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				 No Tav 
                  
                Si torna sempre a dicembre 
                  
                della Federazione anarchica torinese – Fai 
                    
                Riflessioni sulla lotta contro il Tav in Val Susa, a dieci anni dalla rivolta di Venaus. 
                 
                  Quest'anno sono dieci anni. Dieci 
                  anni passati in un lampo, ma lunghi. Lunghi come le notti di 
                  veglia, le marce popolari, i presidi ai cancelli, le cene con 
                  il gas e la doccia fredda. Lunghi come le ore in cella di chi 
                  ci è stato sottratto, di chi ha perso la propria libertà 
                  per provare a regalarne un po' a tutti. 
                  In questi anni in Valle è venuta tanta gente. La loro 
                  stagione è stata l'estate. Ogni autunno tornano a casa 
                  a perpetuare la storia della Valle che resiste. Capita di chiedersi 
                  quali immagini, memorie portino con sé. 
                  La pasta cucinata nel tendone/cucina del campeggio, il fumo 
                  dei lacrimogeni e il respiro che si mozza, i canti di lotta 
                  e le urla di chi viene pestato, i sentieri di notte, le assemblee, 
                  le battiture. Il tempo sospeso della lotta. Vera vacanza, sospensione 
                  della quotidianità, rottura dei suoi ritmi, dei suoi 
                  riti, dei suoi obblighi. 
                  Linfa preziosa da tenere da parte per l'inverno. 
                  Per chi resta, per chi c'è sempre stato, è diverso: 
                  le storie troppo raccontate rischiano di logorarsi. Di logorarci. 
                  I nostri nemici ci fanno conto. Fanno conto sulla ripetizione 
                  delle stagioni, mentre la talpa continua a bucare la montagna, 
                  spargendo veleni, allargando la ferita. 
                  La ferita nella montagna, che il nostro sguardo e la nostra 
                  cura hanno reso più che roccia e acqua e alberi, per 
                  farne il simbolo della carne viva del nostro movimento. 
                  Un movimento che ha sulle spalle il peso della speranza che 
                  ha rappresentato per tanta gente di ogni dove. 
                  Il rischio è l'usura dei sentimenti, anestesia del tempo 
                  che trascorre, il ripetersi dei passi già fatti, dei 
                  sentieri che conducono là dove la ferita si allarga. 
                  L'orgoglio è quello di esserci, di tenere duro, di continuare 
                  a dare del filo da torcere ai nostri avversari. A quattro anni 
                  e mezzo dallo sgombero della Libera Repubblica della Maddalena 
                  è stata scavata solo mezza galleria. Il grande tunnel 
                  lo faranno scavando dentro la montagna, partendo dalla galleria 
                  di Chiomonte. Una scelta costosa e rischiosa. Una scelta dettata 
                  dalla paura di aprire i cantieri a Susa e Bruzolo. Il segno 
                  chiaro che, nonostante le dichiarazioni di vittoria, il governo 
                  continua a temere il movimento No Tav. 
                  Due anni fa l'estate si chiuse con un bilancio durissimo. Il 
                  sangue, le umiliazioni, gli arresti, la notte del 19 luglio. 
                  È stata anche l'estate dei sabotaggi delle ditte collaborazioniste, 
                  i mezzi bruciati, la lotta che si radicalizza ma non è 
                  per tutti, anche se tutti la sostengono. 
                  L'autunno è stato segnato dalle proteste agli alberghi 
                  e alle caserme che ospitano le truppe di occupazione. Iniziative 
                  di pochi, che hanno tuttavia mantenuto forte l'opzione dell'azione 
                  diretta. 
                  Poi è tornato dicembre. 
                  
                  Una valle di terroristi 
                I nostri avversari conoscono bene il valore dei simboli. Il 
                  giorno dopo l'anniversario della presa di Venaus, il 9 dicembre 
                  del 2013 quattro No Tav vennero arrestati con l'accusa di attentato 
                  con finalità di terrorismo, per un'azione di sabotaggio 
                  al cantiere del 14 maggio precedente. In quell'occasione venne 
                  danneggiato un compressore, presto riparato e rivenduto. Un'imputazione 
                  che ha sottratto alle loro vite, ai loro affetti, alle lotte 
                  Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò. Qualche mese dopo 
                  è stata la volta di Francesco, Graziano e Lucio. 
                   
