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				 rugby e società 
                  
                Quell'oblunga palla di cuoio 
                  
                di Giuseppe Ciarallo 
                    
                Così veniva definita durante il Fascismo la palla ovale. È vero che il rugby è uno sport “macho”, violento e di destra? Assolutamente no, risponde qui il nostro collaboratore Giuseppe, orgoglioso del suo passato di rugbista. E spiega invece che il rugby...  
                
                 
                  Il rugby è come l´amore: ti fa ridere, gioire, sacrificare, soffrire, piangere, lottare, vivere: e perciò non ne puoi fare a meno! 
                  (Sergio Parisse Senior) 
                   
                  Andate a parlare di sacrifici a chi scende in miniera o a chi tutte le mattine si alza dal letto pensando che fuori dalla porta lo attende la catena di montaggio. 
                  Io sono fortunato, io gioco, non mi sacrifico. 
                  (Jason Leonard) 
                 La mia passione per il rugby ha radici molto 
                  profonde nel tempo. 
                  Alla fine degli anni sessanta, durante il mio primo anno alle 
                  scuole medie, con classi ancora rigorosamente divise tra maschili 
                  e femminili, l'insegnante di Educazione fisica, tale professor 
                  Rossi, ebbe l'ottima idea di iniziarci non ai classici sport 
                  da palestra scolastica, pallavolo e basket, ma alla pratica 
                  della palla ovale. Non ricordo la reazione dei miei compagni 
                  di classe, ma io mi entusiasmai da subito, e non poco, alla 
                  possibilità che intravvedevo – dopo la necessaria 
                  acquisizione dei primi rudimenti del gioco, delle regole, dei 
                  fondamentali tecnici – di poter placcare, scontrarmi fisicamente 
                  con l'avversario e, non ultimo, rotolarmi nel fango, attività 
                  che inspiegabilmente ha da sempre un certo fascino per i ragazzi 
                  e non solo. 
                  L'anno successivo il professor Rossi riuscì persino a 
                  mettere insieme un paio di squadre per partecipare a una sorta 
                  di Giochi della gioventù del rugby, un torneo che si 
                  svolse presso il mitico campo Giuriati (vecchio) di Milano, 
                  peraltro luogo sacro dell'antifascismo per essere stato lo scenario, 
                  tra il 14 gennaio e il 2 febbraio del 1945, di due spietate 
                  rappresaglie da parte dei repubblichini, nelle quali persero 
                  la vita, fucilati, nove giovanissimi ragazzi poco più 
                  che ventenni, appartenenti al Fronte della Gioventù, 
                  e cinque valorosi gappisti. 
                  Qualche tempo dopo, nei primi anni settanta, giocai dapprima 
                  nei Chicken - una simpatica e romantica squadra in cui i giovani 
                  potevano imparare l'etica del rugby ancor prima che il gioco 
                  in sé, e che fungeva da nave scuola e da vivaio per le 
                  franchigie milanesi più quotate - per poi indossare la 
                  gloriosa maglia a righe orizzontali bianche e nere del CUS Milano. 
                  Di quel periodo, c'è un ricordo indelebile nella mia 
                  memoria. Sono negli spogliatoi con i miei compagni, dopo una 
                  partita. Dalle docce arrivano le note di una canzone, fischiettata 
                  forte, quasi con rabbia. Sono le note di Bandiera rossa. I miei 
                  compagni di squadra si irrigidiscono, poi scuotendo la testa 
                  infastiditi ricominciano a riempire il borsone di scarpe, calzettoni, 
                  maglie e calzoncini infangati. Incuriosito faccio la posta al 
                  fischiator scortese, finché vedo uscire dalla doccia 
                  il corpo massiccio e possente, ventre prominente, di Sandrone, 
                  ex giocatore e aiuto coach, il quale mi guarda con aria di sfida, 
                  non cattiva, ma pronto a rimettermi al mio posto qualora la 
                  situazione lo richieda. “Ho sentito che fischiavi Bandiera 
                  rossa” gli dico. “E allora?” mi risponde lui 
                  in tono poco amichevole. “Sono un compagno” spiego. 
                  Allora Sandrone si rilassa e mi sorride. “Lo faccio apposta” 
                  mi dice. “Quegli stronzetti dei tuoi compagni di squadra 
                  sono tutti fascisti. Fischio Bandiera rossa, e l'Internazionale, 
                  aspettando che qualcuno mi dica qualcosa, pronto a distribuire 
                  un po' di calci nel culo ben assestati. Finora nessuno ha mai 
                  avuto il coraggio di dirmi qualcosa”. 
                
