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Fine settembre, inizio ottobre 2016, un bollettino di guerra e una folla di assenze viene a bussare alla porta del primo freddo che ci ha morso il naso in questo anticipo d'autunno. Ancora sul numero scorso non si era asciugato l'inchiostro servito per salutare Bruno Pianta, il grande etnomusicologo morto in un incidente di pesca, che ci giungeva la notizia contemporanea della morte di Sandra Mantovani e di Mimmo Boninelli. Oggi quella della morte di Dario Fo, appena compensata dal bel riconoscimento del Premio Nobel dato a Bob Dylan. 
                Il “ricalco stilistico” 
                Sandra Mantovani (1928-2016) era giunta adulta al canto, i 
                  suoi esordi – pressocché contemporanei nei primi 
                  Dischi del Sole e nello spettacolo “Milanin Milanon” 
                  (al fianco di un altro esordiente assoluto come Enzo Jannacci 
                  e di Tino Carraro, Milly, Anna Nogara ed altri personaggi della 
                  Milano del dopoguerra) – furono nella prima metà 
                  degli anni '60. Era dunque la prima di tutti noi, la più 
                  nobile, e si era sempre trincerata con umiltà e coscienza 
                  dietro lo studio e la rielaborazione della canzone popolare, 
                  arrivando a teorizzare il “ricalco stilistico” come 
                  forma di estremo rispetto per la vita e la storia di chi quelle 
                  canzoni ce le aveva serbate per secoli. 
                  Eppure al timbro nobile della sua voce è legata la memoria 
                  delle prima o comunque delle più note esecuzioni storiche 
                  di quei canti che fanno il cuore degli “standard” 
                  del folk italiano: “O Gorizia tu sei maledetta”, 
                  “Sebben che siamo donne”, “Povere filandere”, 
                  “Mia mama vuol ch'j fila”, e le “nostre” 
                  “Sante Caserio” di Gori o “Il feroce monarchico 
                  Bava”. Nel 1964 quando il sipario si alzò sul Bella 
                  Ciao di Spoleto, lei era lì, al centro della scena. Sandra, 
                  senza mai eclissarsi dietro l'ingombrante figura del compagno 
                  di una vita Roberto Leydi, giganteggiava silenziosamente come 
                  una madre, come una musa, guardata e ricordata col rispetto 
                  che si deve ai pionieri, a chi con coraggio ha cantato queste 
                  canzoni nell'epoca in cui si rischiava nel migliore dei casi 
                  lo scherno, nel peggiore la persecuzione. Dopo la rottura nel 
                  Nuovo Canzoniere Italiano era rimasta al fianco del marito, 
                  fondando su sua sollecitazione l'Almanacco Popolare assieme 
                  a Bruno Pianta e Cristina Pederiva. 
                  Questo gruppo accostava a un chiaro intento didascalico (leggendarie 
                  le lezioni cantate sull'origine di Bella Ciao o sulle ballate 
                  narrative del Nigra) la novità, sperimentale per il periodo, 
                  dell'introduzione nell'accompagnamento dei canti di strumenti 
                  di respiro popolare quali la concertina, l'organetto, la piva, 
                  la ghironda. Poi un po' di attività di didattica della 
                  comunicazione e un signorile e progressivo uscire di scena – 
                  dovuto anche all'acuirsi di una certa perdita dell'udito – 
                  senza proclami, proprio di tutta una vita vissuta nel segno 
                  del rigore gentile di una vera grande protagonista del canto. 
                  Chiedevamo timidamente notizie di lei al figlio Silvio Leydi, 
                  e saperla viva e vigile, anche se nel suo buen retiro 
                  sul lago d'Orta, ci rassicurava, ci faceva ancora sentire come 
                  dei vecchi allievi dei più grandi e coraggiosi maestri 
                  possibili. 
                
                   
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                    |   al centro Sandra Mantovani  | 
                   
                  
                Con grazia e delicatezza 
                A così stretta distanza è venuto a mancare anche 
                  un ricercatore che apparteneva alla generazione successiva molto 
                  timido e schivo, che però aveva avuto un ruolo importante 
                  nella riscoperta e nella valorizzazione del patrimonio del suo 
                  territorio bergamasco: Mimmo Boninelli (1951-2016). Mimmo ci 
                  aveva in qualche modo abituati alla sua fragilità, che 
                  però era in equilibrio con la grazia delicata della sua 
                  voce e dei suoi modi da vero signore, quasi facesse parte del 
                  suo stile, quasi fosse una scelta di vita e non la dolorosa 
                  necessità di una salute fragile, quasi preferisse anche 
                  un po' eclissarsi dietro la figura di interprete portata avanti 
                  dall'infaticabile sorella Sandra, nostra carissima e stimata 
                  amica. Così se n'è andato anche Mimmo, senza fare 
                  rumore, lasciandoci il patrimonio della sua cultura, della sua 
                  saggezza, dei suoi studi e dell'idea che la canzone popolare 
                  può essere grazia e delicatezza. 
