Manifesti di pace 
                  per chiudere con la guerra 
                 I 
                  manifesti pacifisti occupano un posto speciale tra i molti strumenti 
                  usati per la promozione di una cultura di pace e per la protesta 
                  contro i vari aspetti di una subcultura di guerra e di violenza. 
                  I manifesti spesso attribuiscono un volto memorabile alle questioni 
                  sociali e politiche e possono esprimere l'essenza di un messaggio 
                  tramite immagini forti. La gamma di metodi e movimenti che operano 
                  in modalità nonviolenta per la pace e la giustizia sociale 
                  e solidale sono evidenziati nella qualità artistica e 
                  creativa e nelle informazioni, mirate ad esprimere il concetto 
                  specifico, contenuto nei manifesti. Questo libro (Manifesti 
                  raccontano... Le molte vie per chiudere con la guerra, a 
                  cura di Vittorio Pallotti e Francesco Pugliese, Grafiche Futura, 
                  Trento, 2014, pp. 200, € 20,00) riporta una piccola selezione 
                  di manifesti che evidenzia alcuni dei temi e delle idee centrali 
                  delle azioni e delle iniziative di pace in Italia e nel mondo. 
                  Questa raccolta di manifesti per la pace è una piccola 
                  porzione del vasto e variegato arcipelago nonviolento e pacifista 
                  ed è solo una minima parte di tutti i manifesti che sono 
                  stati stampati. Il libro si propone anche di fornire ispirazione 
                  a coloro che, attualmente, nel nostro presente, e in rapporto 
                  alle prossime generazioni, si impegnano sulla vasta gamma di 
                  metodi, esperienze e iniziative possibili per creare un mondo 
                  di pace e attualizzare un'utopia concreta di giustizia sociale 
                  e solidale, di gestione nonviolenta e pacifica di conflitti 
                  e contrasti, spaziando tra vasti temi e argomenti di sempre 
                  più schiacciante attualità. Il libro tratta di 
                  disarmo nucleare, dagli anni '50 ad oggi, tramite le marce per 
                  la pace e l'obiezione di coscienza, fino a giungere ad una vasta 
                  panoramica e considerazione dei diritti umani, delle difese 
                  alternative, del divario tra nord e sud del mondo, spaziando 
                  da schede descrittive sull'ONU e le costituzioni per la pace 
                  ad argomenti relativi all'ecologia e all'ambientalismo ecopacifista. 
                  Educare alla pace - anche tramite i manifesti che raccontano 
                  - significa trasmettere concetti di mondialità, di giustizia, 
                  di solidarietà, nel rispetto per l'altro, nell'educazione 
                  alla cooperazione e all'interdipendenza tra popoli, genti e 
                  minoranze, alla democrazia, alla responsabilità di tutti 
                  per tutti, alla risoluzione dialettica e nonviolenta di contrasti 
                  e conflitti. 
                  A questo proposito, gli autori citano nella bibliografia testi 
                  recenti e innovativi, tra cui “Il pensiero delle differenze. 
                  Dall'intercultura all'educazione alla pace” e “Il 
                  dialogo per la pace. Pedagogia della Resistenza contro ogni 
                  razzismo” (Mimesis, 2015), maturati in ambiti intellettuali 
                  orientati alla nonviolenza, alla risoluzione dei conflitti e 
                  all'antifascismo, ossia al superamento di qualsiasi forma dittatoriale 
                  e autoritaria della società. Grande rilievo meritano 
                  i capitoli riguardanti l'educazione alla pace e relativi all'ecologia 
                  e all'ambientalismo ecopacifista, in quanto “lottare contro 
                  la guerra significa lottare per l'ambiente”. Infatti ormai 
                  si parla di biocidio e geocidio, perché è in atto 
                  una devastante guerra contro la natura e la terra. Per questi 
                  motivi è sempre più urgente pensare a nuovi modelli 
                  di sviluppo e stili di vita sobri e alternativi, con uno sforzo 
                  della ragione, un innovativo pensiero capace di interrogarsi 
                  sulla ricerca e lo studio delle potenzialità implicite 
                  e delle alternative possibili, perché progresso è 
                  tutto ciò che va in direzione della pace e della libertà 
                  ed è compatibile con la solidarietà, l'equilibrio 
                  ecologico e l'armonia universale. La riconversione ecologica 
                  dell'economia è una necessità vitale per il pensiero 
                  ambientalista e pacifista, per una sobrietà creativa, 
                  perché dove è degradata la natura subentra anche 
                  il degrado dell'umanità, con l'ingiustizia, la violenza, 
                  la guerra, la morte. Il libro offre una ricca e dettagliata 
                  panoramica sui molti aspetti della pace e dei movimenti pacifisti, 
                  tramite saggi istruttivi e un'ampia bibliografia contenente 
                  libri e articoli in italiano e in inglese. Molti di questi testi 
                  sono stati scritti da Francesco Pugliese - autore del notevole 
                  volume riccamente illustrato dal titolo “Abbasso la guerra. 
                  Persone e movimenti per la pace dall'800 ad oggi” - e 
                  il materiale riguardante i manifesti è stato in gran 
                  parte prodotto da Vittorio Pallotti, realizzando così 
                  un felice risultato, il libro, nato dalla stretta collaborazione 
                  tra due esperti in ambiti intimamente correlati. Nella prefazione 
                  al libro, Peter Van Den Dungen, coordinatore generale della 
                  rete internazionale dei musei per la pace e Joyce Apsel, Università 
                  di New York, sottolineano che il 2014 è l'anno della 
                  commemorazione del centesimo anniversario di una delle più 
                  devastanti guerre di tutti i tempi e che ha avuto un profondo 
                  effetto nella storia umana e ha prodotto un'altra guerra catastrofica 
                  e, successivamente, la guerra fredda, con la minaccia delle 
                  armi di distruzione di massa e dell'apocalisse nucleare. La 
                  chiave per un crescente movimento pacifista per il disarmo, 
                  ampiamente illustrato dai manifesti per la pace, consiste nell'educare 
                  la società e le persone a trasformare in senso positivo 
                  le loro vite. Questo altro obiettivo deve realizzarsi tramite 
                  la cessazione della produzione della vendita di armi e la trasformazione 
                  della società verso la creazione di risorse che arricchiscano 
                  l'esistenza mediante l'educazione, i programmi sociali, la creatività, 
                  i nuovi modelli di sviluppo ecosostenibile, improntati sulla 
                  riconversione ecologica e sull'utilizzo delle energie rinnovabili 
                  e delle risorse che l'ambiente offre naturalmente all'umanità, 
                  per chiudere definitivamente con il nucleare civile e militare, 
                  per affermare, con la forza della verità, la nostra obiezione 
                  e il dissenso alle guerre imperialiste, fomentate e manovrate 
                  dalle multinazionali, dalle superpotenze economiche e politiche, 
                  dai mercati dell'alta finanza e dai signori dell'atomo. 
                 Laura Tussi 
                     Municipalismo libertario e autogoverno/ 
                  Le proposte di Bookchin 
                 Pubblichiamo 
                  stralci della prefazione di Salvo Vaccaro al libro di Murray 
                  Bookchin Democrazia diretta (Elèuthera, 
                  2015, pp. 104, € 12,00). 
                   
