   
                 
                 
                  
                La traiettoria di Gianmaria Testa 
                  Da una parte dello specchio all'altra parte del mare  
                La morte forse per reazione mi attiva memorie di “roba 
                  minima”, delle quisquilie che fanno la poesia della vita. 
                  Nel periodo in cui Isabella Maria Zoppi stava concludendo il 
                  suo libro su Gianmaria Testa (Il giorno che passa e continua, 
                  Editore Zona, 2007, pp. 155, € 15,00) - a tutt'oggi a quanto 
                  mi risulti l'unica biografia del cantautore, dunque se siete 
                  interessati procuratevelo direttamente attraverso i canali dell'Editore 
                  Zona - andammo a passare qualche ora e condividere una cena 
                  a casa sua a Castiglione Falletto. La prendemmo lunga facendo 
                  un giro per le Langhe e la zona del Barolo. Giunti, ancora con 
                  un po' di anticipo, me ne andai in giro, certo che quello che 
                  visitavo fosse il paese natale di Bartolomeo Vanzetti, l'anarchico 
                  piemontese assassinato negli Stati Uniti nel 1927 col pugliese 
                  Nicola Sacco. 
                  Solo a sera Gianmaria e Paola Farinetti (la sua signora, nonché 
                  apprezzatissima organizzatrice culturale) ci chiarirono l'equivoco 
                  «Vanzetti non era di Castiglione Falletto, bensì 
                  di Villafalletto, sempre in provincia di Cuneo»... «Ma 
                  il Dio degli anarchici» soggiunse Gianmaria «certamente 
                  ha apprezzato!». 
                  Per quel poco che conta questo sgangherato Dio degli anarchici, 
                  che si suppone abbia un occhio di riguardo per questa Rivista, 
                  e per quel poco che contano le preghiere dei suoi ateissimi 
                  adepti, ti ci raccomandiamo, certamente ti apprezza. 
                  Ebbene sì, marcato stretto da una malattia che non gli 
                  ha lasciato scampo, il nostro caro Gianmaria è morto 
                  lo scorso 30 marzo. 
                  Ricordo precisamente quando mio padre, anni e anni fa - all'epoca 
                  dei suoi tardi esordi - me ne parlò, mentre davano al 
                  telegiornale notizia dei suoi concerti all'Olympia di Parigi, 
                  il più mitologico dei teatri della canzone del mondo 
                  per noi cresciuti col mito di Brel e di Ferré. “Ma 
                  sono proprio belle queste canzoni”, ricordo che disse, 
                  come a sottolineare che non era una bizzarria giunta lì 
                  per chissà quale delle infinite strade della musica, 
                  ma che invece il cantore in questione era proprio quello che 
                  si sarebbe definito un “outsider”, un uomo fiero 
                  di non fare “troppo rumore” per quel nulla o quasi 
                  nulla che è una canzone, ma al contempo dignitosissimo 
                  come ogni vero artigiano che cura i suoi “clienti” 
                  uno a uno. 
                  Caparbiamente ha poi acquisito in vent'anni di lavoro un pubblico 
                  affezionato in molte parti del mondo, a partire dalla Francia 
                  d'elezione, nella quale avevo constatato coi miei occhi che 
                  era un vero “divo”, trovando traccia dei suoi concerti 
                  passati o futuri (manifesti, annunci sui giornali) anche in 
                  piccoli centri periferici. Di fronte a tanti colleghi che organizzano 
                  più o meno fortuitamente magari un unico evento a beneficio 
                  degli emigrati nostalgici e poi se lo rivendono come una tournée 
                  internazionale, Testa aveva davvero fatto un lavoro prezioso, 
                  ambasciatore di un certo stile di canzone italiana lontano dai 
                  luoghi comuni del belcantismo. 
                
                   
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                    |   Gianmaria Testa (Cavallermaggiore-Cn, 1958 – Alba-Cn, 2016)  | 
                   
