L'aspetto magico dei media 
                A colloquio con Franco La 
                  Cecla  
                 
                   Pochi 
                  lavori sono stati dedicati all'aspetto “animistico” 
                  dei media. Franco La Cecla colma questa lacuna parlandoci dei 
                  media come rappresentazione di un medium, un mezzo per comunicare 
                  con una presenza assente. Il telefono, la radio, il cinema, 
                  la televisione, internet, i new media, i social network, postulano 
                  una fede piuttosto singolare: che dall'altra parte del ricevitore 
                  o dello schermo ci sia “qualcuno” della cui presenza 
                  non possiamo dubitare, anche se la sua presenza effettiva non 
                  c'è, non è con noi in carne e ossa. 
                  Una storia dei media dovrebbe iniziare proprio dalla storia 
                  di questa fede e di queste “presenze” che si accettano 
                  nella loro evanescente parzialità. Per parlare di queste 
                  tematiche ho deciso di fare qualche domanda a Franco cogliendo 
                  l'occasione che è da poco uscita una nuova edizione riveduta 
                  e aggiornata di Surrogati di presenza. Media a vita quotidiana 
                  (BèBert edizioni, Bologna, 2015, pp. 175, € 15,00). 
                   
                  La prima domanda che ti vorrei fare è cosa è 
                  cambiato in questi dieci anni che ci separano dalla prima edizione? 
                  E soprattutto per chi non l'ha letto perché chiami i 
                  media surrogati di presenza? 
                  Surrogati di presenza era la definizione che volevo dare ai 
                  media in una chiave animistica che ne rivelasse la natura profondamente 
                  perturbante. 
                  A me interessava da un punto di vista antropologico fare emergere 
                  l'aspetto del “fake” della presenza che i media 
                  portano con sé fin dall'inizio. Non volevo dare a questo 
                  “fake” un connotato per forza negativo. Anzi, ero 
                  e sono molto ammirato dalla costruzione mitologica che sta dietro 
                  ai media: come se essi presupponessero una nuova teologia. Quella 
                  che postula che la “presenza” possa essere rappresentata 
                  da una sua riduzione: la voce al telefono per l'intera persona, 
                  l'immagine in Skype per la fisicità e via dicendo. Una 
                  teologia modernista della incarnazione della presenza in “aggeggi” 
                  che consentano ad essa di essere ubiqua. Una vera tentazione 
                  faustiana che poi ho trattato nel mio romanzo “Falsomiele” 
                  in cui porto alle estreme conseguenze il nostro desiderio di 
                  ubiquità. A distanza di dieci anni dalla prima stesura 
                  oggi le cose si sono radicalizzate ed accelerate. Ma una “critica” 
                  alla società di Facebook e di Twitter è ancora 
                  troppo moralista e non tocca i nodi vitali del nostro strano 
                  bisogno di dissipare la nostra presenza fisica. Siamo in un 
                  mondo sempre più disincarnato, ma allo stesso tempo è 
                  come se la nostra carne stesse ritornando con una forza ed una 
                  ineditezza mai vista prima, proprio perché il “fake” 
                  dei media è stancante e frustrante. 
                   
                  L'avvento dei social network ha rivoluzionato l'esistenza 
                  quotidiana di migliaia di persone in tutto il mondo, questo 
                  che significato-portato antropologico può avere sulla 
                  costruzione delle identità? Gli effetti sono uguali o 
                  a seconda del luogo della cultura cambia l'utilizzo che si fa 
                  dei new media? 
                  Il vero problema dei media oggi è che promettono una 
                  socialità che poi non mantengono se non in parte. È 
                  come se avessimo facilitato molto gli appuntamenti, ma poi non 
                  ci presentiamo. La questione della presenza che è al 
                  centro del dibattito filosofico del '900 è ancora la 
                  più pressante. In una cornice di dubbio sulle identità 
                  cosa significa oggi “farsi presente”? Un imam che 
                  predica alla televisione è certamente efficace, ma è 
                  anche reso tale da uno strumento che sostituisce la sua presenza 
                  fisica con una retorica dei media. 
                  La mostruosità di Isis o di Abhu Graib sta proprio nell'essere 
                  serva di una retorica dei media che rende la crudeltà 
                  e il dolore altrui già “una citazione”. Tutti 
                  i media stanno nell'ottica di una realtà riflessa che 
                  è quella della citazione, del “richiamo” 
                  e così rendono indifferente gli spettatori all'aspetto 
                  terribile della violenza. E creano un'efficacia che è 
                  tutta auto-referenziale. È lo stesso motivo per cui gli 
                  adolescenti possono restare per anni nella bolla di Facebook 
                  o di Instagram, perché in essa la forza del reale viene 
                  sostituita ad un terribile deja-vu. Questo rallenta ogni 
                  reazione e ogni rifiuto, rallenta lo scandalo e il non sopportare 
                  la violenza. Nei media c'è una bradipizzazione della 
                  coscienza ed il sostituire alle emozioni delle emozioni deja-vu. 
                    
                  Nel testo ci parli di una dimensione animista dei new 
                  media... in che senso? 
                  Mi interessa capire l'aspetto “magico” dei media, 
                  quello che viene assolutamente taciuto dalle discipline della 
                  comunicazione. Negli indigeni che incontrano per la prima volta 
                  la tv o internet c'è ancora questa capacità di 
                  lettura. I marchingegni mediatici sono una applicazione dell'idea 
                  di evocazione e di “medium” di ogni spiritismo o 
                  di ogni lavoro sciamanico. È magia bianca o nera a secondo 
                  di come la si voglia leggere. Il primo a farci capire questo 
                  è stato il Wittgenstein delle note al “Ramo d'Oro” 
                  di Frazer, uno dei classici dell'antropologia ottocentesca. 
                  La scatola nera, il light on the box dello schermo ha 
                  una archeologia che va tutta esplorata. Il problema è 
                  che la categoria dell'animismo è stata screditata da 
                  una certa antropologia dagli anni '70 in poi e solo ora ci si 
                  accorge di quanto sia preziosa per capire alcuni aspetti della 
                  ipermodernità. 
                   
                  Queste nuove tecnologie di comunicazione, di rappresentazione 
                  di noi e degli altri sono degli specchi delle relazioni umane? 
                  E quindi viviamo meglio o peggio? 
                  Specchio è proprio un termine ambiguo. Perché 
                  lo specchio è un riflesso e i media sono riflessi di 
                  un riflesso nella logica della mimesi come è stata sviluppata 
                  da Walter Benjamin, Renè Girard e Michael Taussig. Oggi 
                  il mondo è investito da una “invidia mimetica” 
                  per cui sono gli ex colonialisti a essere diventati un riflesso 
                  degli ex colonizzati (come racconta un bellissimo documentario 
                  di Jean Rouch, Le Maitres Fous). La stregoneria è un 
                  dispositivo che rende attivi i riflessi come se essi fossero 
                  un richiamo ad una realtà. Nei riti della stregoneria 
                  si “performa” un livello parallelo alla realtà 
                  che può agire su di essa come “richiamo”. 
                  Proprio quello che accade nei media. Oggi le identità 
                  sono “palleggiate” tra dominati e dominatori con 
                  inversione, capitomboli, imitazioni e travestimenti. Dall'“hip 
                  hop” che imita il mondo della finanza alle definizioni 
                  di genere. Si è qualcuno come citazione di quacos'altro 
                  o di qualcun altro. 
                 Andrea Staid 
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