                  Murray Bookchin (1921-2006) è stato uno dei pensatori 
                  radicali più influenti del XX secolo. Le sue idee, maturate 
                  nel corso di decenni in cui ha saputo intrecciare in maniera 
                  feconda attività politica militante e riflessione teorica, 
                  sono oggi diventate pratiche quotidiane diffuse in vari ambienti 
                  del pianeta, anche laddove nessuno ha mai letto un rigo dei 
                  suoi libri. 
                  La sua attività politica e sindacale nell'immediato secondo 
                  dopoguerra ha consentito a Bookchin di comprendere dinamiche 
                  collettive cruciali per ogni progettualità politica, 
                  dandogli rifugio dalle astrattezze concettuali e dalle inconcludenze 
                  tentennanti tipiche di ogni intellettuale che voglia restare 
                  «puro» rispetto alle contaminazioni della politica 
                  quotidiana. In essa, Bookchin ha saputo progressivamente distanziarsi 
                  dalla sua origine marxista e trockista per avvicinarsi sempre 
                  più alla visione libertaria e anarchica sia del rapporto 
                  con il mondo, sia delle forme organizzative con cui attivare 
                  processi di trasformazione sociale, ancor prima che politica. 
                  In parallelo, la sua formazione da autodidatta gli ha permesso 
                  di costruirsi una solida cultura filosofica, politica, sociologica, 
                  storica, antropologica, al passo con il consolidato teorico 
                  della seconda metà del secolo scorso. Il suo ancoraggio 
                  nella cultura dialettica hegelo-marxiana lo ha avvicinato ai 
                  teorici di quella che fu denominata Scuola di Francoforte, ponendosi 
                  come uno dei suoi epigoni più interessanti quanto più 
                  eccentrica fu la sua collocazione tanto verso i Francofortesi, 
                  quanto verso il marxismo politico di matrice teorica. 
                  I suoi lavori, ormai tradotti in tante lingue, spaziano dalla 
                  ricerca storica a quella antropologica, dalla ricostruzione 
                  delle forme sociali di urbanizzazione (dalla polis alla metropoli 
                  passando per i comuni medievali) ai temi più prettamente 
                  politici di segno anarchico, sino alla recente raccolta di alcuni 
                  suoi testi dall'emblematico titolo The Next Revolution, 
                  curata dalla figlia Debbie insieme a Blair Taylor. L'opera sua 
                  più celebre è The Ecology of Freedom, in 
                  cui mette a frutto la sua intensa partecipazione ai movimenti 
                  ambientali, inaugurando tuttavia una torsione teorico-politica 
                  non indifferente, poiché Bookchin disloca il nesso tra 
                  uomo e natura, che rappresenta il focus di ogni critica ecologica 
                  al manifesto moderno stilato da Bacone, alla radice del rapporto 
                  di dominio che pervade il rapporto dell'uomo con l'altro uomo, 
                  con decenni di anticipo rispetto alle visioni divulgative di 
                  Vandana Shiva o di Naomi Klein. La disponibilità, assoluta 
                  o conflittuale, con cui l'umanità tratta la natura si 
                  iscrive all'interno di una cornice più ampia in cui l'umano 
                  dispone dell'altro umano in senso prettamente politico, dando 
                  luogo a una specifica forma di vita che noi definiamo società. 
                  Ecco perché, secondo Bookchin, ogni tesi ecologista che 
                  reinterpreti e reinventi un rapporto tra uomo e natura, tanto 
                  nella concettualità quanto nella pratica, è profondamente 
                  sociale perché socialmente costruita. E tale costruzione 
                  sociale delinea il campo della politica non come arte del governare 
                  assegnata alle varie istituzioni che si sono succedute nel corso 
                  dei secoli, bensì come modalità di organizzazione 
                  sociale volontariamente progettata e costruita nel concorso 
                  conflittuale di soggetti consapevoli e rischiarati nel dialogo 
                  permanente di ragioni, argomentazioni e obiezioni critiche. 
                  Il lavoro che viene qui riproposto – al di là di 
                  qualche sporadico passaggio logorato dall'usura del tempo in 
                  frenetica accelerazione nel corso dei recenti, ultimi anni (ma 
                  basta sostituire i Grünen tedeschi, antesignani 
                  di tutti i vani tentativi di creare un partito-non-partito, 
                  con i greci di Syriza o con gli spagnoli di Podemos 
                  e la critica non muta di segno né fallisce il bersaglio, 
                  in relazione alla potenza corruttiva e vendicativa del potere 
                  politico una volta integrati nel sistema istituzionale, come 
                  peraltro ebbe ad affermare Bookchin nei suoi testi più 
                  tardi)1 – si concentra 
                  su una teoria politica dai forti risvolti pratici che segnano 
                  il lascito politico di Murray Bookchin. Sotto il titolo di Democrazia 
                  diretta, leggiamo alcuni dei testi centrali per focalizzare 
                  tanto la sua filosofia politica del Communalism, quanto 
                  la sua pratica sperimentale del municipalismo libertario ovverossia 
                  del confederalismo libertario. 
                  Con Communalism, Bookchin intende offrire una linea di 
                  fuga affermativa alle istanze rivoluzionarie e radicali che 
                  si agitavano lui vivente e si sono agitate dopo la sua scomparsa, 
                  praticando concretamente modalità di agire politico e 
                  sociale che Bookchin aveva sottolineato e anticipato nei suoi 
                  scritti, senza volerne fare un profeta suo malgrado. In effetti, 
                  pratiche adottate da movimenti quali Occupy Wall Street, 
                  gli Indignados, alcuni aspetti delle rivolte arabe, ecc. 
                  risentono pur senza citarle delle suggestioni offerte da Bookchin 
                  in una miriade di interventi e di articoli scritti per la stampa 
                  radicale, rivoluzionaria e anarchica nel corso della sua esistenza, 
                  tutti segnati da una mobilitazione dal basso verso l'alto, da 
                  una acquisizione di consapevolezza della propria forza (empowerment 
                  sociale e politico, non solo di gender), dal ridimensionamento 
                  pensato delle formazioni istituenti un corpo burocratico e leaderistico, 
                  dai processi decisionali partecipati, diretti (face-to-face) 
                  e orizzontali, dalla rotazione delle cariche rappresentative 
                  immediatamente controllabili e revocabili, dalla concatenazione 
                  di luoghi politici decentralizzati a sfere concentriche crescenti 
                  e interdipendenti che coprono territori più ampi e coinvolgono 
                  quantità di individui sempre più numerose (sebbene 
                  Bookchin, a differenza dell'anarchismo e delle pratiche dei 
                  movimenti recenti orientati ala condivisione per consenso, si 
                  pronunci a favore di un processo decisionale su base maggioritaria). 
                  Si tratta di ipotesi riscontrabili in ogni autore anarchico 
                  che si rispetti, talora adottate in tormentati frangenti storici 
                  (la Commune di Parigi), in momenti frammentari e a singhiozzo 
                  (la rivoluzione spagnola del 1936), che Bookchin sistematizza 
                  in una cornice generale che recepisce la dura lezione delle 
                  rivoluzioni statuali dell'era moderna, sia di quelle che hanno 
                  dato vita ai sistemi liberali rappresentativi, sia di quelle 
                  che hanno dato vita a sistemi totalitari quali il leninismo 
                  realizzato o il maoismo istituito. 
                  Il Communalism, quindi, si propone come una teoria politica 
                  che raccoglie l'eredità della spinta collettiva di una 
                  politica rivoluzionaria, adottando pratiche libertarie che prevengano 
                  e neutralizzino le derive fisiologiche connesse alla chiusura 
                  statuale, elitaria (non importa se di classe, di partito o quant'altro), 
                  in ultima analisi gerarchica e autoritaria. «Il Communalism 
                  rappresenta una critica della società gerarchica e capitalista 
                  nel suo insieme»2. Di questa 
                  lunga e nobile tradizione, bacata sin dalla fonte come preconizzato 
                  dal dissidio Marx-Bakunin nella I Internazionale e come testimoniato 
                  dalle critiche anarchiche in tempo reale al sovietismo leninista 
                  della rivoluzione russa, a Bookchin interessa principalmente 
                  la dimensione collettiva della trasformazione sociale e politica, 
                  giacché non può esistere alcuna proposta politica 
                  che non sia collettiva nel suo respiro e nel suo protagonismo. 
                  E con ciò Bookchin ci invita a distinguere sempre e comunque 
                  una dimensione della politica potenzialmente estranea, differente 
                  e conflittuale con una dimensione statuale, sempre in agguato 
                  per catturarla e appiattirla su di essa3. 
                  Oggi è tanto più importante sottolineare tale 
                  dimensione communalista, che racchiude in sé lo 
                  spirito del comune, dei beni comuni e del comunismo come filosofia 
                  di vita (e non come progetto politico reale), quanto più 
                  si va affermando - in inquietante parallelo con lo svuotamento 
                  della politica da parte di egemonie e poteri forti che hanno 
                  catturato la politica all'interno di logiche mercatiste declinate 
                  secondo l'attuale congiuntura di finanziarizzazione dell'economia 
                  politica dominante, quella capitalista - una ipotesi di fuoriuscita 
                  rivoluzionaria legata alla sommatoria caotica ma causale, organizzabile 
                  puntualmente ma informalmente, di prese di posizioni individuali, 
                  di moltitudini tanto più singolari quanto più 
                  invisibili dai circuiti di osservazione e controllo che si alimentano 
                  di reti mediatiche e digitali altrettanto invisibili e pervasive. 
                  Bookchin polemizza fortemente, magari eccessivamente, nel suo 
                  libro Social Anarchism or Lifestyle Anarchism: An Unbridgeable 
                  Chasm del 1995, con un anarchismo ridotto, a suo avviso, 
                  a stile di vita, a forma impolitica sempre pronta ad attaccare 
                  frontalmente lo stato e le sue istituzioni ma solamente di tanto 
                  in tanto, disdegnando un lungo e paziente lavorio sul terreno 
                  per favorire, invece, soluzioni multi-individuali di fuga dal 
                  reale ormai inesorabilmente catturato e illiberabile. [...] 
                  Beninteso, quando il Communalism bookchiniano insiste 
                  sui processi storici di mutamento delle forme di vita associate 
                  offre idee per il presente e non mere ricostruzioni accademiche, 
                  invitando ognuno a decostruire immaginari sedimentati in pratiche 
                  ordinarie di esistenza avvilente per ricostruire immaginari 
                  inediti da colmare in pratiche alternative di vita, di produzione, 
                  di associazione, di consumo, di affettività, e via continuando. 
                  Ma con la consapevolezza che tale duplice fatica acquista senso 
                  se diviene comune, ossia condivisa, partecipata, collettiva. 
                  In altri termini, la diffusività di una trasformazione 
                  sociale dal basso che ripudia la via istituzionale, utile solo 
                  al ricambio delle élites dominanti, non significa un 
                  autocompiacimento di una micro-politica interstiziale e resistente, 
                  quanto la destituzione (di senso nell'immaginario simbolico 
                  quotidiano ma anche di presa efficace sulle esistenze) e la 
                  contestuale espansione di ambiti di empowerment a livello 
                  societario, incluso la gestione quanto più possibile 
                  autonoma di territori di vita in comune, beninteso in una conflittualità 
                  altrettanto diffusa socialmente, immune dalle seduzioni della 
                  politique politicienne. 
                  Qui entra in gioco il côté sperimentale 
                  proposto da Bookchin con il municipalismo libertario, magari 
                  modellato sul modello americano e quindi un po' distante dalle 
                  usuali morse statuali contro le quali concepire una partecipazione 
                  radicale sui territori che arrivi persino a gestire non tanto 
                  pezzi di governo degli enti locali, ma comunque erodere potere 
                  politico, strappare amministrazione di beni comuni (oltre il 
                  pubblico e il privato, sloganisticamente parlando), condizionare 
                  dal basso le politiche dei partiti ufficiali, affiancare le 
                  istituzioni ufficiali con luoghi politici condivisi e partecipati 
                  che elaborano politica orizzontalmente e dal basso. «Immaginava 
                  che questo autogoverno diventasse sempre più forte mentre 
                  si solidificava in un «potere duale», che avrebbe 
                  sfidato e alla fine smantellato il potere dello Stato-nazione»4. 
                  Una progettualità politica a servizio di un immaginario 
                  sociale forgiato da una cittadinanza attiva che non coincide 
                  minimamente con la cittadinanza recintata nei limiti del cerchio 
                  rappresentativo, anzi contro-effettuata in senso radicale e 
                  debordante limiti e recinti imposti. 
                  Si tratta di una proposta che va oltre l'indubbio spirito di 
                  resistenza che alimenta oggigiorno la gran parte delle ipotesi 
                  politiche non-violente che cercano di coniugare politica e impegno 
                  civico, radicalità e singolarità esistenziale, 
                  poiché è ovvio che senza un profondo coinvolgimento 
                  interiore che modifica l'ethos di ciascuno non si va 
                  da nessuna parte, anzi generalmente si è trasportati 
                  in direzioni lontane dalla libertà e della liberazione. 
                  Ma di contro, senza una declinazione plurale di tale ethos singolare, 
                  resistere è meritorio ma insufficiente a trasformare 
                  la realtà in senso libertario, il che è concepibile 
                  solo in una dimensione collettiva gradualmente e faticosamente 
                  conseguibile, tenendo conto dei rapporti di forza e degli immaginari 
                  da scardinare e da rielaborare. Ovvio che la cornice entro cui 
                  inquadrare il communalism e la pratica sperimentale del 
                  municipalismo libertario o della democrazia radicale diretta 
                  o del confederalismo autogestionario o del potere politico parallelo 
                  (dual power)5 sia quella 
                  del conflitto con le gerarchie statuali da un lato, e dall'altro 
                  con il predominio delle norme capitaliste di mercato che sovradeterminano 
                  non solo le dinamiche economiche ma oggi, in piena era neoliberale, 
                  anche le pratiche di soggettivazione in campi esteriori all'economia 
                  di mercato. 
                  Indubbiamente, le esperienze di autogoverno territoriale di 
                  segno politico sono diversificate nel panorama mondiale, si 
                  va dal contropotere assembleare rispetto alle amministrazioni 
                  locali alla conquista elettorale degli enti locali mantenendo 
                  un controllo di base sugli eletti, alla sottrazione di territori 
                  alla cattura statuale, secondo il modello zapatista. Bookchin 
                  concepisce il municipalismo libertario come un primo tassello 
                  di riaffermazione della politica sull'economico, sulla tecnica 
                  dei numeri aridi che imporrebbero soluzioni irriflesse e autoveridiche, 
                  senza dare adito a pubblico dibattito, cui affiancare una serie 
                  di altri pilastri di autogoverno territoriale sul piano delle 
                  autogestioni di attività produttive e di consumo, nonché 
                  di altre istituzioni quali la sanità e l'istruzione. 
                  Ne sono esempi le cliniche autogestite degli zapatisti in Chiapas, 
                  le pratiche rurali di autoproduzione e consumo sostenibile per 
                  quanto concerne il ciclo alimentare, le energie rinnovabili 
                  e non invasive o l'uso delle acque potabili, sino alle miriadi 
                  di scuole/non-scuole libere ed extraistituzionali che si muovono 
                  sul terreno non solo pedagogico seguendo variegate linee di 
                  pensiero. [...] 
                
  Salvo Vaccaro
                 Note 
                 
                  - Murray Bookchin, The Next Revolution. Popular Assemblies 
                  and the Promise of Direct Democracy, a cura di Debbie Bookchin 
                  e Blair Taylor, Verso, London-New York, 2015, in particolare 
                  p. 38.
                  
 - Ibidem, p. 19.
                  
 - Ibidem, p. 47.
                  
 - Debbie Bookchin, Bookchin: l'eredità vivente di 
                    un rivoluzionario americano, intervista di Federico Venturini, 
                    2 marzo 2015, http://zcomm.org/bookchin-living-legacy-of-an-american-revolutionary. 
                  
 - Murray Bookchin, The Next Revolution, cit., pp. 78 
                  ss.
  
