Resistenza quotidiana 
                  ai margini delle città 
                 Dove 
                  si concentra, oggi, la resistenza al potere? In un mondo dove 
                  la struttura gerarchica si è molecolarizzata e diffusa 
                  a ogni livello - dove l'ingerenza dell'autorità e della 
                  criminalità organizzata non sono più separabili 
                  chirurgicamente, ma attraversano il corpo sociale come un veleno 
                  - la risposta è sorprendentemente antica: voltare lo 
                  sguardo verso le periferie. Ed è proprio questo, fin 
                  dal titolo, l'intento di Gaetano Alessi e Massimo Manzoli: Periferie: 
                  Terre Forti (autoproduzione, pp. 120, scaricabile gratuitamente 
                  dal sito www.periferieterreforti.com). 
                  Quattro storie di resistenza quotidiana in luoghi distanti dai 
                  centri, intesi sia in senso urbano che sociologico, o culturale: 
                  ciò che resta ai margini, spesso frainteso e ignorato, 
                  e dove invece fioriscono esperienze di libertà e dignità 
                  straordinarie. Luoghi dotati appunto di una forza inattesa. 
                  Come spiega nella sua prefazione don Andrea Bigalli, “Il 
                  valore umano di ciò che è escluso, rifiutato, 
                  dichiarato inutile o sbagliato introduce la possibilità 
                  di una antropologia di altro segno, efficace nell'educare e 
                  far evolvere. Ai margini si vive liberi dai pregiudizi o quanto 
                  meno si può avere questa opportunità. Di certo 
                  qui si trova il senso di una frattura con il pensiero dominante, 
                  che insegna con insistenza il disprezzo dell'altro”. 
                  È importante sottolineare che Alessi e Manzoli hanno 
                  raccolto queste storie mettendosi fisicamente in viaggio, senza 
                  pregiudizi e con la voglia di toccare con mano delle realtà 
                  che di frequente vengono distorte dal racconto “ufficiale” 
                  che ne viene dato. 
                  Il primo e più eclatante esempio è naturalmente 
                  la lotta in val di Susa. Impariamo come il tentativo di espropriare 
                  la valle ai cittadini ha una lunga e triste tradizione: dall'occupazione 
                  tedesca (che imparò in fretta a conoscere la resistenza 
                  partigiana, segnalando quei luoghi con un eloquente “Achtung! 
                  Bandengebiet”) alle infiltrazioni mafiose negli anni Settanta, 
                  per finire naturalmente con lo squarcio aperto dalla TAV. 
                  Vediamo la lucidità di Nicoletta Dosio, che lega la lotta 
                  all'alta velocità al bisogno di cercare delle forme di 
                  commercio locali e sostenibili, senza muovere i prodotti per 
                  migliaia di chilometri dal loro luogo d'origine. Rivediamo, 
                  raccontati in prima persona dai protagonisti, i momenti salienti 
                  della storia: le prime manifestazioni a inizio anni Novanta, 
                  lo sgombero e la ripresa di Venaus nel 2005, la formazione e 
                  l'abbattimento della libera Repubblica della Maddalena nel 2011, 
                  e più di tutto il modo in cui il movimento ha saputo 
                  divenire collante di una comunità senza leader, profondamente 
                  libertaria, e insieme veicolo e spunto per nuove lotte in tutto 
                  il Paese. 
                  Quello che ci restituiscono Alessi e Manzoli non è dunque 
                  un mito, ma “la storia di uomini e donne”: e dunque 
                  tanto più prezioso. I miti si possono usurpare o piegare 
                  o usare come randelli ideologici. La vita delle persone che 
                  quotidianamente si impegna per opporsi a un'opera assurda, invece, 
                  no. 
                  Non dissimile nello spirito è la resistenza offerta dal 
                  centro sociale Iqbal Maish a una forma diversa di ingiustizia 
                  sociale: l'essere confinati in un quartiere-ghetto come Librino, 
                  ai margini di Catania. “Cos'è Librino? Una fabbrica 
                  di voti, quello è”. Una località che in 
                  origine doveva essere un'appendice moderna della città 
                  a cura di grandi architetti, e che invece si è trasformata 
                  in una riserva lontana dalle cronache quotidiane, “80000 
                  fantasmi di cui ci si ricorda solo nelle tornate elettorali”. 
                  Nessuna struttura sociale o culturale. Nessuna scuola, pochissimi 
                  negozi, un'assenza pressoché totale di luoghi di condivisione: 
                  un quartiere-dormitorio come tanti, troppi altri. E così 
                  dal 1995 l'Iqbal Masih ha voluto reagire operando dal basso 
                  e in forma autogestita per garantire agli abitanti del quartiere 
                  ciò che non hanno: doposcuola, corsi e laboratori, animazioni 
                  di strada, una palestra sociale. Tutto ciò che può 
                  servire a creare un'alternativa – anche nell'immaginario 
                  – per un non-luogo dove i 60-70% delle persone è 
                  coinvolto nell'attività di spaccio, e il sistema malavitoso 
                  è una realtà preponderante, in cui tutti rischiano 
                  di essere assorbiti. 
                  Dalla Sicilia si passa in Toscana: un altro quartiere difficile, 
                  Le Piagge a Firenze – e un altro modo di generare prassi 
                  e culture alternative, la Comunità di base Le Piagge 
                  di don Alessandro Santoro. Ai margini di una delle città 
                  più belle e famose del mondo, Le Piagge vive una realtà 
                  fatta di disoccupazione e marginalità, con problemi di 
                  interazione fra gli abitanti storici, i nuovi arrivati e le 
                  comunità rom. La risposta della comunità è 
                  concreta: “strumenti leggeri che permettono di realizzare 
                  e mettere in atto idee e progetti nati qui. Ogni esperienza 
                  che nasce ha origine da un bisogno del territorio e da un tentativo 
                  dei residenti di rispondere a quel bisogno. Sorge con il sogno, 
                  forse utopico, di voler costruire una comunità”. 
                  La premessa – la scritta “Zona Altamente Partigiana” 
                  che campeggia all'ingresso – dice già molto. Don 
                  Alessandro Santoro si è avvicinato al quartiere lentamente, 
                  imparando prima a conoscerlo e poi dedicandosi anima e corpo 
                  per “costruire luoghi di Ri-Esistenza, intesa come un 
                  modo diverso di stare al mondo”, “senza trasformismi 
                  di maniera o di comodo”. Unendo una visione radicale del 
                  messaggio evangelico a un'attività costante sul territorio, 
                  in primo luogo agendo per il recupero scolastico e promuovendo 
                  la vendita di artigianato locale e autoprodotto, fino ad arrivare 
                  al progetto di microcredito attivo dal 2000, il “Fondo 
                  Etico e Sociale delle Piagge”, per rispondere collettivamente 
                  ai problemi economici degli abitanti del quartiere. 
                  Il breve viaggio di Alessi e Manzoli si conclude con una forma 
                  di resistenza individuale, e in un certo senso tanto più 
                  eroica, perché condannata a una solitudine terribile: 
                  quella dell'imprenditore e collaboratore di giustizia Gaetano 
                  Saffiotti. Saffiotti è cresciuto nel sistema della 'ndrangheta 
                  – costretto a seguire le regole spietate per cui ogni 
                  acquisto o affare deve passare per forza dal mafioso del territorio, 
                  vivendo costantemente sotto il terrore del ricatto e delle minacce 
                  di morte. Finché non decide di dire basta, assumendosi 
                  per intero la responsabilità e la necessità della 
                  scelta. Le conseguenze sono prevedibili: dopo la sua prima denuncia 
                  nel 2002 ha fatto 929 gare pubbliche, senza vincerne una. Prima 
                  ne vinceva una su tre o su cinque al massimo. “Tutto questo 
                  per aver difeso lo Stato denunciando i clan: ad oggi le aziende 
                  dei clan lavorano ed io no”, spiega. Un c'è 
                  parmu di nettu: non c'è niente di pulito da nessuna 
                  parte, e “il problema di questo Paese è che chi 
                  fa le cose giuste viene considerato un eroe e deve vivere sotto 
                  scorta”. Dove la reclusione morale e personale è 
                  tanto più dolorosa rispetto a quella fisica a cui è 
                  costretto per non essere ucciso. 
                  Quattro storie fra le molte – troppo spesso passate sotto 
                  silenzio o male raccontate – che ancora oggi attraversano 
                  l'Italia: quattro sfide alla visione uniforme e pacata della 
                  società; quattro modi diversi ma egualmente illuminanti 
                  per comprendere come la resistenza al potere sia possibile ed 
                  efficace – ma necessiti di coraggio e abnegazione. 
                
  Giorgio Fontana 
                   
                 
                USA 
                  1899/ Cinque impiccati. 
                  Erano immigrati siciliani 
                 Destini 
                  che si incrociano nella barbarie capitalista mondiale: luglio 
                  1899 a Tallulah, paesino sperduto della Louisiana, cinque poveri 
                  disgraziati, immigrati siciliani di Cefalù, tre fratelli, 
                  i Defatta, e due loro cugini vengono linciati e impiccati. Stiamo 
                  parlando di Storia vera e terribile tra Sicilia e America 
                  di Enrico Deaglio (Sellerio, Palermo, 2015, pp. 214, € 
                  14,00). 
                  Destini che si incrociano: i neri appena “liberati” 
                  dalla schiavitù e i Dagos, termine usato per indicare 
                  i siciliani, considerati mezzi negri, mezzi bianchi, una sub 
                  razza umana. Quello che sembrava un episodio isolato era invece 
                  solo la punta di un iceberg. 
                  Pochi anni prima a New Orleans, undici siciliani venivano impiccati 
                  dalla folla e i loro corpi esposti al pubblico, come “strani 
                  frutti”. Strange Fruit, cantava Billie Holiday, con la 
                  sua voce meravigliosa, rischiando spesso di diventare uno strano 
                  frutto “strano frutto pende dai pioppi, una scena bucolica 
                  del sud galantuomo, gli occhi strabuzzati e le bocche storte” 
                  (disponibili su YouTube: Billie Holiday “Strange Fruit” 
                  e Nina Simone “Strange Fruit”). 
                  Negli stati dell'ex Unione si stima che dal 1887 al 1907 oltre 
                  5000 (le stime sono per difetto) siano stati i linciaggi: il 
                  novanta per cento erano neri. Nessuno è mai stato condannato: 
                  il linciaggio era cosa normale, anzi era favorito; era uno spettacolo 
                  a cui non si poteva mancare, dove si portavano i bambini a mangiare 
                  lo zucchero filato. Era anche un “aiuto” all'applicazione 
                  della “giustizia”, uno snellimento delle procedure. 
                  In quegli anni sono centinaia di migliaia i lavoratori che scappano 
                  dall'inferno siciliano, dopo aver sognato la giustizia sociale 
                  promessa da Garibaldi a nome del nuovo Regno d'Italia, la fine 
                  della schiavitù dagli agrari, l'esproprio delle terre, 
                  l'uguaglianza. Ma il nuovo ordine non era quello, “tutto 
                  doveva cambiare perché tutto rimanesse uguale”, 
                  e a contadini e braccianti furono dati piombo e cannonate. Rivolte 
                  e altri sogni si susseguirono fino all'espatrio forzato verso 
                  l'America, “provincia dolce, mondo di pace.” 
                  Negli stessi anni la guerra di Secessione “libera i neri 
                  dalla schiavitù”; ma il sogno di liberazione di 
                  una moltitudine di donne e uomini costretti a subire l'infamia 
                  della schiavitù, come spesso succede, rimane un sogno. 
                  “Tutto cambia per rimanere sempre uguale”. I latifondi 
                  rimangono in mano agli stessi proprietari, però i “negri” 
                  non sono più disposti a fare gli Zii Tom. A quel punto 
                  si potevano chiamare a lavorare altri “negri”, ed 
                  i Dagos erano l'ideale: uomini un po' scuri di pelle, muscolosi, 
                  dediti alla fatica fisica e remissivi se bastonati o assassini 
                  e criminali per natura se lasciati liberi. Così gli emigranti 
                  giungevano dalla Sicilia per sbarcare in un inferno ancora peggiore 
                  di quello che avevano lasciato. 
                  Negli Stati Uniti, in quegli anni, si cercò anche di 
                  dare una figura giuridica ai Dagos: non neri, non bianchi, forse 
                  negroidi, vennero stimati buone bestie da soma per il lavoro 
                  nei campi. 
                  In ciò ebbero come complici le idee pseudo-scientifiche 
                  della comunità guidata da Lombroso, (socialista e criminologo 
                  positivista, antesignano del leghismo più becero) che 
                  giustificava la teoria razzista che vedeva i meridionali (siciliani, 
                  braccianti, contadini e anarchici) portatori di una criminalità 
                  innata, una specie di sotto razza umana e perciò non 
                  degni di libertà, quindi linciabili. 
                
