  serie di se e di ma”.  
                  Io mi prendo qui una pausa nella lettura, perché sono 
                  tipo di se e di ma e non riesco a vedere un cammino verso il 
                  pensiero libero e l’azione guidata dal libero pensiero 
                  che non sia lastricato di ma e di se. Non sono certo però 
                  che si tratti di una vera divergenza, e non di giochi di parole. 
                  Toesca procede sulla scorta di Illich denunciando il rovesciamento 
                  per cui l’istituzione, da tentativo di risposta organizzata 
                  a un bisogno o una domanda dell’individuo, diventa proprietaria 
                  esclusiva e autoritaria delle decisioni e delle competenze che 
                  investono l’individuo. Questo rovesciamento è il 
                  rischio di ogni istituzione, dalla famiglia alla scuola, dal 
                  luogo di lavoro alla società intera.  
                  La libera e creativa relazione fra le persone viene così 
                  soppiantata e usurpata da autorità esterne che mirano 
                  soprattutto alla propria conservazione. La riduzione della libertà 
                  a obbedienza è comune a società repressive e a 
                  società del consenso consumista, “riducendo di 
                  molto la differenza tra metodi violenti e metodi democratici 
                  quando questi si avvalgono di mezzi di persuasione che fanno 
                  del consenso una vera abdicazione alla libertà di giudizio”. 
                  Qui mi prendo una seconda pausa. Capisco l’argomentazione, 
                  ma la sua formulazione mi fa temere una sottovalutazione della 
                  differenza, nell’esercizio dei poteri, fra “metodi 
                  violenti e metodi democratici”: perché al contrario 
                  non ho fatto che rafforzarmi nella convinzione della differenza 
                  cruciale fra coazione fisica e manipolazione morale, l’Habeas 
                  corpus, per intenderci. Che l’anima possa essere 
                  lesa altrettanto e più duramente che le membra è 
                  una frase di cui si capisce il senso: ma a condizione che si 
                  conservi la priorità dell’incolumità e intangibilità 
                  dei corpi.  
                  Penso che Toesca, di cui immagino una nonviolenza profonda e 
                  pressoché tolstoiana, forse converrebbe con questo “prima 
                  e dopo”, dunque andiamo ancora avanti. Verso l’indicazione 
                  strategica di Illich, la “convivialità”, 
                  la conversazione. “Convivialità significa prima 
                  di tutto condivisione, gioiosa partecipazione reciproca: il 
                  che non vuol dire beota negazione dei triboli dell’esistenza, 
                  ma attivazione continua, gli uni per gli altri, della meraviglia 
                  che fa risuonare in noi la bellezza della realtà e permette 
                  di affrontare la sofferenza come una dimensione interna, mai 
                  catastrofica, di un percorso che si manifesta sempre come bene 
                  se è costruito insieme in uno scambio generoso di ciò 
                  che ciascuno scopre e realizza per sé”. Di questo 
                  scambio fa parte la restituzione dell’istruzione e dell’educazione 
                  dalla scuola al contenuto vivamente pedagogico di ogni relazione 
                  umana, e della stessa politica. Il seguito del saggio di Toesca 
                  è dedicato appunto alla scuola e alla descolarizzazione 
                  e alla universalità della dimensione pedagogica. Io smetto 
                  perché incombe il fondo della pagina e voi potete procurarvi 
                  il testo (“A” costa 3 euro, e se avete la fortuna 
                  di essere detenuti, gratis). Soprattutto devo rispondere alla 
                  perplessità che vi avrà colti se siete arrivati 
                  fin qui: se io non abbia fatto più attenzione al commemoratore 
                  Toesca che al commemorato Illich. Avete ragione. Il fatto è 
                  che Pietro M. Toesca fu il mio professore di filosofia al liceo 
                  Virgilio di Roma, proprio dirimpetto a Regina Coeli, moltissimi 
                  armi fa. Una scheda su “A” informa che, dopo aver 
                  insegnato nei licei, Toesca ha insegnato all’università 
                  a Roma e a Parma, e nel 1980 si è dimesso “per 
                  dignità e rifiuto di connivenza con l’Accademia 
                  ricostruita”. E abita a San Gimignano. Lui si è 
                  descolarizzato sul serio, dunque. E io, vecchio scolaro, lo 
                  saluto.  