                   
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                    |   Buenos Aires (Argentina), 1948 - A sinistra Ernesto “Che” Guevara, ventenne, giocatore del club Atalaya  | 
                   
                  
                Per esempio, il Che 
                Dopo questa mia prima esperienza personale ho potuto constatare 
                  in più di un'occasione come per lungo tempo il rugby 
                  nell'immaginario collettivo sia stato considerato uno “sport 
                  di destra” (oggi per fortuna non è più così, 
                  forse anche per il fatto che sia la sinistra che la destra hanno 
                  smarrito la connotazione chiara e forte che le caratterizzava 
                  fino a qualche decennio fa, e che faceva nascere passioni politiche 
                  e senso di appartenenza). Comunque, non sono mai riuscito a 
                  trovare una risposta alla domanda che da sempre assilla il mio 
                  cuore di militante rugbista di sinistra: com'è possibile 
                  che in Italia una disciplina così aperta, collettivista, 
                  operaia nella sua essenza (è vero che lo sport è 
                  nato in un college ad opera di uno studente figlio della borghesia 
                  britannica, ma è altrettanto inoppugnabile che si sia 
                  poi sviluppato con particolare rigoglio tra i minatori e gli 
                  operai gallesi, scozzesi, irlandesi e inglesi), sia stato considerato 
                  nel passato uno sport tipicamente “fascista”? 
                  Molto probabilmente il tutto prende spunto dalle parole che 
                  Achille Starace, segretario nazionale del Partito Fascista e 
                  presidente del Comitato Olimpico Nazionale Italiano dal 1933 
                  al 1939, pronunciò con la solita, retorica enfasi a proposito 
                  di quello che all'epoca veniva definito lo sport della oblunga 
                  palla di cuoio: “Il giuoco del rugby, sport da combattimento, 
                  deve essere praticato e largamente diffuso tra la gioventù 
                  fascista!”. Starace, evidentemente, ben guardandosi dal 
                  praticare personalmente uno sport così duro e impegnativo, 
                  si era limitato a estrapolare dall'insieme complesso di caratteristiche 
                  di cui il rugby è composto, quel machismo da quattro 
                  soldi che il fascismo non perdeva occasione di esibire e ostentare 
                  a ogni pié sospinto. Mi piacerebbe vedere oggi la faccia 
                  del gerarca, nell'apprendere che il calendario fotografico realizzato 
                  ogni anno molto spiritosamente dai giocatori del campionato 
                  francese, che vi compaiono in costume adamitico, è diventato 
                  oggetto di culto e indiscussa icona tra le comunità gay 
                  internazionali, senza che la cosa abbia per nulla turbato o 
                  causato risentimento negli stessi giocatori. Senza contare i 
                  coming-out, per nulla accompagnati da sensazionalismo 
                  di alcun genere, di Gareth Thomas, colonna della nazionale gallese 
                  fino al 2010, e di Nigel Owens, la cui dichiarata omosessualità 
                  non ha minimamente intaccato la sua fama di miglior arbitro 
                  internazionale in attività. Un bello schiaffo, questo, 
                  all'omofobia che regna sovrana in altri sport. 
                  Dunque, sfatiamo il mito. Il rugby non è affatto uno 
                  sport di destra, anzi... se proprio vogliamo dirla tutta, se 
                  Starace si è limitato a blaterare di coraggio, di cameratismo, 
                  di gioco maschio e virile, un personaggio di tutt'altra caratura, 
                  qualche anno dopo calcherà i campi fangosi d'Argentina 
                  forgiando il proprio carattere e, secondo molti, gettando le 
                  basi per una visione del mondo e della società che condizionerà 
                  ineluttabilmente la sua vita futura. Sto parlando di Ernesto 
                  “Che” Guevara. 
                  Ecco cosa ne pensa Gerardo Enet, suo vecchio compagno di squadra: 
                  “Salvando le logiche distanze, vedo un rapporto tra lo 
                  sport che praticavamo e la vita successiva di Ernesto. Il rugby 
                  è una lotta che implica un costante contatto fisico. 
                  Per praticarlo ci vuole un gran temperamento e uno spirito molto 
                  speciale”. Secondo Sergio Giuntini, poi, autore del saggio 
                  Il Che e lo sport, è del tutto legittimo immaginare 
                  che il Che abbia fatto tesoro di quel patrimonio di rude e spartana 
                  vita rugbistica accumulato in gioventù, per utilizzarlo 
                  durante le successive privazioni della guerriglia sulla Sierra 
                  Maestra e nelle fatali giornate boliviane. L'autore del saggio 
                  si spinge oltre, fino ad asserire che il rugby possa avere perfino 
                  influenzato il pensiero del giovane Ernesto, affermando che 
                  “su un altro piano, la filosofia rigidamente collettivista 
                  del rugby richiama alcune delle categorie che informano la dottrina 
                  socialista”. 
                  
