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                 Violenza è sostantivo 
                  che deriva dal verbo violare, il quale indica un’azione 
                  capace di alterare significativamente lo stato d’integrità 
                  di altri esseri viventi, di assetti, di cose, ecc. È 
                  intuitivo che in politica la parola violenza è strettamente 
                  connessa a sopraffazione, imposizione, coazione, prevaricazione. 
                  In questo senso è anche strettamente connessa all’azione 
                  dei detentori del potere, che da sempre ricorrono all’uso 
                  della forza, sia legittimo sia illegittimo dal punto di vista 
                  giuridico, al fine di esercitare il dominio di cui sono detentori. 
                  Nell’esercizio del potere politico l’uso della violenza 
                  è infatti sistematicamente legato al bisogno d’imposizione 
                  del volere dominante, che è una delle ragioni di fondo 
                  per cui gli anarchici, che sono tali perché aspirano 
                  ad una convivenza sociale e collettiva fondata sulla libertà 
                  reciproca, in cui quindi la violenza sia bandita nella gestione 
                  dei rapporti e delle decisioni, pensano ed agiscono per realizzare 
                  società nelle quali non esistano più forme centralizzate 
                  e gerarchiche di potere politico.  
                  Di primo acchito, lo sguardo su come vanno le cose del mondo 
                  ci sbatte brutalmente in faccia una constatazione ineludibile: 
                  il divenire quotidiano di cui, volenti o nolenti, siamo partecipi 
                  e, molto più spesso di quanto ci piacerebbe, protagonisti, 
                  senza possibilità di dubbio è scadenzato dalla 
                  violenza, più precisamente è impregnato di violenza. 
                  Lo è nei rapporti obbligati e obbliganti della burocrazia, 
                  nelle relazioni con gli apparati, nella cultura del potere che 
                  con sistematica determinazione definisce la qualità e 
                  la quantità delle imposizioni di cui è detentrice 
                  e portatrice, nella forza organizzata ed armata di tutto punto 
                  dei militarismi che giustificano le loro pretese con l’alibi 
                  di darci sicurezza e di garantire la conservazione delle libertà 
                  democratiche, nello sfruttamento sistematico e micidiale di 
                  milioni di esseri umani ricattati dalla fame e dalla miseria 
                  cui sono costretti, nella reattiva voglia di riscatto e nel 
                  sacrosanto bisogno indotto di ribellione che raramente riesce 
                  a tramutarsi nel piacere della ribellione. I bollettini d’informazione, 
                  con immagini e con parole, ci mettono quotidianamente di fronte 
                  ai cimiteri di cui senza sosta è costellato il pianeta 
                  dove alberghiamo noi umani.  
                  
                  Problema non solo etico  
                Date per acquisite le considerazioni di cui sopra e rimanendo 
                  nell’ambito della politica, in questo articolo m’interessa 
                  svolgere alcune considerazioni di fondo sul senso dell’uso 
                  di metodi violenti cui possono far ricorso gli oppressi e gli 
                  sfruttati, i sottomessi in genere, per opporsi ai poteri dominanti, 
                  sia come sacrosanto atto di ribellione contro le sopraffazioni 
                  subite, sia soprattutto spinti dalla consapevolezza del fine 
                  di realizzare principi ed ideali alternativi.  
                  Pur sapendo che rispetto al tema della violenza l’etica 
                  è prioritariamente di casa, per come la vedo io il problema 
                  non è semplicemente etico, o meglio non solo e soprattutto 
                  etico. Bisogna tener presente infatti che, essendo l’etica 
                  a tutti gli effetti un campo minato, è oltremodo rischioso, 
                  ma soprattutto non appropriato, eleggerla quale unico riferimento 
                  fondante per identificare la validità delle proprie scelte. 
                  L’etica si occupa di ed indaga la giustezza dei comportamenti 
                  umani in riferimento ai due concetti del bene e del male, i 
                  quali non sono affatto scontati a priori, tanto è vero 
                  che nell’identificarli sorgono inevitabilmente punti di 
                  vista non solo diversi, ma facilmente contrastanti. A ben ragionare, 
                  in realtà esistono etiche diverse, che guarda caso si 
                  pongono ognuna in modo esclusivo, tali che sceglierne una, ovviamente 
                  con ragioni fondate, comporta quasi inevitabilmente l’esclusione 
                  o la condanna di tutte le altre. Esistono così per esempio 
                  più etiche religiose, ognuna indissolubilmente legata 
                  alla religione di riferimento, un’etica della libertà, 
                  un’etica del comando, un’etica del potere, un’etica 
                  della violenza, un’etica della nonviolenza, ecc. Ognuna 
                  ha motivazioni valide e giustificate, ritenute inoppugnabili 
                  da chi le abbraccia. Nessuna scelta etica viene mai abbracciata 
                  in quanto tale, perché dietro ognuna di esse ci stanno 
                  sempre una o più scelte di senso esistenziale e filosofico. 
                   
