   
  
                  Quiete e rancore  
                 1.  
                  Tempo fa – molto tempo fa – mi si presentò 
                  un amico che era nei guai. Ci conoscevamo da oltre trent'anni, 
                  avevamo assunto punti di vista analoghi e collaborato in più 
                  di una circostanza. Da poco, poi, era rimasto vedovo e aveva 
                  perso il posto di lavoro – un posto che implicava il fatto 
                  che parlasse in pubblico. Aveva bisogno di un prestito per farsi 
                  mettere a posto i denti. Da un po', infatti, parlando, aveva 
                  preso l'abitudine di portarsi la mano davanti alla bocca – 
                  per pudore, e per vanità – si potrebbe anche dire 
                  nei pochi panni di un san Girolamo -, conscio dello stato disastroso 
                  della sua bocca e dell'effetto che poteva fare con le persone. 
                  Mi chiedeva una cifra non trascurabile – i dentisti, si 
                  sa, costano. Per me fu un sacrificio, ma, pensando a quanto 
                  si potesse sentire a disagio, tirai fuori i soldi e glieli diedi. 
                  Me li avrebbe restituiti con comodo, non appena avrebbe potuto. 
                  Per gli amici, come si suol dire, questo e altro. 
                  Non lo vidi più. Dopo un mesetto all'incirca, mi giunse 
                  una sua cartolina da Parigi: “un caro saluto”, firmato 
                  anche da un nome femminile che, se a me non diceva nulla, immaginai 
                  che a lui qualcosa dicesse. Poi, silenzio. I mesi passarono. 
                  Dopo un anno, un anno e mezzo, mi telefona un'amica comune e 
                  mi racconta di averlo incontrato. L'ha trovato in ottima forma, 
                  soddisfatto e sorridente, più sicuro di sé e, 
                  apparentemente, privo di problemi economici. Il discorso – 
                  il loro discorso – ha finito con il cadere su di me e, 
                  sulle prime, lui non ha esitato ad esprimere tutta la sua stima 
                  nei miei confronti e nel rivangare vecchi episodi della nostra 
                  esistenza, ma, prima di lasciarla – me lo dice con un 
                  po' di reticente e preoccupata discrezione la mia amica –, 
                  non ha potuto fare a meno di buttar lì che, peccato, 
                  io abbia proprio un cattivo carattere – ecco perché 
                  non mi vede da tempo. 
                   
                  2. 
                  Il caso della sindrome rancorosa del beneficiato nei confronti 
                  del beneficiante è uno dei tanti presi in esame da Laura 
                  Tappatà in un libro ottimisticamente dedicato a Il 
                  dono del rancore. Sostenuta da considerazioni di ordine 
                  psicologico e antropologico, la sua tesi è piuttosto 
                  semplice: il rancore è una passione, la passione è 
                  vita, nella vita ci sono gioie e dolori, il dolore produce conoscenza 
                  – su noi stessi e sul vivere –, il dolore può 
                  trasformarsi in rabbia e, a sua volta, la rabbia può 
                  trasformarsi in saggezza emotiva e in energia costruttiva. Anche 
                  dal rancore, insomma, può scaturire creatività. 
                  A condizione di ricordarsi che questa creatività può 
                  esprimersi anche punitivamente nei confronti del proprio oggetto, 
                  la tesi può essere presa in considerazione. 
                   
                  3. 
                  Come categoria storica il rancore è un costrutto già 
                  rinvenibile nei cosiddetti Padri della Chiesa. Tipo Sant'Agostino, 
                  quarto secolo. Il tema della parola è lo stesso del “rancido” 
                  che, a suo tempo, designava il disgusto. Con l'uso, la designazione 
                  è risultata una sorta di miscela fra odio e risentimento, 
                  anche uno sdegno ma tenuto nascosto: un rancore perlopiù 
                  si “cova” e, a volte, si manifesta. Il suffisso 
                  –ore è lo stesso di controllore, professore, manovratore 
                  e lavoratore – designa lo svolgimento di una funzione. 
                  In certi casi, però, la funzione non è svolta 
                  tale e quale, può anche essere svolta alla meno peggio, 
                  o “quasi” svolta, o svolta in modo analogo. È 
                  così che possiamo costruirci il rossore, il candore o 
                  il raffreddore – ovvero situazioni in cui qualcuno diventa 
                  “quasi” rosso, “quasi” bianco o “quasi” 
                  freddo. E il rancore potrebbe anche essere definito come una 
                  “quasi” rabbia, un fuoco ancora vivo sotto la cenere 
                  dei sentimenti espressi. Qualcosa che, comunque, ha una durata. 
                   
