Ricordando Jack Grancharoff/ 
                  Quell'anarchico bulgaro agricoltore e editore in Australia 
                Nato nel 1925 a Malko Tarnovo, nella provincia di Burgas, a 
                  sud-est della Bulgaria (Tracia), in una famiglia di pastori 
                  e contadini, Jelesko Grancharoff trascorre un'infanzia serena 
                  caratterizzata dalla vita a contatto con la natura e da un rapporto 
                  molto schietto con la madre. Spirito curioso e ribelle, fino 
                  dalla più giovane età (13 anni) inizia a sperimentare 
                  sulla propria pelle i metodi repressivi dell'apparato scolastico 
                  zarista del monarca Boris III. Terminato il ginnasio a Burgas, 
                  si iscrive al Partito Agrario di cui fonda la sezione di Malko 
                  Tarnovo. Ad un dibattito tra il Partito Comunista e quello Agrario 
                  rimane fortemente impressionato dalle parole del rappresentante 
                  di quest'ultimo, un socialista rivoluzionario che predica di 
                  “terra ai contadini e fabbriche agli operai”. Nello 
                  stesso periodo inizia a frequentare elementi del panorama libertario 
                  locale. 
                  Nel 1944 il regime monarchico alleato dell'Asse italo-tedesco, 
                  ormai allo sbando, viene abbattuto dalle forze filo-sovietiche. 
                  Il nuovo governo viene formato dai comunisti filo-sovietici, 
                  dagli agrari e da tutti i partiti ostili alla Germania nazista. 
                  Grancharoff, in veste di rappresentante della gioventù 
                  del Partito Agrario, collabora con i comunisti bulgari ma vuoi 
                  per i metodi settari dei filo-bolscevichi, vuoi per le ricorrenti 
                  notizie provenienti dall'URSS che narrano di repressioni a danno 
                  degli emigrati bulgari, mantiene sempre nei loro confronti un 
                  atteggiamento guardingo. 
                  Con il ritorno da Mosca nel 1945 del leader comunista bulgaro 
                  Dimitrov, si fa più marcata la deriva filo-sovietica 
                  del governo e si acuisce la repressione contro i non allineati. 
                  A causa dell'inasprimento del regime autoritario, nel 1947 Grancharoff 
                  viene internato per sette mesi in un campo di concentramento 
                  e condannato ai lavori forzati. Fuoriuscitone grazie al suo 
                  passato di antifascista, viene però costantemente pedinato 
                  da informatori del regime perché considerato un provocatore 
                  e nemico del popolo. 
                  Nel novembre del 1947, a seguito di un'amichevole segnalazione 
                  (di un amico di famiglia arruolato nella milizia) scampa ad 
                  un nuovo arresto e a una probabile esecuzione sommaria in carcere 
                  fuggendo in Turchia in compagnia di un compagno. Dopo circa 
                  due anni, di cui i primi sei mesi passati in segregazione, grazie 
                  alla sua iscrizione all'International Refugee Organisation, 
                  riesce a trasferirsi in Italia. Rimane per circa un anno nel 
                  campo per rifugiati di Jesi facendo i lavori più disparati 
                  (su una parete di casa esibiva con orgoglio il “Diploma 
                  da pastore” rilasciatogli dalla Confagricoltori nel 1949). 
                  La sua intenzione è quella di trasferirsi in Francia, 
                  a Parigi, ma viene informato che la via transalpina è 
                  preclusa ai libertari dal governo nazionalista di Ramadier. 
                
                   
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                    |   Jelesko “Jack the Anarchist” Grancharoff (5 luglio 1925 - 15 maggio 2016)  | 
                   