                  La grande favola della democrazia si scioglie come neve al sole, 
                  ogni volta che qualcuno prende sul serio il nucleo assiologico 
                  su cui pretende di costruirsi, ogni volta che libertà, 
                  solidarietà, uguaglianza vengono intese e praticate nella 
                  loro costitutiva, radicale alterità con un assetto sociale 
                  basato sul dominio, la diseguaglianza, lo sfruttamento, la competizione 
                  più feroce. 
                  La democrazia reale ammette il dissenso, purché resti 
                  opinione ineffettuale, mero esercizio di eloquenza, semplice 
                  gioco di parola. Se il dissenso diviene attivo, se si fa azione 
                  diretta, se rischia di far saltare le regole di un gioco feroce, 
                  la democrazia si dispiega come discorso del potere che ri-assume 
                  nella sua interezza l'assolutismo della regalità. Assoluta, 
                  perché sciolta da ogni vincolo, perché nega legittimità 
                  ad ogni parola altra. Ad ogni ordine che spezzi quello attuale. 
                  Lo fa con la leggerezza di chi sa che l'illusione democratica 
                  è tanto forte da coprire come una coltre di nubi scure 
                  un dispositivo che chiude i conti con ogni forma di opposizione 
                  che non si adatti al ruolo di mera testimonianza. 
                  In questi anni abbiamo assistito al progressivo incrudirsi della 
                  repressione, senza neppure la necessità di fare leggi 
                  speciali: è stato sufficiente usare in modo speciale 
                  quelle che ci sono. 
                  L'accusa di terrorismo è stata smentita in corte d'assise 
                  e più volte in Cassazione, ma la Procura non demorde. 
                  Al processo d'appello contro Chiara, Claudio, Mattia e Nicolò 
                  il procuratore generale Marcello Maddalena continua a sostenerla. 
                  Il processo del compressore è solo la punta di un iceberg, 
                  perché sono centinaia i processi e le condanne contro 
                  i No Tav. 
                  Il 27 giugno del 2014 vennero rese note le motivazioni della 
                  sentenza della Cassazione. 
                  Secondo i giudici ci sarebbe una “sproporzione” 
                  tra quanto avvenuto nella notte del 14 maggio al cantiere e 
                  la presunzione che un tale atto possa effettivamente indurre 
                  lo Stato a fare marcia indietro, cancellando il progetto della 
                  Torino Lyon. 
                  Sul piano giudiziario quella sentenza ha dato un duro colpo 
                  alla Procura torinese. 
                  È probabile che l'impalcatura accusatoria contro i sette 
                  No Tav accusati di terrorismo non regga neppure in appello. 
                  Ma la partita resta aperta. 
                  Le armi messe in campo dalla Procura sono affilate ed insidiose, 
                  perché chiunque si opponga concretamente ad una decisione 
                  dello Stato italiano o dell'Unione Europea rischia di incappare 
                  nell'accusa di terrorismo. 
                  Un giorno l'accusa di terrorismo potrebbe essere applicata a 
                  chiunque lotti contro le scelte non condivise, ma con il suggello 
                  della regalità imposto dallo Stato Italiano. 
                  In altri termini: se di giorno o di notte, in tanti o in pochi, 
                  l'azione dei No Tav fosse tale da indurre lo Stato a fare marcia 
                  indietro, anche per la Cassazione i No Tav sarebbero terroristi. 
                  Tutti terroristi, anche chi sta in ultima fila con il bimbo 
                  in carrozzella, anche chi cammina a fatica, anche chi non ha 
                  coraggio, ma solo un cuore che batte forte per il mondo nuovo 
                  che vorrebbe. 
                  È importante che la memoria non vacilli: i No Tav hanno 
                  sostenuto ed appoggiato la pratica dell'azione diretta contro 
                  il cantiere e le ditte collaborazioniste, i blocchi delle strade 
                  e delle ferrovie, lo sciopero generale, le grandi marce e i 
                  sabotaggi. 
                  Fermare il Tav, costringere il governo a tornare su una decisione 
                  mai condivisa dalla popolazione locale è la ragion d'essere 
                  del movimento No Tav. 
                  Ogni gesto, ogni manifestazione, ogni passeggiata per tutti, 
                  non diversamente dalle azioni di assedio del cantiere, di boicottaggio 
                  delle ditte, di sabotaggio dei mezzi mira a questo scopo. 
                  Nella logica delle leggi che definiscono il reato di terrorismo 
                  gran parte della popolazione valsusina è costituita da 
                  terroristi. E con loro i tanti che, in ogni dove, ne hanno condiviso 
                  motivazioni e percorsi. 
                  Le migliaia di persone che resero ingovernabile la Val Susa 
                  nel dicembre del 2005 erano “terroristi”. 
                  Quella volta non ci furono arresti, né imputazioni gravi: 
                  la ragione è facile. 
                  Lo Stato si arrese, in attesa di una nuova occasione. Si arrese 
                  perché temeva che un'ulteriore prova di forza potesse 
                  far dilagare la rivolta oltre le montagne della Val Susa. L'ondata 
                  di indignazione per le violenze contro i resistenti di Venaus 
                  era tale da indurre alla prudenza chi pure si era sin lì 
                  avvalso della forza. La parola tornò alla politica, prosecuzione 
                  della guerra con altri mezzi, strumento per prepararsi ad una 
                  nuova guerra. 
                  È importante che quella memoria di lotta ci accompagni 
                  in questi anni sempre più duri. I tempi sono cambiati, 
                  lo Stato vuole vincere per restaurare un'autorità compromessa, 
                  per spezzare la speranza concreta che ciascuno possa decidere 
                  la propria vita. 
                  