                  In proposito il principale problema di fondo che bisogna essere 
                  in grado di comprendere è se ha senso ciò che 
                  facciamo. Nel caso in questione, se l’uso consapevole 
                  e programmato di forme violente di ribellione contro le strutture 
                  oppressive che ci piacerebbe abbattere sia funzionale, se cioè 
                  sia effettivamente in grado di sortire effetti consoni e coerenti, 
                  anche dal punto di vista etico, con quei presupposti ideali 
                  che dovrebbero motivare i nostri atti e spingerci a sceglierli. 
                   
                  Per comprenderlo ritengo sia innanzitutto vincolante chiarirsi 
                  bene le ragioni di fondo che possano motivarne la scelta eventuale. 
                  Dobbiamo cioè essere pienamente consapevoli che prima 
                  di scegliere per agire ci è indispensabile pervenire 
                  ad una certezza del senso, dal momento che qualsiasi azione 
                  dichiaratamente e manifestamente violenta è di per sé 
                  portatrice di una buona dose di potere contro chi viene esercitata, 
                  in quanto a tutti gli effetti tende ad annientarlo, nel migliore 
                  dei casi si limita a sottometterlo. L’uso della violenza 
                  contiene infatti come prerogativa di fondo la volontà 
                  di annichilire l’avversario, di immobilizzarlo, di punirlo, 
                  di assoggettarlo, di renderlo inoperante. E quale maggior potere 
                  c’è oltre la possibilità e la capacità 
                  di annientare? Una simile scelta perciò in nessun caso 
                  può essere presa sottogamba, con leggerezza o faciloneria, 
                  mentre necessita di essere ben meditata ed adeguatamente vagliata. 
                 