                 
                 Nel 1950, sebbene privo di passaporto, risponde ad una delle 
                  numerose chiamate del governo australiano, che facilita l'immigrazione 
                  di manodopera a buon prezzo da adibire ai lavori per le grandi 
                  infrastrutture civili del dopoguerra, e si imbarca a Napoli 
                  per trasferirsi in Australia con un contratto di lavoro della 
                  durata di due anni. Qui giunto, dopo un primo periodo di isolamento, 
                  inizia a prendere contatto con ambienti libertari e più 
                  in generale della sinistra australiana, in modo particolare 
                  nell'ambito dei gruppi etnici slavi, est europei e italiani. 
                  A causa del suo attivismo viene costantemente, per anni sorvegliato 
                  dall'A.S.I.O., agenzia dei servizi segreti interni. I vari governi 
                  australiani succedutisi dal suo ingresso nel paese, gli negano 
                  il rilascio di un passaporto e per decenni è costretto 
                  allo status di apolide. Nel 1970 grazie a un permesso speciale 
                  di sei mesi rilasciatogli grazie all'interessamento delle autorità 
                  diplomatiche jugoslave ritorna in Europa con l'intenzione di 
                  visitare la madre in Bulgaria, ma cavilli di ordine burocratico 
                  glielo impediscono. Non rivedrà mai i genitori. 
                  Trascorre quindi i sei mesi in Italia dove nei suoi peregrinaggi 
                  su e giù per la Penisola conosce figure di spicco del 
                  panorama libertario italiano (Giovanna Caleffi Berneri, Alfonso 
                  Failla). Rari sono i viaggi in Europa almeno fino alla fine 
                  dl XX secolo, quando finalmente gli viene concessa la cittadinanza 
                  australiana. Il suo attivismo politico lo ha portato a creare 
                  una vasta rete di contatti un po' in tutta l'Australia orientale, 
                  dal Queensland al Nuovo Galles del Sud e fino al Victoria, e 
                  lo ha visto promotore di svariati gruppi di matrice libertaria. 
                  Ecologista della prima ora, sostenitore del movimento femminista, 
                  figura chiave del cosiddetto “Sydney Libertarian Push”, 
                  paladino delle istanze sociali dei lavoratori che hanno caratterizzato 
                  la seconda metà del ventesimo secolo in Australia, è 
                  stato fondatore delle riviste “Red&Black” e 
                  “Anarchist” oltre che autore di innumerevoli opuscoli 
                  ciclostilati con i quali ha diffuso in lingua inglese scritti 
                  di Bakunin, Kropotkin, Malatesta, Stirner, Gorelik, Avrich, 
                  Bookchin e tanti altri pensatori libertari. 
                  Spirito indipendente e autonomo malgrado l'età avanzata, 
                  viveva solo nella sua casa di Quaama, in aperta campagna, 400 
                  chilometri a sud di Sydney, pur avendo mantenuto fino alla fine 
                  stretti rapporti, soprattutto a Sydney e a Melbourne, con le 
                  compagne e i compagni di una vita di lotta. 
                 Sid Parissi, Peter Sheldon 
                  e Danilo Sidari 
                  
  
                   
