Vedere i morti 
				 
                Ce lo ricordiamo bene Aylan Kurdi, il bambino nato a Kobane 
                  e morto sulle spiagge di Bodrum, il 2 settembre 2015. Ci ricordiamo 
                  l'immagine del corpo sulla spiaggia, così poco assimilabile 
                  a un cadavere eppure senza respiro. Ci ricordiamo che ci ha 
                  commosso e che abbiamo fatto tutti rimbalzare la foto sul web, 
                  pensando che quella forma di resistenza, almeno, era possibile. 
                  Attraverso la foto di Nilufer Demir, si è celebrato una 
                  specie di rituale funebre sul quale, personalmente, ho moltissime 
                  riserve, e che tuttavia ha sicuramente raggiunto almeno a un 
                  obiettivo: farci “vedere” Aylan, nella sua soggettività, 
                  prima di trasformarlo, banalmente, in un'icona. 
                  Quest'icona ha la meglio, per esempio, sui 150 profughi, tra 
                  siriani e palestinesi, che annegano il 28 agosto dello stesso 
                  anno a largo della Libia. Nicholas Mirzoeff – esperto 
                  di media e, come lui stesso si definisce, “visual activist 
                  in an uncertain world” (attivista visuale in un mondo 
                  incerto) - ricorda i fatti di quest'ultimo naufragio in un post 
                  dell'1 settembre, sul suo seguitissimo blog How to see the 
                  world (wp.nyu.edu/howtoseetheworld). 
                  Tra le altre cose, si chiede come mai le foto di quel tragico 
                  viaggio – gli stessi corpi bambini, la stessa inaccettabile 
                  violenza in un mare sempre più chiuso e pavimentato di 
                  vite perdute – siano passate inosservate, e facebook le 
                  abbia addirittura, a un certo punto, rimosse. 
                   30 
                  giorni circa dopo Aylan Kurdi, in uno degli innumerevoli bombardamenti 
                  di Aleppo, muore Mireille Hindoyan, nuotatrice promettente che 
                  aveva deciso di continuare a gareggiare anche dopo l'inizio 
                  della guerra. Muore per sbaglio, perché ha deciso di 
                  modificare la sua routine e non andare a nuotare. Perciò 
                  quel mattino alle 11.00 è con i suoi genitori quando 
                  lei e il fratello vengono centrati in pieno da una bomba. Anche 
                  Mireille sembra “poco fotogenica”, come i 150 profughi 
                  di cui sopra. Forse è morta nella parte sbagliata di 
                  Aleppo, o forse non era ancora abbastanza famosa. Forse la querelle 
                  giornalistica che ha seguito il bombardamento, quella in cui 
                  si cercava inutilmente di decidere se le bombe erano governative 
                  o dei “ribelli”, ha finito per cancellare il nome, 
                  e con quello l'identità di una diciannovenne che aveva 
                  ancora tutto il suo tempo da vivere. 
                  Ora, il mio punto è: perché certe vittime diventano 
                  famose e perché altre no? Per quale motivo la foto di 
                  Aylan Kurdi è rimasta nei nostri occhi ed è stata 
                  infinitamente lavorata e rilavorata da artisti famosi come da 
                  cantastorie popolari? Lo spiega bene, in un articolo su Artribune, 
                  Giulio Dalvit. Anche lui imbrigliato dall'enorme fama della 
                  foto di Demir, il giovanissimo storico dell'arte scrive che 
                  quel ritratto non può non diventare indimenticabile. 
                  Incorniciato dalla spiaggia di un Mediterraneo che amiamo e 
                  che è “Mare Nostrum”, con abiti occidentali 
                  e con la pelle chiarissima, il bambino pare addormentato. Potrebbe 
                  essere nostro figlio, ed essere morto per una tragica fatalità 
                  (e non per una chiara responsabilità politica, in buona 
                  parte anche nostra). Inoltre, la posizione di Aylan evoca un'iconografia 
                  religiosa sacrificale automaticamente presente nella nostra 
                  mente di occidentali. Nel suo farsi “agnus dei”, 
                  Aylan Kurdi diventa automaticamente una morte necessaria, che 
                  richiama il nostro cattolicissimo senso di colpa, permettendoci 
                  l'espiazione (attraverso il pentimento) e la rapida rimozione 
                  del problema. 
                  Che appunto resta, perché, come scrive Paul Gilroy, queste 
                  sono solo pseudo-solidarietà d'accatto, che – aggiungo 
                  io – non ci portano in alcun modo più vicini alla 
                  risoluzione del problema: per la verità non riusciamo 
                  neanche, davvero, a vederlo.  
                 Nicoletta Vallorani     
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