                  
                  Un punto di vista anarchico  
                Il mio è un, non il, ma un, punto di vista anarchico. 
                  Quindi contiene le caratteristiche tipiche della visuale anarchica 
                  che, pur essendo parziale, relativa e non assoluta, come tutte 
                  le visuali che non si limitino ad uno specifico campo d’azione, 
                  rappresenta una chiave di lettura capace di abbracciare valori 
                  universali, proposti con la consapevolezza di una validità 
                  estensibile a tutti ed a tutte le situazioni. Ed il punto di 
                  vista anarchico principe presuppone sopra ogni altra cosa il 
                  rifiuto incondizionato di ogni genere di sopraffazione di potere 
                  e di ogni forma di dominio, in nome del riconoscimento di fatto 
                  di un’eguaglianza sociale diffusa, di pratiche costanti 
                  di libertà e del ripudio di qualsiasi esercizio della 
                  violenza nell’espletamento delle decisioni e della volontà 
                  collettive, rese operanti attraverso strutture orizzontali, 
                  non gerarchiche e non rigide.  
                  Qual è il problema di fondo rispetto all’auspicabile 
                  possibilità della realizzazione di una futura società 
                  anarchica? A mio modo di vedere corrisponde al superamento e 
                  all’abbattimento delle barriere storicamente consolidate, 
                  strutturali senza dubbio, ma soprattutto culturali, che mantengono 
                  in piedi la stabilità degli assetti di potere del vigente 
                  dominio. L’istituzionalizzazione del potere in atto, infatti, 
                  che legittima la necessità del comando gerarchico e della 
                  sua esecuzione attraverso l’uso della forza costituita, 
                  ha in sostanza due tipi di giustificazione: 1. la più 
                  antica ed ancestrale è di tipo religioso, secondo la 
                  cui credenza dio o più dei, dal momento che non si fidano 
                  dell’imperfezione umana da essi stessi creata, dall’alto 
                  del loro potere superumano obbligano l’umanità 
                  ad obbedire ad alcuni uomini scelti da loro per eseguire la 
                  volontà divina, rivelata e in genere sancita da sacre 
                  scritture; 2. l’altra, di carattere laico, è l’homo 
                  homini lupus hobbessiano, secondo cui, dal momento che 
                  fin dalle origini dello stato di natura ogni uomo è ostile 
                  agli altri uomini, per poter vivere in sicurezza e in armonia 
                  la società ha necessità di trovare chi la comanda, 
                  capace d’imporre con la forza quell’ordine indispensabile 
                  al vivere comune, che per una diffusa convinzione altrimenti 
                  verrebbe meno.  
                  Il compito degli anarchici allora è quello di proporsi 
                  e di agire per dimostrare e convincere che le motivazioni storicamente 
                  determinatesi, della volontà di dio e della necessità 
                  del comando dall’alto, altro non sono che semplici credenze 
                  umane, imposte e legittimate nel tempo dalla volontà 
                  dei potenti di turno. Non solo sono eludibili, ma perfettamente 
                  sostituibili con una visione fondata su principi di libertà, 
                  su una conduzione delle cose collettive non governata dall’alto, 
                  sulla possibilità di organizzarsi senza gerarchie di 
                  comando e con forme di gestione orizzontale. Possiamo benissimo 
                  non essere governati, ma autogovernarci, sostituendo il potere 
                  della forza d’imposizione con la reciprocità, la 
                  solidarietà e un’effettiva partecipazione alle 
                  decisioni, che non avranno perciò più la necessità 
                  di essere imposte con la forza e la legittimità giuridica 
                  di corpi armati addetti alla sicurezza ed all’ordine pubblico, 
                  cioè da esecutori della volontà di istituzioni 
                  autoritarie.  
                  
                  Assenza di violenza  
                Anarchicamente insomma, le cose tendenzialmente debbono essere 
                  decise e fatte col concorso di tutti, perché non possono 
                  e non debbono essere imposte, ma consensualmente volute da tutti 
                  gli individui coinvolti e componenti la società di riferimento. 
                  È uno dei principi fondanti che ci distingue. Per questo 
                  non basta ed è oltremodo illusorio limitarsi a sopprimere 
                  gli sbirri e chi li comanda. Innanzitutto invece bisogna riuscire 
                  ad eliminare la necessità, interiorizzata e di fatto, 
                  dei loro compiti e della loro presenza. Ciò può 
                  avvenire soltanto sostituendo alla violenza autoritaria di un 
                  governo centrale, che s’impone protetto dagli sbirri, 
                  l’assenza di violenza di forme di autogoverno libertarie, 
                  che non hanno nessun bisogno degli sbirri. Lo stesso Malatesta 
                  lo aveva ampiamente capito e spese più di un ragionamento 
                  per farlo comprendere ai compagni ed a tutti quelli che erano 
                  interessati alle proposte anarchiche. “La soppressione 
                  della costrizione fisica non basta perché uno assurga 
                  a dignità di uomo libero, impari ad amare i suoi simili, 
                  a rispettare in loro quei diritti che vuole rispettati per sé 
                  e si rifiuti tanto a comandare quanto ad essere comandato.… 
                  Il gendarme non è propriamente il violento, ma è 
                  lo strumento cieco a servizio del violento.” (1) 
                   