                     Gli zolfatari siciliani 
                  e il barbaro dominio del capitale 
                 Scriveva 
                  Vincenzo Consolo che “dallo zolfo, per lo zolfo, è 
                  nata e cresciuta in Sicilia una nuova categoria di lavoratori; 
                  nelle zone zolfifere, nei paesi delle miniere è nato 
                  e si è sviluppato un nuovo modo d'essere siciliano, una 
                  nuova umanità; dallo zolfo e per lo zolfo è nata 
                  una storia politica e sociale, una letteratura”. Da Verga 
                  a Giusti Sinopoli, da Alessio Di Giovanni a Sciascia, allo stesso 
                  Consolo, tanti sono stati i romanzieri che “dallo zolfo” 
                  della Sicilia si sono fatti ispirare; tanti, ancora oggi, sono 
                  i libri dedicati alla storia delle zolfare siciliane. Di recente 
                  ne è stato pubblicato uno, appassionante e interessante, 
                  di Angelo Barberi, dal titolo Chista vita ca si faciva barbara 
                  (Sicilia Punto L edizioni, Ragusa, 2015, pp. 180, € 10,00) 
                  che a quel mondo, e a quel tempo, di zolfatari e miniere, ritorna 
                  “direttamente”, attraverso le parole di chi, avendovi 
                  lavorato, racconta com'era fatto - di sudore e sangue, di miseria 
                  e sfruttamento - quel dannarsi a cavare zolfo da sottoterra. 
                  In più di una decina di ampie e dettagliate testimonianze, 
                  raccolte da Barberi, tra il 1987 e il 1988, dalla viva voce 
                  di minatori siciliani, viene fuori un quadro documentato e dettagliato 
                  delle condizioni di vita e di lavoro degli zolfatari delle provincie 
                  siciliane di Agrigento, Caltanissetta ed Enna, dov'erano le 
                  principali e più grandi miniere di zolfo dell'Isola. 
                  Nei ricordi degli zolfatari, le emozioni intense per i loro 
                  vissuti pesanti e drammatici, sono accompagnate sempre da un 
                  lucido ragionare e da un sereno e realistico raccontare che 
                  insiste minuziosamente sulle condizioni materiali del loro lavoro: 
                  cosicché le loro testimonianze sono ricche di informazioni 
                  e osservazioni sulle tecniche di estrazione, fusione e lavorazione 
                  dello zolfo e sull'organizzazione gerarchica del lavoro che 
                  vigeva in miniera e che andava da chi svolgeva le mansioni più 
                  semplici (il caruso e il vagoniere) e quindi anche 
                  meno pagate, a chi era addetto a più complesse attività 
                  (il capomastro e il picconiere), e quindi era 
                  più retribuito e, per di più, per la responsabilità 
                  che aveva in miniera, godeva di una maggiore considerazione 
                  sociale. 
                  E ancora, dalle testimonianze che il libro raccoglie, si può 
                  desumere la topografia dei siti minerari dell'entroterra siciliano 
                  (le cave di zolfo o, come venivano chiamate in dialetto, le 
                  pirrere: di Trabonella, Ciavolotta, Trabia, Tallarita, 
                  etc.); dei paesi dai quali i minatori partivano per lavorarvi: 
                  Villarosa, Favara, Riesi, Leonforte, Assoro, Sommatino e altri 
                  ancora; finanche delle strade sterrate e dei viottoli di campagne 
                  percorsi dai minatori a piedi, “stratone stratone, 
                  accorzatoi accorzatoi”, per raggiungere la loro miniera, 
                  distante dal loro paese decine e decine di chilometri. 
                  Ma soprattutto il libro è la denuncia della “vita 
                  che si faceva barbara” all'interno della miniera, dove 
                  il lavoro massacrante, senza regole e senza diritti, a cui erano 
                  sottoposti gli zolfatari li privava della loro dignità 
                  personale e di ogni tutela sulla loro salute e sulla loro stessa 
                  vita. 
                  I racconti degli zolfatari, infatti, con estremo disincanto, 
                  mettono tutti in luce la consapevolezza dei gravi rischi che 
                  si correvano scendendo in miniera, per le frane e per le esplosioni 
                  causate da gas come l'antimonio, che giornalmente condannavano 
                  qualcuno dei minatori a pesanti infermità e alla morte. 
                  Nel cinico disinteresse dei patroni, delle società, 
                  degli enti pubblici che hanno gestito la proprietà e 
                  la produzione dello zolfo in Sicilia, dai primi del novecento 
                  agli anni '80, s'è consumato un eccidio di cui le testimonianze 
                  degli zolfatari danno conto, così come epicamente, le 
                  stesse voci dei minatori narrano della loro reazione alla rassegnazione, 
                  alle ingiustizie, ai soprusi e allo sfruttamento: emergono dai 
                  ricordi dei minatori, le gesta delle occupazioni e delle lotte, 
                  i nomi dei primi agitatori, raccolti per lo più sotto 
                  le bandiere del partito comunista, gli appoggi importanti di 
                  qualche esponente politico, come l'onorevole Fausto Gullo: che 
                  propose e favorì diversi interventi legislativi in favore 
                  del miglioramento delle condizioni di lavoro dei minatori, ma 
                  sopratutto fu l'ideatore della legge di riforma agraria che 
                  anche se solo parzialmente, servì, negli anni cinquanta, 
                  ad espropriare o comunque a ridimensionare le grandi proprietà 
                  terriere siciliane (in buona parte ancora di stampo feudale) 
                  a favore di una razionale ed equa distribuzione della terra 
                  ai contadini. 
                  E parlano dei contadini, i minatori, e si lamentano del fatto 
                  che non solidarizzavano con loro, non sostenevano le loro agitazioni, 
                  perché consideravano chi lavorava in miniera un privilegiato; 
                  i contadini pensavano che il minatore, anche se veniva sottopagato, 
                  aveva pur sempre un salario “sicuro”, mentre i loro 
                  guadagni erano sempre incerti e precari, sia quando lavoravano 
                  per un proprietario terriero che quando avevano un campo proprio 
                  da coltivare. E in verità, ammettono i minatori intervistati, 
                  anche loro pensavano di svolgere un lavoro non solo più 
                  retribuito ma anche migliore nella qualità e nel prestigio 
                  rispetto a quello dei contadini. Sentivano, così, di 
                  far parte di un' aristocrazia dei poveri, in una guerra tra 
                  miseri a solo vantaggio dei potenti e dei ricchi. 
                  Un mondo di vinti, quello dei minatori, che non trovava conforto 
                  nella chiesa: terribilmente e ingiustamente, raccontano gli 
                  zolfatari, i preti rifiutarono per un lungo periodo di fare 
                  i funerali ai morti in miniera che nei pochi resti dei loro 
                  corpi smembrati dalle esplosioni o dalle frane di pareti e tetti 
                  delle gallerie, venivano portati direttamente al cimitero, o 
                  vietarono i funerali e gli altri sacramenti ai minatori che 
                  avevano abbracciato, per dare voce alle loro rivendicazioni, 
                  una fede socialista, comunista o anarchica. 
                  Raccogliendo le memorie dei lavoratori delle ormai scomparse 
                  miniere di zolfo (e riportandone le tante e caratteristiche 
                  espressioni dialettali che a quelle memorie hanno ridato forma), 
                  Barberi ha fatto un'operazione storico-documentaria di notevole 
                  valore, restituendo un pezzo fondamentale della storia complessiva 
                  del mondo del lavoro e delle classi subalterne in Sicilia; facendo 
                  riemergere, meritoriamente, il dimenticato (e inattuale) protagonismo 
                  di uomini che hanno combattuto, nella Sicilia più interna 
                  e più povera, affinché il loro lavoro e la loro 
                  umanità non si lasciasse piegare dal “barbaro” 
                  dominio del capitale e del privilegio. 
                
  Silvestro Livolsi 
                     Gli anni '60, 
                  il Perù e le lotte per la terra 
                 Eduardo 
                  Galeano ha detto che il mondo non è fatto di atomi, ma 
                  di storie. Perché sono le storie che convertono il passato 
                  in presente, ciò che è lontano in vicino e possibile. 
                  Una bella particina di mondo allora è contenuta nel libro 
                  Noi, gli indios. Le lotte per la terra in Perù 
                  (Nova Delphi Libri, Roma, 2015, pp. 240, € 14,00), del 
                  suo amico Hugo Blanco Galdós, che - raccontando le avventure 
                  della propria vita - avvicina il lettore alle lotte per la terra 
                  nel Perù degli anni '60, con la vittoria contadina e 
                  indigena sul sistema del latifondo, ma più in generale 
                  all'eterna e confusa lotta tra sfruttati e sfruttatori, e alla 
                  lotta attuale tra il neoliberismo e i figli della Pacha Mama. 
                  Con la stessa semplicità con cui un manager di una multinazionale 
                  vede nella selva amazzonica solo alberi da tagliare, Hugo Blanco 
                  con le sue storie va delineando come sottofondo un'analisi semplice 
                  e spietata della “nostra” società del consumo, 
                  come stadio aggiornato della società dei conquistadores 
                  spagnoli, a cui contrappone la ricchezza del millenario mondo 
                  indigeno, una ricchezza fatta di colori, di sentieri, di nomi, 
                  di sapori, di piante, di parole, di vita. 
                  La poesia con cui l'ex guerrillero conclude il libro 
                  è forse la pagina meno poetica di tutto il libro, perché 
                  la poesia vera è dappertutto e nella sua vita, è 
                  nel toccante carteggio con il poeta quechua José Marìa 
                  Arguedas, nelle lettere scritte alla vigilia di una possibile 
                  condanna a morte, nella resistenza orizzontale e dal basso contro 
                  le atrocità dei latifondisti, nell'alzarsi gridando in 
                  un aula di tribunale per condannare un'ingiustizia. È 
                  poesia anche il dolore di tante morti innocenti, di tante sofferenze 
                  dovute al carcere, alle discriminazioni, all'ingiustizia; sofferenze 
                  che reclamano umilmente ma in modo deciso un razionale avvento 
                  di un mondo giusto e dignitoso per tutti, un mondo “indio”, 
                  anche per chi come Hugo (blanco di nome e di fatto) indio 
                  non ci è nato. 
                  Infatti tra le tante cose che può insegnare questo libro, 
                  c'è che l'indio non è una razza sanguigna, ma 
                  una razza culturale, perché - come precisa Blanco - “l'indio 
                  è una cultura di cui fanno parte anche persone bionde 
                  e con gli occhi azzurri e di cui non fanno parte alcune persone 
                  che, per sangue, sono indios”. Per questo il libro 
                  di Hugo Blanco va oltre l'essere ciò che potrebbe esser 
                  definito un “interessante approfondimento”, su determinate 
                  lotte in un determinato periodo e luogo del mondo, e va oltre 
                  anche all'essere un caso di vita esemplare, in quanto autobiografia 
                  di un individuo che per naturale tensione verso la giustizia 
                  e la difesa degli oppressi si è ritrovato ad essere un 
                  rivoluzionario. 
                  “Noi, gli indios” diventa anche un libro di “teoria 
                  e pratica rivoluzionaria”, sia per il resoconto di tante 
                  azioni e lotte che hanno avuto il loro successo, sia per l'insistere 
                  su determinati concetti che seppur limitati diventano (o vogliono 
                  diventare) universali. Uno su tutti: è interessantissimo 
                  l'ayllu, il sistema tradizionale di organizzazione comunitaria 
                  quechua, realizzazione esemplare dei principi del mutuo appoggio 
                  e della democrazia diretta. A riprova del fatto che ben prima 
                  di Kroptokin e Bakunin l'anarchia esisteva e veniva praticata 
                  nella vita quotidiana da persone che “anarchia” 
                  non sapevano neanche cosa volesse dire. E uno di questi potrebbe 
                  essere lo stesso Hugo Blanco: di formazione politica trotzkista, 
                  ci dimostra che quando si è indaffarati a fare, quando 
                  le intenzioni sono nobili, gli obiettivi chiari e il metodo 
                  è rigidamente antiautoritario, poco importano le opinioni 
                  personali su Cuba o Lenin, e - senza perder mai un briciolo 
                  della propria coerenza di rivoluzionario - si può passare 
                  dagli scioperi alla lotta armata, dalla carica di senatore all'organizzazione 
                  del turismo sociale. 
                  Con la stessa ironia per cui si dice che il 1492 non è 
                  stato l'anno della scoperta di un continente, ma l'anno in cui 
                  qualche indigeno ha scoperto Cristoforo Colombo perso nel mare, 
                  si potrebbe dire che, pur così lungimirante nelle sue 
                  analisi del capitalismo da far venire il sospetto che sia lui 
                  stesso dalla tomba a dirigere gli andamenti dell'economia mondiale, 
                  nemmeno Marx si sarebbe mai immaginato che i migliori lettori 
                  dei suoi libri potessero essere dei poveri analfabeti indigeni. 
                  Per dirlo altrimenti: sembra che il mito freddo e quasi terribile 
                  di una dittatura del proletariato che redimerà l'umanità, 
                  possa trovare applicazioni di successo nella vita reale soltanto 
                  lontano dalle grandi industrie, come valore aggiunto alla cultura 
                  millenaria, pura e concreta dei popoli indigeni. Il Chiapas 
                  (per esempio), da ormai vent'anni a questa parte, lo sta dimostrando. 
                  La funzione didattica di questo libro non si esaurisce nei grandi 
                  concetti, nei grandi temi, (come la riforma agraria, il rispetto 
                  della madre terra, eccetera) ma contiene nascoste tante piccole 
                  cose da scoprire. Una di queste è che, non si sa perché, 
                  pare che tutte le lingue indigene a differenza di quelle europee 
                  abbiano due termini distinti per dire “noi”, una 
                  che include l'interlocutore e una che lo esclude. 
                  Allora sarebbe interessante sapere da Hugo Blanco quale delle 
                  due opzioni sarebbe da usare in una traduzione in quechua di 
                  questo libro. Ma forse in questo caso risulta più poetico 
                  l'indefinito castigliano “nosotros”, così 
                  che sarà poi il lettore a dargli una definizione, o magari 
                  una volta terminato il libro decidere di scoprirsi egli stesso 
                  incluso nel grande popolo degli indios. Allora probabilmente 
                  scoprirà che il popolo degli indios per continuare a 
                  esistere e lottare non ha bisogno di alcun aiuto, ma per servire 
                  la Pacha Mama ha tanto bisogno di altre voci, di altre braccia, 
                  di altri cuori. 
                  Una storia di Galeano dice: “il mondo è questo: 
                  un sacco di gente, un mare di fuocherelli. Non c'è un 
                  fuoco uguale ad un altro, ogni persona brilla di luce propria 
                  in mezzo a tutte le altre, ci son persone di fuochi sereni che 
                  non sentono neanche il vento, ci sono persone di fuochi pazzi 
                  che riempiono l'aria di scintille, ci sono fuochi sciocchi che 
                  non illuminano né riscaldano, però altri ardono 
                  la vita con così tanta voglia che non si può guardarli 
                  senza rimanerne abbagliati, e chi si avvicina, si incendia”. 
                  Il tayta Hugo Blanco assomiglia a uno di questi grandi 
                  fuochi e con il libro “Noi, gli indios” si prende 
                  l'onore di elevarsi a portavoce del mondo indigeno; se può 
                  permetterselo, senza perdere niente della sua umiltà, 
                  è per la sua enorme e indiscutibile umanità, per 
                  aver non solo meritato ma anche ampiamente ripagato la solidarietà 
                  mondiale che più di una volta gli ha salvato la vita. 
                 Michele Salsi 
                     Una guida per l'edificazione 
                  dell'uomo libero 
                 Pubblichiamo 
                  la prefazione del libro di Paolo Zapparoli Il mammifero 
                  anarchico (Youcanprint Self-Publishing, Roma, 2015, pp. 
                  80, € 10,00).  
                  Per contatti:  
                  www.youcanprint.it 
                  raskolnika@gmail.com 
                   