                  La memoria di ieri per le sfide di domani 
                L'8 dicembre 2005 fu il culmine della rivolta contro il TAV. 
                  Ma già allora non era più questione di treni. 
                  In ballo c'era la libertà e la dignità di chi 
                  non voleva tollerare l'imposizione con la forza di una scelta 
                  non condivisa. 
                  Nessuno lo pianificò ma accadde. I primi a stupirci fummo 
                  noi. Le barricate, i tronchi in mezzo alla strada, il blocco 
                  delle strade furono la risposta all'occupazione militare. 
                  La Valle divenne ingovernabile. 
                  La memoria riaffiora potente. 
                  Era la notte tra il cinque e il sei dicembre 2005, una fredda 
                  notte di un inverno che si annunciava gelido. Il sonno venne 
                  rotto da migliaia di telefonate ed sms che avvertivano che il 
                  presidio di Venaus era stato attaccato dalla polizia. In pochi 
                  minuti, tra le migliaia di attivisti No Tav, circolò 
                  la notizia che poche ore dopo sarebbe rimbalzata sui maggiori 
                  organi di informazione: la gente pestata a sangue, le tende 
                  e la baracca della pro loco demolita, un anziano in gravi condizioni. 
                  La lunga resistenza dei No Tav culminata nella settimana di 
                  barricate a Venaus arrivava ad una svolta: il governo aveva 
                  deciso l'azione di forza per sgomberare chi, nella neve, circondava 
                  l'area dell'ex cantiere Sitaf ed occupava i terreni destinati 
                  ad esproprio per la costruzione del tunnel geognostico di 10 
                  km. Il tunnel era un atto di guerra ad una popolazione che da 
                  oltre 15 anni si batteva contro un'opera inutile, costosissima, 
                  devastante per l'ambiente e il territorio. 
                  Quella notte dormirono in pochi: allacciati gli scarponi si 
                  misero in mezzo a strade e autostrade, bloccarono treni, scioperarono 
                  dal lavoro, affrontando la polizia che si muoveva come truppa 
                  di occupazione lungo tutta la bassa Val Susa. 
                  Due giorni dopo una grande marcia popolare partì da Susa 
                  alla volta di Venaus: la polizia distribuì un po' di 
                  manganellate al bivio dei Passeggeri, da dove si dipana la provinciale 
                  che porta al paesino della Val Cenischia, ma nessuno si fermò. 
                  Lungo i sentieri impervi e ghiacciati, dopo aver superato il 
                  blocco, si aggirò la polizia e si scese al cantiere. 
                  La rete arancio venne giù, la polizia sparò lacrimogeni 
                  che il vento disperse, poi, con la coda tra le gambe andarono 
                  via. 
                  La parola tornò alla politica, la prosecuzione, con mezzi 
                  più subdoli, della guerra. 
                  Erano in gioco interessi enormi: da lì a poco sarebbe 
                  partito il baraccone olimpico e gli sponsor non pagano uno spettacolo 
                  con barricate e blocchi. Nonostante la ritirata delle truppe 
                  dello Stato la gente era ben decisa a continuare la resistenza, 
                  a bloccare ancora le strade, a fermare le olimpiadi. 
