   
                 
                 
                  
                Un nuovo libro su Bakunin. Mio 
                 «Su quale anarchico ti piacerebbe scrivere un libro 
                  per noi?» disse Andrea Staid, dopo avermi convocato alla 
                  redazione di Elèuthera, un annetto fa. «Su Bakunin» 
                  ho risposto io... «Buona fortuna» ha detto lui. 
                  Me intemerato, dunque! Mi sono immerso nella sconfinata bibliografia 
                  che riguarda il nostro, ripetendo fra me e me «fesso... 
                  fesso...» che bisogno ci sarà di un'altra biografia 
                  dell'anarchico più famoso del mondo? E invece mi accorgo 
                  poi che le grandi biografie sono state scritte un sacco di tempo 
                  fa: quella di Kaminski nel 1938... quella celeberrima di Carr 
                  pubblicata in Italia da Mondadori, nel '37 (anche se rivista 
                  poi fino agli anni '50). Allora forse non è inutile provare 
                  a riparlare con le parole di oggi di quest'uomo immenso, pieno 
                  di difetti, scroccone e vagabondo, di questo russo simpaticissimo, 
                  di questa umanità concentrata in due metri d'altezza, 
                  di questa fame di conoscenza, di rivolta, di relazione... non 
                  è inutile innamorarsi e detestare assieme il nostro più 
                  grande compagno.  
                  Quello che segue è un estratto dell'ultimo capitolo, 
                  quello che riguarda la malinconica fine del vecchio leone a 
                  sessantadue anni. 
                  Troverete tutto in libreria (col titolo “Il diavolo: 
                  vita e rivoluzioni di Michail Aleksandrovi Bakunin”, oppure “Bakunin: il demone della rivolta”... io e l'editore 
                  non abbiamo ancora finito di litigare in merito!) ai primi di 
                  dicembre. 
                  «Ma che prospettiva!»
                  A.L. 
				Una sigaretta dietro l'altra 
                Ogni sera Andrea Santandrea veniva in villa ad aiutare Mikhail 
                  Aleksandrovi a mettersi a letto e, dopo aver fatto il necessario, 
                  rimaneva vicino a lui fino a un'ora molto tarda della notte. 
                  Era Filippo Mazzotti a venire invece al mattino... Non ho mai 
                  visto, né prima né poi, un attaccamento tanto 
                  entusiasta e tanto disinteressato. 
                  Mi ricordo certe domeniche in cui questi lavoratori erano riuniti 
                  nella camera di Bakunin. Santandrea rimaneva immobile, i gomiti 
                  sul tavolo, la sua testa da patrizio romano appoggiata sulle 
                  braccia incrociate; i suoi grandi occhi neri osservavano, estatici, 
                  la bocca di Bakunin che parlava. Mazzotti, più espansivo, 
                  più vivace e più ingenuo, sorrideva, assentiva, 
                  scuoteva il capo oppure guardava con un'espressione malinconica 
                  verso di me, compiangendomi evidentemente che io non potessi 
                  capire la grande parola. 
                  E Bakunin fumava una sigaretta dietro l'altra, beveva a sorsate 
                  del tè in una tazza enorme e parlava a lungo in italiano. 
                  A volte un astante arrischiava un'obiezione. Allora Santandrea 
                  e Mazzotti spiegavano e cercavano di persuadere, interrompendosi 
                  l'un l'altro, mentre Bakunin ascoltava, faceva dei segni di 
                  approvazione con la testa, aggiungeva una parola qui e là. 
                  All'inizio, vista la mia ignoranza dell'italiano, non capivo 
                  neppure il senso generale della conversazione; ma, osservando 
                  i volti dei presenti, avevo l'impressione che lì avvenisse 
                  qualche cosa di straordinariamente grave e solenne. L'atmosfera 
                  di quegli incontri mi compenetrava, si creava in me uno stato 
                  d'animo che vorrei chiamare, in mancanza di un'altra espressione, 
                  uno “stato di grazia”: la fede cresceva, i dubbi 
                  svanivano. La grandezza di Bakunin si precisava per me, la sua 
                  personalità ingigantiva. Vedevo che la sua forza stava 
                  nel potere di prendere possesso delle anime umane. Senza alcun 
                  dubbio, tutti quegli uomini che l'ascoltavano erano pronti a 
                  tutto al suo minimo cenno. Potevo immaginarmi un altro ambiente 
                  meno ristretto, una grande folla e capivo che l'influenza di 
                  Bakunin sarebbe stata identica. [...] 
                  In fondo, in che cosa consisteva il fascino di Bakunin? Credo 
                  che sia impossibile definirlo esattamente. Non è con 
                  la forza di persuasione che agiva, non è il suo pensiero 
                  che ridestava il pensiero degli altri; ma egli sollevava ogni 
                  cuore ribelle, vi ridestava una collera elementare. E quella 
                  collera abbagliava di bellezza, diventava creatrice e indicava 
                  alla sete esaltata di giustizia e di felicità uno sbocco, 
                  una possibilità di realizzazione. «Die Lust der 
                  Zerstörung ist zugleich eine schaffende Lust», ha 
                  ripetuto Bakunin fino alla fine della sua vita. 
                  Osservando i rapporti di Mikhail Aleksandrovicon la gente dei 
                  popolo, ero ogni volta di più meravigliata. Spesso, nelle 
                  nostre lunghe conversazioni a due, egli mi aveva esposto le 
                  sue idee filosofiche e, come se avesse voluto fare un'analisi 
                  retrospettiva dell'insieme delle sue opinioni, parlava dell'hegelismo, 
                  rifiutandolo con una logica serrata. Non era che con uno sforzo 
                  di attenzione sostenuto che io potevo seguire i suoi ragionamenti; 
                  e il suo pensiero luminoso mi colpiva allora per l'originalità 
                  e l'arditezza delle deduzioni. Ma quando vedevo con quale facilità 
                  egli entrava in comunicazione intellettuale con degli illetterati, 
                  appartenenti ad un'altra classe, ad un'altra razza, il mio stupore 
                  diveniva ancor maggiore. [...] Tra i lavoratori e Bakunin, non 
                  c'era che semplice amicizia e questo senza la minima forzatura. 
                  Egli poteva gridare facendo un rimprovero a Filippo o ad Andrea 
                  come se essi fossero dei monelli; poteva tenerli sotto l'incantesimo 
                  delle sue idee; e poteva anche parlare a lungo con loro delle 
                  loro piccole faccende, raccontargli o farsi raccontare i pettegolezzi 
                  del partito o della città, scherzare con loro e ridere 
                  dei loro scherzi. 
                