                  4. 
                  Quanto tempo può durare un rancore? Ovviamente, dipende. 
                  Dipende dal tipo di persona, dipende dall'entità dell'offesa, 
                  dipende dal fatto che l'offesa sia stata pubblica o sia rimasta 
                  privata, dipende dalla percezione che se ne ha – in definitiva, 
                  dipende dal processo di valorizzazione cui è sottoposta 
                  l'offesa da chi la riceve: qualcuno può considerarla 
                  una bazzecola, qualcun altro – la stessa offesa – 
                  se la lega al dito. E anche da quanto questo processo sia consapevolmente 
                  vissuto come tale e non trasformato, invece, in una passiva 
                  constatazione di qualcosa che trascende il rancoroso stesso. 
                  Penso spesso a casi storici che hanno coinvolto e che coinvolgono 
                  tuttora popolazioni intere. L'Argentina del dopo-Videla, dove 
                  convivono – devono convivere – fianco a fianco torturatori 
                  e torturati, carnefici e vittime. O l'Italia degli anni trenta, 
                  dove – ancora prima che venissero promulgate le leggi 
                  razziali – fra i cattolici c'era chi definiva gli ebrei 
                  come “popolo deicida”, sulla base di un'interpretazione 
                  che risaliva a quasi duemila anni prima. 
                  Se guardo alla cronaca sportiva, poi, mi tocca registrare la 
                  persistenza di patti di amicizia o di dichiarazione di inimicizia 
                  tra tifoserie. Il caso di Verona e di Napoli, per esempio: un'offesa 
                  “iniziale”, mi dico, ci sarà pur stata, ma 
                  la maggior parte di coloro che, da una parte e dall'altra, la 
                  “vivono” tuttora, che ne sa? Prosegue imperterrita 
                  in una sorta di tradizione familiare? 
                   
                  5. 
                  Più volte mi è capitato di riflettere sul caso 
                  osservato nei primi anni del Novecento e raccontato da Gregory 
                  Bateson nei panni dell'antropologo. Le isole Andamane sono state 
                  spesso teatro di feroci guerre tra due popolazioni che, tuttavia, 
                  ogni tanto trovavano il modo di smetterla e di provare a convivere 
                  in pace. Questo armistizio era sancito in una soluzione liturgica 
                  particolare: una festa in comune, danze, cibo e giochi. Capitava 
                  anche che nei giochi – competitivi, ahimé – 
                  spesso si esagerasse, ovvero si superasse il confine di quello 
                  che veniva percepito come semplicemente giocoso e non aggressivo, 
                  e che ciò costituisse la nuova scintilla di una nuova 
                  guerra, ma questa tragica iattura, qui, posso trascurarla. Qui, 
                  mi interessa la liturgia, ovvero quel rituale di amnesia sociale 
                  in virtù del quale un'offesa può essere cancellata. 
                  La confessione del cattolico è un esempio di lavaggio 
                  della coscienza individuale. Pur nei loro limiti, alcuni processi 
                  storici – si pensi a Norimberga all'indomani della Seconda 
                  Guerra Mondiale – hanno servito da “pacificazione”: 
                  i colpevoli sono stati condannati (non stiamo a guardare troppo 
                  per il sottile sulla correttezza del rapporto tra colpa e pena 
                  e neppure stiamo a riflettere troppo sulla sensatezza della 
                  pena, di tutte le pene) e chi è rimasto è invitato 
                  a “dimenticare” o a vivere “come se” 
                  e ricominciare da capo. Mi son detto spesso che certe mostruosità 
                  politiche del nostro dopoguerra – sto parlando dell'Italia 
                  –, presumibilmente, non avrebbero potuto svilupparsi se 
                  i conti con il fascismo fossero stati fatti seriamente, invece 
                  di truccare ancora una volta le carte in tavola, creando ad 
                  arte un mito della Resistenza di un popolo unito, nascondendo 
                  sotto il tappeto una guerra civile e trasbordando uomini e istituzioni, 
                  pari pari, da una fase all'altra. 
                  Le durate, insomma, sono relative. Ricominciare da capo si può 
                  a patto che tutti i colpevoli abbiano saputo rendersi conto 
                  della propria colpa – un'autocritica dell'individuo e 
                  della società che l'ha espresso – e a patto che 
                  sia stata organizzata una liturgia che ratifichi l'evento. Nel 
                  microcosmo dei rapporti di coppia è un po' come quando 
                  uno dei due – il colpevole o la vittima – invita 
                  l'altro a cena. 
                   
                  6. 
                  Non è vero che l'amico cui avevo fatto un prestito non 
                  si è più fatto vivo. Anni dopo è riapparso. 
                  Giulivo e affettuoso come sempre, con una dentatura apparentemente 
                  perfetta – dimentico del mio cattivo carattere e dei soldi 
                  che gli avevo dato. Durante il nostro incontro, ovviamente, 
                  ho atteso che lui ponesse l'argomento, ma ho atteso invano – 
                  e io, da persona discreta qual sono, mi sono ben guardato dal 
                  fargli il benché minimo cenno. Dato che abbiamo vari 
                  interessi in comune, va da sé che a quell'incontro ne 
                  abbiano seguito altri. Fino ad un certo giorno. 
                  Fino al giorno in cui mi ha chiesto un prestito. Dimostrandomi 
                  che la capacità di amnesia dell'individuo è incredibile, 
                  una facoltà davvero preziosa per la sopravvivenza. 
                 Felice Accame 
                Nota 
                  La cifra, questa volta, era più modesta, più commisurata 
                  al mio stato di relativo benessere attuale. Anche l'inconscio 
                  – se di inconscio si tratta – sa fare i suoi calcoli. 
                  Glieli ho dati anche questa volta. Se non altro per non vederlo 
                  più. Anche se devo ammettere che, essendo io di cattivo 
                  carattere, un po' di rancore nei suoi confronti ce l'ho. 
                  Il libro di Laura Tappatà è pubblicato da Sefer, 
                  Milano 2015.
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