                  Pacificate le greggi, è tornato il silenzio. Il dio denaro, 
                  unico generatore di valori rimasto in campo, sembra ormai aver 
                  delimitato irrimediabilmente i confini dell'agire politico, 
                  riducendolo a mero strumento di attuazione di decisioni economiche 
                  prese da un ristretto numeri di burocrati e banchieri. 
                  Allo stesso tempo, e con simili intenti, anche il mondo dell'informazione 
                  viene sempre più ammaestrato e costretto ad assumere 
                  i connotati di un gigantesco megafono, amplificando l'unica 
                  voce rimasta in campo, quella del padrone. 
                  L'incessante e martellante bombardamento mediatico fatto di 
                  informazioni fugaci e volatili ha in questo modo inevitabilmente 
                  ridotto gli spazi di conversazione ed interrotto drasticamente 
                  il tempo della riflessione. Così piegato, l'animale uomo, 
                  mercificato ed alienato a dismisura, ha ormai addirittura dismesso 
                  le proprie pulsioni desideranti e trasformato il suo potenziale 
                  sessuale ed erotico in forza lavoro o nel suo valore di scambio 
                  equivalente. 
                  Date queste condizioni, in un mondo in cui il dominio capitalistico 
                  superata la sua fase spettacolare viene sempre più ad 
                  assumere una dimensione biopolitica totalizzante, si fa più 
                  urgente la necessità della costruzione e predisposizione 
                  di necessari antidoti che siano all'altezza della sfida attuale. 
                  Il nemico è lo stesso di sempre, il Potere con la P maiuscola, 
                  quello che condiziona il nostro modo di mangiare, di vestire, 
                  di pensare, e che da nemico esterno si è ora trasformato 
                  anche in nemico interno introducendosi subdolamente nelle nostre 
                  menti. È quindi soprattutto verso noi stessi che dobbiamo 
                  rivolgere ora lo sguardo se vogliamo veramente sradicare la 
                  malapianta del dominio neoliberista e statalista. A questo appuntamento 
                  di certo gli anarchici non arrivano totalmente impreparati, 
                  tutt'altro. 
                  La nostra vecchia cara Idea, piantata saggiamente dalle fervide 
                  menti che ci hanno preceduto, è ora capace di germogliare 
                  frutti inaspettati proprio quando le contraddizioni del capitalismo 
                  finanziario vengono oggi sempre più alla luce. Occorre 
                  però rivolgere lo sguardo nella giusta direzione e in 
                  tempi difficili come questi, aguzzare l'ingegno. “Malatempora 
                  currunt”... gli oligarchi a capo di Amazon, Apple, Nestlé, 
                  Facebook, Google, ecc... stanno inventando il nostro futuro 
                  plasmandolo a misura dei loro interessi. In conseguenza di ciò, 
                  lo stesso famigerato “conflitto di interessi”, da 
                  fenomeno episodico diventa così elemento endemico e costitutivo 
                  della macchina amministrativa, a tal punto che oggi non si dà 
                  governo se non in conflitto di interessi. 
                  I consigli di amministrazione delle sempre più voraci 
                  multinazionali, in combutta con i burocrati di governo che assecondano 
                  sfacciatamente i loro propositi, monitorano ogni aspetto della 
                  nostra vita; sanno tutto del nostro passato e valutano alla 
                  perfezione i nostri gusti e le nostre debolezze, sanno dove 
                  siamo ed a cosa stiamo pensando. Alcune multinazionali si spingono 
                  addirittura a studiare i comportamenti dei giocatori dei cosiddetti 
                  “massively multiplayer on-line games”, utilizzati 
                  come banco di prova per esperimenti sull'impatto di possibili 
                  politiche sociali. 
                  Ma allora se di biopolitica oggi si tratta, cioè del 
                  dominio totalizzante dell'Impero neoliberista su ogni fase della 
                  nostra vita, il nostro sforzo e il nostro sguardo dovranno essere 
                  principalmente indirizzati verso la sfera morale e pedagogica 
                  nell'accezione da sempre esemplificata dalla gran parte delle 
                  dottrine anarchiche e libertarie di tutto il mondo. Coloro che 
                  non hanno mai avuto dimestichezza con questi ideali troveranno 
                  qui uno strumento utile e propedeutico per districarsi in questo 
                  caotico e meraviglioso mondo dell'Idea anarchica. Chi invece 
                  si è sempre nutrito di tali letture vi troverà 
                  non solo una panoramica riassuntiva dei principali concetti 
                  che hanno caratterizzato la storia del pensiero morale e pedagogico 
                  anarchico, ma anche possibili spunti per affrontare le sfide 
                  attuali con nuove parole/idee e soprattutto con nuove azioni. 
                  In fondo questo libro avrebbe anche potuto chiamarsi: “Guida 
                  all'edificazione dell'uomo libero”, perché tali 
                  sono i presupposti ideologici che da sempre animano il pensiero 
                  anarchico, dove per uomo libero, si deve intendere una persona 
                  che sia veramente maestra di se stessa e che non sia ammaestrabile 
                  da qualsivoglia autorità esterna, sia essa di tipo materiale 
                  (Stato, Chiesa, Partito, Esercito) sia essa di tipo spirituale/metafisico 
                  (religioni, ideologie astratte, superstizioni varie). 
                 Paolo Zapparoli 
                     Vivere come i nomadi/ 
                  Il movimento anarchico milanese prima del fascismo 
                 “Gli 
                  anarchici, nella vita, sono dei nomadi. Non seguono quella tale 
                  strada, ma la loro strada; a piacere della loro natura, del 
                  loro modo di pensare, del loro temperamento, anche.” (Leda 
                  Rafanelli, L'Eroe della Folla, 1920). Questa frase dell'anarchica 
                  toscana dà il titolo al volume di Fausto Buttà 
                  (Living like nomads. The milanese anarchist movement before 
                  fascism, Cambridge Scholars Publishing, Newcastle upon Tyne, 
                  2015, pp. 299, £ 47,99), un ricercatore italiano che lavora 
                  all'Università del Western Australia. Il libro è 
                  in lingua inglese ed è arricchito da citazioni, note, 
                  fotografie di anarchici e mappe di Milano. La pubblicazione 
                  è diretta principalmente al mondo accademico anglo-sassone 
                  e ha lo scopo di colmare una lacuna storiografica. E' infatti 
                  la prima volta che la storia del movimento anarchico a Milano 
                  viene narrata in modo comprensivo e dettagliato, a partire dalle 
                  sue origini fino all'avvento del fascismo. 
                  La storia comincia nella Milano della fine degli anni sessanta 
                  dell'Ottocento ed esplora gli eventi, i personaggi, le attività 
                  e le idee che diedero vita ai primi gruppi internazionalisti. 
                  Emergono personaggi come Vincenzo Pezza, seguace di Bakunin, 
                  e Theodor Cuno, un ingegnere tedesco, emissario di Engels a 
                  Milano, i quali fondarono, il giorno della vigilia di Natale 
                  del 1871, il Circolo Operaio, ovvero la sezione milanese della 
                  Prima Internazionale. Le relazioni e i contrasti tra i seguaci 
                  di Bakunin e i socialisti legalitari contribuirono, negli anni 
                  successivi, a delineare un'identità anarchica che presentava 
                  molteplici sfaccettature e che abbracciava diverse classi sociali 
                  e professioni. Una ricerca sociologica qualitativa degli anarchici 
                  presenti a Milano nel periodo in questione dimostra la natura 
                  interclassista del movimento anarchico. Fu questa una caratteristica 
                  che sopravvisse negli anni successivi, e che non combacia con 
                  l'idea che gli anarchici milanesi fossero solamente degli intellettuali 
                  piccolo borghesi. L'altra caratteristica principale, che dà 
                  spunto al titolo del libro, risiede nella nomadicità 
                  dei membri del movimento, ovvero il fatto che molti dei militanti 
                  anarchici a Milano non solo non erano nativi del capoluogo lombardo 
                  ma qui sostarono solo per un po' di tempo prima di trasferirsi 
                  altrove, prima di “essere trascinati al Nord”, come 
                  scrisse in un'altra occasione Pietro Gori. Se da un lato va 
                  riconosciuto che essi giocarono un ruolo importantissimo per 
                  il movimento anarchico in città, dall'altro ne costituirono 
                  anche una debolezza, poiché il continuo ricambio dei 
                  militanti impedì che i gruppi si radicassero sul territorio, 
                  nei quartieri e nelle fabbriche, in modo stabile e duraturo. 
                  Fu così che parecchi anarchici italiani vennero a Milano 
                  e poi se ne andarono, per varie ragioni tra cui, soprattutto 
                  nel caso dei militanti più attivi e carismatici, la repressione. 
                  Tra queste figure vanno ricordati i nomi già conosciuti 
                  di Pietro Gori, Giovanni Gavilli, Ettore Molinari, Nella Giacomelli, 
                  Luigi Molinari e Leda Rafanelli. A questi nomi il libro di Buttà 
                  affianca quelli di altri militanti sconosciuti, nomi di personaggi 
                  che sono caduti nell'oblio e che costituirono il grosso del 
                  movimento anarchico a Milano. A tal fine, l'autore si è 
                  servito sia delle fonti di polizia e di prefettura conservate 
                  all'Archivio Centrale di Roma e all'Archivio di Stato di Milano, 
                  sia della letteratura specializzata, da Masini a Cerrito, da 
                  Antonioli a Berti, a Mantovani, compreso il Dizionario Biografico 
                  degli Anarchici Italiani. 
                  S'intrecciano così le vite di uomini e donne in continuo 
                  movimento, come quella di Ernesto Cantoni detto “Risott”, 
                  perseguitato dalla questura che lo riteneva capace di atti violenti, 
                  costretto a viaggiare e a cambiare nome parecchie volte. Vite 
                  spezzate, come quella di Angelo Galli, ucciso durante uno sciopero 
                  e il cui funerale fu immortalato da un dipinto di Carlo Carrà. 
                  Vite da militanti, come quella di Aida Latini, donna forte, 
                  sempre presente e in prima fila negli scioperi e nelle iniziative 
                  anti-militariste di inizio secolo. Vite brevi, come quella del 
                  fornaio Sante Caserio da Motta Visconti, prima fondatore e membro 
                  di un circolo anarchico in Porta Genova, e poi uccisore del 
                  presidente francese Sadi Carnot; o come quella di Bruno Filippi, 
                  vittima della propria dinamite preparata per i clienti facoltosi 
                  del Caffè Biffi in pieno centro a Milano. Vite spese 
                  per l'ideale libertario, come quelle della maestra Maria Rossi, 
                  della tipografa Leda Rafanelli, dell'educatrice Nella Giacomelli, 
                  del commerciante in rottami di ferro Ricciotti Longhi, dell'elettricista 
                  Carlo Gelosa, e di tanti altri sparsi tra i vari capitoli del 
                  libro. 
                  Ne esce un quadro dettagliato, un ritratto sociale particolareggiato 
                  del movimento anarchico nel capoluogo lombardo, dove le vicende 
                  italiane e i continui rimandi all'anarchismo in Italia fanno 
                  da sfondo alle biografie dei militanti, ai loro dibattiti, litigi, 
                  cooperazioni, alle loro idee, al loro attivismo e in particolare 