                   
                  Adriano Sofri 
                
                Adriano Sofri educatore  
                  di Pietro M. Toesca  
                Ho scritto ad Adriano Sofri una lettera affettuosa per ringraziarlo 
                  dell’affettuoso ricordo che mi ha dedicato su Panorama. 
                  Ma rispondo volentieri all’invito di “A” ad 
                  approfondire alcune considerazioni già accennate in quella 
                  lettera.  
                  Il caso Sofri è da tempo entrato, grazie ad una più 
                  o meno sapiente, più o meno riuscita, campagna dei media, 
                  nell’‘immaginario popolare’ come una anomalia 
                  italiana. Un reato che, lo si giri come si voglia, è 
                  stato verificato (se si vuole rispettare l’‘al di 
                  là di ogni ragionevole dubbio’) come un reato di 
                  opinione, e anche in ritardo, è stato punito come un 
                  vero delitto. E tutto questo per chiudere una questione – 
                  la barbara ed equivoca uccisione del Commissario Calabresi – 
                  che pesava, se impunita, come un macigno sulla politica chiamiamola 
                  giudiziaria (secondo il gioco delle tre carte, cioè l’apparente 
                  divisione dei poteri) di uno Stato che non batte ciglio se gli 
                  si contesta l’accantonamento del 90% o giù di lì 
                  dei delitti di sangue (parola del Procuratore Generale dello 
                  Stato), ma che non può certo fallire nell’identificazione 
                  di un colpevole quando si tratti di qualcosa che riguarda pericolosamente 
                  la credibilità diretta del proprio potere. Un colpevole 
                  che può anche essere innocente: lo teorizzava già 
                  il buon Machiavelli dichiarando che un potere come si deve preferisce 
                  rischiare di condannare un innocente piuttosto che lasciare 
                  impunito un delitto.  
                  Ma il caso Sofri è un’anomalia italiana soltanto 
                  nel senso che è lo specchio rovesciato di un’altra, 
                  ben più generale anomalia, quella per la quale le classi 
                  cosiddette dominanti italiane, manovrando a diversi livelli 
                  l’opinione pubblica, riescono spesso a giustificare, cioè 
                  a nascondere, in funzione della logica generale detta machiavellica 
                  del fine che giustifica i mezzi (la ragione di Stato) veri e 
                  propri reati grazie ai quali fare politica significa saper conquistare 
                  il potere e mantenerlo. A tutti i costi. In questo senso il 
                  caso Sofri è un ‘prodotto del regime’, come 
                  lo fu ad esempio quello di Antonio Gramsci in altri tempi e, 
                  per qualche tempo, e in altro contesto, di Pietro Valpreda. 
                 
                  
                   Un buon cammino  
                Certo, non siamo, grazie a Dio, nella Germania nazista e neppure 
                  nella Russia di Stalin. Per questo Sofri è, ‘semplicemente’, 
                  chiuso in carcere: egli stesso mi fa osservare, giustamente, 
                  la differenza di una società democratica (lasciando intonsa 
                  la discussione sull’autenticità di una democrazia 
                  qual è l’attuale). E osserva anche giustamente 
                  che la vera violenza (la vera discriminazione) è quella 
                  fisica, e che quella morale è reale violenza in quanto 
                  arriva ad essere poi fisica. In realtà, anomalia per 
                  anomalia, è bene sapere quant’è la responsabilità 
                  delle democrazie ricche per la morte di milioni di esseri umani 
                  per fame, miseria, stenti. Emarginazione appunto. E queste cose 
                  Adriano le conosce bene poiché, mentre suoi ex compagni 
                  di Lotta Continua si sono svenduti senza alcuna vergogna al 
                  mercato delle vacche (come una volta si diceva popolarmente), 
                  egli ha invece fatto molto buon cammino, sviluppando la sua 
                  matrice prospettica di trasformazione reale della società, 
                  decantandola da ogni tentazione di violenza, impegnandosi, già 
                  ben prima della sentenza di condanna, negli interventi umanitari 
                  e, soprattutto, elaborando pensieri e giudizi morali, sociali, 
                  politici che hanno fatto di lui un autorevole opinion-maker 
                  (nel senso buono, salva la dizione americana del termine). E 
                  questa se si vuole è la sua vera anomalia: egli ha reagito 
                  alla discriminazione con tale saggezza anche autocritica, con 
                  tale equilibrio, con tale coraggio da far domandare, a chi non 
                  è proprio disattento o velato da pregiudizi, perché 
                  e come mai egli sia ‘dentro’ invece che fuori, e 
                  quelli che sono fuori siano fuori (non sarà perché 
                  questi sono dentro al potere?).  