                Il rispetto per l'avversario, la solidarietà di gruppo 
                Forse ho un'idea ancora romantica del rugby, forse negli ultimi 
                  anni le cose sono cambiate anche in questo ambito, perché 
                  dove arrivano tanti soldi, e il professionismo esasperato, prima 
                  o poi le cose si trasformano, e mai in meglio, ma le ragioni 
                  per cui amo questo sport restano intatte. Innanzitutto perché 
                  il rugby è uno sport strano. Strano e paradossale, a 
                  cominciare dalla sua regola fondamentale che impone ai giocatori 
                  di avanzare sul terreno di gioco passando la palla... rigorosamente 
                  all'indietro! Sport per gente paziente il rugby, con mentalità 
                  operaia, razza che conosce la fatica indispensabile per conquistare 
                  ogni centimetro di campo, poco per volta, in una estenuante 
                  guerra di logoramento, proprio e dell'avversario. Mica come 
                  il calcio o, peggio, il più sbrigativo football americano 
                  (che qualche profano confonde - orrore! - con il rugby), sport 
                  “mentalmente capitalisti”, per persone che hanno 
                  fretta, che non hanno tempo da perdere, discipline nelle quali 
                  il passaggio in avanti è consentito e può risolvere 
                  sbrigativamente e in un'unica soluzione il gioco d'attacco e 
                  la segnatura, avendo “solo”, si fa per dire, cura 
                  di evitare l'aggressiva violenza dei difensori. 
                  Ma sono tante le affascinanti chiavi di lettura che si possono 
                  dare alla regola numero uno del rugby. Una potrebbe essere quella 
                  secondo la quale il futuro (la linea di meta, che è di 
                  fronte a noi) può essere conquistata solo volgendosi 
                  all'indietro (cioè verso le proprie radici, verso il 
                  passato dal quale dovremmo sempre attingere per non ripetere 
                  gli errori). Un'altra interpretazione potrebbe riguardare una 
                  sorta di disposizione all'umiltà, come a dire “vai 
                  pure avanti, ma ricordati di fare sempre un passo indietro per 
                  non passare da arrogante”. 
                  Altre e più importanti componenti, però, fanno 
                  del rugby una disciplina oltre che spettacolare, altamente edificante. 
                  Tanto per cominciare il rugby è senza alcun dubbio lo 
                  sport più democratico che ci sia. Non c'è preclusione 
                  per alcun tipo di fisico. Basta guardare la composizione delle 
                  squadre. C'è quello basso e traccagnotto, adatto alla 
                  prima linea, c'è quello piccolo e veloce per sgusciare 
                  tra le maglie della difesa avversaria, c'è quello alto 
                  e muscoloso, buono per gli sfondamenti, insomma che uno sia 
                  piccolino, alto, robusto, grasso, mingherlino, non ha alcuna 
                  importanza, essenziale per giocare a rugby è la voglia 
                  e la capacità di versare sangue, sudore e lacrime (anche 
                  se non sempre, solo metaforicamente). A conferma di questa mia 
                  tesi, ponendo l'accento anche sull'aspetto caratteriale dei 
                  giocatori, giungono le parole del giornalista e scrittore francese 
                  Jean Girardoux, il quale afferma: “Otto giocatori forti 
                  e attivi (quelli del pacchetto di mischia, nda), due 
                  leggeri e scaltri, quattro veloci e un ultimo, modello di flemma 
                  e sangue freddo... una squadra di rugby è la proporzione 
                  ideale fra gli uomini”. 
                  Inoltre, nel rugby sono regole imprescindibili il rispetto per 
                  l'avversario, la solidarietà di gruppo, il ridimensionamento 
                  dell'individualismo a favore di una visione collettivistica 
                  del gioco, l'educazione alla pazienza, l'educazione al rispetto 
                  delle regole e soprattutto dell'arbitro, l'educazione alla fatica, 
                  al sudore, alla dovuta considerazione per il lavoro proprio 
                  e degli altri, la fiducia nei propri mezzi che non deve mai 
                  sfociare in spocchia. Ora, se pensiamo al triste periodo storico 
                  che ci è toccato in sorte, nel quale il successo arride 
                  a pupazzi senza arte né parte, a squallidi individui 
                  che hanno diffuso la peste del disimpegno, della scorciatoia, 
                  del risultato senza fatica, una disciplina che in totale controtendenza 
                  predica la dedizione, l'elogio del sacrificio, il rispetto per 
                  l'altro, la riuscita collettiva contrapposta al successo individuale, 
                  è un tonico massaggio cerebrale e un balsamo rigenerante 
                  per i cuori avviliti dei tanti che non hanno voluto piegarsi 
                  alla logica perversa della società dello spettacolo (indegno). 
                  Per non parlare di un concetto del tutto sconosciuto ai più, 
                  oggi, quale è quello del rispetto delle regole e soprattutto 
                  di chi quelle regole è tenuto a far adempiere. 
                  Su un campo di rugby non si vedrà mai un giocatore inveire 
                  contro l'arbitro o contestarne le decisioni, anche quando quelle 
                  decisioni sono dubbie o quantomeno non condivise. La buona fede 
                  dell'arbitro e la sua imparzialità, nel rugby sono fuori 
                  discussione. Non v'è dubbio che gli altri sport, in primis 
                  il calcio, sono più in linea con l'attuale posizione 
                  politico/governativa e quindi con il conseguente comportamento 
                  di un intero popolo: indifferenza nei confronti delle leggi, 
                  per aggirare le quali ogni mezzo o mezzuccio è buono, 
                  critica feroce verso chi impone il rispetto della legalità 
                  (i giudici nella vita della nazione, l'arbitro nel gioco). 
                  È conseguentemente naturale che la rigida disciplina 
                  osservata dai giocatori in campo, abbia poi una benefica ricaduta 
                  su chi assiste alla partita sugli spalti. Nel rugby non esistono 
                  gli ultrà, i tifosi di opposto schieramento assistono 
                  all'incontro fianco a fianco, scambiandosi commenti, facendosi 
                  vicendevoli complimenti sulla squadra, il tutto magari bevendo 
                  una bella pinta di birra o sorseggiando da una fiaschetta di 
                  whisky, senza che mai si sia verificato il benché minimo 
                  incidente (negli annali è riportato il quasi mitologico 
                  episodio di un tifoso un po' esagitato che dopo aver scagliato 
                  una bottiglia di plastica in campo, è stato immediatamente 
                  individuato e “invitato” a lasciare lo stadio dopo 
                  essere stato insultato dal resto della curva). Piccolo ricordo 
                  personale: Italia - Nuova Zelanda, Stadio di San Siro prestato 
                  per un pomeriggio al rugby, spalti gemiti da ottantamila persone, 
                  metà delle quali, probabilmente provenienti dal tifo 
                  calcistico, erano state attirate dal grande evento mediatico 
                  e che subito dopo la haka, la danza maori eseguita prima di 
                  ogni partita dai mitici All Blacks, avevano già esaurito 
                  tutto l'interesse per il match essendo completamente a digiuno 
                  delle regole della palla ovale. Ebbene, lo speaker dell'incontro 
                  dovette ripetere per tutta la durata della partita che il fischiare 
                  gli avversari è un gesto estraneo alla filosofia del 
                  rugby. 
                  