                Londra/ 
                  Educazione libertaria, strumento di cambiamento sociale? 
                L'educazione libertaria è realmente possibile all'interno di una società neoliberista? Perché le esperienze di educazione libertaria sono sempre rimaste marginali nella storia? Che ruolo può avere nel superamento dello stato di cose attuale? Per provare a rispondere a queste domande martedì 19 aprile 2016 si è tenuto a Londra il quarto appuntamento organizzato dall'Applied History Network (AHN, appliedhistorynetwork.wordpress.com). AHN è un gruppo costituito da ricercatori, dottorandi e archivisti dedicati allo studio e alla diffusione della storia radicale e antagonista. L'obiettivo di Applied History è quello di organizzare incontri gratuiti per affrontare, da un punto di vista storico-politico, dibattiti legati ad avvenimenti contemporanei. 
Il titolo scelto per quest'ultimo incontro è stato “Educazione libertaria: esperimento marginale o strumento di cambiamento sociale?”. In precedenza, ad ottobre 2015, avevamo illustrato come la distorta rappresentazione e negazione del passato coloniale e imperialista britannico influenzi la società inglese; a dicembre 2015 avevamo dibattuto dell'importanza dello studio della storia della classe operaia per riportare l'antagonismo e la coscienza di classe tra i lavoratori; e infine – a febbraio 2016 – avevamo esplorato la possibile evoluzione del ruolo delle librerie radicali che da luoghi di resistenza sono sempre più vittime della gentrificazione e della competizione di grandi venditori online. 
L'idea di organizzare un incontro sull'educazione libertaria è partita da un interesse personale sull'argomento in quanto ex-insegnante di scuola pubblica, e ha preso forma dopo aver osservato la grande partecipazione ai dibattiti su questo tema durante la scorsa Anarchist Bookfair di Londra (”A” 404, febbraio 2016). Infatti sempre più studenti, genitori ed insegnanti stanno valutando alternative alle scuole e università tradizionali che in Gran Bretagna – forse più che in Italia, e sicuramente da più tempo – subiscono un forte attacco liberista. Dall'innalzamento del tetto delle tasse universitarie a 9.000 sterline annue (circa 12.000 euro) all'introduzione bipartisan delle academy, che sono scuole finanziate dallo stato ma con larghissime autonomie sia al programma di studi che alle condizioni contrattuali dei lavoratori, e spesso sponsorizzate da trust privati. 
Che ci sia interesse su questi temi è stato confermato dall'immediata popolarità del nostro ultimo dibattito: in pochissimi giorni abbiamo ricevuto oltre cento prenotazioni, e siamo stati costretti a chiudere la registrazione con largo anticipo. Tuttavia il nostro incontro non era un semplice seminario storico-divulgativo sull'educazione libertaria né un corso d'aggiornamento per soli addetti ai lavori. Il nostro fine era riflettere sul ruolo politico dell'educazione libertaria. Quindi, per affrontare l'argomento da diverse angolazioni, abbiamo invitato Judith Suissa: docente universitaria in filosofia dell'educazione presso l'Institute of Education – UCL, Ian Cunningham: co-fondatore del Self Managed Learning College di Brighton, Jenny Aster: ex alunna presso la White Lion Street Free School, e Alex Brown: co-organizzatore di Antiuniversity Now. 
                  Risultati migliori o più solidarietà? 
                Judith ha aperto con una breve storia dell'educazione libertaria 
                  che si collega inevitablimente agli sviluppi dell'anarchismo 
                  ottocentesco, da cui prende elementi chiave come l'avversione 
                  alle gerarchie. Altri principi fondamentali che la caratterizzano 
                  sono l'assenza della frequenza obbligatoria e di un sistema 
                  di premi e punizioni, così come di voti. Successivamente 
                  Judith si è soffermata sulla differenza tra scuole libertarie 
                  passate e contemporanee. Mentre la pedagogia delle prime scuole 
                  anarchiche era parte integrante di un progetto politico prefigurativo 
                  per la costruzione di nuove relazioni sociali, l'attenzione 
                  si è poi spostata su aspetti importanti ma meno minacciosi. 
                  Aspetti che, dall'ondata libertaria degli anni Sessanta, sono 
                  stati adottati anche nelle scuole pubbliche britanniche. Esempio 
                  ne è l'abbandono delle punizioni corporali e il coinvolgimento 
                  del discente nel processo educativo. Se è indubbiamente 
                  vero che le scuole di oggi sono meno autoritarie di quelle ottocentesche, 
                  c'è tuttora – secondo Judith – il bisogno 
                  di sfidare il discorso dominante sulla “efficacia” 
                  della scuola: piuttosto che preoccuparci dei voti degli alunni 
                  dovremmo recuperare l'idea di stabilire nuovi valori sociali. 
                  Il secondo relatore, Ian, ha invece cominciato parlando delle 
                  sue esperienze nel mondo dell'educazione: dai tempi in cui, 
                  negli anni Sessanta, era attivo nel sindacato studentesco. Il 
                  suo interesse per i diritti degli studenti l'ha poi portato 
                  a creare una scuola che rispecchiasse tali concetti nella pratica 
                  quotidiana. In aggiunta ha inglobato elementi importanti della 
                  tradizione anarchica come il mutuo appoggio. Ed Ian è 
                  orgoglioso di raccontare ai suoi ragazzi che proprio una visita 
                  all'acquario di Brighton diede a Kropotkin una forte spinta 
                  verso l'elaborazione della sua teoria del mutuo appoggio. Lì 
                  l'anarchico russo osservò un gruppo di granchi industriarsi 
                  per aiutare un loro simile capovolto e bloccato da una barra 
                  di ferro. Così, partendo da questo esempio, il college 
                  di Ian adotta pratiche come il tutoraggio autogestito tra studenti 
                  affinché gli alunni imparino a preferire la cooperazione 
                  alla competitività. Perché, sostiene Ian, l'educazione 
                  non deve puntare a “risultati migliori” ma alla 
                  felicità e ad un'alternativa alla competitività 
                  neoliberista. 
                  Jenny ha focalizzato il suo intervento sulla scuola da lei frequentata 
                  negli anni Settanta ad Islington, un quartiere di Londra adesso 
                  ricco di ristorantini e boutique ma all'epoca decisamente proletario. 
                  Lì – come oggi a Brighton – erano gli alunni 
                  a decidere se e cosa studiare, e non c'erano distinzioni di 
                  genere o di ruolo, ma una grande attenzione alla cooperazione 
                  e alla realizzazione delle proprie abilità. Infatti Jenny, 
                  attualmente coordinatrice del servizio di consulenza presso 
                  la City University di Londra, ha affermato che è solo 
                  grazie alla White Lion se lei è diventata una persona 
                  sicura e preparata emotivamente ad affrontare le sfide della 
                  vita. 
                  Infine Alex ha parlato di come Antiuniversity Now stia 
                  puntando a recuperare l'eredità dell'Anti-university 
                  che nel 1968 sperimentò forme alternative di educazione 
                  post-scolastica. Uno stabile fatiscente in cui, per nove mesi, 
                  si tennero corsi a pagamento sulle tematiche più diverse: 
                  dalla musica sperimentale alla sociologia della rivoluzione 
                  mondiale, dall'antipsichiatria a draghi e UFO. Anche se per 
                  un breve periodo, l'antiuniversità diede vita ad una 
                  comune di studenti e docenti in cui i ruoli erano fluidi e il 
                  confine tra lezioni e feste a base di allucinogeni molto labile. 
                  Secondo Alex, oggi come ieri c'è un grande bisogno di 
                  una antiuniversità per opporsi al debito degli studenti, 
                  alla mercificazione dell'educazione superiore, e alla conseguente 
                  importanza data alle qualifiche professionali. Così, 
                  l'anno scorso, gli organizzatori dell'Hackney Museum 
                  e della Open School East (attiva a Londra est nella formazione 
                  di giovani artisti e nel favorire uno scambio culturale all'interno 
                  della comunità locale) hanno deciso di rilanciare l'esperienza 
                  dell'antiuniversità con la creazione di Antiuniversity 
                  Now. Così, come quasi 50 anni fa, l'idea è 
                  quella di essere una piattaforma per idee che non trovano posto 
                  nel formalismo del sistema universitario tradizionale. Ma, a 
                  differenza dell'antiuniversità del 1968, tutti gli incontri 
                  sono gratuiti (e meno “stupefacenti”). A novembre 
                  2015 il loro primo festival ha raccolto più di 60 eventi 
                  in tutta la Gran Bretagna con oltre 1100 persone, e l'ultimo 
                  è stato organizzato il 9-12 giugno 2016. 
                