                   “Sull'orizzonte cupo e desolato, 
                    già spunta l'alba minacciosamente 
                    del dì fatato”. 
                 
                 29 Luglio 1900, un anno dopo i fatti narrati, Gaetano Bresci, 
                  anarchico e operaio tessile, torna dall'America, da Paterson, 
                  per vendicare le oltre 200 vittime dei moti di Milano del 1898. 
                  La folla inerme era stata presa a cannonate dal macellaio-generale 
                  Bava Beccaris, decorato poi, insieme all'altro suo simile, Generale 
                  Morra di Lavriano, che aveva represso nel sangue i rivoltosi 
                  organizzati nei Fasci Siciliani. 
                  Tre colpi vanno a segno al cuore del re, Umberto 1° di Savoia, 
                  a Monza, vendicando in un atto ideale tutte le vittime dei soprusi, 
                  “uccidendo un Principio”. 
                  Il presidente americano Mc Kinley che si strinse in profondo 
                  cordoglio per la morte di “Re Mitraglia” il 14 settembre 
                  1901 viene colpito a morte da Leon Czolgoz, anarchico polacco 
                  anche lui proveniente da Paterson. 
                  “Ancora vivi, sono sicuro che i Defatta avrebbero detto: 
                  Buono ficiro Bresci e Leon.” 
                 Antonio D'Errico 
                     Una giovinezza 
                  tedesca 
                 “I 
                  genitori hanno perso credibilità a causa della loro identificazione 
                  con il nazionalsocialismo, la chiesa cattolica l'ha persa proteggendosi 
                  dietro la figura del nazismo. Si menziona raramente, ma l'autorità 
                  dei padroni è stata messa in dubbio durante gli ultimi 
                  100 anni viste le terribili condizioni che hanno permesso all'industria 
                  di svilupparsi. Chi rappresenta l'autorità non è 
                  più convincente...” 
                  1966, una giovane e promettente giornalista tedesca partecipa 
                  a un dibattito televisivo: il suo nome è Ulrike Marie 
                  Meinhof. 
                  Une jeunesse allemande (2015, regia di Jean-Gabriel Périot, 
                  documentario, 90 minuti) l'ho visto a Berlino, ma la giovane 
                  cricca del Milano Film festival l'ha meritoriamente selezionato 
                  per il proprio concorso. E così, anche un po' di pubblico 
                  italiano ha potuto vedere questo film dalle difficoltà 
                  di produzione e realizzazione straordinarie: costruito puramente 
                  con immagini e audio d'archivio, discorsivo e fluido come il 
                  miglior cinema di finzione e comunque capace di racchiudere 
                  ed esprimere una ricerca decennale in novantatré minuti. 
                  Non è da tutti. 
                  Jean-Gabriel Périot è l'artefice di questo raro 
                  esempio di “cinema d'archiviautore”. La giovinezza 
                  del titolo è più unica che rara: vita, morte e 
                  (s)miracoli della RAF, Rote Armee Fraktion, in origine conosciuta 
                  con la comoda etichetta giornalistica di banda Baader-Meinhof. 
                  Périot si concentra sulle intelligenze asciutte e acute 
                  della sinistra tedesca più radicale, che dall'editoriale 
                  d'invettiva o dal film di denuncia passa alle bombe artigianali 
                  e alla clandestinità. 
                  Il cardine dell'indagine non ha nulla di didascalico. Nasce 
                  da un dilemma personale, che forse molti – me compreso 
                  – condividono. Che cosa succede quando ci si trova d'accordo... 
                  in toto o semi o parzialmente... con il pensiero di un terrorista? 
                  È facile condannare a spada tratta atti terroristici 
                  e i loro autori quando l'ideologia che li partorisce è 
                  antitetica alla nostra. Il problema sorge quando la condividiamo, 
                  anche solo in parte. 
                  Ho avuto l'opportunità di parlare con Périot. 
                  Mi ha confermato proprio questo. “È sempre meno 
                  complicato capire la violenza che si cela dietro un atto terroristico 
                  politico a cui mi sento in un certo modo vicino, ma ciò 
                  non è giusto... dovevo entrare in questo mondo e capire 
                  e dissezionare questa mia quasi apologia della violenza. [...] 
                  Mi sono concentrato sulla RAF per l'abbondanza di immagini. 
                  Erano giornalisti, cineasti, semi-star come Baader e Hensslin, 
                  che nel 69 si son visti dedicare un film stile Bonnie & 
                  Clyde”. 
                  Il montaggio oculato di Périot porta alla luce due generazioni 
                  in guerra in una Germania confusa se non persa dopo lo tsunami 
                  nazista. Il regista francese inizia sardonicamente: ricostruisce 
                  il clima schizofrenico del tempo attraverso i rotocalchi e i 
                  dibattiti televisivi; introduce poi le figure emblematiche di 
                  una delle fazioni terroristiche più temute dell'era moderna 
                  con fermi immagine à la bee-beep & willy-il-coyote. 
                  Eccoli Ulrike Meinhof, Andreas Baader, Holger Meins, Gudrun 
                  Hensslin, Horst Mahler. 
                  Una volta calamitata la nostra attenzione, l'ironia iniziale 
                  di Périot lascia il passo al dubbio: questi visi della 
                  nuova Germania democratica, idealisti e attivisti, ci parlano? 
                  “Se si ha il desiderio o la presunzione di educare un 
                  popolo, bisogna creare le condizioni di una democrazia reale, 
                  solo allora un'autentica autorità può essere accettata. 
                  L'abuso dell'autorità sarà eliminato, il servilismo 
                  e gli sfruttamenti non esisteranno più. Ciò non 
                  è possibile senza un cambiamento concreto della società.” 
                  (Ulrike Meinhof) 
                  La vita dedicata all'ideologia, le proteste, lo stato intransigente: 
                  i primi morti. E quindi la disperazione, l'inefficacia della 
                  prassi politica tradizionale, la presa delle armi. È 
                  il terrorismo, sia rosso che di stato. “Una delle preoccupazioni 
                  più contemporanee che traspaiono dal film è l'arma 
                  politica che ci è rivolta contro ogni volta che sentiamo 
                  la parola terrorismo” commenta Périot. “Un 
                  terrorista è, a priori, totalmente pazzo, malvagio ... 
                  il termine terrorismo nasconde tutto: ci impedisce di pensare 
                  e di capire di chi e di cosa stiamo parlando.” 
                  Sullo schermo passa il faccione di Helmut Schmidt, in parlamento, 
                  col pugno minaccioso e la voce che ruggisce contro la RAF. “Noi 
                  non scenderemo a patti con questi terroristi!”... Quanti 
                  politicanti di oggi di grande e piccola taglia seguono lo stesso 
                  copione... Non c'è dialogo, non c'è soluzione 
                  se non attraverso l'annientamento indiscriminato dell'avversario. 
                  Un manto giallo, rosso, ma soprattutto nero copre le spalle 
                  nude della liberté delacroixiana. 
                  Périot fa un uso misurato – quanto mai efficace 
                  – dei tentativi cine-dialogo di alcuni mostri sacri: dalle 
                  interpretazioni del Godard maoista passando per l'astrattismo 
                  visivo di Antonioni e la sofferenza viscerale di Fassbinder. 
                  Uno dei momenti più potenti del film è proprio 
                  il contributo del regista bavarese in Germania in autunno 
                  (Deutschland im Herbst), film del 1978 di un collettivo 
                  di cineasti sul terrorismo tedesco, che raggiunge il suo picco 
                  con il caso Schleyer e il dirottamento dell'aereo Lufthansa 
                  181. Fassbinder (e con lui Périot) fa il punto della 
                  situazione: la RAF esige la liberazione dei propri leader; Meinhof, 
                  Baader, Hensslin e altri sono rinchiusi nel carcere di massima 
                  sicurezza di Stammheim (Stoccarda), in isolamento totale, spogli 
                  anche dei flebili diritti di un comune detenuto. Schmidt non 
                  cede. Il popolo tedesco esige sicurezza... Non piegarti, 
                  Stato, Uccidili... Ed ecco il “climax Fassbinder”. 
                  A cena da sua madre, urla e sbraita contro l'ipocrisia della 
                  borghesia tedesca: non si può volere democrazia solo 
                  quando conviene. Ideologicamente spalle al muro, la madre alla 
                  fine lo deve ammettere: ci vorrebbe “un potere autoritario, 
                  ma che sia buono, giusto e gradevole”. Ah-ah-ah... 
                  Il merito di Périot è di aver annichilito il semplicismo 
                  del bianco & nero: è un cazzotto di grigi quello 
                  che colpisce la nuca dello spettatore, il democratico latente, 
                  per convenienza, che è in ognuno di noi. Non si può 
                  rispondere con prosopopea alle domande che il terrorismo fa 
                  irrompere sulla scena quotidiana se prima il terrorismo non 
                  lo si indaga nei suoi moventi profondi. Il parallelo col presente 
                  viene così umilmente stabilito. Périot, d'altronde, 
                  ha definito questo suo film come “un lavoro per capire”. 
                  Capire la RAF, come anche capire le debolezza della democrazia 
                  della Germania anni 70 o della democrazia del mondo occidentale 
                  contemporaneo. Contro questa debolezza bisogna agire. L'assoluta 
                  necessità di rinvigorire la democrazia ci impone di trovare 
                  prima una risposta moderna a una domanda antica: quale democrazia? 
                  Se si vuole democrazia vera e concreta, bisogna caricarsela 
                  sulle spalle, tirarsi su le maniche, esserne in una parola responsabili. 
                  Che governo del popolo è se il popolo è “democraticamente” 
                  emarginato, circuito, irretito? Per concludere con le parole 
                  di Périot, “siamo tutti responsabili per qualsiasi 
                  tipo di violenza... siamo tutti parte del problema, come siamo 
                  tutti parte della soluzione”. 
                 Nicolò Comotti 
                
                
                  
                  Alcune considerazioni 
                   
                  Lo scritto di Comotti affronta una materia come quella della 
                  “violenza rivoluzionaria” su cui “A” 
                  esprime da decenni posizioni precise di rifiuto delle strategie 
                  lottarmatiste e delle azioni di violenza indiscriminata. E la 
                  affronta con un taglio che ci lascia a dir poco perplessi. 
                  Per questo, nel pubblicare lo scritto di Comotti, abbiamo 
                  chiesto al nostro collaboratore Andrea Papi una sua riflessione. 
                  Come sempre, lo spazio di “A” è aperto al 
                  dibattito. Su questo tema come su tutto il resto. 
                   