                120 a 0. Nessuna pietà 
                Il tifoso di rugby ama la sua squadra, ma soprattutto il bel 
                  gioco. Sa sempre riconoscere l'eventuale superiorità 
                  della squadra avversaria e incita la propria fino all'ultimo 
                  secondo di partita. Faccio un esempio: se durante una partita 
                  di calcio alla fine del primo tempo la propria squadra stesse 
                  perdendo, chessò, 10 a 0 (o nel basket 70 a 10), alla 
                  ripresa del gioco lo stadio (o il palazzetto) sarebbe mezzo 
                  vuoto e i tifosi ancora presenti starebbero lì appositamente 
                  per fischiare e insultare impietosamente i propri giocatori. 
                  Nel rugby, invece, se a un minuto dalla fine la propria squadra 
                  fosse sotto, pur con un punteggio esagerato, ma stesse spingendo 
                  per fare una meta, il tifo sarebbe comunque alle stelle, e in 
                  caso di esito positivo, meta segnata, il tifoso esulterebbe 
                  come se la propria squadra quella partita l'avesse vinta, e 
                  non malamente persa. È come se il tifoso di rugby fosse 
                  capace di spezzettare la partita in ogni singolo episodio, isolandolo 
                  dal contesto complessivo e dandogli la giusta importanza. E 
                  al termine di ogni match la squadra sconfitta si schiera in 
                  due ali per far passare, tra gli applausi, i vincitori, i quali 
                  ricambiano schierandosi a loro volta e applaudendo gli avversari 
                  sconfitti. Il tutto prima del cosiddetto “terzo tempo”, 
                  momento di convivialità dove spesso capita, davanti a 
                  una generosa pinta di birra, di vedere discorrere amabilmente 
                  due energumeni che fino a un'ora prima, sul campo, se le stavano 
                  suonando di santa ragione. 
                  Può anche capitare che un eccesso di rispetto possa essere 
                  letto, da un profano, come inutile crudeltà. Ci sono 
                  partite, tra squadre fortissime e formazioni che in altri sport 
                  verrebbero definite formazioni materasso, che terminano con 
                  punteggi esagerati (ci sono stati dei 120 a zero). Di fronte 
                  a tanta sproporzione il non rugbista si chiede perché 
                  il più forte non lasci almeno l'onore delle armi allo 
                  sconfitto, a un certo punto smettendo d'infierire. La logica 
                  del rugby conduce in direzione diametralmente opposta. Io, più 
                  forte, giocherò per tutti gli ottanta minuti con il massimo 
                  dell'impegno, proprio perché il giocare con sufficienza, 
                  il risparmio di energie rappresenterebbe per te, mio avversario, 
                  il massimo dell'umiliazione. Questione di mentalità. 
                  Troppe persone, e non solo in ambito sportivo, confondono il 
                  rispetto con la pietà. 
                  È per tutte queste ragioni che, se fossi ministro della 
                  Pubblica Istruzione, e quindi una figura istituzionale deputata 
                  alla salvaguardia della cultura di una nazione, ma soprattutto 
                  a una sua crescita etica e morale, renderei obbligatorio nelle 
                  scuole l'insegnamento del rugby, fondendo l'ora di ginnastica 
                  con la riesumata lezione di educazione civica di antica memoria. 
                  Ma siccome io mi occupo principalmente di letteratura, mi sono 
                  chiesto quanti scrittori, una disciplina così complessa, 
                  affascinante e ricca di possibili risvolti narrativi, possa 
                  avere ispirato. Uno dei primi grandi nomi a citare, seppure 
                  alla sua maniera, il gioco del rugby fu Oscar Wilde, che con 
                  la sua tagliente ironia, inimitabile cifra della sua scrittura, 
                  sentenziò che “il rugby è una buona occasione 
                  per tener lontani trenta energumeni dal centro della città”. 
                  E Pelham Grenwille Wodehouse, padre letterario di Jeeves aggiunse: 
                  “Segnare una meta richiede una serie di azioni che in 
                  qualunque altro contesto procurerebbe ai protagonisti una condanna 
                  a quindici anni di galera”. 
                  I giocatori e i tifosi, gente spiritosa e capace di autoironia, 
                  ancora ci ridono a queste sottili battute. 
                  
