   
  
                  Sorprese lungo l'asse del tempo  
                 1.  
                  Spiega Max Jammer nella sua Storia del concetto di spazio 
                  che, nella maggior parte delle lingue antiche, molte parole 
                  “mostrano chiaramente la tendenza a passare dalle qualificazioni 
                  spaziali a quelle temporali” – che, per esempio, 
                  “prima”, etimologicamente significa “davanti 
                  a” e che, infatti, la parola ebraica corrispondente è 
                  “lifney” il cui significato originario è 
                  “di fronte a”. Parole che un tempo hanno designato 
                  lunghezze – può essere un altro esempio –, 
                  in un secondo momento, hanno finito per designare parti del 
                  giorno. Nella prefazione al libro, Albert Einstein confermava 
                  questa tesi riassumendola in termini di genealogia della mente 
                  umana: il concetto di spazio è stato preceduto da quello 
                  di luogo. In quella circostanza come in molte altre, Einstein 
                  dice anche che “spazio” e “tempo” sono 
                  “libere creazioni dell'immaginazione umana” e come 
                  possa poi coniugare questa sua convinzione con la fisicalizzazione 
                  di uno “spazio-tempo” come quarta dimensione – 
                  così come fa nella sua teoria della relatività 
                  – a me sfugge ora come è sfuggito sempre. Sono 
                  portato a pensare che ad una cosa assegno uno statuto o fisico 
                  o mentale e che se contemporaneamente glieli assegno tutti e 
                  due cado in contraddizione – e se cado in contraddizione 
                  come minimo mi inquieto –, ma, evidentemente, Einstein 
                  dormiva sonni tranquilli lo stesso. 
                   
                  2. 
                  C'è stato anche chi ha tentato di ricondurre a operazioni 
                  mentali precisamente individuate quelle “libere creazioni 
                  dell'immaginazione umana”. Ne La mente vista da un 
                  cibernetico, Silvio Ceccato, per esempio, analizza il “tempo” 
                  come il risultato dell'aggiunta della categoria di “plurale” 
                  a quella di “cosa” – mentre lo “spazio”, 
                  inversamente, risulterebbe costituito dalla categoria di “cosa” 
                  aggiunta a quella di “plurale”. In virtù 
                  del primo – del “tempo” – ci sarebbe 
                  pertanto permesso di operare pluralisticamente su ciò 
                  che si considera singolo (vedere noi stessi o qualcun altro, 
                  per esempio, in un momento successivo considerandolo la stessa 
                  persona di prima) e, in virtù del secondo – dello 
                  “spazio” – ci sarebbe permesso di operare 
                  unitariamente su ciò che si considera plurimo (considerare 
                  un insieme di mobili e di altri oggetti, per esempio, come il 
                  nostro “salotto”, o una “mano” l'insieme 
                  delle nostre dita). 
                   
                  3. 
                  Articolando il nostro cammino in qualcosa che ci sta davanti, 
                  in qualcosa che ci sta dietro e nel proprio corpo in movimento 
                  come punto divisorio – come discrimine – fra i due, 
                  otteniamo anche il modello dell'evoluzione temporale. C'è 
                  un passato – dietro –, un futuro – davanti 
                  – e c'è una relazione in essere che categorizziamo 
                  come presente. Diciamo che da ciò il palinsesto della 
                  nostra vita ne viene avvantaggiato: ordiniamo gli eventi lungo 
                  un asse che, entro certi limiti – piuttosto modesti – 
                  possiamo tenere sotto controllo e possiamo costruire così 
                  storie nostre e storie altrui con un criterio che, se applicato 
                  collettivamente, ce le fa condividere. 
                   
                  4. 
                  Della modestia dei limiti in cui riusciamo a tenere sotto controllo 
                  gli eventi che ordiniamo sull'asse del tempo si occupa con la 
                  consueta acutezza dolente Anatole France in Sulla pietra 
                  bianca, scritto nel 1905. Con procedimento analogo a quello 
                  che, tre anni prima, aveva utilizzato nel racconto titolato 
                  Il procuratore di Giudea, mettendo di fronte non più 
                  Pilato a Gesù Cristo (o, meglio, a quanto si diceva vagamente 
                  di lui) ma Gallione a Paolo di Tarso (o, meglio, a quanto si 
                  diceva vagamente di lui), France distrugge tutta la storia scritta 
                  con il Senno di Poi. Riscrive con sapienza filologica il passato 
                  per dimostrare quanto chi lo ha vissuto non avrebbe mai e poi 
                  mai potuto rappresentarsi adeguatamente il futuro – una 
                  tesi che non concerne tanto il mondo dei fenomeni fisici – 
                  che so, un'eclissi –, quanto, piuttosto, il mondo dei 
                  fenomeni mentali – che so, l'evoluzione di un'idea. La 
                  storia – la storia che si è sviluppata poi – 
                  è letteralmente “incredibile” agli occhi 
                  di chi, su quell'asse immaginario del tempo, se la trova davanti. 
                   