                
  Leggendo il pezzo di Comotti sul film Une jeunesse allemande 
                  di Jean-Gabriel Périot, sono rimasto incuriosito e mi 
                  son fatto l'idea che si tratti di un film che senz'altro andrò 
                  a vedere non appena ne avrò l'opportunità. Interessante 
                  in particolare la tesi che sviluppa di dar voce alle ragioni 
                  dei “terroristi” al di là di ogni stereotipo 
                  ufficiale su di loro. Allo stesso tempo mi ha colpito il fatto 
                  che chiami, appunto, “terroristi” i componenti della 
                  RAF, esattamente con lo stesso linguaggio dello stato, mentre 
                  per come è sviluppato il pezzo di Comotti mi ha lasciato 
                  dell'amaro in bocca. 
                  L'ho percepito, purtroppo, impregnato del solito problema, almeno 
                  per me è tale. Un sentore giustificazionista dell'azione, 
                  come l'ha definita lui, terrorista. Non è un'adesione 
                  vera e propria, intendiamoci bene, mentre rischia di diventare, 
                  consapevolmente o no ha poca importanza, un'esagerata giustificazione, 
                  in un periodo terribile per queste cose, in cui sta diventando 
                  luogo comune definire “terroristi” più o 
                  meno tutti gli oppositori tacciati come radicali, dall'Isis 
                  ai centri sociali. 
                  Il problema in fondo non sono le ragioni che fanno scegliere 
                  di diventarlo, come sembra suggerire il film almeno secondo 
                  Comotti, ma se ha avuto ed ha senso farlo. 
                  Prendendo spunto proprio dal soggetto che tratta, la RAF tedesca 
                  meglio nota come Baader-Meinoff, mi sembra di poter dire che 
                  non si è solo dimostrata perdente, ma, al di là 
                  della loro volontà, nei fatti si è trasformata 
                  in incoerenza completa rispetto al bisogno di liberazione che 
                  avrebbe voluto far emergere. Senza soffermarsi sul fatto che 
                  la loro scelta ideologica è di tipo para-leninista, quindi 
                  proponente un tipo di dittatura che la storia del bolscevismo 
                  ha ampiamente condannato, non sono riusciti a trascinare le 
                  agognate “masse proletarie” nella loro azione presunta 
                  rivoluzionaria e sono stati spinti al suicidio delle loro scelte. 
                  Se magari sul piano della critica al sistema di cose presente 
                  potremmo in gran parte trovarci sulla stessa lunghezza d'onda, 
                  è invece sul piano dell'alternativa che proponevano oltre 
                  alla qualità della scelta d'azione che c'è la 
                  più completa divergenza. Se perciò possiamo provare 
                  qualche simpatia per le ragioni che hanno spinto i componenti 
                  dalla RAF a diventare ciò che sono stati, c'è 
                  al contrario un netto rifiuto delle loro scelte di vita e d'azione. 
                  Capisco che Comotti voleva solo parlare del film, che senz'altro 
                  è portatore di qualche valore, e che giustamente non 
                  voleva fargli nessun cappello. Ha fatto bene! Ma per noi questa 
                  tematica è tuttora carne e sangue ancori vivi, per cui 
                  è indispensabile chiarire questioni che, sempre per noi, 
                  restano fondamentali e imprescindibili. 
                 Andrea Papi 
                 