                Rugby e letteratura 
                Più recentemente, la scrittrice francese Dominique Manotti 
                  ha sfiorato l'argomento: il suo commissario Daquin, protagonista 
                  di alcuni romanzi, è bello e sofisticato, è omosessuale 
                  e ama il jazz e soprattutto il rugby, sport che peraltro pratica 
                  tra un'indagine e l'altra. 
                  In italiano non sono molte le opere letterarie che parlano di 
                  rugby. Al di là di alcune raccolte di novelle (I racconti 
                  del rugby di Henri Garcia, Oltre la linea bianca 
                  di Franco Paludetto, Novelle ovali di Antonio Falda, 
                  Up & Under di Andrea Pelliccia) merita una menzione 
                  particolare il bel romanzo Mar del Plata, di Claudio 
                  Fava - figlio del giornalista Giuseppe Fava ucciso dalla mafia 
                  nel 1984 - parlamentare di Sinistra Italiana. In questo libro 
                  Fava racconta la storia di una squadra di rugby nell'Argentina 
                  di Videla, quella dei 30mila desaparecidos, la storia di diciassette 
                  ragazzi, militanti di varie galassie della sinistra politica 
                  argentina degli anni '70, brutalmente trucidati dal regime. 
                  Di storia (con la esse maiuscola) e sport parla anche una delle 
                  realizzazioni editoriali di maggior successo - per avere ispirato 
                  il film Invictus, regia di Clint Eastwood e l'attore 
                  Morgan Freeman nei panni di Nelson Mandela – e cioè 
                  il romanzo Ama il tuo nemico (titolo originale Playing 
                  the Enemy) dell'inglese John Carlin. L'autore racconta come 
                  l'intuizione politica del presidente sudafricano sia riuscita 
                  a inventare la più audace e improbabile delle imprese: 
                  usare il rugby (sport di esclusivo appannaggio della minoranza 
                  bianca afrikaner) e il campionato del mondo di questo sport, 
                  che si tenne nel 1995 proprio nel paese impegnato a superare 
                  definitivamente le fratture sociali causate dall'apartheid, 
                  per unire una volta per tutte i sudafricani di ogni etnia e 
                  colore. In effetti può sembrare una favoletta a lieto 
                  fine, ma nel complesso le cose andarono proprio così: 
                  gli Springboks, i giocatori sudafricani, sostenuti anche dalla 
                  popolazione nera che fino a quel momento aveva riversato verso 
                  quello sport “bianco” tutta la propria avversione 
                  e il proprio livore, sconfissero sul campo gli avversari neozelandesi 
                  in una finale mitica, e Mandela, presente sugli spalti, venne 
                  unanimemente acclamato dal popolo della sua nazione. 
                  