                  Sofri mi rimprovera anche, bonariamente, di essere troppo secco, 
                  di non consentire ‘se e ma’. In verità io 
                  li consento, e quanti! Ma laddove essi hanno un senso, e sono 
                  necessari, e non contraddicono alle premesse. Non cioè 
                  quando si tratta di quella coerenza che nella lunga storia, 
                  e contrastata, della presa di coscienza dell’umanità 
                  ha sempre richiesto (ma quante volte invano) di non annacquare 
                  affermazioni altamente veritiere con distinzioni capaci di salvare 
                  la capra e i cavoli di coloro che, nel viaggio di trasferimento 
                  dell’una e degli altri, dovevano tenere a bada il lupo 
                  e, in fondo, erano dalla sua parte (non si sa mai, può 
                  sempre servire a difesa). Oggi sembra, almeno a me sembra, che 
                  questa coerenza sia la richiesta consapevole di tanta parte 
                  dell’umanità che perciò contesta la pretesa 
                  di coloro che per ‘avere ragione’ si appellano direttamente 
                  alla ‘ragione’, nascondendo dietro a questo appello 
                  il solito ricorso alla forza. Certo, questa richiesta di coerenza 
                  è buona se è buona la premessa da sviluppare: 
                  il nazismo è stato un esempio di coerenza assurda, sviluppando 
                  all’estremo, senza dubbi né verifiche, una premessa 
                  cattiva ovvero falsa (per esempio il diritto esclusivo all’esistenza 
                  di una supposta razza superiore). Ma non abbiamo bisogno di 
                  disturbare ricordi tanto tragici: basta rendersi conto di qual 
                  è l’uso della ragione da parte dell’economia 
                  capitalistica.  
                  
                  Coerenza senza se senza ma  
                Adriano in verità conosce bene anche questo: il ‘sì 
                  sì, no no’ evangelico vale anche per lui, che rifiuta 
                  di chiedere una grazia che invece di riconoscere la sua innocenza, 
                  coprirebbe semplicemente la sua accettata colpevolezza con un 
                  velo di graziosamente concessa finzione di innocenza. Se non 
                  è coerenza questa, senza se e senza ma, non saprei quale 
                  altra.  
                  È in questo che Adriano Sofri ha compiuto un lungo e 
                  attento cammino critico. Il rigore soprattutto morale della 
                  contestazione sessantottesca si è liberato dall’inganno 
                  di una versione dogmatica e violenta: e da tanti anni ormai 
                  Sofri compie una preziosa opera di educazione civile, sapendo 
                  e sostenendo che una diversa, nuova società dipende assolutamente 
                  dalla esistenza, dalla prospettiva e quindi dalla formazione 
                  di uomini diversi, nuovi. Certo bisogna cambiare le strutture, 
                  le condizioni sociali: ma da chi, e per chi? Il suo percorso 
                  è un forte esempio di questa presa di coscienza.  
                  Se io dovessi infine manifestare una mia piccola perplessità, 
                  questa riguarderebbe il fatto che Sofri scrive ovunque, certo 
                  per arrivare là dove altri non può arrivare; e 
                  chi è condannato all’esclusione e al silenzio deve 
                  parlare, senza arricciare troppo il naso. Ma forse, qualche 
                  limite c’è.  
                  Adriano, ti voglio bene e, anch’io, ti saluto.                    
                  Pietro M. Toesca 
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