                  La replica 
                   
                  Cara redazione di “A”, caro Papi, 
                  mi divincolo dalle perplessità - mantenendo spero una 
                  certa grazia - e cerco di tirare un paio di cordicelle per fare 
                  abbassare le sopracciglia di tutti. 
                  Mi rammarica che la mia recensione sia stata interpretata come 
                  una giustificazione/apologia della violenza. D'altro canto, 
                  sinceramente, chiedo a Papi e ai lettori di indicarmi i punti 
                  del mio testo in cui quest'elogio prenda forma... La mia recensione 
                  mirava a riprendere la RAF e analizzarla con uno sguardo prettamente 
                  storico, anzi, antropologico. 
                  Detto questo, sono contento che almeno a Papi sia venuta voglia 
                  di andare a vedere il film, perché questo era esattamente 
                  lo scopo della mia - come di ogni - recensione. 
                  Per quanto riguarda il vero dibattito...guardate Une Jeunesse 
                  Allemande, poi ne riparliamo! 
                  Un saluto a tutti. 
                 Nicolò Comotti 
                     Storie 
                  che si ripetono 
                 Recentemente 
                  le edizioni “il Saggiatore” hanno ripubblicato un 
                  libro uscito per la prima volta, in America, nel 1936: I 
                  nomadi (Milano, 2015, pp. 113, € 14,00) di John Steinbeck, 
                  giornalista e scrittore tra i più apprezzati del Novecento, 
                  assai noto anche per la cinematografia che negli anni '40 fu 
                  tratta da alcuni suoi romanzi, uno per tutti Furore. 
                  Il libro in questione è una raccolta di sette articoli 
                  che il “San Francisco News” pubblicò nell'ottobre 
                  del 1936 con corredo fotografico di Dorothea Lange; un reportage 
                  giornalistico-sociologico dedicato alle migrazioni interne verso 
                  la California nel periodo della grande depressione. Dal 1935 
                  al 1938 giunsero in California tra i 300mila e 500mila migranti 
                  costretti a lasciare stati quali il Texas, l'Arkansas, il Missouri 
                  e l'Oklahoma a causa di siccità, povertà e pignoramento 
                  delle terre. Ondata migratoria interna che andò a soppiantare 
                  quasi interamente quei lavoratori, immigrati non bianchi, occupati 
                  nei campi californiani. 
                  Gran parte di questa gente si trovò costretta a vivere 
                  senza più niente, in agglomerati di baracche fatiscenti 
                  ai limiti del degrado che lo scrittore visitò e descrisse 
                  così come descrisse quella che pareva una buona alternativa 
                  possibile, quegli accampamenti - solo quindici, a onor di cronaca 
                  - che vennero istituiti dallo stato ma che non superarono mai 
                  la fase iniziale di “progetti dimostrativi”. Insomma, 
                  ci troviamo tra le mani un pezzetto di storia dell'America anni 
                  '20 scritta con quel linguaggio evocativo e scorrevole che caratterizza 
                  l'autore. Perché riproporne la lettura? 
                  Per vedere - se ancora ne avessimo bisogno, ma forse sì 
                  - ciò che si ripete: lo sfruttamento dell'uomo (inteso 
                  qui non come termine generico ad indicare la specie umana, ma 
                  proprio gli uomini di sesso maschile) su altri esseri umani, 
                  quelli più deboli o in difficoltà, quelli appartenenti 
                  a razze che - causa le condizioni socio-economiche del momento 
                  in un particolare paese - ci si può permettere di considerare 
                  inferiori (prima della seconda guerra mondiale anche i giapponesi 
                  subivano quella sorte), alla stregua degli animali, ai quali 
                  è sempre stata negata addirittura l'esistenza. 
                  La storia si ripete, con varianti che la collocano a latitudini 
                  differenti sulla superficie del pianeta e in diversi periodi 
                  storici. Conosciamo meglio la nostra, nella quale possiamo andare 
                  a ritroso con più agio e arrivare all'Impero romano, 
                  per esempio, con tutta la sua grandiosa barbarie. La nostra 
                  che si interseca con quella degli Stati Uniti d'America (più 
                  di quattro milioni gli emigrati italiani tra la fine del 1800 
                  e i primi vent'anni del 1900). 
                  Chi scrive - come forse anche la maggior parte di chi legge 
                  - casualmente è nata dalla parte “fortunata” 
                  del pianeta, e la sua vita si è dipanata in anni in cui 
                  le guerre sono state - non ripudiate - semplicemente spostate 
                  da un'altra parte. Questo per dire che molti di noi sulla propria 
                  pelle non hanno subito gravi sofferenze. Però hanno ascoltato, 
                  hanno letto, hanno visto e continuano a vedere sempre di più 
                  perpetuare la stessa offesa. 
                  Sta di fatto che la soluzione al problema per tutta quella popolazione 
                  americana di pelle bianca impoverita arrivò solo in piccolissima 
                  parte da alcuni provvedimenti messi in atto dal governo e che 
                  facevano parte dell'insieme conosciuto col termine New Deal, 
                  che non favorì una piena ripresa economica (solo con 
                  la seconda guerra mondiale si riuscirà ad assorbire altri 
                  senza lavoro). Infatti - come si sa - fu proprio la guerra, 
                  con conseguente possibilità di impieghi ben pagati nell'industria 
                  bellica e affini, a risollevare le sorti della gente in quegli 
                  anni. 
                  Le guerre: strumento economico utile a far girare l'economia 
                  di una parte del mondo a scapito di un'altra. Un'altra parte 
                  di gente che, anche secondo la voce del bravo Steinbeck, può 
                  subire trattamenti lavorativi, economici e sociali diversi rispetto 
                  a quella “popolazione americana di antico lignaggio” 
                  caduta in disgrazia e che meritava di risollevarsi. Perché 
                  i nuovi arrivati a lavorare nei campi della California rifiuteranno 
                  “di assumersi il ruolo di bassa manovalanza, con la brutalità 
                  dei sorveglianti, lo squallore e la fame che questo comporta”. 
                  Per gli altri – all'epoca giapponesi, messicani o filippini 
                  – non era prevista nemmeno la stessa empatica preoccupazione 
                  da parte del giornalista illuminato. Oggi le procedure sono 
                  diverse ma la sostanza cambia poco e questo è lo scandalo, 
                  l'impedimento che non permetterà mai di porre fine a 
                  una condizione umana basata sullo sfruttamento, che vi siano 
                  sempre quelli di serie A che possono sfruttare quelli considerati 
                  di serie inferiore, sempre più giù e sempre peggio, 
                  in una lotta assurda dove l'unica cosa che conta svanisce, quasi 
                  non fosse mai esistita. La nostra uguaglianza, assoluta, tra 
                  diversi. 
                  Il senso che ha avuto per me questa lettura è stata un'aggiunta, 
                  una conferma ulteriore al desiderio, che continuo a credere 
                  non inutile, di insistere nel creare situazioni, sebbene minuscole, 
                  di opposizione. 
                  Termino riportando quel che oggi – prima di sedermi a 
                  terminare questa recensione – ho letto su un quotidiano 
                  (“Il manifesto”, 5 novembre 2015) e che trovo interessante 
                  porre in chiusura, per tessere fili di collegamento. 
                  “Ad aprile in Francia è nata una nuova «città». 
                  La chiamano la «Jungle» (la giungla) di Calais. 
                  Si trova a nord-est del Paese, non lontano da Inghilterra e 
                  Belgio. Si sviluppa in un terreno paludoso grande un chilometro 
                  per cinquecento metri vicino al mare. Alla sua fondazione accoglieva 
                  2000 abitanti provenienti da molti Paesi d'Europa, Asia e Africa. 
                  Questa colonia è diventata in pochi mesi il terzo agglomerato 
                  più popolato del comune di Calais. Al 24 ottobre le autorità 
                  francesi stimano che la Jungle ospiterebbe 8000 abitanti. [...] 
                  La Jungle è il campo profughi voluto dal sindaco Natacha 
                  Bouchart nella periferia di Calais lo scorso aprile. In questo 
                  modo si è voluto concentrare tutti i migranti in fuga 
                  da fame, guerre e disequilibri economici in un unico terreno 
                  fino ad allora inutilizzato e abbastanza lontano dal centro 
                  abitato e turistico. Inutilizzato per due motivi: è una 
                  zona d'interesse ecologico e faunistico di tipo 1, cioè 
                  sarebbe un'area protetta intoccabile; al tempo stesso la Jungle 
                  si trova in una zona Seveso, cioè considerata a rischio 
                  per la presenza di due industrie altamente tossiche e pericolose 
                  quali la Interor e la Synthexim. Da aprile i migranti non hanno 
                  il diritto di accamparsi altrove. [...] La città non 
                  sembra più la stessa. 
                  Oramai è quasi impossibile imbattersi in un migrante 
                  e sono state cancellate tutte le tracce del loro passaggio. 
                  [...] Per arrivare alla Jungle bisogna superare il porto, entrare 
                  nella zona industriale e continuare finché sei camionette 
                  delle Crs (corpo di polizia antisommossa francese) annunciano 
                  l'ingresso ovest. Gli abitanti della Jungle si sono raggruppati 
                  per Paese di provenienza o per etnia. Il «quartiere» 
                  irakeno è abitato prevalentemente da curdi. Famiglie 
                  intere composte da nonni, genitori e bimbi di pochi anni. I 
                  più fortunati, coloro che hanno ancora un po' di soldi 
                  e quanti si sono stabiliti da più di un mese vivono in 
                  delle baracche fatti di legno, plastica e stoffa. Tutti gli 
                  altri si devono accontentare di una tenda. [...] La Jungle è 
                  attraversata da due strade principali nord-sud e ovest-est. 
                  Attorno a queste vie principali gli afghani hanno aperto tanti 
                  ristoranti e qualche negozio. [...] «Ma in tutto questo 
                  che fa lo Stato?» [...] Il ministro dell'interno Cazeneuve 
                  ha annunciato che sarà incrementata la presenza delle 
                  forze dell'ordine. Inoltre verranno distribuite delle «tende 
                  riscaldate» ed aumenteranno i posti letto per donne e 
                  bambini al centro d'accoglienza diurno. [...] È sabato 
                  sera, prima di andare in tenda seguiamo la luce di una lampada 
                  all'interno della chiesa etiope. Un uomo è chino con 
                  un pennello su una tela dove cominciano a delinearsi i tratti 
                  di un angelo che infilza un demone con una lancia. «Sono 
                  un artista. Sono un pittore eritreo. Sono io che decoro la chiesa». 
                  Così si introduce Paulos. Come lui altre 8000 persone, 
                  altre 8000 storie, dimenticate dietro i numeri e le generalità. 
                  Mentre la popolazione della Jungle aumenta”. 
                 Silvia Papi 
                     Luigi Fabbri/ 
                  Quel diario (ritrovato) contro la guerra 
                Arrivate dal lontano Uruguay in Italia una ventina di anni 
                  orsono, consegnate a Gianpiero Landi dalla figlia Luce, le pagine 
                  di diario inedite scritte da Luigi Fabbri fra il 1° maggio 
                  e il 20 settembre 1915, oggi accuratamente trascritte e impreziosite 
                  dalla densa e avvincente prefazione di Roberto Giulianelli (di 
                  cui vengono pubblicati qui di seguito ampi stralci), vedono 
                  finalmente la luce, a cento anni di distanza, nella bella edizione 
                  della Biblioteca Franco Serantini, (Luigi Fabbri, La 
                  prima estate di guerra. Diario di un anarchico 1 maggio – 
                  20 settembre 1915, a cura di Massimo Ortalli, Pisa, Biblioteca 
                  Franco Serantini, 2015, € 12,00). 
                  Luigi Fabbri (Fabriano 1877 – Montevideo 1935), oltre 
                  ad essere stato il più fedele e importante collaboratore 
                  di Errico Malatesta, da lui sempre considerato come un vero 
                  e proprio padre spirituale, è stato anche uno dei militanti 
                  più importanti e significativi del movimento anarchico 
                  italiano e internazionale. Esponente di una concezione fortemente 
                  organizzatrice, connotata da una visione intransigente dei principi 
                  ma al tempo stesso disponibile al dialogo e aperta al confronto 
                  con le altre componenti della sinistra, assertore della urgenza 
                  dell'affermazione di un anarchismo di netta impronta sociale, 
                  insensibile alle false chimere di quell'individualismo amoralista 
                  così presente nei primi decenni del secolo scorso, Luigi 
                  Fabbri ha attraversato da protagonista tutte le vicende dei 
                  primi decenni del Novecento, dimostrando una indiscutibile capacità 
                  di analisi accompagnata da quell'altrettanto indiscutibile facilità 
                  di esposizione che ne hanno fatto uno degli intellettuali più 
                  chiari e lucidi del movimento anarchico. 
                  Ne sono dimostrazione, fra le tante, anche le bellissime 
                  e “drammatiche” pagine di questo diario, dalle quali 
                  emerge la profondità della riflessione operata a tutto 
                  campo non solo sulle cause della guerra e sulla irreversibile 
                  lacerazione all'interno della sinistra italiana ed europea, 
                  ma anche sulle tragiche conseguenze che questo “inutile 
                  massacro” avrebbe comportato negli anni a venire nel cuore 
                  delle società del continente. 
                  È decisamente un piccolo, grande e fino ad oggi sconosciuto 
                  gioiello questo che ci viene proposto dalle edizioni della BFS, 
                  un gioiello che viene ad aggiungersi ai tanti che Luigi Fabbri 
                  ha lasciato in eredità non solo all'anarchismo internazionale, 
                  ma anche alla storia e alla vita del pensiero libero e libertario.
                  Massimo Ortalli
                   Allo 
                  scadere del secolo scorso Luce Fabbri affidò all'International 
                  Institute of Social History di Amsterdam il ricco archivio di 
                  suo padre, fino ad allora custodito a Montevideo, tappa conclusiva 
                  di un esilio che nel 1926 aveva visto Luigi e la sua famiglia 
                  – a eccezione del figlio Vero – abbandonare l'Italia 
                  fascista, trovando riparo prima a Parigi, poi in Belgio e da 
                  ultimo in Uruguay. [...] Fra le carte conservate spiccano lavori 
                  preparatori di articoli, opuscoli e libri infine dati alle stampe, 
                  scritti inediti, ritagli di giornali e riviste, nonché 
                  un diario compilato fra il 1° maggio e il 20 settembre 1915. 
                  Di quest'ultimo documento Luce donò copia anche ad alcuni 
                  studiosi e militanti del movimento libertario italiano. Nel 
                  1999 la «Rivista storica dell'anarchismo» ne propose 
                  qualche pagina introdotta da Maurizio Antonioli; sette anni 
                  più tardi Alessandro Luparini vi attinse per redigere 
                  il saggio poi comparso negli atti del convegno internazionale 
                  di studi su Fabbri, svoltosi nel 2005 nella città natale 
                  di questi, Fabriano. Oggi, a un secolo di distanza dalla sua 
                  stesura, il diario viene finalmente pubblicato in forma integrale 
                  per iniziativa e a cura di Massimo Ortalli. 
                  A rendere di immediato interesse questo documento sono il suo 
                  autore, uno dei massimi esponenti dell'anarchismo del Novecento, 
                  e il periodo della sua compilazione, a cavallo dell'ingresso 
                  dell'Italia nella Grande guerra. Fabbri iniziò a scriverlo 
                  nella sua città di origine e proseguì a farlo 
                  a Bologna, dove si trasferì nell'agosto 1915 per poi 
                  prendere servizio come maestro presso la scuola elementare di 
                  Corticella. [...] 
                  A Fabriano, nel giugno seguente il suo arrivo, Fabbri visse 
                  la Settimana rossa. Protagonisti ne furono i repubblicani, ma 
                  soprattutto gli anarchici locali, la cui modesta consistenza 
                  numerica era compensata da un attivismo che fra il 1913 e il 
                  1914 li aveva portati a ospitare due incontri regionali del 
                  movimento libertario. [...] All'indomani del 14 giugno Fabbri 
                  si sottrasse all'arresto, trovando ospitalità in quella 
                  “Lugano bella” solita accogliere allora i sovversivi 
                  di mezza Europa. Lì cercò lavoro come insegnante, 
                  senza successo. A dicembre fu prosciolto dalle accuse e poté 
                  dunque tornare in Italia, facendo tappa a Rocca San Casciano, 
                  dove fu ospitato dal padre, quindi rientrando a Fabriano, nella 
                  cui scuola elementare riprese servizio però solo tre 
                  mesi più tardi, quando le autorità scolastiche 
                  si risolsero finalmente a reintegrarlo. [...] 
                  Nei mesi successivi la rivista «Volontà» 
                  si spese in una convinta campagna antimilitarista che, senza 
                  coltivare illusioni sulla possibilità di sottrarre il 
                  paese al conflitto, si ritagliò il compito di marcare 
                  la posizione dei socialisti-anarchici italiani in merito alla 
                  guerra, sia rispetto alle altre componenti del movimento operaio, 
                  sia rispetto alle rumorose correnti libertarie favorevoli alla 
                  partecipazione bellica. Fu un lavoro improbo, appesantito dal 
                  precipitare degli eventi e dalla morsa dei controlli di polizia 
                  che finirono per strangolare il periodico anconitano, nel maggio 
                  1915 costretto per la seconda volta alla chiusura. Fabbri accolse 
                  quest'ultima come una liberazione: «La sospensione nuova 
                  di Volontà mi dispiace, ma (a dirla fra noi) è 
                  per me un sollievo materiale, un riposo! Non ne potevo più!», 
                  confessò a Giacomelli. [...] 
                  Sebbene affrancato da un carico di lavoro che si era fatto via 
                  via insostenibile, con la forzata chiusura di «Volontà» 
                  egli si trovò improvvisamente muto dinanzi all'erompere 
                  di eventi il cui inaudito impatto sul presente e sul futuro 
                  dell'umanità appariva già allora manifesto. L'alternativa 
                  di essere ospitato su fogli anarchici che, come lo spezzino 
                  «Il Libertario», pur a singhiozzo riuscirono a proseguire 
                  le pubblicazioni durante il conflitto, venne percorsa solo per 
                  pochi articoli, ai quali fece seguito un silenzio di oltre un 
                  anno, parentesi eccezionale nella vita di un autore fertile 
                  come lui. Fu forse per conciliare il bisogno di riposo, la delusione 
                  per il precipitare degli eventi europei e l'avvertito obbligo 
                  morale a non tacere dinanzi al compiersi della catastrofe che 
                  decise, infine, di affidarsi a un diario. [...] 
                  Il bavaglio ai giornali non-allineati 
                Larga parte del diario è consacrata alle questioni interne, 
                  a cominciare dagli avvenimenti che anticipano da vicino l'ingresso 
                  italiano nel conflitto. A scrivere in quei giorni è un 
                  Fabbri sfiduciato e depresso, che guarda alle dichiarazioni 
                  del governo e della corona, ai tumulti di piazza e ai proclami 
                  della intellighenzia interventista come a epifenomeni di un 
                  processo incontrovertibile. «La monarchia è già 
                  decisa per la guerra e la guerra si farà», annota 
                  il 5 maggio, quasi ad allontanare da sé l'illusione di 
                  un finale diverso. «Forse un giorno sapremo la verità!», 
                  commenta alla notizia che Vittorio Emanuele III aveva respinto 
                  le dimissioni presentate da Salandra, confermando così 
                  il disegno di condurre il paese in guerra dopo alcuni giorni 
                  trascorsi a recitare «una ignobile commedia», in 
                  cui il primo ministro in carica aveva finto di defilarsi e Giolitti 
                  aveva millantato una possibile mediazione con Vienna. 
                  Grande attenzione da parte di Fabbri ricevono la propaganda 
                  governativa tesa a raccogliere consenso intorno alla scelta 
                  interventista e l'avvio della mobilitazione civile. La composizione 
                  di un granitico fronte interno, prerogativa indispensabile per 
                  resistere alle spinte centrifughe ed eversive che un conflitto 
                  logorante come la Grande guerra avrebbe alimentato, transitò 
                  anche per l'assunzione di misure populistiche come la concessione 
                  semi-automatica di promozioni e licenze scolastiche. «Che 
                  bazza per i nostri somarelli! C'è da far diventare interventisti 
                  anche gli alunni degli asili infantili», commentò, 
                  sarcastico, il maestro Fabbri. [...] 
                  Il bavaglio messo ai giornali non allineati al governo, lo scioglimento 
                  coatto di gruppi libertari, l'invio punitivo dei sovversivi 
                  al fronte sono questioni che Fabbri tocca nelle pagine scritte 
                  nell'estate del 1915. Dell'incrudirsi di quei controlli egli 
                  stesso fu vittima in prossimità della dichiarazione di 
                  guerra all'Austria: il 22 maggio, infatti, venne arrestato a 
                  scopo precauzionale. La settimana scarsa passata in cella a 
                  Fabriano, con un carceriere accomodante perché padre 
                  di uno dei suoi alunni, non lasciò segni su di lui, ma 
                  lo indusse a riflettere su quanto modesto fosse il peso politico 
                  dei “sovversivi”, che il governo riteneva liquidabili 
                  con appena qualche giorno di prigione. 
                  La limitatezza di questo peso si doveva anche all'effetto deflagrante 
                  che la guerra aveva prodotto sul movimento operaio. Sebbene 
                  nel diario Fabbri tenti di stralciarle come sparute minoranze 
                  all'interno del coeso cartello del non-intervento, le componenti 
                  che disertarono il fronte neutralista furono importanti, se 
                  non altro, per le conseguenze politiche di breve e di medio-lungo 
                  termine provocate dalla loro scelta. La perdita di pezzi di 
                  sindacato come la Federazione del mare (retta dal discusso capitan 
                  Giulietti) e dell'organizzazione dei ferrovieri (lo Sfi, a guida 
                  sindacalista rivoluzionaria) causò gravi emorragie sulla 
                  sponda antimilitarista. Di rilievo ancora maggiore furono le 
                  defezioni di Mussolini e dei repubblicani. [...] 
                  Spiccato senso della misura 
                Nel diario parole non meno corrosive sono dedicate ai repubblicani, 
                  con i quali nel 1915, per la prima volta, anarchici e socialisti 
                  non avevano condiviso la Festa dei lavoratori. Fabbri accusa 
                  di ipocrisia i dirigenti del Pri sia perché, dopo avere 
                  data per certa la brevità del conflitto alla vigilia 
                  dell'ingresso italiano, all'indomani di questo di erano precipitati 
                  ad ammonire sulla inevitabile lunghezza delle ostilità, 
                  sia perché avevano finto di prendere le distanze da Salvatore 
                  Barzilai, ex esponente del partito mazziniano che, in quelle 
                  stesse settimane, era stato chiamato a ricoprire la carica di 
                  ministro per le Terre liberate. [...] 
                  Il diario si interrompe il 20 settembre 1915. Sulle ragioni 
                  che indussero Fabbri a non proseguirne la stesura si potrebbero 
                  avanzare ipotesi tanto suggestive, quanto prive di un adeguato 
                  supporto delle fonti. Sembra allora più costruttivo interrogarsi 
                  sull'effettivo valore di queste pagine. 
                  Per la compilazione della biografia del padre, Luce non se ne 
                  servì affatto, non rinvenendovi spunti originali rispetto 
                  a quanto già noto del pensiero di Luigi. Se ciò 
                  è vero in linea generale, tuttavia vanno considerati 
                  anche altri aspetti. Per esempio, va sottolineato il ridotto 
                  spazio che il diario assegna agli anarco-interventisti, con 
                  i quali in precedenza Fabbri non si era certo sottratto allo 
                  scontro sulla stampa libertaria. A partire dal documento pro-guerra 
                  stilato nel settembre 1914 da Maria Rygier e Oberdan Gigli e 
                  fino all'aprile successivo, il tono dei suoi articoli era via 
                  via asceso, talvolta oltrepassando i confini, a lui consueti, 
                  della moderazione. Fabbri avrebbe usato una vis polemica ancora 
                  maggiore nei confronti del Manifeste des Seize, con il 
                  quale nella primavera del 1916 alcuni esponenti dell'anarchismo 
                  internazionale, fra cui Kropotkin, si sarebbero dichiarati favorevoli 
                  alla guerra per allontanare dal vecchio continente il pericolo 
                  di una egemonia tedesca. [...] 
                  Il diario appare prezioso, infine, per definire la personalità 
                  del suo estensore e le pressioni a cui essa fu sottoposta in 
                  quel tornante della storia. Uomo il cui spiccato senso della 
                  misura costituisce una rarità nell'ambito dell'anarchismo 
                  e, più in generale, del movimento operaio d'inizio Novecento, 
                  Fabbri si abbandona qui a commenti che mancano dell'equilibrio 
                  formale, se non sostanziale, da lui sempre rispettato. A spingerlo 
                  fuori asse non è la completa libertà espressiva 
                  concessa dal carattere intimo del contenitore: nelle lettere 
                  indirizzate per quarant'anni ai suoi molti corrispondenti [...], 
                  i passaggi privi dell'usuale autocontrollo si contano sulle 
                  dita di una mano. 
                  Nel diario, invece, ci si imbatte in qualche cedimento alla 
                  violenza, che si affianca a giudizi grevi su alcuni avversari. 
                  A determinarli è il trauma causato da un contesto la 
                  cui tragicità è inattesa, inesplorata e immane. 
                  Un contesto dove alla ennesima sconfitta subita nel giugno 1914 
                  dalle speranze rivoluzionarie si somma la disintegrazione di 
                  un universo che non è solo quello del “sovversivismo”, 
                  ma è anche quello familiare (il fratello e il padre di 
                  Fabbri furono interventisti) e quello dell'intera Europa, dilaniata 
                  da un conflitto che, ridisegnando popoli, confini e governi, 
                  aprì questioni risolte solo vent'anni più tardi 
                  con una guerra non meno spaventosa. 
                 Roberto Giulianelli 
                     Destinazione 
                  Utopia 
                È uscito Tutto inizia sempre (Materiali 
                  Sonori, 2015, € 10,00) il nuovo disco di Marco Rovelli. 
                  Impegno civile e recupero della memoria storica – soprattutto 
                  del movimento anarchico e libertario – sono la sua cifra 
                  stilistica. Giuseppe Ciarallo ha intervistato l'autore. 
                   