                 
                Due eretici premi Nobel 
                Dario Fo (1926-2016). Siamo folgorati, attoniti, spaesati... 
                  non tanto dalla morte: rispettando e amando la vita come unica 
                  irripetibile e senza proroghe, conosciamo le regole di questo 
                  gioco sospeso sin dalla nascita a un termine ultimo. Tutto sommato 
                  morire a novant'anni suonati, avendoli peraltro festeggiati 
                  pochi mesi fa sul palco recitando a memoria una lunga pièce, 
                  ci pare un bel traguardo, ci metteremmo la firma più 
                  che volentieri... Siamo folgorati attoniti spaesati dal vuoto 
                  che lascia un personaggio, centrale in molte questioni che ci 
                  riguardano da vicino, come lettori, come spettatori, come musicisti, 
                  come appassionati di canzone d'autore, di ricerca sul mondo 
                  popolare, come militanti rivoluzionari, come propugnatori della 
                  solidarietà militante, infine come anarchici che sanno 
                  perfettamente cosa ha voluto dire una commedia come “Morte 
                  accidentale di un anarchico” (per di più ribadita 
                  nelle intenzioni da “Marino è libero, Marino è 
                  innocente” di molti anni dopo) nell'Italia travolta dalla 
                  strategia della tensione, dalla bomba di Piazza Fontana e dall'assassinio 
                  del nostro compagno Pinelli... per tutto questo ci pareva importante 
                  avere questo monumento all'arte impegnata del ‘900 ancora 
                  e per molti anni presente. 
                  Sebbene non si condividessero affatto molti dei suoi entusiasmi 
                  lontani e anche più vicini per questa o quella formazione 
                  politica (partito marxista o movimento grillino che fosse), 
                  beh... insomma ci avremmo litigato ancora e volentieri a lungo 
                  con Dario nostro, con il genio che aveva riportato all'oralità 
                  pura dei suoi indescrivibili (fuor di metafora) gramelot 
                  la seriosità delle accademie drammatiche. 
                  Una parte fondamentale del suo lavoro era dedicata alla musica, 
                  come autore di canzoni Fo ha scritto alcune perle sin dalla 
                  fine degli anni ‘50, chi ha visto qualche mio concerto 
                  sa che la riproposizione di “Hanno ammazzato il Mario 
                  in bicicletta” è un pallino fisso. I canti di scena, 
                  che occupavano un ruolo centrale nella sua drammaturgia, aspettano 
                  ancora di essere ordinati e analizzati in una trattazione plausibile, 
                  o anche semplicemente ripubblicati e messi a disposizione per 
                  il pubblico, che così potrebbe anche apprezzare il talento 
                  dei suoi due principali collaboratori musicali Fiorenzo Carpi 
                  e Paolo Ciarchi. 
                  Quasi fosse scritta in copione, come un'uscita teatrale perfetta, 
                  nel giorno in cui se ne andava un Premio Nobel molto eretico, 
                  non tanto per le sue scelte politiche – perché 
                  il Nobel ama gli artisti di opposizione – quanto per il 
                  fatto che fosse un autore-attore molto carismatico e legato 
                  a una forza mimica, che contaminava il suo teatro di monologhi 
                  improvvisati, canti, strofe e ritornelli, che richiamavano il 
                  Varietà, dal quale peraltro proveniva, proprio in quello 
                  stesso giorno il Nobel finalmente e dopo anni che se ne parlava 
                  si decideva a concedere il massimo riconoscimento letterario 
                  a Bob Dylan. 
                  Ci limitiamo qui a segnalare la straordinarietà della 
                  cosa, pur nell'assoluta pertinenza: non abbiamo mai avuto dubbi 
                  che Bob Dylan, oltre a tante altre cose, sia una delle più 
                  indiscutibili voci poetiche del ‘900. Quei pochi letterati 
                  – soprattutto nostrani – che si alzano in una grottesca 
                  difesa del valore letterario assoluto, legato solo alla pagina 
                  scritta, alla pesantezza tipografica, rischiano di dover essere 
                  rimandati a lezioni dal vecchio Omero e dalla sua Cetra. Noi 
                  ci rallegriamo perché anche nel più elettrico 
                  e acido disco di Bob ritroviamo non tanto il mito della protest 
                  song americana (che lui solo per un breve iniziale periodo 
                  incarnò) quanto la follia e l'illuminazione della canzone 
                  popolare e di tutti quegli omeri che si chiamavano Robert Johnson, 
                  Blind Lemmon Jefferson, Leadbelly o Woody Guthrie, una bella 
                  compagnia cantante alla quale alziamo il bicchiere per questo 
                  premio che rende un po' d'onore alla loro eccelsa musica e alle 
                  loro vite difficili. 