                  ai loro giornali. Il materiale pubblicato dagli anarchici a 
                  Milano è vasto e, secondo Buttà, costituisce il 
                  loro lascito principale, l'eredità culturale del movimento 
                  libertario. Attorno a testate giornalistiche come Il Martello, 
                  Tito Vezio, L'Amico del Popolo, Il Grido della Folla, La Protesta 
                  Umana, Sciarpa Nera, Umanità Nova e altri, si riunirono 
                  individui, militanti, reti sociali di persone che si conoscevano 
                  e che sostenevano campagne politiche contigue e complementari. 
                  Gli anarchici milanesi furono coinvolti in numerose iniziative: 
                  diedero vita a una Scuola moderna, si schierarono con i lavoratori 
                  negli scioperi delle fabbriche milanesi di inizio secolo, condussero 
                  battaglie anti-militariste, parteciparono alla Settimana Rossa 
                  del giugno 1914, si opposero alla prima guerra mondiale, nel 
                  biennio 1919-1920 s'illusero che la rivoluzione sociale fosse 
                  a portata di mano e invece si ritrovarono a combattere contro 
                  l'avanzata di Mussolini e del fascismo. L'ultimo capitolo del 
                  libro racconta i fatti successivi alla strage del Teatro Diana 
                  nel marzo 1921, la quale segnò l'inizio di un declino 
                  sempre più rapido del movimento anarchico, non solo milanese 
                  ma in tutto il paese. Come tutte le voci dissenzienti, il regime 
                  fascista finì per mettere a tacere anche quella degli 
                  anarchici grazie alle leggi sulla stampa del 1926. 
                  Una delle tesi dell'autore del libro è che Milano non 
                  fu solo il centro principale dell'anarchismo individualista 
                  in Italia, ma offrì l'opportunità a diverse correnti 
                  dell'anarchismo di svilupparsi e di confrontarsi. La storia 
                  del movimento anarchico locale conferma così la natura 
                  del capoluogo lombardo come un laboratorio di idee e di pratiche 
                  sociali e politiche. Milano rappresentò un terreno fertile 
                  per un movimento dinamico, spesso disorganizzato, ma organico 
                  perchè fatto di strette reti di relazioni basate sulla 
                  solidarietà tra i militanti. Un movimento che, nel 1891, 
                  Luigi Galleani poeticamente definì “una concorde 
                  irrequieta attivissima schiera di giovani esuberanti di fede 
                  ed energia d'un anelito di battaglia irresistibile”. 
                 Giovanni Carletti 
                     L'amore? 
                  È l'anarchia nel cuore 
                 “Mi 
                  sono sentita tanto in colpa di essere di nuovo felice, nonna. 
                  Era come se tutti mi dicessero: come puoi partire per una vacanza, 
                  bere un bicchiere di vino, amare un uomo, farti amare nel piacere, 
                  dormire dopo. Come puoi essere ancora viva, insomma, e aver 
                  voglia di stare ancora nel mondo. Hai dimenticato le bambine? 
                  Vergognati. È come se mi dicessero che sono morta anche 
                  io, e che è uno scandalo che mi ribelli.” 
                  L'ultimo libro di Concita De Gregorio Mi sa che fuori è 
                  primavera (Feltrinelli, Milano, 2015, pp. 128, € 13,00) 
                  dà voce a una donna, Irina, oggi cinquantenne, che ha 
                  vissuto una tragedia immane, un dolore che non si può 
                  raccontare, e che ha trovato la forza di affrontarlo e il coraggio 
                  di ribellarsi per continuare a vivere, per non accontentarsi 
                  di sopravvivere alla catastrofe. 
                  I fatti sono noti, la cronaca racconta una storia terribile: 
                  nel gennaio del 2011, il marito di Irina – la coppia è 
                  separata e sta divorziando – sparisce dal suo domicilio 
                  di Saint-Sulpice presso Losanna in Svizzera con le figlie Alessia 
                  e Livia, due gemelline di sei anni. Dopo diversi spostamenti, 
                  da Marsiglia, alla Corsica, al sud Italia, l'uomo si butta sotto 
                  un treno a Cerignola, in Puglia; delle bambine, di cui lui ha 
                  lasciato scritto “riposano in pace”, “non 
                  hanno sofferto”, “non le rivedrai mai più”, 
                  non si è più avuta traccia. La madre, Irina Lucidi 
                  – italiana, che vive e lavora come avvocato a Losanna 
                  da diversi anni – appare più volte sulle reti televisive 
                  centroeuropee con i suoi appelli sobri, determinati, strazianti. 
                  E vani. 
                  Non è mia intenzione soffermarmi sui terribili fatti 
                  che hanno stravolto e lacerato la vita di Irina, la vita di 
                  una madre e delle sue bambine, né esprimermi sull'opera 
                  giornalistica e letteraria della De Gregorio, ma piuttosto rilevare 
                  quanto i pregiudizi e il moralismo possano caricare sulle spalle 
                  di una donna, vittima di una tragedia oltre l'immaginabile, 
                  l'ombra pesante di una o più colpe e un'ulteriore condanna. 
                  I pregiudizi, subdoli ma rassicuranti per chi li ha e se li 
                  coltiva, non certo per chi li subisce. I primi contro cui Irina 
                  ha dovuto far fronte sono quelli classici: donna indipendente, 
                  italiana in Svizzera, avvocato, parla cinque lingue, guadagna 
                  meglio e, all'interno della stessa ditta, è più 
                  riconosciuta professionalmente del marito; a volte è 
                  lontana da casa, per lavoro, non sarà certo dunque 
                  né una moglie né una madre ideale. Si è 
                  ribellata alla pena di un matrimonio oppressivo, ha chiesto 
                  il divorzio, si è dunque caricata della colpa di aver 
                  distrutto, lei per prima, la famiglia. Sì perché 
                  il fatto che il marito non fosse né ideale né 
                  psicologicamente equilibrato non entra un granché in 
                  linea di conto prima della tragedia. 
                  Contro questi pregiudizi, positivi nei confronti del marito 
                  e negativi nei suoi confronti, Irina ha dovuto lottare da subito, 
                  non solo con l'entourage famigliare e domestico, non solo nel 
                  corso delle pratiche di separazione e divorzio ma soprattutto 
                  nelle fasi di denuncia della scomparsa delle bambine. Pregiudizi, 
                  moralismi e sentenze terribili che gettano ombre di sospetto 
                  a cui è difficile sottrarsi e che marchieranno Irina 
                  come vittima non innocente. 
                  A questa sentenza sottaciuta di parziale colpevolezza, alla 
                  condanna “a vita” della scomparsa, della morte non 
                  accertata, senza un dove, un come, un quando delle sue bambine, 
                  sulle spalle di Irina si aggiunge un'altra colpa, quella di 
                  voler continuare a vivere, di volersi riappropriare di una vita 
                  degna di essere vissuta. Sì perché questo suo 
                  ostinato attaccamento alla vita malgrado la tragedia, questo 
                  suo opporsi alla morte viva senza possibili sconti di pena, 
                  destino segnato per una giovane madre sopravvissuta, si scontra 
                  violentemente contro un moralismo anche maschilista, contro 
                  il perbenismo di una società più benpensante che 
                  solidale. In questo senso la sua tenacia è vista come 
                  una scandalosa disubbidienza. Forse è un non detto, ma 
                  è un pensiero così denso da pesare più 
                  di una sentenza scritta. 
                  Il racconto di Concita De Gregorio disegna il profilo di una 
                  donna coraggiosa, forte, lucida anche nello strazio vuoto e 
                  opprimente e disarmante della scomparsa e traduce e trasmette 
                  bene l'energia e le fatiche, razionali ed emotive, necessarie 
                  non solo per resistere alla morte nel cuore ma anche per opporsi 
                  appunto alle condanne silenziose di un ordine simbolico e di 
                  un moralismo malato, ritrovati sia nel contesto e nella famiglia 
                  acquisita in Svizzera, sia nella sua famiglia italiana. 
                  L'anarchia nel cuore, che è poi capacità di ascoltare 
                  innanzitutto sé stessi, l'amore che sgorga a rivendicare 
                  il diritto di vivere ancora, di essere quello che vogliamo, 
                  che sentiamo di essere, senza calpestare gli altri ma senza 
                  lasciarci calpestare; è una forma di libertà che 
                  sento e ammiro profondamente, di cui percepisco la purezza, 
                  la dolorosa fermezza e la paradossale, inevitabile fragilità. 
                  Perché siamo tutti pieni di pregiudizi, troviamo tutti 
                  scorciatoie e strade comode e ribellarsi è una fatica 
                  immane che non sempre, anzi, decidiamo di intraprendere. “Toglierci 
                  dal posto che gli altri ci assegnano, possiamo”, dice 
                  Irina, “gli altri non sono il destino”. È 
                  con questa determinata leggerezza che Irina riesce a sollevare 
                  anche il cuore di chi legge, ad infondere forza, a regalare 
                  energia vitale capace di opporsi ostinatamente e serenamente 
                  ad ogni corrente. 
                  “Ferite d'oro. Quando un oggetto di valore si rompe, in 
                  Giappone, lo si ripara con oro liquido. È un'antica tecnica 
                  che mostra e non nasconde le fratture. Le esibisce come rinascita. 
                  Anche per le persone è così. Chi ha sofferto è 
                  prezioso, la fragilità può trasformarsi in forza. 
                  La tecnica che salda i pezzi, negli esseri umani, si chiama 
                  amore.” 
                  L'amore di Irina per le sue bambine, per la vita, la sua e quella 
                  di altre madri, di altri bambini, altri famigliari, ha vinto 
                  sul dolore. A partire dal 2011, ha fondato “Missing Children 
                  Switzerland”, una ONG inserita in una rete europea che 
                  assiste le famiglie e le autorità in tutte le fasi degli 
                  eventi legati alla scomparsa di minori. 
                  Nell'immaginario di oggi, che fa della positività un 
                  valore supremo, la grande resistenza di Irina, questa sua intraprendenza 
                  e capacità di trovare le risorse per far trarre profitto 
                  ad altri dalla sua tragedia, è senz'altro guardata con 
                  ammirazione. È così anche per la sua non-docilità, 
                  per la sua ferma capacità di dissentire e di distanziarsi 
                  dalla corrente morale di una collettività? Non sarebbe 
                  più facile compatirla se avesse ceduto ad altri, all'insieme 
                  di norme civili democraticamente riconosciute, la capacità 
                  di scegliere tra il bene e il male invece di ostinarsi a seguire 
                  il nocciolo duro della sua coscienza? Non so quanti pesi e quante 
                  misura abbiano le nostre incoerenze, ma fa sempre bene chiederselo. 
                 Paola Pronini Medici 
                     La fine della scuola 
                  e le alternative libertarie 
                 È 
                  recentemente uscito il volume del nostro collaboratore Francesco 
                  Codello sulla scuola. Si intitola La campanella non 
                  suona più. Fine dei sistemi scolastici e alternative 
                  libertarie possibili (Edizioni La Baronata, Lugano, 
                  2015, pp. 208, € 17,50). Per richieste: Edizioni 
                  La Baronata, Casella postale 328, CH-6906 Lugano (Svizzera), 
                  www.anarca-bolo.ch/baronata. 
                  baronata@anarca-bolo.ch 
                   