                  Ha dunque senso, ai fini della realizzazione delle proposte 
                  politiche anarchiche, l’uso di mezzi e strumenti violenti 
                  per combattere le oppressioni e le imposizioni degli stati e 
                  degli sfruttatori? Val la pena ed è consono e coerente 
                  con i principi di riferimento mettere a repentaglio la propria 
                  vita e quella altrui per combattere per la libertà? Di 
                  primo acchito verrebbe di rispondere no in ogni caso. “Gli 
                  anarchici sono contro la violenza. È cosa nota. L’idea 
                  centrale dell’anarchismo è l’eliminazione 
                  della violenza dalla vita sociale; è l’organizzazione 
                  dei rapporti sociali fondati sulla libera volontà dei 
                  singoli, senza l’intervento del gendarme.” 
                  (2)  
                  In realtà la risposta non è né semplice 
                  né immediata né scontata, come sempre di fronte 
                  a questioni altamente complesse, perché per gli anarchici 
                  è fondamentale tener conto del problema resistenziale. 
                  Cioè del fatto che è immorale subire e non ribellarsi 
                  e, oltre che immorale, è dannoso, in quanto non fa altro 
                  che confermare l’oppressione senza determinare nessuna 
                  possibilità di liberarsene. Per gli anarchici è 
                  fondamentale ed indispensabile insorgere e contrastare la violenza 
                  dei poteri costituiti, ai fini di debellarla ed eliminarla quale 
                  strumento di regolazione politica. “La violenza è 
                  giustificabile solo quando è necessaria per difendere 
                  se stesso e gli altri contro la violenza. Dove cessa la necessità 
                  comincia il delitto... Lo schiavo è sempre in istato 
                  di legittima difesa e quindi la sua violenza contro il padrone, 
                  contro l’oppressore, è sempre moralmente giustificabile 
                  e deve essere regolata solo dal criterio dell’utilità 
                  e dell’economia dello sforzo umano e delle sofferenze 
                  umane.” (3)  
                  Ecco che rientra in pieno la problematica etica. Ma rientra 
                  solo dopo aver definito il senso ed il fine generali ed universali 
                  cui si deve ispirare. Il riferimento principale cui ispirarsi 
                  non è affatto quello etico, bensì lo scopo ultimo 
                  di fondo cui pervenire, cioè la società autogestita 
                  secondo i principi anarchici della libertà sociale, che 
                  diventa perciò il fondamento di un’etica conseguente. 
                  Malatesta definisce il senso ed i limiti dell’uso della 
                  violenza ai fini del trionfo dell’anarchismo. Essendo 
                  questi contrario alla violenza, ma anche a subirla, è 
                  giusto e giustificato ribellarsi anche in modo violento per 
                  liberarsi dall’oppressione. Però, siccome lo scopo 
                  fondamentale non è la liberazione da questa o quella 
                  oppressione in particolare, ma dall’oppressione in quanto 
                  tale che si fonda sulla violenza, una volta usatala e raggiunto 
                  lo scopo primario di essersene liberati, l’uso della violenza 
                  è bandito del tutto. Non essendo stato possibile altro 
                  mezzo di liberazione, è stata usata solo per liberarsene 
                  quale strumento di relazione sociale. Strumento quindi esclusivamente 
                  di difesa dal potere del dominio, in quanto tale violento, ma 
                  non di gestione e costruzione sociale. Per gli anarchici la 
                  violenza è antisociale.  
                  