                 
                Canusìa e la musica popolare 
                Non volevamo però trasformare questa rubrica in una raccolta di epitaffi e così per concludere voglio anche segnalarvi un notevolissimo disco che rinnova l'incanto del folk italiano: “Fiore di Cardo” dei Canusìa. 
Facciamo un passo indietro, prima dell'inizio: cosa sarà mai questa “musica popolare”? In passato fu ragione di riappropriazione di storie mai raccontate di lavoro, di emigrazione, di guerra, di lotte... poi divenne riappropriazione di una lingua (o di molte lingue in una) che non era quell'italiano brutto della televisione... poi ancora rivisitazione di un erotismo lunare, femminile, circolo mai chiuso di nascita-morte-rinascita, paganesimo contadino, maggio di fioritura... e poi “altra musica”, grazia di voci fuori da ogni intonazione, strumenti apparentemente limitati o del tutto pre-tonali ma con una loro precisa disciplina (organetti, launeddas, zampogne, ghironde). Quando tutto questo incontrò i grandi palchi del rock e del pop, dovendo ricollocarsi in una dimensione professionale, nacque la “world music”, che trovò un'energia tale da riportare alla dimensione originaria questo percorso. 
Oggi i Canusìa rappresentano una delle possibili migliori sintesi della musica popolare in Italia. Il duo situato nel profondo Lazio – una terra paradossalmente lontana e sconosciuta perché fagocitata e messa in ombra dall'immensità della capitale romana – ha debuttato agli inizi degli anni duemila e da lì ha intrapreso una profonda ricerca che andava nelle due direzioni: censire quest'archivio di voci umane arrivateci per tradizione ed esplorare e portare avanti la riproposta. Questa ricerca è finalmente approdata a un primo disco “Fiore di cardo” (2015). Anna Maria Giorgi e Mauro D'Addia hanno splendide voci, diciamolo subito, e le intrecciano in un modo del tutto sorprendente, il loro modo di cantare rivolta le zolle, si pianta nel profondo del cuore con una vibrazione e un velo naturale che via via commuove, indigna, strazia, irride. Non so se sia “popolare” l'uso che ne fanno, so che è qualcosa di profondamente ancorato nel senso di ciò che dicono e che ha un lustro e una risonanza che sembra venire di lontano e ci parla di oggi. 
Così le scelte musicali che hanno fatto per questo loro primo disco acquistano particolare pregnanza: tappeti di arpeggi sospendono le melodie in una dimensione fiabesca, incursioni bandistiche scandiscono il ritmo della vita e della morte. Si suonavano così queste canzoni nei “bei tempi andati”? Certo che no, ma nella personale traduzione all'oggi di questi canti si avverte la rabbia senza tempo, il dolore di coloro che furono lasciati fuori dalla Storia, il ritmo sensuale del ballo, la paura di partire in terre lontane, la festa del vino e del cibo, sogno di pienezza. 
Balcanica, indoeuropea, mediterranea, provenzale, questa musica è una sintesi, un progetto intellettuale che arriva dritto al cuore. Il repertorio raramente può attingere direttamente ai portatori anonimi: troppi anni di radio e televisione hanno spento la cultura orale. I Canusìa rendono omaggio (più o meno consapevolmente) ai mostri sacri, agli eroici pionieri: Giovanna Marini, Lucilla Galeazzi, Sandro Portelli, Valentino Paparelli e soprattutto alla troppo dimenticata Graziella di Prospero. Saltando però una generazione e consci della distanza che il tempo scava, fanno un lavoro di base davvero popolare: cantano nei centri sociali, a difesa delle occupazioni della case, nelle feste di piazza, rigorosamente e senza presunzioni accademiche.  “Rifunzionalizzazione” era una parola ricorrente negli studi etnologici, ebbene questo è quello che fanno i Canusìa con grazie, con rigore, con la giusta violenza. Riportare a casa, dopo tanto studio, la nave che partiva con gli emigranti per l'America e dove si cantava partendo, si cantava arrivando, si cantava affondando, si cantava lavorando e lottando. Cantavamo, cantiamo, canteremo ancora. 
                Alessio Lega 
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