                  
                Come la più classica delle osterie 
                Più difficoltà aveva fatto ad agglomerare un suo pubblico fedele proprio in Italia, dove io all'inizio lo incontrai spesso in piccole formazioni come lo splendido duo col chitarrista-poeta Pier Mario Giovannone. Lì però - da un certo punto in poi - intervenne la genialità di un'agente teatrale come Paola Farinetti che intuì la potenzialità di scambio e la duttilità di un artista apparentemente perfettamente compiuto anche da solo con la chitarra - che diremo per inciso, suonava benissimo, con uno stile personale, pulsazione ritmica invidiabile e un timbro pieno e dominato. Iniziò così per Gianmaria il periodo degli spettacoli teatrali con la Banda Osiris, con Stefano Bollani, con Giuseppe Battiston, con Marco Paolini, con Paolo Rossi, con tanti altri, ma principalmente con lo scrittore Erri De Luca, che ha avuto con lui un rapporto simbiotico e fraterno. 
Questi spettacoli nascevano a volte per omaggiare grandi figure della cultura musicale (Buscaglione, Tenco, Ferré), qualche altra volta erano più strutturati drammaturgicamente, ma avevano a mio avviso la grande virtù di ritrovare la strada nobile del grande Teatro di Varietà - ormai declassato a infimo spettacolo dalla pochezza televisiva - ma alla sua origine palestra delle migliori canzoni d'autore quando ancora non si chiamavano così, all'epoca d'oro della canzone napoletana classica di Bovio e di Giacomo. Questi spettacoli il cui palco era talvolta apparecchiato come la più classica delle osterie, con sedie e tavolini sui quali non mancava qualche bicchiere e una bottiglia di vino, o come un salotto non troppo borghese, erano il luogo ideale nel quale ricostruire la magia familiare di qualcosa di indefinibile e impalpabile come la canzone d'autore, poggiata in mezzo a un discorso, fra una poesia e un brano strumentale, senza “machismi” rock o travestimenti da operetta: nient'altro che la canzone nuda e semplice, preziosa e cesellata, nella più pura dimensione brassensiana. Era uno spettacolo che si rivolgeva in maniera del tutto orizzontale agli spettatori, senza nessuna gerarchia d'entrata e di cartellone, e benché sovente si trovassero su quei palchi alcuni dei migliori musicisti dell'universo, come il violoncellista Mario Brunello o il clarinettista Gabriele Mirabassi, l'atmosfera era quella di un'esaltante semplicità, qualcosa di prezioso e al contempo didascalico nel senso più alto del termine: l'arte era presente lì al massimo livello eppure a portata di ogni mano. 
In realtà se lo spazio lasciato all'improvvisazione e alla magia dell'incontro era notevole, la preparazione dello spazio sonoro era certosina: m'è capitato d'assistere a più di un sound-check di Gianmaria e vi assicuro che di rado ho visto gente più inflessibile nella ricerca del giusto suono, del giusto ascolto, quella chimerica perfezione che incontra la dignità del proprio ruolo con il rispetto del pubblico, e che stava anche nella giacca buona - quella della festa - indossata in camerino prima di andare in scena. 
Altro uso encomiabile di Testa era talvolta, dopo la fine dello spettacolo, accontentare la richiesta di bis della platea, seduto in un angolo, senza alcuna amplificazione, cantando ed esigendo tutta l'attenzione necessaria delle nostre orecchie viziate dalla confusione, esigendo al contempo tutta la capacità d'ascolto di cui ancora siamo capaci, erano momenti di pura magia, fragili e fugaci come la vita. 
                  Una qualità di scavo e sottrazione 
                Quando qualcuno muore tutti diventano suoi amici, sodali, compagni, fedeli confidenti... tutti quelli che lo hanno incontrato. A me è capitato di incontrare – a grandi intervalli a volte – Gianmaria Testa, ma non sono mai stato suo non dico intimo ma nemmeno conoscenza familiare, ho goduto di molte sue canzoni e soprattutto ho avuto grandissima ammirazione professionale per l'altissimo rigore della sua traiettoria, per le sue scelte. Dai ritratti postumi appare la figura di un “simpaticone” sempre disponibile allo scambio, ma Testa aveva la gentilezza del burbero e qualche volta si chiudeva in un silenzio assorto e incomunicabile, poteva essere ironico ma anche distante, e portava dentro di sé come il disegno di antiche ferite, mi appariva anche dilaniato fra la ricerca di un'essenzialità che aspirava al silenzio e l'urgenza comunicativa di ciò che gli cresceva dentro: un'anima inquieta dentro un uomo tranquillo. Gli ho sentito dire che avrebbe preferito essere un pittore o uno scrittore: essere adepto di un'arte che non imponeva la presenza dell'autore sul palco, il che per il mio sentire è esattamente l'antitesi di ciò che mi emoziona, ovvero partecipare a una sorta di permanente revisione pubblica dell'opera mai conclusa che è la scrittura poetica. 
Si intuiva in lui il riposto orrore che gli faceva il dover dare giudizi, affermare una verità, scegliere una barricata e al contempo – essendo un uomo di profonda moralità – la barricata l'aveva pur scelta, i suoi giudizi erano netti, la sua posizione poeticamente definita. Da questa lotta fra rispetto delle idee altrui e intransigenza delle proprie nascono le sue ultime opere, le più mature, le più belle “Da questa parte del mare” (2006) e “Vita mia” (2011), i dischi più fitti di temi sociali. Ora io penso che non si possa dire nulla di profondo – soprattutto sui temi come l'immigrazione e il lavoro – senza dare fastidio a qualcuno, senza una contrapposizione, dunque senza assumersi una ragione contro un torto. Gianmaria Testa se la assume con convinzione la sua ragione e l'altrui torto, cercando al contempo di non risultare insultante o aggressivo, per questo questi suoi lavori appaiono anche musicalmente come i suoi più interessanti, più porosi, più aperti. Vi si percepisce una qualità di scavo e sottrazione che dà conto delle notti passate ad arrovellarsi, della tante sigarette fumate alla ricerca della parola essenziale, in particolare nella seconda parte di “Vita mia”, dove hanno trovato posto alcune ballate dello spettacolo dedicato alle difficili condizioni del lavoro “18 mila giorni – il pitone”, si intravede una ricerca musicale più aspra e dissonante, non consolatoria o catartica, che fa rimpiangere che la produzione discografica di Testa – al netto di un successivo disco dal vivo – si sia fermata lì. 
Facciamo quindi oggi i conti con un'assenza pesante, un'assenza che lascia – oltre che un'opera notevole – molte cose impalpabili, qualità umane sottili, qualità professionali: rigore, applicazione, rispetto, integrità... tutte quelle cose rare e trasparenti ma indispensabili come l'aria. Cose difficili da comunicare che rischiano di perdersi nel rumore del tempo. Per questo scrivo, a testimonianza e futura memoria di un buon artista, ma soprattutto di un ottimo uomo. 
                 Alessio Lega 
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