                  Migliaia e migliaia di persone in quei giorni appresero il gusto 
                  di decidere in prima persona, di praticare la politica al basso, 
                  elidendo le mediazioni istituzionali. Tutto ciò faceva 
                  paura, perché incrinava la legittimità stessa 
                  delle istituzioni. Di tutte le istituzioni. Così la via 
                  d'uscita fornita dal governo venne accolta al volo dagli amministratori 
                  valsusini. 
                  Il tavolo sul Tav nacque il giorno dopo la ripresa di Venaus: 
                  gli amministratori furono chiamati a Roma per aprire la trattativa. 
                  Per qualche politico fu l'occasione per una nuova carriera, 
                  il governo prese tempo, sperando che il movimento si sfaldasse, 
                  accettando una nuovo progetto, sponsorizzato anche dalle istituzioni 
                  locali. 
                  Sbagliò i conti. I voltagabbana, gli ambigui e i tiepidi 
                  tra i sindaci non hanno indebolito il movimento, che ha continuato 
                  a manifestare la propria opposizione all'opera negli anni della 
                  tregua. Chi sul fronte istituzionale non ha accettato tavoli 
                  e compromessi, non ha certo modificato il senso di una lotta 
                  che si è sempre giocata sui sentieri e non tra barricate 
                  di carta. 
                  Tra il 2010 e il 2011 la tregua finì. La parola passò 
                  alle armi. Il governo impose con la forza l'apertura del cantiere 
                  per il tunnel geognostico a Chiomonte. Quel tunnel doveva essere 
                  finito nel dicembre del 2015, ma è solo a metà. 
                  L'area si è trasformata in un fortino militarizzato, 
                  i sentieri sono percorsi da uomini in armi. L'illuminazione 
                  notturna è impressionante. Quel cantiere l'emblema della 
                  volontà di piegare con la forza un movimento che non 
                  si è mai arreso, un movimento che non ha mai accettato 
                  di ridursi a mero testimone dello scempio. 
                  Dai giorni della Libera Repubblica della Maddalena, passando 
                  per l'assedio del tre luglio, non c'è stato giorno in 
                  cui i No Tav non abbiano lottato contro la violenza di Stato. 
                  Anche il lavorio della politica non è mai venuto meno. 
                  Il ministro delle infrastrutture sta aprendo un tavolo per discutere 
                  di compensazioni. 
                  Nella neolingua della politica le compensazioni avranno un nuovo 
                  nome, ma la sostanza non cambia. I sindaci No Tav che siederanno 
                  a quel tavolo si salvano la faccia, il governo presenta un volto 
                  dialogante, magari butterà sul tavolo una manciata di 
                  quattrini, purché non si discuta del treno. La prima 
                  riunione di quel tavolo è stata prudentemente fissata 
                  all'indomani della manifestazione nazionale da Susa a Venaus 
                  promossa dal movimento l'8 dicembre. 
                  Un movimento che non si mai arreso alla violenza di Stato, troppo 
                  spesso non ha saputo rinunciare alla coperta di Linus, un sindaco 
                  “amico” sui tavoli del comune. 
                  
