   
  
                  Dalla zampa del Padre  
                 1.  
                  Andando a sfrugugliare la caligine millenaria che avvolge le 
                  nostre parole, si può anche scoprire che al termine “mano” 
                  o, meglio, alla sua radice (la stessa di madre, mensa, mese 
                  e metro), corrispose il significato del misurare – un 
                  qualcosa che si estende, che nell'estendersi costruisce. Più 
                  o meno come il piede, che, nella cultura anglosassone, rappresenta 
                  tuttora 30,48 centimetri del sistema metrico. E, tuttavia, la 
                  mano – a cominciare da quella mappa somatosensoriale che 
                  il neurochirurgo canadese Wilder Penfield individuò già 
                  nella prima metà del secolo scorso – ebbe maggior 
                  fortuna. Destinata a crescere ancora con l'attuale papa. Già 
                  negli Estratti dal diario di Adamo firmati dal sottile 
                  Mark Twain, però, era evidente – laddove parla 
                  di Eva che si asciuga le lacrime “col dorso della zampa” 
                  - quanto fosse sufficiente cambiare categorizzazione per ricondurre 
                  i valori della cosa ad una loro dimensione più equa. 
                    
                  2. 
                  Mi immagino che il compito della guida suprema della Chiesa 
                  Cattolica nel XXI secolo dopo Cristo – almeno il compito 
                  autoimpostosi – sia quello di salvare il pianeta e la 
                  sua umanità – qualcosa del pianeta e della sua 
                  umanità; salvare, presumibilmente, in più sensi 
                  –, non indagando troppo per il sottile per quanto riguarda 
                  le responsabilità del passato (che, magari, proprio a 
                  questa necessità di salvezza hanno condotto), inducendo 
                  alla conservazione della fede in Dio – un Dio ben propenso 
                  verso l'umanità – e, al contempo, gettando qualche 
                  manciata di ottimismo. Almeno, mi immagino che queste siano 
                  le sue intenzioni. Opinioni di questo genere, beninteso, avrei 
                  anche potuto farmele da tempo, ma, ora – dopo la lettura 
                  di Laudato si' – Lettera enciclica sulla cura della 
                  casa comune (Ancora, Milano 2015) di papa Francesco I – 
                  posso dire che se da un lato il succo di queste opinioni mi 
                  è stato confermato, dall'altro ho potuto aggiornarmi 
                  sulla strategia argomentativa in virtù della quale tale 
                  compito è andato giustificandosi. Perché è 
                  ormai ovvio che la Chiesa, oggi, pensi al pianeta e all'umanità 
                  – e alle cause individuali e collettive relative ai loro 
                  guai – in modo diverso dal passato – come è 
                  ovvio che ai fini della conservazione della fede in Dio e della 
                  diffusione di ottimismo si serva di argomentazioni ben diverse 
                  da quelle usate in passato. Avendo ben presente, allora, che 
                  “a nulla ci servirà descrivere i sintomi, se non 
                  riconosciamo la radice umana della crisi ecologica”, mi 
                  provo a seguire l'ordine delle argomentazioni così come 
                  proposto dal papa. 
                   
                  3. 
                  La nostra “casa comune” – è questa 
                  la ricategorizzazione del pianeta – ce lo ricorderebbe 
                  San Francesco – è “come una sorella” 
                  e “come una madre bella”. Mi chiedo perché 
                  “bella” e perché non è bella anche 
                  la sorella, ma qui è forse il caso di lasciar perdere. 
                  È già chiaro che si prende le mosse da una tirata 
                  sul “rispetto dell'ambiente” e annessi e connessi, 
                  per arrivare alla conclusione che “anche l'ambiente sociale 
                  ha le sue ferite. Ma tutte sono causate in fondo dal medesimo 
                  male, cioè dall'idea che non esistano verità indiscutibili 
                  che guidino la nostra vita”. E qui Francesco I si gioca 
                  già l'asso di briscola: le “verità indiscutibili” 
                  da cui proverrebbe il male – sicuro del fatto che questo 
                  male non possa invece provenire proprio dalle “verità 
                  indiscutibili”. Ma come dargli torto quando afferma che 
                  “un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio 
                  sociale” o quando associa il “grido della terra” 
                  a quello dei “poveri” o invita alla salvaguardia 
                  della “biodiversità” e – contro il 
                  mito del progresso – si dichiara contrario al “rumore 
                  dispersivo dell'informazione”? 
                  Diciamo che formulazioni del genere avrebbero bisogno di qualche 
                  ritocco (più che esser “vero” l'approccio 
                  ecologico non dovrebbe basarsi su presupposti contraddittori; 
                  sulla salvaguardia della biodiversità occorrerebbe intendersi 
                  e sul categorizzare come “rumore” le informazioni 
                  che non ci piacciono ci andremmo cauti), ma che, in definitiva, 
                  sono ampiamente condivisibili. Tuttavia, i nodi sono destinati 
                  a giungere presto al pettine. 