                  Dunque Marco, dopo Libertaria, Tutto inizia sempre. 
                  Ascoltando i tuoi dischi mi sembra che lo spazio di un CD sia 
                  sempre troppo piccolo per poter contenere tutto ciò che 
                  vorresti raccontare. Forse anche per le tematiche importanti 
                  che tocchi: l'amore e l'utopia. Non sono bastati millenni perché 
                  se ne potessero dare definizioni convincenti... 
                  E tantomeno basteranno un disco, o un'intervista. Amore e Utopia, 
                  del resto, sono due movimenti infiniti, indefinibili. Vivono 
                  della tensione tra le singolarità umane, sono la relazione 
                  tra gli uomini e il loro orizzonte. Orizzonte: una poesia di 
                  Eduardo Galeano, che ha le sue radici in un enunciato di Bakunin, 
                  si dice che l'utopia è come l'orizzonte, che non raggiungeremo 
                  mai, ma che ci sprona a camminare. L'Utopia è l'idea 
                  regolativa delle nostre azioni. Sta tutta nella tensione tra 
                  il nostro presente e un altrove. E l'amore, anche quello è 
                  tensione e movimento: che sia a due, o per l'umanità 
                  intera, è qualcosa che immagina di fare della pluralità 
                  una “concordia”, per quanto i molti resteranno sempre 
                  i molti, e non diventeranno mai un solo cuore. 
                  Ecco, utopista suona oggi come un'offesa. Così come “don 
                  Chisciotte”, uno stupido che combatte contro i mulini 
                  a vento. E invece in questi due epiteti c'è una bellezza 
                  che sfugge a chi li usa come insulti, e che come tali in realtà 
                  qualificano di stupidità lui stesso. Don Chisciotte immagina 
                  la bellezza, quella bellezza che salverà il mondo, e 
                  per essa vede oltre. È la natura del poeta e del visionario 
                  questa, saper vedere ciò che gli altri non vedono. 
                    
                  Cervantes, Rebora, Pasolini, Nietzsche (così come 
                  nel primo disco Erri De Luca, Maurizio Maggiani, Wu Ming 2). 
                  Per te, scrittore oltre che musicista, la poesia e la letteratura 
                  sono evidentemente elementi imprescindibili dai quali trai spesso 
                  spunto per sviluppare le tue storie. Confesso che dopo aver 
                  ascoltato La mia parte ho sentito il bisogno di leggere 
                  Il coraggio del pettirosso.  
                  Sono riferimenti costanti, sì, essendo qualcosa che mi 
                  accompagna da molto tempo. Noi operiamo col nostro immaginario, 
                  e gli elementi dell'immaginario provengono da una molteplicità 
                  di stimoli. Li maciniamo, questi stimoli, e poi diamo vita a 
                  forme nuove, “nostre” - ma che nascono da qualcosa 
                  che ci è stato trasmesso da altri. Evidentemente gli 
                  stimoli della letteratura sono tra i più potenti, anche 
                  in relazione alla possibilità di costruire storie. È 
                  come muoversi in una foresta di segni, di simboli, tra alberi 
                  da decifrare. L'importante, però, è che questa 
                  immaginazione non divenga una cosa astratta, o intellettualistica, 
                  ma mantenga una concretezza terrestre, di carne e di sangue, 
                  che sappia restituire la vita in tutta la sua interezza, il 
                  calore del respiro, o il dolore di un'assenza. In ogni caso, 
                  ai riferimenti presenti nel disco da te citati aggiungo, sparsi 
                  qua e là in alcuni versi, Buñuel, Agamben, Boito, 
                  Bruno, Marx, e di sicuro qualcun altro. 
                   