                  baronata@bluemail.ch 
                  Ne ripubblichiamo l'introduzione. 
                   
                  «Vaso, creta o fiore? Né riempire, né plasmare 
                  ma educare». Questa metafora coniata da Colin Ward (Talking 
                  Schools, 1995) sintetizza in modo esemplare il possibile 
                  significato di educazione libertaria. I fondamenti che stanno 
                  alla base di un'autentica educazione antiautoritaria possono, 
                  infatti, sostanziarsi in questa definizione: educare non è 
                  riempire (il vaso), non è neppure plasmare (la creta), 
                  ma promuovere il naturale sbocciare del fiore. Tutto questo, 
                  apparentemente semplice, comporta alcune considerazioni e mette 
                  in luce una varietà di problematiche davvero importanti. 
                  Che cos'è l'educazione libertaria, in che cosa si differenzia 
                  da una autoritaria, come può realizzarsi concretamente, 
                  qual è il ruolo dell'insegnante nella relazione educativa, 
                  e quello dei genitori, la Scuola (il sistema scolastico) che 
                  soprassiede alla formazione attuale può essere modificata? 
                  Queste, e molte altre domande, ricorrono sistematicamente in 
                  quanti hanno a cuore la realizzazione di un'educazione libertaria. 
                  Occorre innanzitutto ritornare al significato originario della 
                  parola “educazione”, riflettere sull'etimologia 
                  e analizzare poi la sua evoluzione di significato (semantica). 
                  Capire perché, da un concetto di educare sorto per significare 
                  il “tirar fuori” (ex-ducere), si sia transitato 
                  nel corso del tempo a un'idea diametralmente opposta (riempire, 
                  plasmare, ecc.), è molto importante. Questa operazione 
                  di genealogia filosofica è indispensabile per capire 
                  i meccanismi che il dominio, nelle sue varie espressioni, mette 
                  in atto per far apparire consolidato e vero un concetto che 
                  all'origine aveva altri significati. Infatti, educare sta proprio 
                  a significare l'azione che il soggetto compie nel trarre da 
                  sé il suo pensiero, in relazione con gli altri e con 
                  la mediazione dell'ambiente. Se questo è il concetto 
                  originario, appare del tutto evidente quanto si sia venuto formando 
                  un pensiero diametralmente opposto nel corso dei secoli, tanto 
                  da far perdere completamente questa realtà e imporre 
                  una visione educativa profondamente autoritaria, fondata sulla 
                  negazione di questa relazione e sull'inaugurazione di una gerarchizzazione 
                  dei rapporti educativi. 
                   
                  La metafora della levatrice 
                  Pressoché tutte le concezioni pedagogiche, tranne pochi 
                  esempi, hanno, nel corso della storia, manipolato la concezione 
                  originaria sostenendo una relazione educativa a-simmetrica, 
                  gerarchica, autoritaria. In questo modo si è passati 
                  da un'idea di soggetto auto-educantesi a una di oggetto dell'intervento 
                  sistematico, voluto, programmato di educazione e istruzione. 
                  Questo è avvenuto perché le teorie e le prassi 
                  educative che si sono imposte storicamente, si fondano su un'idea 
                  antropologica a priori, su una concezione filosofica, o religiosa, 
                  o politica o economica, ecc., in sostanza si ispirano a una 
                  visione teleologica della storia, inverandosi in pratiche educative 
                  che hanno come fondamento della propria giustificazione e realizzazione, 
                  il dover essere del bambino e della bambina, in generale dell'altro 
                  da sé. Allora, come diceva Mark Twain, l'educazione è 
                  divenuta la difesa organizzata degli adulti contro la gioventù, 
                  si è imposta cioè quella che Paulo Freire ha efficacemente 
                  definito una visione “bancaria” dell'educazione, 
                  cioè una sorta di dono che i sapienti (così si 
                  considerano) fanno agli ignoranti. Le caratteristiche di questa 
                  tradizione educativa si possono cogliere nell'insieme di informazioni 
                  e abilità del passato da trasmettere alle nuove generazioni, 
                  nelle regole e norme di condotta a cui addestrare la gioventù, 
                  nel complesso dell'organizzazione su cui basarsi fatta di programmi, 
                  valutazioni, classificazioni, regole disciplinari, rituali, 
                  gerarchie, ecc. L'educatore (insegnante o genitore) diviene 
                  una sorta di funzionario-agente di questo processo in una relazione 
                  autoritaria con l'educando. Se, dall'avvento del cristianesimo 
                  e soprattutto a partire dall'età medioevale, la pedagogia 
                  era considerata ancella della teologia, oggi il complesso sistema 
                  educativo e le teorie che lo inverano, sono al servizio della 
                  logica del consumo e dell'interiorizzazione di falsi bisogni 
                  e false verità. 
                  La visione dell'educazione dominante è comunque, ieri 
                  come oggi, una concezione depositaria, cioè una 
                  rappresentazione dell'idea educativa fondata su una separazione 
                  sostanziale, magari talvolta non facilmente manifesta, tra chi 
                  detiene le conoscenze e ha il diritto-dovere di tramandarle, 
                  e chi è l'oggetto di questa trasmissione. Da queste premesse 
                  deriva la centralità che il complesso sistema educativo 
                  (scuola, famiglia, altri soggetti) assegna alla formazione. 
                  Formare è divenuta la parola “magica” e simbolica 
                  che dà voce alla necessità, sempre più 
                  impellente, di garantire un consenso diffuso, una pratica consumistica 
                  ma, soprattutto, di creazione di un nuovo modello antropologico 
                  che abbia interiorizzato quei valori e quei comportamenti, ritenuti 
                  necessari per mantenere un consenso generalizzato a questa visione 
                  del mondo. La formazione, dunque, diviene sempre più 
                  sinonimo di educazione, capovolgendone il significato, e sostituendosi 
                  alla più coerente istanza della liberazione. Liberazione 
                  che invece si accomuna con un'idea di educazione libertaria 
                  e recupera una caratteristica originaria propria del significato 
                  vero della parola “educare” e che rievoca la metafora 
                  della levatrice, di quell'azione reciproca che compie, da un 
                  lato la donna che partorisce e, dall'altro, la persona che sta 
                  per venire al mondo. Questa prospettiva educativa libertaria 
                  è dunque un educare a essere, a divenire ciò che 
                  si desidera partendo da ciò che progressivamente si è. 
                  Non solo, pertanto, non dover essere secondo un disegno 
                  predefinito da altri, ma neanche un essere ciò che si 
                  è secondo una concezione riduzionista e genetica della 
                  vita umana. Compare nella concezione libertaria, un'idea educativa 
                  dell'essere che si realizza progressivamente nella relazione 
                  con l'altro e con l'ambiente, un individuo che afferma la sua 
                  peculiare diversità e costruisce il suo futuro su un 
                  atto libero e autonomo di volontà, attraverso le inevitabili 
                  mediazioni con il contesto esterno alla sua soggettività. 
                   
                  L'azione educativa per la trasformazione 
                  sociale 
                  La libertà diviene dunque autodeterminazione individuale, 
                  ma necessariamente intrecciata con le altre diversità, 
                  altrettanto rilevanti, e con l'adesione libera e autonoma a 
                  un insieme di relazioni sociali ugualmente indispensabili e 
                  vitali. Così il sapere, la conoscenza, la novità, 
                  è su di sé e non “utili” o per servire 
                  a qualcosa. Allo stesso modo la libertà, come ci ha dimostrato 
                  Bakunin, non è quella della concezione liberale (la mia 
                  libertà finisce, dove inizia quella dell'altro), ma è 
                  quella anarchica (la libertà individuale si realizza 
                  solo a condizione che gli altri siano altrettanto liberi). Gli 
                  altri non sono dunque un limite ma un presupposto imprescindibile 
                  per permettere al mio essere di realizzare la sua, propria, 
                  specifica, libertà. Appare evidente, in questa prospettiva 
                  filosofica, il recupero della filosofia di Parmenide, nutrita 
                  della sensibilità cosmocentrica, propria dei cosiddetti 
                  filosofi pre-socratici. Se l'essere è, non può 
                  non essere, sosteneva il filosofo nato nella Magna Grecia (presumibilmente 
                  nel 540 a.C.), così come il non essere non è e 
                  non può in alcun modo essere. Il percorso educativo è 
                  allora quel cammino che conduce alla consapevolezza di se stessi, 
                  nel seguire in ogni istante l'essere, così come il mutare 
                  presenta sempre nuovi eterni innanzi a ciascuno di noi. Ciò 
                  è indispensabile se si desidera che ciascuno sia in grado 
                  di capire e di avere coscienza della situazione in cui ci si 
                  trova. La cultura del nostro tempo invece nega un senso fondamentale 
                  al mondo e all'esistenza, poiché il pensare dominante 
                  è quello che si interessa della singola parte, è 
                  il pensare specialistico, che ha estromesso la dimensione olistica 
                  dell'esistenza. 
                  Qui ci arrivano alla mente i versi di Thomas S. Eliot: «In 
                  my beginning is my end. In my end is my beginning» e la 
                  concezione greca del tempo circolare e non lineare. Il mio inizio 
                  è la mia fine, la mia fine è il mio inizio, vale 
                  a dire proprio che l'essere, anche quando apparentemente diviene, 
                  è sempre l'essere che è in quel momento, dunque 
                  provvisoriamente ma continuamente assoluto. 
                  Ciò che è indispensabile allora apprendere è 
                  seguire se stessi, non cercare nell'altro da sé la verità 
                  e la via. Come ci ricorda mirabilmente Nietzsche, in Così 
                  parlò Zarathustra: «Voi non avevate ancora 
                  cercato voi stessi: ecco che trovaste me. Così fanno 
                  tutti i credenti; perciò ogni fede vale così poco. 
                  E ora vi ordino di perdermi e di trovarvi; e solo quando mi 
                  avrete tutti rinnegato io tornerò tra voi». Nella 
                  relazione libertaria l'educatore diviene accompagnatore, non 
                  passa al tuo posto ma viene con te. I pellerossa aspettavano 
                  di vedere chi era il bambino, impiegavano il tempo necessario 
                  prima di dargli un nome, per conoscere la risultante psichica 
                  e psicologica che lo caratterizzava, prima di chiamarlo con 
                  un nome. L'obiettivo principale, pertanto, non è il risultato, 
                  ma l'enfasi è posta sul processo, l'attenzione è 
                  al rispetto di ciò che continuamente si è, né 
                  su ciò che si vuole che l'altro divenga, né su 
                  quello che si ha stabilito a priori che deve necessariamente 
                  essere. 
                  Persino Kant, nella sua opera più importante e culminante 
                  la sua ricerca filosofica (Critica della facoltà di 
                  giudizio), dissertando sul bello e sul sublime, si lascia 
                  andare alla convinzione che sia necessario contemplare le cose 
                  belle senza chiedere loro di corrispondere ai nostri canoni 
                  estetici. Educare a essere dunque si può ritenere come 
                  il presupposto fondativo di un'educazione autenticamente libertaria 
                  perché pone al centro il soggetto singolo e lo sostiene 
                  nella relazione sociale. Il fulcro allora del rapporto educativo 
                  è veramente l'educando (bambino/a) e non l'educatore 
                  (l'adulto). 
                  La centralità è fissata sull'apprendimento e non 
                  sull'insegnamento e da questo presupposto devono essere declinate 
                  sia le azioni, sia progettate e realizzate le organizzazioni, 
                  in grado di mantenere coerentemente questa prospettiva. 
                   