                   
                     | 
                   
                   
                    |   Michail Bakunin (1814-1876)  | 
                   
                 
                Alle porte di Lugano 
                Alla giovane studentessa russa Aleksandra Weber dobbiamo questo 
                  acuto ritratto degli ultimi mesi di vita di Bakunin. Allieva 
                  di Ippolito Pederzoli, un vecchio mazziniano espulso dall'Italia 
                  che sopravviveva dando lezioni private di lingua a Lugano, fu 
                  introdotta da quest'ultimo nella cerchia che lo frequentava: 
                  sempre meno intellettuali e cospiratori a tempo pieno e sempre 
                  più semplici lavoratori, come i nominati Santandrea ciabattino 
                  e Mazzotti operaio profugo dei moti bolognesi. Aleksandra fu 
                  particolarmente benaccetta, come sempre i russi a casa sua, 
                  divenne una confidente fissa del connazionale sessantunenne, 
                  che con lei parlava della sua infanzia, delle sue sorelle morte 
                  e si faceva raccontare storie della campagna russa, finché 
                  non si addormentava con la sigaretta a penzoloni fra le labbra. 
                   
                  Questi incontri avvenivano alla Villa Besso, una bella costruzione 
                  con giardino alle porte di Lugano che con i maneggi di prestiti, 
                  ipoteche, fideiussioni varie e con quello che considerava un 
                  acconto di un'eredità che non gli arrivò mai per 
                  intero (anche se continuò a sperarci fino all'ultimo 
                  giorno) Michail riuscì a comprare a credito. Lì 
                  si circondò di una cerchia di nuovi amici con i quali 
                  parlava ancora di rivoluzioni, benché il tono si fosse 
                  fatto più nostalgico e disilluso: 
                  Tutto cospira contro di noi, anche il clima è lungi dall'esserci 
                  propizio. Ma in fondo “à la guerre comme à 
                  la guerre” facciamo buon viso a cattivo gioco. Sono malato 
                  e tutti i miei mali coalizzandosi, mi assalgono come l'inverno 
                  e i dispiaceri. Triste tempo fisicamente e moralmente. La Reazione, 
                  audace e cinica, vince per ogni dove, distruggendo e schiacciando 
                  le nostre speranze migliori. I vecchi come me e tuo padre non 
                  vedranno l'aurora della resurrezione. I giovani come te non 
                  soltanto la vedranno, ma prenderanno parte attiva a questo rinascimento 
                  del Vero, del Giusto e del Bello. Intanto per consolarci, perché 
                  la vita sia più sopportabile, amiamoci. È ancora 
                  la cosa più positiva e più seria che ci sia al 
                  mondo. Tutto il resto è fumo. 
                  Scrive al figlio dell'amico Bellerio, e poi ripete anche a Élisée 
                  Reclus: 
                  Si, hai ragione, la rivoluzione per il momento è rientrata 
                  nel suo letto, ricadiamo nel periodo delle “evoluzioni”, 
                  ossia in quello delle rivoluzioni sotterranee, invisibili e 
                  spesso addirittura insensibili. [...] Una delle passioni che 
                  mi dominano attualmente, è un'immensa curiosità. 
                  Una volta che ho dovuto riconoscere che il male ha trionfato 
                  e che io non sono riuscito ad impedirlo, mi sono messo a studiarne 
                  l'evoluzione e gli sviluppi con una passione quasi scientifica. 
                  [...] Povera umanità. È evidente che non potrà 
                  uscire da questa cloaca che con una immensa rivoluzione sociale. 
                  Ma come la farà, questa rivoluzione? Giammai la reazione 
                  internazionale europea è stata così formidabilmente 
                  armata contro ogni movimento popolare. Essa ha fatto della repressione 
                  una nuova scienza che viene matematicamente insegnata nelle 
                  scuole militari ai tenenti di tutti i paesi. E per attaccare 