                   
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                    |   Londra (Gran Bretagna), 19 aprile 2016 -  Da sinistra a destra, i relatori: Alex Brown, Jenny Aster, Judith Suissa, Ian Cunningham  | 
                   
                  
                Esperimenti isolati o rete diffusa? 
                Per concludere, il pubblico ha contribuito ad avviare un vivace dibattito con numerosi commenti e domande per i quattro relatori. Ad esempio, alla domanda se individualismo e collettivismo fossero in un rapporto di tensione all'interno dell'educazione libertaria, Judith ha risposto che è così solo se si pensa che l'individuo possa esistere al di fuori del sociale. Un'altra domanda ha sollevato la questione della reale sfida posta da tali esperienze allo status quo visto che lo stato le tollera, ma Ian crede che tali esperienze svolgano il ruolo fondamentale di incarnare l'alternativa per “preparare” le persone al cambiamento. Alla fine le ultime riflessioni hanno richiamato l'attenzione sulla necessità di estendere l'educazione libertaria oltre le scuole (magari seguendo e migliorando il modello di Occupy) e agli adulti. 
Ma allora, per tornare al titolo di questo incontro, chiedo a voi lettrici e lettori di “A” Rivista: dobbiamo rassegnarci ad un'educazione libertaria intesa come insieme di esperimenti isolati e per pochi o possiamo provare a creare una rete diffusa di (anti)scuole e (anti)università accessibili a tutti? Un'educazione libertaria che contribuisca al raggiungimento (e mantenimento!) di una società anarchica agendo su un piano culturale di concerto col tradizionale impegno anarchico nel mondo del lavoro e del sociale. In caso contrario, quando il sistema neoliberista finalmente crollerà – tra uno o cento anni, per spinte endogene o esogene – l'umanità riprodurrà l'unico sistema che conosce: quello attuale. 
                 Luca Lapolla 
                  
  
                   
                Arte/ 
                  Cent'anni di dadaismo 
                Esattamente un secolo fa nasce a Zurigo DADA il più 
                  importante movimento artistico di avanguardia del XX secolo, 
                  al Cabaret Voltaire, inaugurato il 5 febbraio 1916. Anche nel 
                  nome, DADA rigetta gli “ismi” dei movimenti che 
                  lo affiancavano, un nome scelto a caso – come vuole la 
                  caratteristica di tutta la sua arte – di cui nessuno ha 
                  saputo, o voluto, fornire una corretta chiave di lettura o una 
                  genesi documentata. DADA una sorta di ur-avanguardia, un archetipo 
                  per ogni futura sperimentazione creativa, che intreccia definitivamente 
                  il pensiero e l'azione anarchica al mondo dell'arte in generale 
                  e a quella figurativa (se dopo DADA questo termine ha ancora 
                  un senso) in particolare. 
                