                  Necessità di difendersi  
                Malatesta enuncia e formula un principio universale, capace 
                  di dare il senso alla scelta dell’azione: la violenza 
                  è una triste necessità ed è giustificata 
                  solo dalla necessità di difendersi e di non subire. Condivido 
                  pienamente e, ammesso che sia possibile racchiudere in una formuletta 
                  ad effetto una problematica tanto complessa, mi sento di affermare 
                  che gli anarchici sono antiviolenti senza essere nonviolenti. 
                   
                  Come tutte le enunciazioni di principio, che per loro natura 
                  abbracciano piani di riflessione molto vasti, per essere ben 
                  compresa anch’essa ha bisogno che se ne identifichi appieno 
                  lo spirito ed il senso, altrimenti c’è il rischio 
                  che venga strumentalizzata, se non addirittura mistificata. 
                  A tal uopo vorrei spendere qualche parola sull’approccio 
                  malatestiano, perché ritengo debba essere contestualizzato 
                  ai fini della comprensione. Il nostro Errico era un convinto 
                  insurrezionalista e lo è stato fino alla fine dei suoi 
                  giorni, anche se nelle sue riflessioni finali cominciò 
                  ad affiorare qualche critica, che però non intacca minimamente 
                  la sua convinzione. Lo è stato sul piano dell’azione 
                  diretta vissuta, ma ancor più sul piano teorico. Dalla 
                  Banda del Matese alla Settimana Rossa, per 
                  citare i fatti storici più noti, col cuore col pensiero 
                  e con grande generosità, pagando sempre in prima persona, 
                  è stato in prima linea nell’organizzare e portare 
                  avanti l’insurrezione popolare che nelle intenzioni avrebbe 
                  dovuto evolversi in rivoluzione sociale. Come pure ha riempito 
                  pagine e pagine di attenta riflessione teorica per chiarire 
                  quale debba essere l’apporto anarchico alla lotta insurrezionale, 
                  soprattutto proponendo come ci si dovrebbe comportare in caso 
                  di vittoria. Se vi è un limite al suo pensiero, è 
                  riscontrabile nel fatto che in tutta la sua vita non è 
                  mai riuscito ad identificare altra strada possibile per la rivoluzione 
                  che non fosse l’insurrezione, per cui ogni suo ragionamento 
                  segue con consapevolezza uno schema preciso: per riuscire a 
                  costruire l’anarchia, prima non si può fare a meno 
                  di insorgere, il famoso male necessario da cui non si può 
                  prescindere, per abbattere il sistema di potere oppressivo. 
                   
                  Ma aveva le idee estremamente chiare su che cosa sia l’insurrezione 
                  cui tendeva. L’insurrezione è il popolo che insorge, 
                  l’insieme degli sfruttati, dei reietti, degli emarginati 
                  e di tutti gli oppressi, i quali, non più disposti a 
                  subire, decidono coralmente di spezzare le catene e di travolgere 
                  i loro oppressori. È vera lotta di popolo, se necessario 
                  guerra di popolo. Nulla di avanguardistico, di elitario, di 
                  minoranza cosciente che arbitrariamente agisce in nome di. Si 
                  è sempre schierato contro i bombaroli, gli attentatori, 
                  gli imitatori di Ravachol, coloro che, pur con generosità, 
                  di propria mano perseguono lo scopo di attaccare il nemico, 
                  di fargli la guerra che, come tutte le guerre, è fatta 
                  per essere vinta e richiede l’annientamento dell’avversario. 
                  La violenza necessaria è solo quella della difesa, comprendendo 
                  per difesa anche l’insorgenza per liberarsi dall’oppressione, 
                  mentre non può essere quella che, pur in nome di una 
                  volontà di liberazione, si pone in una logica di guerra 
                  d’attacco al nemico per distruggerlo. Tanto è vero 
                  che per lui, ma anche per ogni anarchico convinto, deve cessare 
                  non appena l’insurrezione sarà riuscita a rendere 
                  inoperanti oppressori e carnefici, proprio per non dar adito 
                  ad orrendi sfoghi di violenza dovuti ad odi e rancori sopiti 
                  che, in preda al delirio della vittoria, potrebbero esplodere. 
                 