                 “Stavo con la testa contro il sedere di Mellor, aspettando 
                  che la palla gli arrivasse tra le gambe. Lui fu lento. Già 
                  mi spostavo, quando il cuoio mi rimbalzò tra le mani 
                  e, prima che riuscissi a passare, una spalla mi colpì 
                  alla mascella. Mi fece sbattere i denti con tale violenza che 
                  mi s'abbuiò tutto intorno”. Comincia con queste 
                  parole, nel bel mezzo di una mischia, quella che è forse 
                  l'opera più importante che abbia come sfondo il mondo 
                  del rugby. Il campione, del britannico David Storey, 
                  la cui prima edizione inglese è datata 1960, è 
                  stato definito “il miglior romanzo sportivo che sia mai 
                  stato scritto”. Ambientato in un desolato distretto minerario 
                  del nord dell'Inghilterra, il libro narra delle vicende di Arthur 
                  Machin, onesto lavoratore e idolo di piccole folle paesane, 
                  costretto a combattere, sui campi come nella vita, per sfuggire 
                  al destino di un'esistenza stentata e senza orizzonti, che la 
                  miniera offre. Particolare curioso, nel disegno di copertina 
                  della prima edizione italiana, un acquerello di Heiri Steiner, 
                  compaiono giocatori inequivocabilmente in tenuta da... football 
                  americano! 
                  