                L'illusione della delega 
                Il nemico più difficile da affrontare è l'illusione 
                  della delega. La delega a chi sabota, a chi tiene in vita un 
                  presidio, a chi annega tra le carte per mettere in luce le trame 
                  che sottendono il grande affare. La peggior forma di delega 
                  è quella istituzionale, che rilegittima la macchina di 
                  chi si arroga il diritto di decidere per noi, di chi giocherà 
                  la sua partita ad un tavolo dove il banco vince sempre. Chi 
                  prende il banco prende sempre tutto quanto. Per prima la nostra 
                  libertà. 
                   
                  La febbre elettorale che ha attraversato a più riprese 
                  la Val Susa ha assorbito energie enormi, sottraendole alla quotidianità 
                  della lotta. Qualcuno ha portato a casa il risultato, altri 
                  hanno piazzato qualche No Tav sui banchi dell'opposizione. 
                  La febbre ha contagiato anche le componenti più radicali, 
                  divise tra chi si è buttato a capofitto e chi ha lasciato 
                  fare, tacendo. 
                  Un gioco di equilibri, di realpolitick che era sempre stato 
                  sullo sfondo, nell'ambiguità della separazione formale 
                  tra comitati e liste civiche, tra comitati e partiti, è 
                  emerso con prepotenza in superficie. 
                  Lo scontro tra la vecchia sinistra che, in nome del realismo, 
                  ha sottoscritto patti in contrasto con il mandato ricevuto e 
                  il populismo giustizialista, che sventola la bandiera della 
                  democrazia diretta, ma la riduce ad una farsa telematica, ha 
                  offerto un palcoscenico triste a tante brave persone, che la 
                  pratica della partecipazione hanno saputo in tante occasioni 
                  renderla vera. 
                  Sono tempi difficili. 
                  Il dispositivo disciplinare messo in campo da governo e magistratura 
                  si è articolato su più piani, per tentare di disarticolare 
                  il tessuto profondo del movimento, insinuando la paura, chiarendo 
                  che non ci sono aree d'ombra, rifugi sicuri, che tutti sono 
                  nel mirino. 
                  L'azione repressiva lungi dal dividere il movimento lo ha rinforzato 
                  nell'azione solidale, nell'appoggio ai carcerati, ai condannati. 
                  Ma ha scavato nel profondo. Non si sono scalfite le convinzioni, 
                  si è tuttavia allargata la distanza tra chi fa e chi 
                  applaude, ri-aprendo la strada a percorsi istituzionali e di 
                  delega. 
                  Eppure. Eppure gli ingredienti per fare altro ci sono tutti: 
                  li abbiamo conquistati in lunghi anni di azione diretta, confronto 
                  orizzontale, costruzione di percorsi decisionali condivisi. 
                  I comitati, i presidi, le assemblee popolari, gli stessi campeggi 
                  hanno alluso ad una possibilità concreta, quella dell'autogoverno. 
                  La sottrazione dall'istituito che il movimento No Tav ha praticato 
                  in tanti anni di lotta fornisce i mattoni e la malta necessari 
                  per dare corpo a luoghi e spazi di confronto, condivisione e 
                  pratica che realizzino l'autonomia reale dalla brutalità 
                  insita in ogni istituzione che pretende di rappresentarci, decidendo 
                  al posto nostro, affermando una nozione di bene comune che ci 
                  sottrae la scelta sul nostro futuro. 
                  L'unico realismo che conti è quello dell'utopia concreta 
                  che – sia pure in alcuni brevi momenti – siamo riusciti 
                  a realizzare. Tutti noi portiamo nei nostri cuori, nella memoria 
                  viva del nostro movimento Venaus e la Maddalena. Libere Rebubbliche, 
                  vere comuni libertarie, dove la gerarchia si è spezzata 
                  facendo vivere un tempo altro. 
                
                   
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 Le 
                        copertine di “A” dedicate al movimento No 
                        Tav: 
                        “A” 324 (marzo 2007), “A” 335 
                        (maggio 2008), “A” 368  
                        (febbraio 2012), “A” 380 (maggio 2013)  | 
                   