                  
                  Scontro tra poteri  
                Non è difficile rapportarsi all’oggi, mentre è 
                  crescente un uso dirompente di violenza da parte di frange sovversive 
                  di varia ispirazione. Dalle BR ed altre formazioni combattenti 
                  di casa nostra al fondamentalismo islamico che agisce a livello 
                  globale. Pur con motivazioni ideologiche diverse, agiscono tutte 
                  seminando terrore, sia tra le fila del nemico che vogliono colpire 
                  sia tra le persone dei territori colpiti. Secondo i criteri 
                  anarchici cui ci stiamo rifacendo, le azioni violente di attacco 
                  sovversivo che quotidianamente abbiamo davanti agli occhi non 
                  hanno nulla a che fare con una volontà insurrezionale. 
                  Per quanto riguarda l’Occidente mi sembrano invece espressione 
                  di élite militanti, che tentano di condurre 
                  una guerra spietata, sostanzialmente recepita dalle masse dei 
                  popoli che vorrebbero coinvolgere come indistinta ed estranea. 
                  È una guerra loro personale che, al di là delle 
                  intenzioni, in alcuni casi dichiarate in altri no, ha tutto 
                  il sapore dello scontro tra poteri contrapposti e si svolge 
                  sopra la testa dell’ottocentesco famoso popolo, il quale, 
                  invece di insorgere al loro fianco, guarda terrorizzato e chiede 
                  protezione a uomini forti delle istituzioni vigenti in grado 
                  di contrastarli. Per quanto riguarda l’Oriente e il Medio 
                  Oriente c’è una situazione culturale e sociale 
                  del tutto diversa che andrebbe analizzata a parte con serietà 
                  e qui non è il caso.  
                  Personalmente preferisco non identificare l’insurrezione 
                  come l’unica possibilità rivoluzionaria. Lo trovo 
                  restrittivo e limitante. Anzi, più passa il tempo e più 
                  sono convinto che non sia quella la strada principe da perseguire, 
                  nel senso di non convogliare tutte le forze e le energie per 
                  favorire l’insorgenza di popolo. Dal mio punto di vista 
                  l’anarchia si qualifica per il tipo di società 
                  e per il metodo autogestionario che propone, non perché 
                  si pone innanzitutto contro. Il suo esser contro è infatti 
                  diretta conseguenza del porsi inequivocabilmente in modo alternativo 
                  al dominio. Non viceversa, per cui saremmo alternativi al dominio 
                  come conseguenza dell’essergli innanzitutto contro. Il 
                  che non vuol dire che sono contrario alle insurrezioni di popolo. 
                  Queste ci saranno sempre fino a quando ci saranno ingiustizie, 
                  oppressioni e sfruttamento. E quando si scateneranno e ne avrò 
                  l’occasione, come ogni altro anarchico, vi parteciperò 
                  con convinzione e farò la mia parte, perché la 
                  rivolta contro le prepotenze del potere è in sé 
                  giusta. Ma la mia consapevolezza mi suggerisce che non è 
                  quella, in quanto tale, la strada per la realizzazione di una 
                  società liberata e libera. La storia è troppo 
                  piena di esempi di insurrezioni vittoriose in seguito alle quali 
                  si sono instaurati poteri totalitari terrificanti. Per cui so, 
                  o penso di sapere, che la via insurrezionale, di per sé, 
                  è del tutto insufficiente come vero mezzo di liberazione 
                  e di costruzione della società altra cui quale anarchico 
                  aspiro.  
                  