                 La furia distruttrice e creativa di DADA nasce da una contingenza 
                  precisa: la fuga di molti intellettuali, anarchici, pacifisti 
                  e artisti per sfuggire alla guerra e continuare la propria lotta 
                  contro la follia capitalista con altri mezzi e dal loro esilio 
                  in Svizzera; si conclude con la diaspora del gruppo e con l'adesione 
                  di molti artisti all'esperienza surrealista, sua logica continuazione. 
                  Ricordiamo che i fecondi rapporti tra l'arte figurativa e il 
                  pensiero anarchico risalgono ai primi decenni del XIX secolo 
                  e in particolare allo scambio di idee ed esperienze tra Gustave 
                  Courbet, fondatore del Realismo in pittura, e Pierre-Joseph 
                  Proudhon e precisamente dopo i moti del '48, nel '49 dopo che 
                  Courbet chiede a Proudhon un commento di poche pagine per un 
                  catalogo e una difesa per la sua opera Le retour de la conference 
                  attaccata da più parti per i suoi forti contenuti anti-clericali. 
                  L'opera venne rifiutata al Salon ufficiale di Stato ed 
                  anche in seguito dal Salons des Refusés dove esponevano 
                  gli artisti non convenzionali. Per assurdo venne poi acquistata 
                  per mezzo di una colletta da alcuni cattolici “virtuosi” 
                  che la distrussero. Fortunatamente ne restano alcune riproduzioni. 
                  Da questo che doveva essere un piccolo pamphlet nacque 
                  un testo di più di quattrocento pagine che partiva dall'arte 
                  egizia e arrivava sino all'opera di Courbet: Du principe 
                  de l'art et de sa destination sociale, apparso postumo dopo 
                  la morte di Proudhon nel 1865. 
                  Oggi il testo ci appare eccessivamente determinista e moraleggiante 
                  e a tratti contraddittorio. Proudhon definisce l'arte «una 
                  rappresentazione idealista della natura e di noi stessi in vista 
                  del perfezionamento fisico e morale della nostra specie» 
                  e si spinge a profetizzare – alla maniera platonica – 
                  la cacciata dalla “città futura” degli artisti 
                  che si ostinassero a dipingere esclusivamente per il proprio 
                  piacere, senza uno scopo educativo o sociale. Una definizione 
                  quella di Proudhon che oggi pochi artisti, anche se anarchici, 
                  accetterebbero ma che ha influenzato sino alla fine del XIX 
                  secolo – e in alcuni casi molto oltre – molti ambienti 
                  libertari ed è stata feconda per la nascita di una grafica 
                  e una pubblicistica anarchica che ha dato grandi risultati anche 
                  nel campo estetico. Una visione dell'arte, quella di Proudhon, 
                  più vicina alla critica marxista che a quella anarchica. 
                  Dal Realismo nasce anche l'opera del secondo grande momento 
                  dell'influsso anarchico sull'arte che coincide anche con la 
                  massima diffusione dei movimenti sociali libertari, a seguito 
                  soprattutto delle riflessioni sull'arte come strumento di libertà 
                  di Michail Bakunin prima e Peter Kropotkin poi. Questo momento 
                  si incarna nell'opera di Pissarro, dopo la Comune di Parigi 
                  nel 1871, prima aderente al Realismo sociale e poi uno dei fondatori 
                  dell'Impressionismo ed animatori del Post-Impressionismo. Da 
                  queste esperienze deriva l'influenza dei principi creativi libertari 
                  su gran parte delle avanguardie, dal Simbolismo all'Espressionismo 
                  per arrivare, attraverso il primo Futurismo al DADA e al Surrealismo. 
                
                   
                     | 
                   
                   
                    |   La trama di fratture nel Grande Vetro visibile in un ritratto di Duchamp dei primi anni Sessanta  | 
                   