                 
                Vivere al tempo della peste 
                In Val Susa lo Stato si mostra nella sua forma più cruda, 
                  senza finzioni. 
                  La ragion di Stato è il cardine che spiega e giustifica, 
                  il perno su cui si regge il discorso pubblico. La narrazione 
                  dei vari governi nega spazio ad ogni forma di dissenso. 
                  Non potrebbe essere altrimenti. Le idee che attraversano il 
                  movimento No Tav sono diventate pericolose quando i vari governi 
                  hanno compreso che non c'era margine di mediazione, che una 
                  popolazione insuscettibile di ravvedimento, avrebbe continuato 
                  a mettersi di mezzo. 
                  La rivolta ultraventennale della Val Susa è per lo Stato 
                  un banco di prova della propria capacità di mantenere 
                  il controllo su quel territorio, fermando l'infezione che ha 
                  investito tanta parte della penisola. 
                  Allo Stato non basta vincere. Deve chiudere la partita per sempre, 
                  spargere il sale sulle rovine, condannando i vinti in modo esemplare. 
                  L'osmosi tra guerra e politica è totale. La guerra interna 
                  non è la mera prosecuzione della politica con altri mezzi, 
                  una rottura momentanea delle usuali regole di mediazione, la 
                  guerra è l'orizzonte normale. In guerra o si vince o 
                  si perde: ai prigionieri si applica la legge marziale, la legge 
                  dei tempi di guerra. 
                  In ballo non c'è solo un treno, non più una mera 
                  questione di affari. In ballo c'é un'idea di relazioni 
                  politiche e sociali che va cancellata, negata, criminalizzata. 
                  Lo Stato sa che in Val Susa spira un vento pericoloso, un vento 
                  di sovversione e di rivolta. 
                  Intendiamoci. Lo Stato non ha paura di chi, di notte, con coraggio, 
                  entra nel cantiere e brucia un compressore. Lo Stato sa tuttavia 
                  che intorno ai pochi che sabotano c'é un'intera valle. 
                  Un fatto importante ma non decisivo. 
                  La partita vera, quella giocata sapendo di poter vincere, di 
                  avere in mano le carte giuste, nelle gambe la forza di correre, 
                  nella testa la convinzione di farcela, si gioca altrove, in 
                  un altro modo. 
                  La scommessa, una scommessa che investe ciascuno di noi, chi 
                  in prima fila, chi un poco più indietro è rendere 
                  ingovernabile l'intero territorio, attraverso i percorsi di 
                  sottrazione conflittuale dall'istituito che hanno costruito 
                  la narrazione che ogni anno sospinge tanta gente in quest'angolo 
                  di nord ovest. 
                  Ci vorrà tempo, ci vorrà soprattutto il coraggio 
                  di crederlo possibile. 
                  L'8 dicembre 2015 è molto più di dell'anniversario 
                  di una rivolta vittoriosa. È l'occasione per mettere 
                  in campo la forza politica necessaria a bloccare e rendere vani 
                  i giochi della politica istituzionale. 
                  Dieci anni dopo quel dicembre il movimento No Tav è ancora 
                  in lotta contro l'imposizione della nuova linea ad alta velocità. 
                  Una lotta durissima, segnata da arresti, processi, condanne, 
                  botte e lacrimogeni. Una lotta popolare segnata dalla forza 
                  di chi sa che il proprio futuro non si delega, che, oggi come 
                  allora solo l'azione diretta, senza deleghe, senza passi indietro, 
                  può creare le condizioni per fermare ancora una volta 
                  la corsa folle, di chi antepone il profitto alla vita e alla 
                  libertà di tutti. 
                  È tempo di smettere di credere nelle favole, in Babbo 
                  Natale che porta i doni. 
                  Ci hanno raccontato che il movimento è un tavolino con 
                  tre gambe, i sindaci, il movimento popolare e i tecnici. 
                  L'8 dicembre è una buona occasione per ricordare che 
                  i tavoli servono a far stare ferma e seduta la gente. Per vincere 
                  servono buone gambe. Ne bastano due. Quelle di uomini e donne 
                  che stanno saldi sulle proprie. 
                  Una verità semplice che abbiamo appreso in quel lontano 
                  dicembre, mentre scendevamo sui sentieri ghiacciati per diventare 
                  protagonisti di una storia, che non ci stanchiamo ancora di 
                  raccontare. 
                 Federazione anarchica torinese - Fai 
                  www.anarresinfo.noblogs.org 
                
                   
                 