                  Una domanda tecnica allo scrittore Marco Rovelli: quali 
                  sono le differenze tra la scrittura narrativa e la forma canzone 
                  (più simile forse a quella poetica)? 
                  Sono due scritture molto diverse. Quello che hanno in comune, 
                  per me, è il ritmo, la grana della voce, il suono. Le 
                  parole hanno un suono e un sapore, sono pastose, rotolano in 
                  bocca e fanno eco nelle orecchie. Un critico letterario, Andrea 
                  Cortellessa, disse che la mia scrittura è molto musicale, 
                  che insomma si sente la mia doppia natura di autore. Per quanto 
                  mi riguarda, è così: il piacere immediato del 
                  testo, per me, passa dalla composizione/combinazione materica 
                  delle parole, sia che tu le legga silenziosamente sia che tu 
                  le ascolti sonoramente. 
                  Dopodiché, la scrittura di un romanzo implica uno sguardo 
                  molto diverso da quello della canzone, dovendo srotolare il 
                  filo di una storia sul passo di una maratona, dove la canzone 
                  ha il passo del velocista. Una cosa è la composizione 
                  spaziale del testo sulla lunga distanza, dove non devi smarrire 
                  il filo della storia, devi dar vita a dei personaggi, devi dire 
                  delle cose creando stanze diverse (anche nei reportage narrativi 
                  che ho scritto, io lavoro molto sul montaggio, alternando ambienti, 
                  ritmi, immaginari diversi); un'altra cosa è la forma 
                  canzone, dove lavori su una versificazione in cui ogni parola 
                  dischiude, o può dischiudere, un mondo, è come 
                  un concentrato, un addensamento di sensi. Anche per questo, 
                  una canzone la costruisco non tanto raccontando storie, quanto 
                  accostando frammenti, immagini, evocazioni, che danno un senso 
                  complessivo proprio nella loro composizione. E questo sia in 
                  canzoni che raccontano storie (come quella dei Pisacane, L'amore 
                  al tempo della rivolta) sia in canzoni più esplicitamente 
                  frammentarie ed evocative (come Il tempo che resta, che 
                  mette in scena quegli istanti indicibili di vita che ci scuotono, 
                  e che, nello scivolare via, formano la nostra essenza). 
                  Detto tutto questo, va da sé che le parole delle canzoni 
                  solitamente nascono a stretto contatto con la musica, sono come 
                  l'esteriorizzazione di un ritmo, e questo non ha nulla a che 
                  vedere con la scrittura narrativa “silenziosa”. 
                  Qui, del resto, stiamo parlando. Ma un album è fatto 
                  di musica, di suoni: e allora permettimi di dire che questo 
                  album è principalmente acustico, nel senso che a dominare 
                  sono i suoni di chitarra folk (la mia) e classica (quella, che 
                  sembra un'orchestra, di Paolo Capodacqua, storico chitarrista 
                  di Claudio Lolli), il violoncello (di Lara Vecoli), il pianoforte, 
                  oltre che i molteplici suoni, rumori, percussioni di Rocco Marchi, 
                  che ha prodotto artisticamente il disco. Ne è risultata 
                  una miscela di suoni, di ambienti, di stanze sonore, che credo 
                  sia riuscita a essere in sé un itinerario e un racconto. 
                   
                  In Tutto inizia sempre ci sono due protagonisti 
                  ai quali hai voluto dare voce (anche attraverso le parole di 
                  personaggi reali quali Vittorio Arrigoni, Don Gallo, Carlo Pisacane 
                  e Enrichetta Di Stefano): alle comunità vessate e ribelli 
                  come quella palestinese di Gaza (o quella curda, in una canzone 
                  successiva all'album), e alla marea di migranti; un'umanità 
                  senza pace e, sembrerebbe dai comportamenti dell'Occidente, 
                  senza speranze... 
                  Direi che i protagonisti dell'album siamo noi in tutti i sensi. 
                  Quello che siamo, quello che vorremmo essere, quello che non 
                  vorremmo essere. Storie esemplari, in positivo e in negativo. 
                  Ed è naturale, per me, scrivere canzoni su quei margini 
                  che costituiscono anche il fuoco della mia scrittura. Sono sempre 
                  stato convinto che è solo dai margini che si vede il 
                  centro, e che si può ricostruire la forma del tutto. 
                  Del resto è lo sguardo a portarti lì, quando racconti 
                  (in musica o in scrittura), non fai altro che seguire il tuo 
                  sguardo che è chiamato da qualche parte. E a chiamarmi, 
                  sì, sono le storie di chi è in viaggio (anche 
                  da fermo, magari). Non a caso ho scritto alcuni libri proprio 
                  di storie migranti, in questi anni. Ed è naturalissimo 
                  scriverci canzoni. Ma appunto il viaggio è anche quello 
                  di chi va al confine delle cose, per provare a trasformarle: 
                  e allora Arrigoni, allora i curdi. E allora anche quella straordinaria 
                  storia d'amore tra Carlo Pisacane, una delle figure di rivoluzionari 
                  più belle della nostra storia, e Enrichetta Di Stefano 
                  (anche nel primo disco raccontavo l'evento della Comune di Parigi 
                  attraverso un canto d'amore). 
                   
                  Emma Goldman ebbe a dire, e tu la citi nel booklet del 
                  disco: “una rivoluzione che non mi consente di danzare, 
                  è una rivoluzione per la quale non vale la pena di lottare”. 
                  Mao più prosaicamente sosteneva che “la rivoluzione 
                  non è un pranzo di gala; non è un'opera letteraria, 
                  un disegno, un ricamo; non la si può fare con altrettanta 
                  eleganza, tranquillità e delicatezza, o con altrettanta 
                  dolcezza, gentilezza, cortesia, riguardo e magnanimità. 
                  La rivoluzione è un'insurrezione, un atto di violenza 
                  con il quale una classe ne rovescia un'altra”. Ora, se 
                  si può dar ragione alla Goldman non si può dare 
                  torto al rivoluzionario cinese. È possibile una sintesi 
                  tra queste due visioni evidentemente in contrapposizione? 
                  La scorsa estate sono stato in Kurdistan, tra i guerriglieri 
                  e le guerrigliere. Uno di loro mi ha citato, trasformando il 
                  ballo in canto (ma il senso è lo stesso), il detto della 
                  Goldman, che aveva appreso dal film V per Vendetta. E 
                  quell'uomo aveva l'Ak-47 in spalla. Ora, non credo in alcuna 
                  regola generale, ogni ragionamento deve essere fatto a partire 
                  dalle situazioni concrete: e dunque i due enunciati possono 
                  stare insieme, il caso dei curdi lo dimostra. Di certo, se si 
                  tiene in piedi solo quello di Mao, il risultato sono i totalitarismi 
                  che abbiamo conosciuto. La danza e il canto sono una delle espressioni 
                  privilegiate della libertà personale: dove non si tratta 
                  però della mera libertà individuale, atomizzata, 
                  che forma la nostra civiltà occidentale. Tutti devono 
                  poter danzare e cantare, e ogni danza è in sé 
                  legata all'altra, ogni canto è in sé legato a 
                  ogni altro canto. La libertà è un fatto collettivo 
                  e individuale insieme: ovvero, singolare. 
                   