                  questa fortezza inespugnabile che cosa abbiamo? Le masse disorganizzate. 
                  Ma come organizzarle, se non sono appassionate neppure a sufficienza 
                  per la propria salvezza, se non sanno che cosa devono volere 
                  e se non vogliono ciò che solo può salvarle! Rimane 
                  la propaganda, così come la fanno i giurassiani e i belgi. 
                  È certo qualcosa, ma pochissimo: gocce d'acqua nell'oceano 
                  e, se non esistesse altro mezzo di salvezza, l'umanità 
                  avrebbe il tempo di marcire dici volte prima di essere salvata. 
                  Rimane un'altra possibilità: la guerra universale. Questi 
                  immensi Stati militari dovranno ben distruggersi e divorarsi 
                  tra di loro, presto o tardi. Ma che prospettiva! 
				Bakunin “il possidente” 
                Se il corpo era allo sfascio la testa di Bakunin continuava 
                  a ragionare fino e a vedere bene avanti, il tempo lo divideva 
                  fra le care vecchie speculazioni filosofiche (in particolar 
                  modo Schopenauer) e libri di chimica e agronomia. Non contento 
                  dei disastri fatti alla Baronata s'intestardiva a far fruttare 
                  il giardino della Villa: «Su questo terreno coltiverò 
                  legumi, frutta e fiori. I legumi e la frutta li manderò 
                  al mercato di Lugano, dove si venderanno come il pane, perché 
                  tutto ciò viene coltivato malissimo qui. Quanto ai fiori, 
                  la signora Jenny che ha gusto parigino insegnerà ad Antonia 
                  a farne dei bouquet». 
                  Come ci racconta il suo amico Arthur Arnauld profugo comunardo: 
                  Si mise a studiare chimica, sotto la guida di un professore 
                  del collegio. Quanto alle sementi di ogni tipo, ne fece arrivare 
                  di che seminare l'intero Cantone e si lamentava sempre di non 
                  averne abbastanza... Il terreno, vasto e bello, era ben piantato 
                  a gelsi [...]: Bakunin cominciò col farli tagliare. [...] 
                  Per un inverno intero si riscaldò coi suoi gelsi. [...] 
                  Quindi si piantarono degli alberi da frutto, in quantità 
                  tale e così vicini gli uni agli altri, che non sarebbero 
                  mai spuntati [...] “Non bisogna sciupare un'unghia di 
                  terreno”, ripeteva Bakunin. Tra gli alberi da frutto, 
                  si seminarono tutti i semi di legumi conosciuti e sconosciuti. 
                  Il tutto venne abbondantemente cosparso col famoso concime perfezionato 
                  e, siccome Bakunin vedeva e faceva grandiosamente, non si risparmiava 
                  né il concime né le piante da frutto e le sementi. 
                  Risultato: tutto andò bruciato. 
                  Ovviamente la villa che è gravata da ipoteche e debiti 
                  insostenibili, sarà perduta già prima della morte 
                  del nostro, ma è a lei che deve l'ultimo scherzo che 
                  gli gioca il destino: quando l'amico di una vita Adolf Vogt 
                  dovrà formalizzarne il decesso presso la polizia, al 
                  momento di dichiarare il mestiere del caro estinto si troverà 
                  in un comprensibile imbarazzo: «Vediamo un po'... “rivoluzionario” 
                  forse non è considerato un mestiere... il professore 
                  non l'ha mai fatto pur avendo studiato ai più alti livelli... 
                  per essere scrittore ha scritto un sacco di roba, ma tutti opuscoli 
                  clandestini» e così, per trarsi d'impiccio, dirà 
                  «era russo ma possedeva una villa qui nel Canton Ticino» 
                  e gli ufficiali tutti contenti scriveranno che era morto «Bakunin 
                  il possidente», l'uomo che per tutta la vita si era battuto 
                  contro la proprietà e si era dibattuto nella miseria, 
                  così veniva consegnato ai registri civili. [...] 
                   