                  Alcune esperienze concrete 
                  Tutta la tradizione libertaria, a partire dalle pagine illuminanti 
                  di Godwin (The Enquirer, 1823), si è collocata 
                  nel solco di pensare l'azione educativa come uno dei mezzi fondamentali 
                  per poter promuovere un cambiamento radicale della società. 
                  L'idea di un uomo nuovo, antropologicamente diverso, in grado 
                  di desiderare e poi vivere una realtà relazionale libera 
                  da ogni forma di dominio, è stata un obiettivo costante 
                  degli anarchici. Ma, i più acuti e attenti, hanno anche 
                  rilevato come l'enfasi sul nuovo non avrebbe garantito una piena 
                  liberazione dell'individuo. Occorreva affiancare l'oggettiva 
                  novità (rispetto alla tradizione) con la sottolineatura 
                  della libertà necessaria e imprescindibile che deve accompagnare 
                  questa trasformazione. In fin dei conti molti altri pensatori 
                  e movimenti hanno pensato di generare un uomo nuovo nel corso 
                  della storia e questa novità non ha sempre rappresentato 
                  una vera liberazione. Ecco che dunque la tradizione libertaria 
                  deve sottolineare con forza la priorità della dimensione 
                  dell'autonomia e della libertà rispetto a quella della 
                  novità. Perorare l'ideale di un uomo nuovo non caratterizza 
                  completamente un'educazione libertaria poiché si fonda 
                  comunque su un'idea (seppur diversa) di modello antropologico 
                  definito pertanto a priori e caricato, arbitrariamente, di valore 
                  positivo. Si ritorna dentro lo schema dell'educare al dover 
                  essere e poco importa (in questo senso) che si ritenga questo 
                  dover essere migliore dell'attuale. 
                  Educare significa, per la tradizione libertaria, liberare, sciogliere, 
                  portare alla luce, quanto di più profondo, autentico, 
                  intenso, vi è in ciascuno di noi nel momento in cui si 
                  compie la relazione educativa. Pertanto non vi può essere 
                  educazione senza auto-educazione, senza quella libertà 
                  e quell'autonomia che caratterizzano una relazione dialogica 
                  che si sviluppa per larga parte sull'incidentalità come 
                  presupposto dell'istruzione e dell'educazione stessa. Paul Goodman 
                  ripeteva che ai bambini non bisogna insegnare, bensì 
                  permettere di scoprire. Essi devono essere incoraggiati a indovinare 
                  e a usare il cervello, invece di venir esaminati sulle giuste 
                  risposte. L'educazione e l'apprendimento incidentale sono naturali, 
                  spontanei, inevitabili, non così invece quelli formali 
                  e istituzionalizzati, che sono deliberati, programmati, definiti, 
                  valutati conseguentemente. 
                  Le esperienze storiche caratteristiche dell'anarchismo militante, 
                  quelle di Cempuis (Paul Robin), La Ruche (Sébastien Faure), 
                  Escuela Moderna (Francisco Ferrer), Jasnaja Poljana (Lev Tolstoj), 
                  le scuole di Madeleine Vernet e Louise Michel, solo per ricordare 
                  quelle più note, sviluppatesi tra la fine dell'Ottocento 
                  e la prima metà del Novecento, cresciute anche grazie 
                  alle intuizioni di Stirner, Bakunin, Kropotkin, Reclus, e molti 
                  altri militanti e pensatori libertari, sono lì a testimoniare 
                  della vitalità di un pensiero educativo autenticamente 
                  antiautoritario. 
                  Questo filone di scuole ed esperienze si collega idealmente 
                  a quel movimento, così forte e presente oggi nei diversi 
                  continenti, di scuole “democratiche” che trovano 
                  la loro primaria fonte nella scuola di Summerhill, in Inghilterra, 
                  fondata nel 1921 (dapprima in Germania e poi dal 1924 nel Suffolk 
                  inglese) da Alexander Neill. Le scuole libertarie presentano, 
                  seppur così variegate e diverse anche geograficamente, 
                  alcuni tratti comuni che le differenziano radicalmente dalla 
                  scuola tradizionale. La centralità, essendo posta sull'apprendimento 
                  e non sull'insegnamento, mette a fuoco l'educando e le sue esigenze, 
                  i suoi tempi, le sue attese, le sue curiosità, le domande, 
                  ecc., in una concezione dello sviluppo della conoscenza che 
                  non sia lineare e rigidamente consecutiva ma pensata come una 
                  spirale, per permettere un processo infinito che va dalla non 
                  conoscenza alla conoscenza, per poi ritornare alla non conoscenza, 
                  e così all'infinito. Errori, tentativi, sperimentazioni, 
                  devianze, creatività, ricerche, costituiscono l'humus 
                  sostanziale del processo di apprendimento. La motivazione è 
                  intrinseca, liberata cioè da una valutazione giudicante 
                  e classificante, non fondata su premi e castighi, quindi non 
                  estrinseca. La gestione delle comunità educanti è 
                  improntata a una reale democrazia diretta che determina un processo 
                  decisionale paritario tra bambini e adulti. La frequenza alle 
                  lezioni è facoltativa e concordata, grazie anche a una 
                  relazione fortemente empatica che deve intercorrere tra educatori 
                  ed educandi. Le metodologie didattiche sono fondate sulla massima 
                  varietà, comunque tutte costruite su quell'attivismo 
                  didattico indispensabile per coniugare esperienza vera e conoscenza 
                  profonda. L'educazione è dunque integrale e armonica, 
                  per corrispondere all'esigenza di uno sviluppo della personalità 
                  completo e ricco di specificità individuali, pertanto 
                  la diversità e l'originalità sono stimolate e 
                  incoraggiate. Bambine e bambini, insomma, sono liberi di imparare 
                  e autonomi nell'esprimere se stessi globalmente, mettendo al 
                  centro di questo percorso il corpo vero e reale, le molteplici 
                  intelligenze, le variegate curiosità. 
                  Su questi presupposti educativi si fonda la critica ai sistemi 
                  scolastici, che in questo libro vengono analizzati, e in nome 
                  di questi principi e di queste pratiche sono presentate alcune 
                  esperienze concrete di un modo radicalmente diverso di fare 
                  scuola, con lo scopo di dimostrare che non solo un'altra educazione 
                  è possibile, ma è quanto mai urgente praticare. 
                  Raccogliendo le suggestioni che ci provengono da Albert Camus 
                  possiamo dire che educare significa toccare ciò che esiste 
                  di più vivo e vitale in ogni essere umano, è contagiare 
                  e accendere il fuoco della passione. Per consentire a questa 
                  contaminazione di svilupparsi, per permettere quella che l'anarchico 
                  individualista E. Armand definiva iniziazione, è 
                  indispensabile assumere una postura diversa, muoversi come ci 
                  si muove quando si cammina sulla sabbia e si cerca l'equilibrio, 
                  consci che ogni piccolo spostamento modifica l'equilibrio stesso. 
                  In altre parole, prendendo a prestito dei versi di Janusz Korckzak 
                  (educatore libertario polacco ed ebreo morto assieme ai suoi 
                  bambini nel campo di concentramento di Treblinka), è 
                  indispensabile mettersi di fianco, trovare il vero senso della 
                  parola rispetto, amare senza se e senza ma, in sostanza 
                  permettere a ciascuno di essere ciò che è: 
                  «Dite: è faticoso frequentare i bambini. Avete 
                  ragione. Poi aggiungete: perché bisogna mettersi al loro 
                  livello, abbassarsi, inclinarsi, curvarsi, farsi piccoli. Ora 
                  avete torto. Non è questo che più stanca. È 
                  piuttosto il fatto di essere obbligati a innalzarsi fino all'altezza 
                  dei loro sentimenti. Tirarsi, allungarsi, alzarsi sulla punta 
                  dei piedi. Per non ferirli.» 
                 Francesco Codello 
                     La repubblica dell'immaginazione/ 
                  La dittatura dell'indifferenza 
                 Credo 
                  di dire un'ovvietà affermando che il grado di civiltà 
                  di un paese vada misurato prima di tutto attraverso l'osservazione 
                  del suo sistema scolastico e poi, subito conseguente, nel rapporto 
                  che intrattiene con la cultura. 
                  Nel libro di cui sto per parlare si dice: “La vocazione 
                  del maestro è tra le più elevate che l'uomo conosca. 
                  Né la politica né la religione ci conferiscono 
                  una missione più elevata di questo precipuo mestiere 
                  di dispiegare e rafforzare le potenzialità dell'animo 
                  umano”. 
                  E inoltre: “Se i nostri figli non hanno imparato a pensare 
                  in maniera critica, non è perché vengono imbottiti 
                  di troppa poesia e storia. Al contrario, è colpa di una 
                  cultura che rende costoso e irrilevante l'accesso al pensiero 
                  libero. È colpa dei docenti stracarichi di lavoro e sottopagati, 
                  della mancanza di fondi pubblici per l'istruzione, della carenza 
                  di disciplina o di rispetto per l'apprendimento e per gli insegnanti: 
                  è colpa di una cultura troppo incentrata sui soldi, sul 
                  successo, sull'intrattenimento, sul rendere la vita più 
                  facile che significativa”. 
                  Uscito lo scorso mese di agosto per quelli di Adelphi, il libro 
                  in questione è La repubblica dell'immaginazione 
                  (Milano, 2015, pp. 288, € 19,00) della scrittrice iraniana 
                  Azar Nafisi, resa famosa a livello internazionale da Leggere 
                  Lolita a Teheran, il suo primo libro, pubblicato in traduzione 
                  italiana nel 2004 (vedi 
                  “A” 398 - maggio 2015). 
                  Azar Nafisi ha insegnato letteratura anglo-americana in varie 
                  università del suo paese fino a quando le restrizioni 
                  del governo degli ayatollah non gliel'hanno impedito. Dal 1997 
                  vive negli Stati Uniti e dal 2008 è cittadina americana. 
                  Oggi prosegue la sua riflessione spostando l'attenzione sul 
                  rapporto che il paese che la ospita intrattiene con la libertà, 
                  domandandosi se non sia forse possibile che la letteratura occidentale 
                  si rivolga più alle anime bramose di cultura della repubblica 
                  islamica dell'Iran che agli abitanti della terra dov'è 
                  nata. Chiedendosi se non sia per caso vero che chi affronta 
                  la censura, la tortura e il carcere per poter leggere libri, 
                  ascoltare musica, guardare film e conoscere opere d'arte vede 
                  tutto questo sotto un'altra luce. È possibile che nelle 
                  democrazie il bisogno di leggere non sia poi così impellente 
                  e perché? 
                  Dice Scout, la bambina protagonista di Il buio oltre la siepe 
                  (romanzo di Harper Lee e bellissimo film diretto da Robert Mulligan 
                  nel 1962): “Leggere non mi è mai piaciuto tanto, 
                  finchè non ho avuto paura di non poterlo più fare. 
                  Non si ama respirare”. 
                  Significa che per comprendere davvero la necessità vitale 
                  di una cosa è necessario arrivare al punto di perderla? 