                  Per concludere, chiedo una tua impressione sullo stato 
                  della cultura nel nostro Paese. Gli intellettuali stanno svolgendo 
                  il compito loro assegnato dalla società? Sono, secondo 
                  te, lo spirito critico della nazione o sono stati inglobati 
                  in modo integrale nell'establishment? 
                  Al di là delle intenzioni dei singoli intellettuali, 
                  è lo spazio per le voci critiche che si è ridotto 
                  drammaticamente. La rete consente di incontrarci, ma quanto 
                  alla formazione di uno spirito critico generale è molto 
                  più difficile. Anche la scuola sta venendo progressivamente 
                  meno a questo ruolo (un ruolo informale, sia chiaro, che ha 
                  esercitato per l'iniziativa degli insegnanti e non certo perché 
                  fosse la sua missione). C'è tutto un vocabolario che 
                  è cambiato, trasformandosi radicalmente: a noi che crediamo 
                  si possa cambiare il mondo (”tutto inizia sempre” 
                  significa anche questo) tocca prendere atto di queste trasformazioni, 
                  per ripartire da lì, e non rinchiuderci in un vagheggiare 
                  il ritorno di quello che non c'è più. 
                 Giuseppe Ciarallo 
                     Quel piccolo lucernario 
                  che illumina le scale del palazzo 
                Nella storia della letteratura si rintracciano numerosi e in 
                  alcuni casi clamorosi esempi di opere poi divenute famosissime, 
                  rifiutate in prima battuta dagli editori. 
                  Il gabbiano Jonathan Livingston di Richard Bach fu rimandato 
                  al mittente addirittura diciotto volte prima di vendere i suoi 
                  bravi due milioni di copie; Carlos Barral, proprietario di una 
                  casa editrice di Barcellona, ebbe il coraggio di rispedire indietro 
                  Cent'anni di solitudine a Gabriel Garcia Marquez, per 
                  poi passare il resto della vita a mangiarsi mani e fegato; addirittura 
                  Moby Dick venne giudicato “romanzo non adatto al 
                  mercato giovanile”, e immaginiamo le grasse risate di 
                  Herman Melville quando la sua balena divenne il cetaceo più 
                  amato da tutti i ragazzi di tutti i tempi. L'elenco è 
                  lunghissimo e ricco di aneddoti curiosi e in alcuni casi anche 
                  divertenti. 
                   Lucernario 
                  di Josè Saramago (Feltrinelli, Milano, 2012, pp. 323, 
                  € 18,00) terminato nel 1953, fu spedito ad una casa editrice 
                  che non ebbe nemmeno il buon gusto di comunicare all'autore 
                  che non intendeva pubblicarlo. 
                  Nessuna risposta, dunque nessuna spiegazione: nessuno conosce 
                  con certezza la ragione del rifiuto. Certo si era in piena epoca 
                  salazariana, ma Lucernario apparentemente non è 
                  un romanzo politico, tutt'altro. È un romanzo che parla 
                  di vita quotidiana, di persone “normali”, di gente 
                  qualsiasi... 
                  Sta di fatto che più di 45 anni dopo, nel 1999, quando 
                  ormai Saramago era uno scrittore e Nobel di fama mondiale, la 
                  stessa casa editrice si fece viva raccontando di aver rinvenuto 
                  il manoscritto durante un trasferimento di struttura e offrendosi 
                  di pubblicarlo. “Obrigado, ora no”, fu la 
                  risposta dell'autore; così Lucernario rimase al 
                  buio per molti anni ancora. 
                  Evidentemente lo scrittore riteneva che non fosse più 
                  tempo, che quel romanzo fosse scaduto, forse troppo differente 
                  da quelli che lo avevano poi reso celebre in tutto il mondo; 
                  o forse rappresentava una ferita ancora aperta, il ricordo amaro 
                  di una delusione, qualcosa che era andato perduto e perduto 
                  doveva restare. 
                  Di Salazar tutto sommato non si parla molto, quando si raccontano 
                  le grandi dittature del Novecento in Europa. Eppure Antonio 
                  de Oliveira Salazar, dapprima ministro delle Finanze, fu a capo 
                  della più lunga dittatura europea del secolo scorso, 
                  iniziata il 5 luglio 1932 e conclusasi il 26 settembre 1968. 
                  Una dittatura dichiaratamente fascista, partiti e sindacati 
                  aboliti, le donne senza titolo di studio escluse dal diritto 
                  di voto, la libertà di stampa colpita dalla censura e 
                  la polizia di regime che vigilava giorno e notte sul rispetto 
                  delle regole. 
                  Chiamato al potere non in quanto uomo politico, ma in quanto 
                  esperto di finanza, Salazar – professore di economia all'università 
                  di Coimbra – conosceva profondamente il proprio Paese 
                  e i bisogni delle classi dominanti. 
                  Rispetto alla seconda guerra mondiale mantenne una posizione 
                  ambigua, per poi furbescamente allearsi con i vincitori quando 
                  ormai i giochi erano fatti; cosa che lo tutelò rispetto 
                  agli oppositori interni e gli permise di governare il suo paese 
                  fino alla morte. 
                  Qualcuno ha definito la sua politica un “processo di fascistizzazione 
                  dall'alto”, sostenuta e promossa dall'esercito e dalla 
                  Chiesa, che esalta il colonialismo, l'ordine patriarcale, l'accentramento 
                  assoluto del potere da parte dell'esecutivo e dunque l' abolizione 
                  dei diritti civili e politici. 
                  Sotto la guida di Salazar il Portogallo diviene presto il paese 
                  dei grandi squilibri, economici e sociali. 
                  Un paese grigio e triste, subdolo, mestamente conformista, isolato 
                  dal resto d'Europa e immobilizzato da un'oppressione silenziosa 
                  ma attenta e onnipresente nel quotidiano. 
                  Lucernario è il ritratto perfetto della quotidianità 
                  sotto il regime di Salazar. E questo davvero potrebbe spiegare 
                  il rifiuto di pubblicarlo; sebbene né Salazar né 
                  il suo regime siano mai nominati nel romanzo, né vi accada 
                  nulla di direttamente riconducibile ad essi. 
                  In un condominio di tre piani, a Lisbona negli anni quaranta, 
                  vivono alcune famiglie. 
                  È un caseggiato piccolo-borghese, abitato da personaggi 
                  intenti a fare i conti con la vita di ogni giorno, ad affrontare 
                  sconfitte miserie sogni perduti e delusioni; ad inventare stratagemmi 
                  e architettare ipocrisie per sopravvivere al niente che li circonda. 
                  L'anziano calzolaio Silvestre, uomo semplice ma desideroso di 
                  conoscenza, e la moglie Mariana; le giovani sorelle Adriana 
                  e Isaura, che vivono con la madre e la zia nascondendo una segreta 
                  e colpevole pulsione omosessuale. Justina e Caetano, che hanno 
                  perduto la piccola figlia Matilde; la bella Maria Cláudia, 
                  che per amare un coetaneo sarà costretta ad accettare 
                  disgustosi compromessi; la seducente Lídia, mantenuta 
                  dai soldi dell'amante. 
                  E poi Abel, giovane intellettuale libertario e libero, disilluso 
                  e solo, che abiterà per un breve periodo in casa di Silvestre 
                  e Mariana affezionandosi ai due coniugi. Tra il vecchio Silvestre 
                  e il giovane Abel si instaurerà un intenso dialogo sul 
                  senso dell'esistenza, sul valore dei sentimenti e dell'azione, 
                  sul senso di responsabilità e sulla libertà di 
                  scelta, sulla possibilità o meno di affrancare e riscattare 
                  l'umanità. 
                  Un'aspirazione a qualcosa di finalmente diverso, un barlume 
                  di emancipazione e speranza destinato però a risolversi 
                  nell'ennesima disfatta. 
                  “Quel che penso non ha neppure il merito dell'originalità. 
                  È come un vestito di seconda mano in una fabbrica di 
                  capi nuovi. È come una merce fuori mercato, avvolta in 
                  carta colorata con un nastro di colore abbinato. Tedio e null'altro. 
                  Stanchezza di vivere, rutto da digestione difficile, nausea”. 
                  Così anche Abel si arrende. Perchè il senso di 
                  infelicità diffusa che regna nel condominio è 
                  lo specchio di un'umanità che ha perso in partenza, come 
                  se il diritto ad una vita almeno piena, se non felice, fosse 
                  negato a prescindere. 
                  E in fondo non è diversa dall'umanità di sempre, 
                  perché tra le righe si percepisce con chiarezza un messaggio 
                  che arriva dritto fino a noi, a suggerirci che Abel, o Maria 
                  Claudia, o Caetano, un po' ci rappresentano, noi e le nostre 
                  classi sociali, le ambivalenze e i segreti inconfessabili, gli 
                  aneliti e le apatie e tutto il resto ancora; ivi incluse le 
                  nostre miserie e le nostre democrazie. 
                  Sono esistenze perdute, quelle di Saramago, proprio come il 
                  manoscritto che, una volta tornato, tardi, tardissimo, in possesso 
                  dell'autore, finì gettato tra altre sue carte, per essere 
                  pubblicato postumo. 
                  Forse è proprio quel “postumo” la nostra 
                  salvezza, di noi lettori intendo, il dono insperato di un ultimo 
                  romanzo, il primo, ad illuminarci la mente. 
                  Come quel piccolo lucernario che illumina le scale del palazzo, 
                  come la penna di Saramago che per una volta ancora, la prima, 
                  l'ultima, illumina ritratti apparentemente opachi trasformandoli 
                  in personaggi a loro modo – un modo fondamentalmente meschino, 
                  certo, ma così efficace – indimenticabili. 
                 Claudia Ceretto 
                     Messico/ 
                  Il diario di viaggio come denuncia sociale 
                 Laureato 
                  in scienze naturali e ambientali, scrittore e attivista per 
                  i diritti umani, Flaviano Bianchini è soprattutto un 
                  grande viaggiatore. Appartiene alla stirpe, ormai estinta, dei 
                  fratelli Reclus, di Alexandra David-Neel e, in tempi più 
                  recenti, di Bruce Chatwin e V. S. Naipaul; gente assetata di 
                  sapere, che il mondo non lo studia (solo) sui libri, ma lo percorre 
                  a piedi osservandolo e analizzandolo minuziosamente, cogliendone 
                  i paradossi e passando al setaccio paesaggi umani e naturali. 
                  Dopo l'ormai classico, In Tibet. Un viaggio clandestino 
                  (BFS edizioni, 2009, menzione speciale del Premio Chatwin “Viaggi 
                  di carta”), affascinante esplorazione del paese delle 
                  nevi, martoriato dal colonialismo cinese, e Taraipù. 
                  Viaggio in Amazzonia (Ibis, 2014) che, con la scusa della 
                  ricerca di un misterioso fiore magico, racconta la realtà 
                  degli indigeni sudamericani, Bianchini ci propone adesso Migrantes. 
                  Clandestino verso il sogno americano (BFS edizioni, Pisa, 
                  2015, pp. 232, € 18,00), un'incredibile avventura lungo 
                  3.000 kilometri di un Messico infernale e apocalittico, ben 
                  lontano dalle bianche spiagge dei Caraibi e dai santuari hippie 
                  del Pacifico. 
                  Le cifre parlano da sole: almeno 25.000 desaparecidos 
                  dal 2007 e 35.000 morti ammazzati in un solo anno, il 2014. 
                  Li chiamano danni collaterali della guerra contro il narcotraffico, 
                  ma sono numeri da capogiro se pensiamo che negli anni settanta, 
                  in piena guerra sucia, i desaparecidos furono 
                  meno di 500. L'economia non va meglio. Su un totale di 115 milioni 
                  di abitanti, almeno 70 milioni languiscono in condizioni di 
                  povertà e, fra questi, circa 15 si trovano in povertà 
                  estrema, con un reddito inferiore ai 3 euro al giorno. Tuttavia, 
                  il presidente Peña Nieto non perde l'occasione di ostentare 
                  un' opulenza oscena e qui vive l'uomo più ricco del mondo, 
                  Carlos Slim, il magnate delle telecomunicazioni che vale più 
                  di 70 miliardi di dollari. Un altro personaggio emblematico, 
                  il Chapo Guzmán, è un trafficante di droga che 
                  figura nelle statistiche Forbes dei potenti della terra ed è 
                  recentemente evaso - in maniera clamorosa - da un carcere di 
                  massima sicurezza. 
                  Questo è il Messico che ci racconta Bianchini; questo 
                  e non la Riviera Maya, ma neppure il Messico politicamente corretto 
                  degli zapatour. Un paese devastato dai racket criminali 
                  che lotta e resiste sintetizzando, tra mille contraddizioni, 
                  le miserie e le grandezze dell'umanità: la corruzione 
                  e la violenza demente del potere certamente, ma anche la solidarietà 
                  che germina negli interstizi della società. In questo 
                  Messico, ogni anno,  800 mila persone (in gran parte centro 
                  e sudamericani) intraprendono il viaggio verso il nord. Tra 
                  esse, circa 600 mila raggiungono gli Stati Uniti, 150 mila vengono 
                  sequestrate lungo il tragitto; cinque, forse diecimila - le 
                  cifre esatte nessuno le sa, visto che gran parte di loro non 
                  sono nemmeno messicani ed inoltre le famiglie non hanno il coraggio 
                  di denunciarne la scomparsa - muoiono per strada e una donna 
                  su sei viene violentata. In una sola località, San Fernando, 
                  Tamaulipas, nel 2010 vennero massacrati 72 migranti nel 2010 
                  ed altri 193 nel 2011. Altri ancora - un buon numero - vengono 
                  deportati. 
                  Il libro, scritto alla maniera di un diario di viaggio, racconta 
                  in prima persona il calvario del tragitto verso il miraggio 
                  americano. Lo fa senza falsa retorica e in maniera scrupolosa. 
                  Appollaiato su La bestia (o tren de la muerte, 
                  il treno merci che usano i clandestini per attraversare il Messico), 
                  a piedi, di corsa, oppure nascosto sul fondo di un autocarro 
                  o ancora fra le dune dell'Arizona, alle prese con la migra nordamericana, 
                  l'autore registra tutto ciò che vive. Cosa lo muove? 
                  In primo luogo, la curiosità e lo spirito d'avventura, 
                  ma anche la denuncia sociale. 
                  “Il mondo globalizzato - spiega l'autore - ha globalizzato 
                  lo scambio di merci, ma non quello di persone. Un paio di jeans 
                  vengono da tessuto denim prodotto in Cina con cotone kazako, 
                  poi sono spediti in Messico per la cucitura, da lì al 
                  Bangladesh per la sabbiatura, in India per la stiratura e poi 
                  al distributore statunitense che lo distribuisce anche in Europa 
                  magari con un importatore centrale in Germania che poi lo manda 