                  5. 
                  Gallione era il fratello di Seneca (e di Anneo Mela – 
                  tre fratelli, lo dico per la cronaca, che finiranno la propria 
                  esistenza costretti al suicidio) e Seneca – un grande 
                  maestro, un saggio da cui non potrà che uscir saggezza 
                  – era il maestro di Nerone. Come non poter cogliere un 
                  momento – almeno un momento – in cui Gallione, intellettuale 
                  e potente amministratore romano di territori occupati, non dichiari 
                  quanto di buono ci si aspettasse da quest'ultimo? 
                  Gallione è chiamato in tribunale, obtorto collo, per 
                  giudicare di una lite, tra uno straccione visionario e alcuni 
                  ministri del culto locale. Nulla gli può fregare di meno. 
                  E, infatti, se ne torna a chiacchierare di profondità 
                  filosofiche con il fratello e con gli amici senza neanche avere 
                  un'idea ben chiara di come sono andate a finire le cose. Come 
                  fare a individuare – in quel momento – in quel Paolo 
                  di Tarso il fondatore di una religione che avrebbe sconvolto 
                  la storia del mondo? A Gallione, presumibilmente, poteva anche 
                  sembrare difficile che le proprie opere, poi, andassero perdute 
                  – come, di fatto, è avvenuto –, ma quanto 
                  poi davvero è accaduto doveva per forza sembrargli assolutamente 
                  impossibile. Sia per chi si faceva portavoce di questa nuova 
                  religione che per i tratti costitutivi della religione stessa 
                  – monoteista, estranea alla tradizione, fatta propria 
                  da pochi disperati che né nella società romana 
                  né in quella ebraica contavano meno di nulla. 
                  Questa costernazione stupita di fronte agli eventi, però 
                  – e qui sta tutta l'intelligenza dell'argomentazione di 
                  Anatole France –, non toccherebbe soltanto a chi “sta 
                  dall'altra parte del tavolo” – ovvero a chi osserva 
                  il soggetto storico che agisce –, ma toccherebbe anche 
                  direttamente a quest'ultimo. “Chi fonda una religione 
                  non sa quello che fa” e Paolo di Tarso medesimo – 
                  San Paolo – non riconoscerebbe nelle dottrine odierne 
                  praticate nel suo nome alcunché di suo. 
                   
                  6. 
                  Nel sogno finale – un racconto di “fantascienza 
                  socialista” –, France estende la tesi fino a comprendere 
                  la tragedia che stiamo vivendo noi tutti. Il colonialismo e 
                  le sue derive più e meno mascherate da messaggeri di 
                  civiltà sono la barbarie, la competizione industriale 
                  nel nome del capitale porta alla guerra, “lo sterminio 
                  è il risultato fatale delle condizioni economiche nelle 
                  quali si trova oggi il mondo civilizzato”. Altro che, 
                  come vorrebbe il San Paolo delle varie “epistole” 
                  che gli han fatto scrivere (pullulavano, tra i cristiani, i 
                  falsari e, presumibilmente, pullulano ancora), sottomettersi 
                  alle “potenze regnanti”, è urgente operare 
                  per la salvezza dell'umanità e ciò è possibile 
                  soltanto nel nome del collettivismo. 
                  Occorre abolire la proprietà individuale dei mezzi di 
                  produzione e instaurare una dittatura del proletariato. Lo dice 
                  nel 1905 e prelude al suo entusiasmo per la rivoluzione sovietica 
                  del 1917, ma lo dice, anche, senza illusioni. Sogna una società 
                  talmente collettivista da poter sopportare anche gli anarchici 
                  suoi irriducibili nemici, ma è ben consapevole del fatto 
                  che, una volta giunto al potere, “il collettivismo sarebbe 
                  tutt'altra cosa di quel che noi immaginiamo”, perché 
                  “ogni partito, qualunque esso sia, si trasforma così 
                  completamente nella lotta, che dopo la vittoria non resta che 
                  il nome ed alcuni simboli del pensiero di un tempo”. Valga 
                  per Nerone, per Gesù Cristo, per Paolo di Tarso, per 
                  Lenin e per chiunque altro che, in cammino lungo l'asse del 
                  tempo, si lascia alle spalle qualcosa essendo atteso, innanzi 
                  a sé, da qualcos'altro. È già tanto se 
                  riusciamo ad essere padroni delle nostre categorie, figuriamoci 
                  se possiamo qualcosa sulle categorie altrui; è già 
                  tanto – tanto e doveroso – se possiamo qualcosa 
                  sulla storia nostra, figuriamoci su quella altrui. 
                  Ma la consapevolezza del fatto che queste categorie dipendano 
                  dal proprio operare mentale e non costituiscano ineluttabilità 
                  a sé stanti, nell'indurci a non sottrarsi alle proprie 
                  responsabilità individuali, può ingenerare una 
                  relazione più costruttiva con gli altri. 
                 Felice Accame 
                 Nota 
                  Storia del concetto di spazio di Max Jammer è 
                  pubblicato da Feltrinelli, Milano 1963. La mente vista da 
                  un cibernetico di Silvio Ceccato è pubblicato da 
                  Eri, Torino 1972. Sulla pietra bianca di Anatole France 
                  è pubblicato da Gwynplain, Camerino 2011. Il procuratore 
                  di Giudea di Anatole France è pubblicato da Sellerio, 
                  Palermo 1984.
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