                 
                 È con DADA e il Surrealismo che l'influsso del pensiero 
                  anarchico raggiunge il suo culmine e soprattutto attraverso 
                  l'opera di Marcel Duchamp, terzo nome simbolico di questo percorso. 
                  DADA nasce nel 1916, cento anni fa a Zurigo, nel Cabaret Voltaire 
                  fondato dal regista teatrale Hugo Ball e animato da un gruppo 
                  di fuorusciti europei che fuggivano dalla guerra: artisti, poeti, 
                  pacifisti, anarchici e rivoluzionari che vi si riunivano per 
                  organizzare incontri sperimentali di poesia astratta, rumore-musica, 
                  pittura automatica. Tra gli animatori oltre ad Hugo Ball, già 
                  fondatore in Germania della rivista “Die Revolution”, 
                  di orientamento anarchico-insurrezionalista, spiccano Hans Arp, 
                  Tristan Tzara, Marcel Janco, Richard Huelsenbeck e Hans Richter. 
                  Ben presto DADA si diffonde a livello internazionale, in particolare 
                  a Berlino, Colonia, Parigi e New York. Tra i protagonisti del 
                  movimento ricordiamo anche i futuri surrealisti André 
                  Breton, Paul Eluard e Louis Aragon, importanti artisti tedeschi 
                  quali Hausmann, Baader, Heartfield, Grosz, Schwitters, Max Ernst 
                  e Baargeld, e infine il francese Marcel Duchamp e lo spagnolo 
                  Francis Picabia, che costituiranno il versante americano del 
                  gruppo, cui si unirà Man Ray. 
                  Gianluigi Bellei nel catalogo della mostra “Addio Lugano 
                  bella” tenutasi al Museo d'arte di Mendrisio nel 2015 
                  ha scritto che “DADA non è un movimento anarchico 
                  vero e proprio – anche se alcuni dei suoi esponenti erano 
                  attratti dal pensiero anarchico, come Hugo Ball e Hans Richter 
                  che si sono interessati ai testi di Kropotkin e Bakunin – 
                  “ma nonostante ciò è quanto di maggiormente 
                  libertario si possa immaginare”. Al contrario di altre 
                  organizzazioni rivoluzionarie non prospetta una soluzione estetica, 
                  né politica, ma si prefigge di abbattere la cultura e 
                  la società partendo proprio dalla distruzione totale 
                  dell'arte stessa.” 
                  Lo stesso Bellei, parlando dei cent'anni di DADA su la “Voce 
                  Libertaria” afferma: “Oggi si celebra DADA, ma proprio 
                  forse per questo DADA è morto”. Vero, se consideriamo 
                  che opere come l'orinatoio, lo scola-bottiglie o tanti altri 
                  ready-made di Duchamp, nati come provocazione effimera contro 
                  il sistema dell'arte e all'epoca gettati nell'immondizia oggi 
                  valgano cifre spropositate: naturalmente le copie, ricostruite 
                  e firmate dall'artista nel secondo dopoguerra, qualche decennio 
                  dopo, quando il mercato ne aveva bisogno... 
                  Se escludiamo il periodo del ritorno al realismo populista delle 
                  grande dittature e “il ritorno all'ordine” di molti 
                  ex-artisti avanguardisti nel periodo tra gli anni Trenta avanzati 
                  e il '45, DADA resterà il paradigma irrinunciabile di 
                  ogni possibile avanguardia. Anche dopo il tentativo imperialista 
                  Usa di riportare in Europa le vecchie avanguardie decotte che 
                  erano rimaste in incubazione negli States dopo averle ben sterilizzate 
                  e private di ogni spinta rivoluzionaria nel segno di una pura 
                  restaurazione estetica. Questo processo innescherà la 
                  nascita delle cosiddette seconde avanguardie che più 
                  che ai riciclati maestri europei rifugiati in America guarderanno 
                  ai meccanismi profondi della rivolta DADA. E penso piuttosto 
                  all'espressionismo astratto americano o al Pop, ambiguamente 
                  legate al mercato e alla esaltazione del consumo, all'Arte Concettuale, 
                  agli Happening, alle Performances e soprattutto all'arte di 
                  Joseph Beuys, il grande sciamano anarchico, padre di tutta l'arte 
                  impegnata della fine del secolo scorso, ma anche ai Situazionisti, 
                  degni successori del Surrealismo DADA, al gruppo CoBrA, a Fluxus, 
                  alla Land Art, all'arte Povera e altri, sino all'oggi. 
                 Franco Bunuga 
                  
  
                   
                Germania/ 
                  Gite anarchiche sulle orme di Bakunin 
                Nelle sue peregrinazioni prima dell'esilio siberiano, Bakunin 
                  trascorre diverso tempo in Germania. Perciò non bisogna 
                  stupirsi se ha lasciato anche qui alcune tracce del suo passaggio, 
                  due delle quali verranno rievocate in queste pagine. 
                