                   
                    Non fu terrorismo. Crolla l'accusa della Procura di Torino 
                      Sabotaggio, 
                        non terrorismo. Disinnescato l'ordigno della Procura di 
                        Torino. 
                        La corte d'assise d'appello della Procura di Torino ha 
                        emesso il 21 dicembre la sentenza al processo contro Chiara, 
                        Claudio, Mattia e Nicolò. Il collegio ha rigettato 
                        l'accusa di attentato con finalità di terrorismo. 
                        Ai quattro No Tav è stata confermata la condanna 
                        a tre anni e mezzo per sabotaggio del 14 maggio 2013. 
                        Il procuratore generale Marcello Maddalena aveva chiesto 
                        nove anni e mezzo. 
                        Maddalena aveva cercato di aggirare le sentenze della 
                        Cassazione che negavano che i No Tav volessero far male 
                        alle persone o potessero realmente mettere in difficoltà 
                        il governo al punto da indurlo a fare marcia indietro. 
                        Per definire “terrorista” un'azione basterebbe 
                        la volontà eversiva di bloccare il Tav. 
                        Maddalena ha insistito sulla personalità politica 
                        dei quattro anarchici, secondo gli schemi del diritto 
                        penale del nemico, in cui il senso ed il peso giuridico 
                        di un'azione non stanno nell'azione in sè, ma in 
                        chi l'ha fatta, non stanno nella materialità del 
                        gesto, ma nell'intenzione degli autori. 
                        Maddalena rievoca gli anni Settanta sostenendo una sorta 
                        di rapporto di filiazione tra le pratiche di sabotaggio 
                        e la lotta armata, con un paragone a dir poco ardito, 
                        rispetto ai fatti. 
                        La chiave di volta della requisitoria è la tesi 
                        che il sabotaggio del maggio 2013, come tanti altri gesti 
                        di lotta No Tav, siano un attacco alla democrazia, un 
                        attacco al potere del governo di decidere e imporre con 
                        la forza le proprie decisioni. Poco importa che il gesto 
                        in sè sia poca cosa, quello che conta è 
                        la sua portata simbolica, la sua capacità di erodere 
                        la fiducia dell'avversario, una goccia, che insieme a 
                        tante altre potrebbe finire con lo scavare nel profondo. 
                        A suo parere Matteo Renzi, contrario all'opera prima di 
                        assumere responsabilità di governo, ne è 
                        divenuto fautore quando è diventato primo ministro, 
                        perché si sarebbe reso conto che la mancata realizzazione 
                        dell'opera avrebbe messo a rischio la democrazia. 
                        In filigrana si legge la trama sottesa del tessuto argomentativo 
                        di Maddalena: tutti i No Tav sono terroristi. Chi devasta 
                        e militarizza il territorio difende la democrazia. Il 
                        sabotaggio di quella notte di maggio fu quindi un attacco 
                        alla democrazia. Come non essere d'accordo? 
                        La democrazia è una delle forme dello Stato, che 
                        avoca a se la legittimità dell'esercizio esclusivo 
                        della violenza, per reprimere chi non accetta le regole 
                        di un gioco feroce, liberticida, oppressivo. 
                        Chi si mette di mezzo, chi non si rassegna al dissenso, 
                        chi pratica l'azione diretta finisce nel mirino. 
                        I No Tav lo sanno da tanto tempo che non è più 
                        (soltanto) una questione di treni, non è più 
                        (soltanto) una questione di soldi pubblici drenati per 
                        fini privati. Sanno che è in ballo la libertà 
                        di decidere del proprio futuro, la volontà di resistere, 
                        la scelta di lottare contro l'imposizione dell'opera e 
                        l'occupazione militare. 
                        La Corte d'assise d'appello ha rigettato le tesi del PM, 
                        perché è (ancora) troppo diffusa l'opinione 
                        che non si possa equiparare un sabotaggio alla diffusione 
                        del terrore. 
                        L'operazione questa volta è fallita, ma la carta 
                        del terrorismo potrebbe essere rigiocata, se il movimento 
                        No Tav riuscisse nuovamente a mettere in difficoltà 
                        il governo, se il territorio divenisse nuovamente ingovernabile. 
                        Tutti i No Tav, compresi i sette del sabotaggio del maggio 
                        2013, intendono davvero obbligare il governo a cancellare 
                        la nuova linea veloce da Torino a Lyon dalla propria agenda. 
                        Non c'è dubbio che ce la metteremo tutta. 
                        Nonostante non sia stata riconosciuta la finalità 
                        di terrorismo, resta il fatto che quattro di noi sono 
                        stati sottratti per tre anni e mezzo alle loro vite, agli 
                        affetti, alla lotta. 
                        Oggi ci conforta il fatto che la mossa più ardita 
                        della Procura torinese sia stata disinnescata. Maddalena, 
                        all'ultimo processo prima della pensione, non è 
                        riuscito ad appendere in ufficio lo scalpo dei No Tav. 
                      Maria 
                        Matteo 
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