                 Ma un vero e proprio capolavoro, secondo il mio modesto parere, 
                  non poteva che essere scritto da un neozelandese. Il libro 
                  della gloria, di Lloyd Jones, frutto di un colossale lavoro 
                  di scrupolosa ricerca tra giornali, riviste e documenti vecchi 
                  di oltre un secolo, racconta la leggendaria prima tournée 
                  internazionale degli All Blacks, nel 1905, con i ventisette 
                  ragazzoni di nero vestiti, a calcare i campi e le strade d'Inghilterra, 
                  Scozia, Galles, Irlanda, Francia e poi Stati Uniti, senza mai 
                  perdere l'ingenuità e lo stupore per essere loro malgrado 
                  oggetto d'attenzione per intere nazioni. Seppure il ritmo del 
                  romanzo è inevitabilmente scandito dalle partite che 
                  vengono giocate in un incalzante susseguirsi, sono i pensieri 
                  dei giocatori, le impressioni, i sentimenti a delineare la storia, 
                  i ricordi... “La richiesta di un piccolo paralitico a 
                  George Smith, di fargli la firma sugli arti atrofizzati [...] 
                  A Blackfriar, la piccola fiammiferaia che corse ad accendere 
                  la pipa di Jimmy Duncan [...] I francesi, pazzi di gioia, celebrarono 
                  la loro meta con capriole, verticali, ruote e salti mortali 
                  [...] Le due anziane contadine che, riconosciutili, regalarono 
                  a Gillett e Harper un cestino di uova sode [...] Tutte le miniere 
                  di carbone della zona di Forest Green chiuse nel giorno della 
                  partita con il Gloucester [...] Scrivere false lettere d'amore 
                  a quelli di noi che non ne ricevevano”. Gentile, delicato, 
                  pulito, questi i tre aggettivi che paradossalmente mi vengono 
                  in mente per connotare un libro chiamato a parlare di uno sport 
                  violento, rude e in cui inevitabilmente ci si sporca. 
                  
                Calcio e rugby, discipline così 
                  diverse  
                Nel Belpaese, però, la palma di cantore della palla ovale va indubbiamente assegnato a Marco Paolini, che ha scritto e portato in scena le esilaranti e commoventi avventure di una squadra di ragazzi, ex contadini riconvertitisi in idraulici, menatubi, impiantisti, elettricisti nel laborioso e mitizzato nordest. Raccontate da Paolini, le rigogliose lande delle province venete non sono poi così dissimili dai claustrofobici bacini minerari gallesi. L'autore ci spiega, con rara capacità di cantastorie, del perché il rugby abbia così tanto attecchito nel suo Veneto, rispetto al resto della penisola. “Classe operaia e sapienza contadina fanno una miscela micidiale. Se hai la terra nel cognome giochi bene: Visentin, Trevisin, Furlan, Mestriner... Più terra c'è nel cognome meglio giocano, è fisiologico”. Ma un'altra riflessione di Paolini, degna di nota, riguarda il confronto tra il rugby e il calcio, discipline così diverse, che vengono paragonate rispettivamente, sempre per rimanere in ambito di metafore bellicistiche, alla prima e alla seconda guerra mondiale. Col rugby che ricorda la logorante conquista, palmo per palmo, della trincea nemica, e il calcio più simile alle battaglie aeree nelle quali si può vincere senza nemmeno sporcarsi le mani. 
Ma ciò che meglio definisce la bellezza di uno sport, metafora della vita, che insegna ad affrontare con impegno ma anche con leggerezza i colpi che l'esistenza inevitabilmente riserva all'uomo, sono le parole dei fratelli Bergamasco, Mauro e Mirco, ex colonne della nazionale italiana, che di terra nel loro cognome ne hanno eccome: “Forse la radice dell'atteggiamento scanzonato che si coglie nel nostro ambiente deriva dall'enorme sproporzione tra gli sforzi messi in atto da atleti dal fisico imponente e lo scopo del tutto futile per cui questi sforzi sono dispiegati con tanta dedizione. Questa sproporzione sembra quasi caricaturale: anche se l'ambiente è ricco di riferimenti bellici e marziali, non stiamo andando in guerra, anche se ci comportiamo come se dovessimo entrare nell'arena davanti a Cesare, non siamo gladiatori... stiamo solo correndo dietro a un pallone!” 
                 Giuseppe Ciarallo 
                  