                   
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                    |   Meiningen (Germania), Bakuninhütte (Rifugio Bakunin) - Foto scattata nell'agosto 2015  | 
                   
                  
                Il ricordo degli anarchici... 
                “Libera terra e libero rifugio/ libero spirito e libera 
                  parola/ liberi uomini, libero uso/ mi attira sempre verso questo 
                  luogo” - questi versi costituivano il motto della Bakuninhütte 
                  (Rifugio Bakunin), un rifugio autocostruito e autogestito dagli 
                  anarchici di Meiningen, piccola cittadina della Turingia, tra 
                  gli anni Venti e l'inizio degli anni Trenta. Dopo averne riassunto 
                  la storia su “A” (n. 396, marzo 2015), non si poteva 
                  non visitarla alla prima occasione. Visto che all'epoca non 
                  c'erano strade asfaltate che portavano nelle sue vicinanze, 
                  le attiviste e gli attivisti trasportavano a braccia il necessario 
                  per il rifugio da Meiningen, distante qualche chilometro: cibo, 
                  acqua, birra, materiali per la sua costruzione e riparazione, 
                  tutto quanto. È parsa così un'idea suggestiva 
                  ripercorrere i loro passi, cercando di raggiungere la Bakuninhütte 
                  direttamente da Meiningen senza utilizzare un autobus che ci 
                  avrebbe portato molto più vicini alla meta. 
                  Non avendo trovato nessuna indicazione “ufficiale”, 
                  il percorso seguito è stato improvvisato in gran parte 
                  sul momento. Le indicazioni complete per arrivare sono sul blog 
                  escursionistisenzaconfini.wordpress.com. L'importante è 
                  arrivare ad incrociare sull'Hohe Mass (500 m. d'altezza), dove 
                  si trova la Bakuninhütte, il Mühsam Weg (sentiero 
                  di Mühsam) dedicato, penso recentemente vista la palina 
                  visibilmente nuova e appena messa, al poeta anarchico ucciso 
                  nel campo di concentramento di Sachsenhausen nel 1934. Appena 
                  si prende questo sentiero infatti le indicazioni diventano quasi 
                  ossessive e in poco tempo spunta in una radura la Bakuninhütte. 
                  Proprio nelle vicinanze c'è una lapide dedicata a Fritz 
                  Scherer, anarchico berlinese che era stato custode del rifugio, 
                  conservando e tramandando la memoria di quella esperienza alle 
                  generazioni degli anni Sessanta e Settanta. Nelle vicinanze 
                  è possibile fare liberamente campeggio (purtroppo non 
                  c'è acqua lungo il percorso), con una bella vista che 
                  si apre sulle colline boscose circostanti. 
                
                   
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                    |   Festung Königstein, nei pressi di Dresda (Germania) -  La Torre della fame   | 
                   
                  
                ...e quello della cultura “ufficiale” 
                Se gli anarchici avevano voluto ricordare Bakunin in un luogo 
                  autogestito in cui sperimentare e crescere insieme, la cultura 
                  “ufficiale” tedesca lo ricorda invece in un ambito 
                  decisamente diverso, direi più “ristretto”. 
                  La Festung Königstein (Fortezza Königstein) si trova 
                  ad una cinquantina di chilometri da Dresda, su una collina rocciosa 
                  che domina l'Elba. Proprio davanti alla poco invitante “torre 
                  della fame”, c'è il Castello Georg (Georgenburg), 
                  che ospitava le prigioni della fortezza. Qui, a seguito della 
                  sconfitta della rivolta di Dresda (3-9 maggio 1849), Bakunin 
                  venne richiuso dal 28 agosto 1849 al secondo piano superiore 
                  dell'edificio. In una lettera risalente a quei giorni inviata 
                  a Mathilde Lindenberg (sorella dell'amico Adolf Reichel), Bakunin 
                  notava ironicamente di avere fatto i conti su una più 
                  lunga marea del movimento, ma di aver sbagliato i calcoli e 
                  così il riflusso l'aveva portato a starsene nel punto 
                  più alto della Sassonia, cioè la sua cella di 
                  Königstein, dove studiava tra le altre cose trigonometria. 
                  Pur minacciato da una condanna a morte, non sembrava insomma 
                  perdere il suo spirito.
                 
                   
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                    |   Festung 
                        Königstein, nei pressi di Dresda (Germania) - La vista del retro del Castello Georg  | 
                   