                  La scienza e la religione, infatti, fornirebbero “approcci 
                  diversi alla realtà”, ma potrebbero “entrare 
                  in un dialogo intenso e produttivo per entrambe”. Qui 
                  il discorso si farebbe lungo – e soprattutto si farebbe 
                  ripetitivo –, ma è inutile farlo perché 
                  è già chiaro che, comunque la si metta, si rimarrà 
                  nell'ambito della teoria (insostenibile) del “doppio magistero” 
                  di Gould: scienza e religione costituiscono due ambiti diversi 
                  e l'una non può di principio metter becco negli affari 
                  dell'altra e viceversa; tesi che non sta in piedi perché 
                  entrambe usano lo stesso linguaggio per esprimere le loro “verità” 
                  e perché fra i compiti della prima c'è quello 
                  di analizzare i significati espressi da essa stessa e dalla 
                  seconda – se questi significati risultano privi di senso 
                  o autocontraddittorii, le “verità” crollano. 
                  Vale più la pena, invece, sottolineare che, senza la 
                  figura di un Padre “creatore e unico padrone del mondo”, 
                  l'uomo “tenderà sempre a voler imporre alla realtà 
                  le proprie leggi e i propri interessi”, cioè vale 
                  la pena sottolineare l'impianto realistico dell'argomentazione: 
                  alle verità indiscutibili viene ad aggiungersi – 
                  o, meglio, deve venire ad aggiungersi – un insieme di 
                  leggi indipendenti dall'uomo e attribuite ad una creazione altrui: 
                  “un dono che scaturisce dalla mano aperta del Padre di 
                  tutti, come una realtà illuminata dall'amore che ci convoca 
                  ad una comunione universale”, dove, come in una mappa 
                  somatosensoriale dell'universo, spicca la metaforica “mano” 
                  che, nella fase benevola dello schiudimento, elargisce (si riscontri 
                  nella Preghiera cristiana con il creato: “Ti lodiamo, 
                  Padre, con tutte le tue creature,/che sono uscite dalla tua 
                  mano potente”). L'uomo è ancora e sempre cattivuccio 
                  e, conseguentemente, senza tanta necessità di dimostrarne 
                  l'esistenza, di un “padrone” ha bisogno. La nuova 
                  metafora, ovviamente, non è giocata per caso, perché 
                  in questa creazione così benignamente elargita qualche 
                  distinguo va fatto. Uno in particolare è ancora fondamentale 
                  ed è quello tra umano e animale – salvaguardiamo 
                  sì la biodiversità, ma con giudizio: “la 
                  capacità di riflessione, il ragionamento, la creatività, 
                  l'interpretazione, l'elaborazione artistica ed altre capacità 
                  originali mostrano una singolarità che trascende l'ambito 
                  fisico e biologico”. 
                   Fermo 
                  restando – statene sicuri – che “nessuno dei 
                  cinque passeri” (Luca, 12, 6) “è dimenticato 
                  davanti a Dio”, ahinoi, difenderemmo le specie animali 
                  più di quel che ci diamo da fare per “difendere 
                  la pari dignità tra gli esseri umani”. L'umano, 
                  insomma, sarebbe superiore, se non altro per rispondere ad uno 
                  scopo nobilissimo, perché “quando il pensiero cristiano 
                  rivendica per l'essere umano un peculiare valore al di sopra 
                  delle altre creature, dà spazio alla valorizzazione di 
                  ogni persona umana, e così stimola il riconoscimento 
                  dell'altro”. Sul perché questo sacrosanto “riconoscimento” 
                  possa avvenire soltanto in rapporto ad un decreto di superiorità, 
                  il papa non ritiene opportuno di spendere neppure una parola 
                  – si affida all'analogia: padrone uno, padroni gli altri 
                  scivolando giù verso un fondo della gerarchia dove un 
                  anonimo disgraziato rimarrà senza nessuno sul quale infierire. 
                  Le contraddizioni, peraltro, non lo spaventano. E anche quando 
                  non trova pronta una metafora con cui occultarle va dritto per 
                  la sua strada. È così, per esempio, che la “proprietà 
                  privata” – eccoci ad un punto delicato – deve 
                  essere subordinata alla “destinazione universale dei beni”. 
                  Come ciò possa accadere rimane misterioso: se qualcosa 
                  è proprietà del singolo non si vede come possa 
                  poi trasformarsi in proprietà collettiva – che 
                  vi sia “destinata” promette di certo un futuro migliore, 
                  ma un criterio in virtù del quale far sì che questo 
                  futuro diventi un presente almeno per qualcuno non è 
                  esplicitato. 