                   
                    Leggere 
                        il rugby 
                       Mauro 
                        e Mirco Bergamasco con Matteo Rampin, Andare avanti 
                        guardando indietro, Ponte alle Grazie, 2011; 
                         
                        AA.VV., Che Guevara, il rugby e altri scritti sulla 
                        palla ovale, Sedizioni, 2011; 
                         
                        Marco Pastonesi e Giorgio Terruzzi, Palla lunga e pedalare, 
                        Baldini & Castoldi, 1992; 
                         
                        Dominique Manotti, Il sentiero della speranza, 
                        Marco Tropea Editore, 2002; 
                         
                        Henri Garcia, I racconti del rugby, Possibilia 
                        Editore, 2010; 
                         
                        Franco Paludetto, Oltre la linea bianca, Libreria 
                        dello Sport, 2004; 
                         
                        Antonio Falda, Novelle Ovali, La Riflessione Editore, 
                        2009; 
                         
                        Andrea Pelliccia, Up & Under, Absolutely Free 
                        Editore, 2011; 
                         
                        John Carlin, Ama il tuo nemico, Sperling & 
                        Kupfer, 2010; 
                         
                        Claudio Fava, Mar del Plata, Add Editore, 2013 
                         
                        David Storey, Il campione, Feltrinelli, 1962; 
                         
                        Lloyd Jones, Il libro della gloria, Einaudi, 2009; 
                         
                        Marco Paolini, Gli album Vol. 1, Einaudi, 2005. 
                       | 
                   
                 
                 
 
                  E per concludere, una carrellata 
                  di massime sul rugby 
                   
Un vero rugbista disprezza la violenza. 
Paolo Vaccari 
 
Vincere con modestia e perdere con leggerezza: questo è il marchio di un grande sportivo. 
Gareth Edwards 
 
Il rugby è trenta uomini che inseguono un sacco di vento. 
Willie John Mc Bride 
 
Il rugby: una voce del verbo dare. A ogni allenamento, a ogni partita, a ogni placcaggio, a ogni sostegno, dai un po' di te stesso. Prima o poi qualcosa ti tornerà indietro. 
Marco Pastonesi 
 
Nel rugby ci sono quelli che suonano il piano e quelli che lo spostano. 
Pierre Danos 
 
È sporco il rugby? Solo quando è fatto bene. 
Fabio Treves 
 
E tra i tanti aforismi sulla palla ovale ce n'è anche uno che si attaglia perfettamente all'anarchia, anzi, che traccia un parallelo tra il rugby e l'anarchia, perlomeno per come entrambi vengono erroneamente considerati da chi non ha la minima idea di cosa sia l'uno e di cosa l'altra rappresenti: 
“Il rugby è l'assoluto ordine nell'apparente disordine.”  
Sandro Cepparulo 
 
Ma comunque, a mio avviso la più bella definizione del rugby resta quella del celebre attore gallese Richard Burton: 
“Uno spettacolo magnifico: balletto, opera e all'improvviso il sangue di un delitto”. 
                 G. C. 
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