                  Gestione senza autorità  
                L’anarchia si qualifica e si distingue per il metodo 
                  d’azione autodecisionale e per il principio di gestione 
                  senza autorità costituita dall’alto che impone 
                  il proprio volere, non per il tipo di rivolta che propugna. 
                  Si è anarchici non perché si sente semplicemente 
                  il bisogno di ribellarsi, bensì perché si vuole 
                  costruire qualcosa di alternativo che abbia il sapore della 
                  maggior libertà politica, sociale ed esistenziale possibili. 
                  Le insurrezioni ed i diversi tipi di ribellione non sono in 
                  alcun modo una specificità nostra, non ci distinguono. 
                  Tutti, compresi i bolscevichi, gli islamici, perfino i fascisti 
                  se oppressi ed impediti ad esistere, tendono a ribellarsi, a 
                  liberarsi da ciò che li opprime. Ma la loro ribellione 
                  e, quando c’è, la loro insurrezione, hanno un sapore 
                  del tutto diverso dal nostro, addirittura contrario. Essi, pur 
                  con giustificazioni e motivazioni ideologiche e ideali differenti 
                  tra loro, vogliono l’instaurazione di nuovi poteri forti, 
                  assolutisti, totalitari, teocratici. Si ribellano al potere 
                  vigente perché vogliono sostituirvisi e dominare le genti 
                  al suo posto. Noi, quando riusciamo ad insorgere, al contrario, 
                  vogliamo non solo abbattere il potere vigente, ma ogni altra 
                  forma di dominio, perché vogliamo costruire società 
                  fondate sull’assenza di gerarchie e di poteri dominanti. 
                  Non proponiamoci perciò soprattutto come ribelli ed insurrezionalisti, 
                  ma innanzitutto come amanti fanatici della libertà, tutta 
                  la libertà possibile, dell’autogoverno, della voglia 
                  di non essere governati dall’alto e di vivere e convivere 
                  con gli altri senza violenze d’imposizione, nella solidarietà, 
                  nella reciprocità scambievole e nell’accordo consensuale 
                  più completi.  
                  Non dobbiamo spaventare, ma essere accattivanti pur rimanendo 
                  inflessibili nella coerenza. Dovremmo invece creare luoghi di 
                  sperimentazione libertaria, dove si possano vivere e sperimentare 
                  forme di autogoverno e di solidarietà sociale, non all’insegna 
                  di un unico modello, ma di più modelli. Luoghi polivalenti, 
                  policentrici e acentrici, senza gerarchie e burocrazie all’interno, 
                  capaci di produrre innovazione e sovversione culturale, di essere 
                  creativi e spregiudicati, di essere esempio di un nuovo modo 
                  di fare ed essere società. Momenti di autorganizzazione 
                  collettiva, centri sociali libertari, scuole libertarie, municipi 
                  libertari di base, per chi lo desidera comuni sperimentali e 
                  quant’altro venga in mente che rappresenti e sperimenti 
                  la società altra cui aspiriamo. Una società nella 
                  società insomma, capace di sovvertire i modelli e l’immaginario 
                  collettivo vigenti. Se si affermerà diffondendosi e verrà 
                  attaccata dai poteri costituiti, allora si difenderà 
                  ed insorgerà per affermare il diritto alla libera scelta, 
                  al libero pensiero, alla libertà di sperimentazione. 
                  È possibile! E, credetemi, è molto più 
                  potente ed esplosivo di qualsiasi detonazione d’arma o 
                  di bomba, di qualsiasi guerra, di qualsiasi azione violenta. 
                                 
                  
                  Andrea Papi 
                
                   
                    Note 
                      1. 
                        Errico Malatesta, Scritti scelti, a cura di C. 
                        Zaccaria e G. Berneri, “Umanità Nova” 
                        20 luglio 1920, Edizioni RL, Napoli, 1947.  
                        2. Errico Malatesta, Pagine di lotta quotidiana, 
                        1° Volume, “Umanità Nova” 25 agosto 
                        1921, pag. 195, Edito a cura del Movimento Anarchico Italiano, 
                        Carrara, 1975.  
                        3. Id., pag. 196. 
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