                  Similmente vanno le cose per quell'argomentazione più 
                  complicata che riprende – e approfondisce – il tema 
                  della scienza. Se la “tecnoscienza” fosse “ben 
                  orientata” – inizia così l'argomentazione 
                  – sarebbe “anche capace di produrre il bello e di 
                  far compiere all'essere umano immerso nel mondo materiale, il 
                  “salto” nell'ambito della bellezza”. Faccio 
                  notare che, a differenza di tutti quei fessacchiotti che si 
                  sono occupati di estetica per qualche millennio, lui lo sa cosa 
                  è il “bello” e faccio anche notare che, non 
                  so il perché o forse lo so ma mi ci vorrebbe troppo per 
                  dirlo, da un po' di tempo in qua quando mi si parla di “bellezza” 
                  ho l'impressione che me lo stiano mettendo in quel posto, ma 
                  vado avanti. “Di fatto”, purtroppo, “l'umanità 
                  ha assunto la tecnologia e il suo sviluppo insieme ad un paradigma 
                  omogeneo e unidimensionale”. “In tale paradigma 
                  risalta una concezione del soggetto che progressivamente, nel 
                  processo logico-razionale, comprende e in tal modo possiede 
                  l'oggetto che si trova all'esterno. Tale soggetto si esplica 
                  nello stabilire il metodo scientifico con la sua sperimentazione, 
                  che è già esplicitamente una tecnica di possesso, 
                  dominio e trasformazione” – la “realtà 
                  informe”, insomma, sarebbe “totalmente disponibile 
                  alla sua manipolazione”. C'è da chiedersi che c'è 
                  di diverso da prima, se questo stesso allarme non poteva esser 
                  lanciato anche all'età della pietra, ma, a quanto pare, 
                  prima “si trattava di ricevere quello che la realtà 
                  naturale da sé permette, come tendendo la mano” 
                  (e ci risiamo con la mano). 
                  L'essere umano – quello che “non è pienamente 
                  autonomo”, perché “la sua libertà 
                  si ammala quando si consegna alle forze cieche dell'inconscio, 
                  dei bisogni immediati, dell'egoismo, della violenza brutale” 
                  – e le “cose” sono diventati “contendenti”, 
                  mentre “prima” (ma quando?) si davano “amichevolmente 
                  la mano” (e ridalli con la mano). 
                  Va da sé, allora, che – abbracciando tesi di chi 
                  lo ha preceduto – Francesco I sia contro il relativismo 
                  la cui definizione resta molto nel vago (più nel vago 
                  di quanto abbia fatto chi lo ha preceduto), ma la cui cultura 
                  costituirebbe “la stessa patologia che spinge una persona 
                  ad approfittare di un'altra e a trattarla come un mero oggetto”. 
                  Contrario anche alla “frammentazione del sapere” 
                  (cui si dimentica di aver contribuito lui stesso dividendo la 
                  scienza dalla religione) e all'eventuale subordinazione della 
                  politica all'economia (sulla scia di Giovanni XXIII, propone 
                  la costituzione di un'Autorità politica mondiale), si 
                  dice convinto che “non si può sostenere che le 
                  scienze empiriche spieghino completamente la vita, l'intima 
                  essenza di tutte le creature e l'insieme della realtà”, 
                  perché “questo vorrebbe dire superare indebitamente” 
                  quei loro “limitati confini metodologici” sui quali, 
                  però, non spende una parola 
                   
                  4. 
                  Un'ultima considerazione la merita tutta questa buona dose di 
                  esteticità con cui, recuperando formule antiche che già 
                  i Padri della Chiesa avevano attinto da Platone, cerca di condir 
                  via il suo gregge. Se la nostra “casa comune” è 
                  come una madre “bella”, anche su altre bellezze 
                  possiamo far conto per uscire dai nostri guai. “Prestare 
                  attenzione alla bellezza e amarla”, infatti, “ci 
                  aiuta ad uscire dal pragmatismo utilitaristico”. Come 
                  ciò sia possibile lo sa solo lui ma un tentativo di comunicarcelo 
                  in forma di preghiera lo fa: “(...)riversa in noi la forza 
                  del tuo amore/affinché ci prendiamo cura/della vita e 
                  della bellezza”, “risana la nostra vita (...)/affinché 
                  seminiamo bellezza” (alla conclusione della Preghiera 
                  per la nostra Terra) senza dimenticare di darci da fare 
                  “...affinché venga il tuo Regno di giustizia, di 
                  pace, di amore e di bellezza” (nella Preghiera cristiana 
                  per il creato). 
                  Concomitantemente ai miei sospetti, allora, posso constatare 
                  che, sul mercato azionario dei valori belli e fatti nel pacchetto 
                  dei realisti, il bello, insomma, “va”. 
                 Felice Accame 
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