                 
                 Bakunin aveva soggiornato a Dresda a più riprese tra 
                  il 1841 e il 1849, intrecciando negli anni relazioni con l'ambiente 
                  culturale e rivoluzionario della città sassone sia di 
                  lingua tedesca sia quello formato da rifugiati politici provenienti 
                  dall'Europa orientale (cechi, polacchi, ecc.), amando la vista 
                  sull'Elba e la vivacità della vita sulla Brühlsche 
                  Terrasse. Qui visita anche la pinacoteca, con quella “Madonna 
                  Sistina” di Raffaello che, secondo la “leggenda”, 
                  Bakunin avrebbe voluto mettere sulle barricate insieme ad altri 
                  quadri per impedire ai soldati prussiani, imbottiti di educazione 
                  classica, di fare fuoco. 
                  Su tutto questo, nella sala d'ingresso del castello c'è 
                  solamente uno scarno e piuttosto triste pannello, con la riproduzione 
                  di una foto di Bakunin conservata presso la biblioteca universitaria 
                  di Dresda e una breve didascalia, che lo presenta come “uno 
                  dei leader ideologici dell'anarchismo”. Disposti in un 
                  circolo si possono leggere altri pannelli, sui quali scorrono 
                  i nomi di altri prigionieri dal Cinquecento all'Ottocento, tra 
                  cui ci sono alcuni sostenitori della costituzione degli anni 
                  Trenta dell'Ottocento morti suicidi in un modo all'epoca considerato 
                  a dir poco sospetto, i contadini rivoltosi della fine del Settecento 
                  costretti a duri lavori forzati e il compositore August Röckel 
                  (1814-1876), combattente durante la rivolta di Dresda, amico 
                  di Bakunin e suo compagno di cella a Königstein. 
                  Nonostante il suo ruolo nel corso degli eventi rivoluzionari 
                  che sconvolsero Dresda, l'unico luogo in cui Bakunin viene qui 
                  ricordato ufficialmente è la prigione dove venne richiuso. 
                  D'altronde, come e dove si ricorda può svelare tante 
                  cose – e, si potrebbe notare, meno male che ci sono gli 
                  anarchici... 
                  Per qualche lettura sul rifugio Bakunin si vedano le note dell'articolo 
                  sull'articolo comparso nel n. 396 di “A” (marzo 
                  2015). Per quanto riguarda le vicende di Bakunin a Dresda, città 
                  in cui abitò a più riprese tra il 1841 e il 1849, 
                  c'è l'interessante saggio Erhard Hexelschneider, Michail 
                  Bakunin in Sachsen, “Osteuropa in Tradition und Wandel”, 
                  (2001), n. 3, pp. 51-87, dove è riportata la lettera 
                  citata scritta da Bakunin durante la prigionia. Hexelschneider 
                  considera una “diceria” la storia di un Bakunin 
                  disposto a sacrificare alla rivolta opere d'arte, nient'altro 
                  che una leggenda scaturita da un passaggio delle memorie di 
                  Alexander Herzen che dovrebbe essere inteso in senso ironico. 
                  Altri hanno invece preso le parole di Herzen in modo assolutamente 
                  serio, arrivando a dichiarare Bakunin un “anticipatore 
                  dell'happening artistico”, come sostenuto da Gerd 
                  Bruyn in Michael Bakunin, Gottfried Semper, Richard Wagner 
                  und der Dresdner Mai-Aufstand 1849 (1995). Esistono anche 
                  un altro paio di libri sull'argomento, purtroppo sempre in tedesco: 
                  Bernd Kramer, Lasst uns die Schwerter ziehen, damit die Kette 
                  bricht.... Michail Bakunin, Richard Wagner und andere während 
                  der Dresdner Mai-Revolution 1849, Karin Kramer Verlag, Berlin, 
                  1999; Wolfgang Eckhardt, Von der Dresdner Mairevolution zur 
                  Ersten Internationale. Untersuchungen zu Leben und Werk Michail 
                  Bakunins, Edition AV, Licht, 2005. Bakunin e Röckel 
                  erano amici già prima della rivolta di Dresda e si frequentavano 
                  quasi quotidianamente con un un certo Wagner, all'epoca entusiasta 
                  rivoluzionario. Il futuro cantore di Sigfrido e dei Nibelunghi 
                  riuscì all'epoca a sfuggire alla cattura rifugiandosi 
                  a casa della sorella. A Wagner è stato dedicato, a differenza 
                  di Bakunin, un museo e un monumento nei pressi di Dresda - piccole 
                  differenze. Per una panoramica sulla rivolta di Dresda si può 
                  invece vedere il volume: Dresden, Mai 1849. Tagungsband, 
                  (a cura di) Karin Jeschke e Gundula Ulbricht, ddp-goldenbogen, 
                  Dresden, 2000. 
                  
                 David Bernardini  
                
                   
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                    |   Festung 
                        Königstein, nei pressi di Dresda (Germania) - Un esempio di cella del Castello Georg. In una cella del genere 
                  venne richiuso Bakunin. Si noti la passione tedesca per i manichini 
                  a grandezza naturale  | 
                   
                 
                
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