                  Bakunin a Lugano si alzava alle otto, si trascinava in qualche 
                  caffé dove riceveva i vecchi amici, le giovani conoscenze, 
                  parlava di rivoluzione, di filosofia, quando cumulava un conto 
                  troppo salato cambiava caffé, se aveva qualche spicciolo 
                  in tasca comprava dolci da distribuire ai monelli per strada 
                  e ai bambini a casa, giocava con i figli. Passava il pomeriggio 
                  e la notte studiando e scrivendo, dormiva pochissimo buttato 
                  su un tavolaccio, il più delle volte vestito. 
                  Sperava sempre nell'eredità dalla Russia, ma quando nel 
                  maggio del 1876 arrivò l'ultima tranches si accorse che 
                  non era nemmeno un decimo di ciò che s'aspettava. I debiti 
                  lo sommergevano ancora e, con nemmeno due mesi di vita davanti 
                  a sé, il vecchio viandante si preparava a sloggiare ancora 
                  una volta, ma prima si volle recare ancora dal suo amico medico 
                  a Berna pronto a vuotare il calice dell'umiliazione fino alla 
                  feccia. 
                  Credevo di avere la febbre, ma è quel catarro alla vescica 
                  tenace e accompagnato dalle emorroidi intestinali. Soffro parecchio, 
                  devo pisciare continuamente tutta la notte più di venti 
                  volte. Tutto ciò mi spossa, mi affatica il cervello, 
                  paralizza i miei movimenti e mi precipita in un torpore sgradevole. 
                  Non ti dico quanto mi sento ridicolo, sempre a pisciare! e in 
                  più la “cerimonia” dura moltissimo ed è 
                  molto dolorosa. Immagina la mia mole appoggiata al muro, con 
                  un rivolo d'acqua che ne scende lentissimo... 
                  Probabilmente aveva un cancro alla prostata. 
                
                Fischiando l'inno alla gioia 
                Arrivò a Berna il 14 giugno in uno stato pietoso, con 
                  gli arti gonfi e ormai incapace di trattenere le urine «bisogna 
                  metterti in uno stato più ordinato» disse il dottor 
                  Vogt alla maniera fintamente rassicurante che hanno i medici 
                  «sono sempre vissuto in modo disordinato, vorrà 
                  dire che la mia morte porterà ordine!» rispose 
                  Bakunin che non si faceva mai mancare l'occasione di fare una 
                  battuta. Vogt sondò la sua vescica e gli applicò 
                  un doloroso apparecchio meccanico che lo costringeva a stare 
                  seduto tutta la notte, dormiva poche ore con la testa appoggiata 
                  a un tavolaccio («essendo un uomo retto, devo stare ad 
                  angolo retto»), ma si fece portare un libro di Schopenauer 
                  e riprese i suoi studi. 
                  Bisogna rifondare una metafisica che parta dall'uomo come essere 
                  appartenente a una comunità e non come individuo isolato, 
                  altrimenti si va a finire in una felicità campata in 
                  aria o in un pessimismo senza scampo... altro che le mie memorie 
                  che tanto non servono a nessuno - sono tutti troppo soddisfatti 
                  o troppo impauriti per fare una rivoluzione - se mi riprendo 
                  devo scrivere un'Etica basata sui principi del collettivismo. 
                  Martedì 27 giugno cominciò a rifiutare il cibo, 
                  ma ancora chiedeva di suonare al pianoforte Beethoven e ridacchiava 
                  dell'indegnità umana di Wagner ricordando i tempi dell'insurrezione 
                  di Dresda nel 1849. 
                  Mercoledì 28 cominciò a dire «mi sento stupido» 
                  una sorta di torpore si era impadronito di lui, non pisciava 
                  più. 
                  Giovedì 29. 
                  Venerdì 30. 
                  Sabato primo luglio 1876. 
                  E così, magari fischiando l'Inno alla gioia che era il 
                  suo brano preferito, si sarà abbandonato alla dolcezza 
                  del riposo o sarà partito arrabbiato e battagliero o 
                  ancora avrà scrutato curioso, immergendosi e abbracciando 
                  il nulla a cui tutti siamo destinati. 
                  Sono 139 anni che il percorso di Michail Aleksandrovi Bakunin 
                  si è chiuso per sempre, 201 anni da quando era nato in 
                  una lontana provincia russa, eppure gli occhi trasparenti del 
                  diavolo paiono ancora ancora brigare - inserrabilmente - per 
                  la felicità umana. 
                  Solo che ora sta a noi. 
                 Alessio Lega 
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