                  in Grecia o in Spagna. Ma se uno degli oltre 6 miliardi di persone 
                  al mondo che non hanno un passaporto degli Stati Uniti o dell'Unione 
                  Europea prova a fare lo stesso viaggio, finisce sicuramente 
                  a marcire in una qualche prigione o ucciso da qualche guardia 
                  di frontiera. Però i jeans piacciono a tutti. E ci va 
                  bene che siano fatti così. Abbiamo globalizzato le merci 
                  ma non le persone”. 
                  Va detto che Bianchini la globalizzazione la conosce di prima 
                  mano. Oltre ad aver viaggiato per tutto il mondo, ha vissuto 
                  in Perù ed è un profondo conoscitore del Messico, 
                  dove viene spesso perché è consulente di comunità 
                  indigene che lottano contro la devastazione ambientale. Recentemente 
                  ha collaborato - con un eccellente testo sul rapporto tra l'industria 
                  mineraria, i racket criminali e la repressione politica - a 
                  un libro-denuncia sul caso degli studenti di Ayotzinapa desaparecidos 
                  l'anno scorso nel Guerrero.1 
                  L'avventura comincia a Tecún Umán, la cittadina 
                  guatemalteca che segna il confine con il Messico; dalla parte, 
                  nel Chiapas, c'è Tapachula. Da sempre è un luogo 
                  sordido (lo ricordo negli anni ottanta, quando era frequentato 
                  soprattutto da contrabbandieri), ma adesso è molto peggio. 
                  Lì Bianchini fa qualcosa di apparentemente assurdo: spedisce 
                  il passaporto a un indirizzo di Città del Messico e diventa, 
                  ipso facto, un indocumentado. Uno fra molti altri. 
                  Si fa chiamare Aymar Blanco ed è un giovane peruviano 
                  diretto al nord. Indossa i poveri indumenti dei migranti: pantaloni 
                  sdruciti, una maglietta, una giacca di finta pelle e un cappellino 
                  da baseball. Armato di coraggio e adrenalina, possiede solo 
                  una manciata di pesos cuciti nelle mutande. Niente cellulare 
                  e niente macchina fotografica: darebbero nell'occhio. Sa che 
                  non può fidarsi di nessuno: la polizia, la migra, le 
                  bande criminali, i ferrovieri, gli autisti degli autobus e un 
                  lungo eccetera di profittatori che fa i soldi con i migranti. 
                  Il viaggio durerà 21 giorni e Bianchini ne vedrà 
                  di tutti i colori. Conoscerà la paura, la fame, il freddo, 
                  il caldo, la sporcizia, la sete ed anche la prigione, oltre 
                  ai ripetuti assalti delle bande criminali. Incontrerà 
                  canaglie di tutti i generi, ma anche persone meravigliose, come 
                  le Patronas, un gruppo di donne di Veracruz che dal 1995 
                  offrono cibo ed acqua ai clandestini de La bestia. “Dopo 
                  tutto l'odio e la violenza che ho visto in questi giorni mi 
                  viene da piangere a pensare a quanta bontà c'è 
                  in un piccolo gesto del genere”, annota Bianchini commosso. 
                  Nel tragitto, farà anche molte amicizie, ma non tutti 
                  ce la faranno: “in Tibet mi sono trovato più volte 
                  in gravi difficoltà. Ma mai come in Messico. Siamo partiti 
                  in 25 e siamo arrivati in 19”, mi racconta. Già, 
                  perché qui, la vida no vale nada. Il resto non 
                  lo racconto perché preferisco lasciare al lettore il 
                  gusto di scoprirlo da solo. Vale la pena. 
                 Claudio Albertani 
                 1. Claudio Albertani/Manuel Aguilar Mora, 
                  La noche de Iguala y el despertar de México, Juan 
                  Pablos Editores, México, 2015. 
                     Umberto Marzocchi/ 
                  Settant'anni di militanza rivoluzionaria libertaria 
                 Esce 
                  come “quaderno” n. 5 / 2015, anno VII, nella collana 
                  biografica dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età 
                  Contemporanea (ISREC) di Savona una nuova pubblicazione, 136 
                  pp., dedicata a Umberto Marzocchi, figura mitica dell'anarchismo 
                  internazionale novecentesco (Umberto Marzocchi, ISREC, 
                  2015, pp. 136, prezzo non specificato). Gli autori – Vincenzo 
                  D'Amico, Giuseppe Milazzo e Giacomo Checcucci – animati 
                  da grande passione militante e storiografica, hanno efficacemente 
                  sintetizzato alcune fra le questioni e gli snodi salienti che 
                  attraversano la vita del protagonista. Le fonti utilizzate sono 
                  state principalmente quelle già edite, ed in particolare: 
                  G. Sacchetti, Senza frontiere. Pensiero e azione dell'anarchico 
                  Umberto Marzocchi (1900-1986), un impegnativo volume di 
                  oltre 500 pagine edito da Zero in condotta nel 2005 di cui è 
                  in corso di preparazione l'edizione francese. Gli intenti dei 
                  promotori dell'iniziativa editoriale savonese – il gruppo 
                  “Pietro Gori”, la famiglia Marzocchi e gli stessi 
                  autori – sono oggi quelli di svolgere una meritoria opera 
                  di divulgazione soprattutto tra i giovani e nelle scuole. 
                  L'obiettivo non sarà facile, per diversi motivi, e una 
                  glossa negativa al nuovo libretto marzocchiano bisogna farla. 
                  Ci convince poco, e stona con il resto, la pretenziosa quanto 
                  inconsistente “prefazione” redatta senza firma dall'ISREC 
                  nella quale si esalta, con argomenti propagandistici, il ruolo 
                  dell'URSS nella guerra di Spagna. Ah questi vecchi arnesi dello 
                  stalinismo che si improvvisano storici! Forse non sono ancora 
                  persuasi che il Comunismo sovietico abbia terminato ingloriosamente 
                  il suo lugubre percorso nel 1991. A Savona non è arrivata 
                  la notizia? 
                  Una vita avvincente come quella di Umberto avrebbe meritato 
                  senz'altro un “editore” meno invadente. Detto questo 
                  però ci rimane comunque la buona occasione per una rilettura 
                  critica della “nostra storia”. 
                  Settant'anni di militanza rivoluzionaria libertaria nel Novecento 
                  – tali sono quelli vissuti da Umberto Marzocchi – 
                  significano aver attraversato il secolo, “breve” 
                  e controverso, nei suoi punti cruciali. Vogliono dire aver conosciuto 
                  da vicino molti degli aspetti terribili e talune conseguenze 
                  totalitarie nello sviluppo dei miti di classe e nazione. Guerre 
                  e rivoluzioni tradite nella vecchia Europa, ma anche grandi 
                  speranze si sono alternate di volta in volta nel susseguirsi 
                  febbrile delle vicende. Così, elementi di soggettività 
                  e volontarismo hanno contribuito ad alimentare il fuoco dell'idea 
                  socialista anarchica. Un'idea onnipresente che si è compiutamente 
                  espressa, certo con differente grado di intensità, nei 
                  grandi movimenti di massa e sindacali del Biennio Rosso italiano, 
                  della Spagna rivoluzionaria, del Sessantotto-Settantasette, 
                  ma anche nella cospirazione e nell'esilio antifascisti, nel 
                  difficile impegno di testimonianza nell'era della guerra fredda. 
                  In un percorso di questo tipo, connotato da sconvolgimenti e 
                  cambi di scenario repentini, da modifiche culturali e socio-politiche 
                  devastanti, rimane sempre molto difficile individuare un filo 
                  conduttore plausibile. L'insopprimibile anelito verso la libertà, 
                  l'antagonismo al potere oppressivo comunque ed ovunque esso 
                  si manifesti possono da una parte spiegare quel radicalismo 
                  che ciclicamente ritorna nei ranghi dei movimenti. Ma questa 
                  argomentazione da sola non basterebbe di sicuro a farci capire 
                  un fenomeno così straordinario di longevità. Una 
                  militanza “minoritaria” di lungo corso presuppone 
                  per sua natura, a differenza forse di quella in partiti politici 
                  gerarchizzati di massa, pulsioni movimentiste e intelligenze 
                  creative quasi perennemente attive. Inoltre, mentalità 
                  allergiche agli apparati e allenate a diffidare di ogni autorità, 
                  critiche ma attente al nuovo che si manifesta nella società, 
                  di fatto quindi più sensibili, sono per natura portate 
                  ad esprimere maggiori capacità nel superare ad esempio 
                  le barriere generazionali. Intransigenza e rigore si sono allora 
                  coniugati con tolleranza e comprensione. Nel movimento anarchico 
                  di lingua italiana figure di questa specie non sono mancate, 
                  tutti appartenenti alla generazione di Marzocchi, tutti formatisi 
                  alla medesima “scuola”: esilio, lotta antifascista 
                  e duro confronto con lo stalinismo. Fu una grande prova. 
                  L'originale pensiero politico di Camillo Berneri, con le sue 
                  idee di apertura e dialogo verso le forze più giovani 
                  e radicali, risulterà certo molto influente nel determinare 
                  gli orientamenti del movimento anarchico di lingua italiana 
                  e dello stesso Umberto, circa la delicata questione delle alleanze 
                  a sinistra, a partire dagli anni trenta. Nel 1935, al convegno 
                  d'intesa degli anarchici italiani emigrati tenutosi a Sartrouville 
                  (Parigi), si formalizza un'autentica svolta, una scelta di campo 
                  irreversibile per quanto riguarda i possibili compagni di strada. 
                  In questa occasione, mentre già da tempo si era delineata 
                  nel movimento la consapevolezza sulla natura effettiva della 
                  Russia sovietica date le notizie sulle repressioni in atto contro 
                  l'opposizione di sinistra, si rafforza senza meno la constatazione 
                  della incompatibilità della prassi anarchica con il comunismo 
                  bolscevico (”Col partito comunista mai il benché 
                  minimo compromesso”). Nel contempo si prende invece in 
                  esame l'eventualità di una “libera intesa” 
                  con: sindacalisti, Giustizia e Libertà, repubblicani 
                  di sinistra, con la dissidenza socialista e comunista in genere. 
                  Sono scelte queste che comunque rimarranno evidentemente a lungo 
                  vigenti. La Spagna, in tal senso, costituisce il punto di non 
                  ritorno. 
                  Il passaggio dal protagonismo alla testimonianza non è 
                  certo facile per nessuno. Le vicende tormentate dell'anarchismo 
                  italiano, per i venti anni che seguono la fine della seconda 
                  guerra mondiale, si caratterizzano per due episodi salienti: 
                  il contrasto aspro tra la Federazione Anarchica Italiana (FAI) 
                  e i nuovi Gruppi Anarchici di Azione Proletaria (GAAP) nei primi 
                  anni cinquanta; la scissione infine dalla Federazione, consumatasi 
                  nel 1965, dei Gruppi di Iniziativa Anarchica (GIA). Tra tentativi 
                  audaci di rinnovamento culturale e difesa strenua dell'identità, 
                  e dei principi, tra organizzazione e individualismo, lotta di 
                  classe e aclassismo, il movimento si misura su questioni strategiche 
                  di grande peso il cui esito, invariabilmente, resta condizionato 
                  dal contraddittorio irrisolto rapporto dialettico con la nuova 
                  democrazia instauratasi dopo il 1945. 
                  L'anarchismo italiano affronta la nascita della repubblica con 
                  un bagaglio teorico limitato, questo il punto. A fronte di più 
                  complesse e rinnovate – sebbene nel segno della continuità 
                  – strutture del potere pubblico e del dominio sociale, 
                  non corrisponde dunque un movimento libertario altrettanto dinamico 
                  e capace di risposte politiche adeguate. È la dura realtà 
                  dei fatti. La sconfitta subita negli anni venti e trenta, il 
                  ridimensionamento a livello internazionale, gli esiti infausti 
                  della guerra civile spagnola, chiudono inevitabilmente ogni 
                  speranza di riprendere, senza rinnovarsi, il ciclo virtuoso 
                  di crescita dell'anarchismo del primo novecento dal punto in 
                  cui si era interrotto. Alla dura repressione fascista, stalinista 
                  o a quella degli stati democratici si dovrà far risalire 
                  certo una parte importante delle cause che hanno determinato 
                  questa crisi. A ciò si deve però aggiungere un 
                  ulteriore elemento: c'è un'inedita composizione di classe 
                  che, manifestatasi su larga scala tra le due guerre mondiali, 
                  stravolge in toto memoria e identità delle antiche organizzazioni 
                  del movimento operaio. L'antifascismo, costituito in forza collettiva 
                  e convertito in sistema di governo, è ora elemento di 
                  ricomposizione tra “politico” e “statale”. 
                  Il partigianato, sebbene istituzionalmente “legittimato”, 
                  è oggetto di inediti intrecci tra Stati, ideologie e 
                  movimenti. Il dato di fatto più rilevante è che 
                  il PCI, complice lo sviluppo dei partiti di massa e grazie all'ambivalente 
                  strategia togliattiana, raccoglie a sinistra tutta l'eredità 
                  del sovversivismo popolare. E il resto dell'opera di ridimensionamento 
                  (vale anche per l'ala più radicale dell'azionismo) viene 
                  compiuto con lo scatenarsi della guerra fredda. 
                  Umberto si mantiene su posizioni “movimentiste”, 
                  aperte al dialogo ma sostanzialmente diffidenti su possibili 
                  rinnovamenti troppo radicali nei connotati storici dell'anarchismo. 
                  L'Internazionale anarchica è una sua creatura. Già 
                  al convegno parigino del 1935 aveva proposto la formazione di 
                  un coordinamento propedeutico che ne promuovesse la nascita. 
                  Il progetto diventa realtà grazie alla passione e all'impegno 
                  incessante profuso nel mantenimento di contatti anche in paesi 
                  sotto le dittature fasciste e comuniste. All'età di 77 
                  anni è arrestato durante una riunione clandestina della 
                  Federazione Anarchica Iberica in Spagna e liberato grazie ad 
                  una mobilitazione di solidarietà a livello europeo. 
                  La sua capacità di dialogo, fino al limite dell'impossibile, 
                  discende da una qualità personale che gli viene riconosciuta 
                  anche nelle carte di polizia: “il soggetto ha un'intelligenza 
                  svegliata”... Per i superstiti di quella che era una gloriosa 
                  componente del movimento operaio, misurarsi su altre dimensioni, 
                  sia generazionali che ambientali, deve aver comportato sforzi 
                  immani... 
                 Giorgio Sacchetti 
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