                  La scrittrice fa ruotare le circa trecento pagine del libro 
                  intorno a questi interrogativi e per farlo racconta storie, 
                  quelle dei protagonisti dei testi di cui parla, che si intrecciano 
                  alla sua che a sua volta si intreccia con quella di altre persone, 
                  in un fitto legame tra storie immaginate e storie vissute che 
                  non perde mai di intensità. 
                  Parte dall'Ottocento, alla ricerca dei fondamenti dell'identità 
                  americana che si trova proprio nel carattere meticcio della 
                  sua popolazione, magistralmente narrata in quello che spesso 
                  è considerato un classico solo per ragazzi - Huckleberry 
                  Finn di Mark Twain - in realtà romanzo epico del 
                  primo ribelle americano e ancora attuale atto d'accusa verso 
                  la nostra coscienza sociale, in quanto ben documenta come le 
                  persone cosiddette normali o perbene, ma anche gli emarginati, 
                  possano smettere di ascoltare la propria interiorità 
                  e scegliere la più facile via che adotta i peggiori pensieri 
                  e pregiudizi sanciti dalla società. Tanto che, suggerisce 
                  la Nafisi, attraverso la lettura di Huck Finn possiamo arrivare 
                  a chiederci se atrocità come lo schiavismo e l'olocausto 
                  sarebbero potute accadere senza la complicità – 
                  o cecità volontaria – di tanta gente “perbene”. 
                  Huck è un eroe ordinario, che sa scegliere tra quello 
                  che gli viene detto di fare e quello che invece ritiene giusto 
                  - forse esempio dell'individualismo americano nella sua forma 
                  migliore – figura molto più complessa del classico 
                  cowboy solitario che arriva in città, fa fuori i cattivi 
                  e se ne va in sella al suo cavallo. 
                  Di quanta America siamo fatti anche noi italiani? Dagli sbarchi 
                  alleati di fine guerra, alla cinematografia, alla musica, all'immigrazione, 
                  l'Italia così com'è, nel male e nel bene, è 
                  l'Italia che siamo e il mito americano, costruito su una lunga 
                  schiera di piccoli eroi, anche noi l'abbiamo guardato e in qualche 
                  misura ci ha influenzato. E se Huckberry Finn possiamo 
                  trovarlo tra i compagni che hanno formato la nostra preadolescenza, 
                  Babbit vive di riflesso in tutto quel mondo governato 
                  dal vendere e dal comprare che ha imperversato, imperversa e 
                  ora vacilla. 
                  George Babbit è il protagonista del libro più 
                  famoso di Sinclair Lewis: il classico americano che si è 
                  fatto da sé, che ha sgobbato per arrivare dove è 
                  arrivato e che vive in un mondo governato dal business. Ha successo, 
                  una famiglia, una buona posizione sociale, ricchezza e un futuro 
                  sorridente. Ciò nonostante Babbit si chiede il perché? 
                  Perché malgrado questo si sente insoddisfatto? Domanda 
                  che lo accompagna per tutta la storia. 
                  Dopo Twain e Lewis, attraverso autori come William Faulkner 
                  e Carson McCullers - per citarne solo due - la scrittrice cerca 
                  di ripercorrere la storia del carattere e della realtà 
                  statunitense. Ci mostra le tante facce di un mito che ormai 
                  non sta più in piedi, che traballa insieme a tutto l'Occidente, 
                  perché la crisi, che affligge anche quel paese, non è 
                  solo economica o politica, ma “qualcosa di più 
                  profondo che sta sconquassando il paese: una visione mercenaria 
                  e utilitaristica insensibile al vero benessere della gente, 
                  che taglia fuori l'immaginazione e il pensiero, che marchia 
                  come insignificante la passione per la conoscenza.[...] Tutti 
                  gli stati – anche quelli totalitari – offrono lusinghe 
                  e tentazioni. Se cediamo, il prezzo che paghiamo è il 
                  conformismo: ci abbandoniamo ai dettami del gruppo. La letteratura 
                  è un antidoto, un memento sul potere della scelta individuale. 
                  Al centro di ogni romanzo c'è una scelta compiuta da 
                  almeno uno dei protagonisti, la quale ricorda al lettore che 
                  anche lui può scegliere di essere indipendente, di opporsi 
                  alle cose che i genitori, la società o lo Stato gli dicono 
                  di fare, e seguire il debole ma essenziale palpito del suo cuore”. 
                  Con questo ottimo libro Azar Nafisi continua a portare avanti 
                  la sua battaglia in difesa del valore sovversivo della letteratura, 
                  di questa cosa meravigliosa che - come tutta l'arte, quando 
                  è vera - lascia libero il lettore di pensare e di sentire, 
                  di prendere le proprie decisioni riguardo ciò che sta 
                  leggendo. Che ci permette di osservare le storie degli altri, 
                  le loro scelte e, se vogliamo, sinceramente, porci la domanda: 
                  “E io? chi sono io?”. 
                  Viviamo in una società che tende ad anestetizzarci, a 
                  non mostrare l'interezza di un esistere fatto di gioia, dolore, 
                  vecchiaia e morte, salvo poi ridurre le atrocità più 
                  feroci a quotidiano spettacolo televisivo senza emozioni. Siamo 
                  arrivati al punto che, invece di insegnare ai giovani come nella 
                  vita non esistano luoghi sicuri, che la sicurezza è illusoria 
                  e la sola possibilità che abbiamo è vivere, sentire 
                  la vita nella sua totalità anche dolorosa - perché 
                  questo è l'unico modo col quale possiamo preservare la 
                  nostra umanità -, siamo arrivati al punto di voler mettere 
                  le avvertenze sui libri laddove si raccontano gesti di violenza 
                  (perché questo è ciò che sta accadendo 
                  nelle università americane), così che le giovani 
                  anime degli studenti non vengano turbate e possano evitare di 
                  leggere, ad esempio, quei passi di Dante troppo trucidi o quel 
                  Tolstoj troppo realistico. 
                  In fondo censurare la letteratura o rifiutarla equivale a rifiutare 
                  il dilemma che ci accompagna e che chiamiamo vita. 
                 Silvia Papi 
                     Per un'urbanistica 
                  in chiave autogestionaria 
                 Contro 
                  l'urbanistica (Torino, 2015, pp. 158, € 12,00) è 
                  il titolo di un saggio di Franco La Cecla, apparso quest'anno 
                  per i tipi della Giulio Einaudi che ho letto di recente. Prima 
                  di questo avevo letto il suo romanzo “faustiano” 
                  Falsomiele, il diavolo a Palermo (2014, pp. 224, € 
                  13,00), edito nel 2014 da :duepunti edizioni. 
                  Ho provato ad intrecciare le mie impressioni su questi due testi 
                  che parlano in realtà, sotto forme diverse - un approccio 
                  disciplinare il primo, romanzo il secondo - degli stessi argomenti. 
                  Contro l'urbanistica il primo, si ma a favore dell'urbanità, 
                  o meglio contro la attuale disciplina urbanistica così 
                  come è venuta configurandosi dopo i suoi inizi libertari. 
                  Inizi che come ci ricorda La Cecla in un capitolo dedicato affondano 
                  le loro radici nella collaborazione in Inghilterra alla fine 
                  del XIX secolo tra Peter Kropotkin e Patrick Geddes, che attraverso 
                  la rielaborazione di Lewis Mumford, Ebenezer Howard e altri 
                  arrivano in Italia nel secondo dopoguerra attraverso le figure 
                  di Carlo Doglio e Giancarlo De Carlo, questi ultimi maestri 
                  miei e di Franco alla facoltà di Architettura di Venezia 
                  negli anni Settanta. Per La Cecla l'urbanità è 
                  “quella produzione di città che la gente fa normalmente 
                  vivendoci” citando Henry Lefebvre nel suo Il diritto alla 
                  città del 1967. 
                  L'ineluttabilità della crescita illimitata dell'ambiente 
                  urbano a scapito di quello agricolo è un fantasma agitato 
                  per il proprio profitto dalle teorie neo-liberali oggi dominanti 
                  che tendono a distruggere ogni forma di partecipazione dal basso 
                  e ogni forma di autogestione e democrazia. Se la disciplina 
                  urbanistica oggi si affida principalmente alla promozione di 
                  smart cities e segue il mito della sostenibilità, 
                  confidando nello sviluppo tecnologico e nei supporti informatici, 
                  per La Cecla “la democrazia è la possibilità 
                  di circolare fisicamente in una città (non come veicoli 
                  ma come corpi) tra altri individui conosciuti e sconosciuti” 
                  come afferma Rebecca Solnit. 
                  Il proliferare di modelli quali le smart city, le creative 
                  cities, resilient cities, open source cities 
                  ecc non sono altro che formule per l'omogeinizzazione di ogni 
                  insediamento sul territorio, la morte della città e il 
                  tentativo definitivo di por fine ad ogni forma di intervento 
                  dal basso per la creazione di insediamenti di collettività 
                  che possano contribuire a modellare il proprio ambiente. Oggi 
                  “Le città [...] promettono di essere puri 
                  hub dell'ubiquità, porte di accesso a una geografia smaterializzata.” 
                  Contro l'urbanistica è anche la riflessione di 
                  un architetto-antropologo sul concetto di “Ubiquità” 
                  sotto forma di saggio, così come Falsomiele, lo 
                  è sotto forma di romanzo. 
                  La Cecla ama la città, o meglio qualsiasi contesto urbano, 
                  dal piccolo villaggio alle gigantesche megalopoli asiatiche 
                  passando per Ragusa di cui fa una splendida apologia nel suo 
                  saggio. 
                  Architetto non praticante, passato all'Antropologia Culturale, 
                  in realtà nelle sue opere migliori parla sempre di città, 
                  così come un altro architetto mancato, Orhan Pamuck, 
                  che dopo tre anni di architettura abbandona e si dedica alla 
                  scrittura. 
                   Una 
                  sindrome diffusa quella dell'architetto che nella vita fa tutt'altro 
                  ma finisce sempre per cantare la città, i luoghi urbani 
                  e le persone che determinano gli spazi, quelli che stanno, come 
                  li definisce La Cecla. Ad esempio gli abitanti degli slums 
                  che praticano la logica dello “stare” e dell'immanenza 
                  che sfugge spessissimo a chi pianifica ma anche a chi lavora 
                  nelle Ong”. 
                  Quasi tutti i romanzi di Pamuck parlano di città, della 
                  sua città, Istambul, e ne descrivono gli spazi attraverso 
                  i corpi che la abitano e la definiscono. Pamuck ha realizzato 
                  il suo “Museo dell'innocenza” a Istanbul come omaggio 
                  alla sua città, La Cecla da buon antropologo ha cercato 
                  ovunque la sua città, conscio che “l'antropologia 
                  è la filosofia che ha il coraggio di vivere fuori” 
                  citando da Tim Ingold. L'antropologia ha da insegnare molto 
                  all'urbanistica, sostiene La Cecla, e forse la frase di Ingold 
                  in trasparenza si potrebbe leggere come: “l'antropologia 
                  è l'urbanistica che ha il coraggio di vivere fuori”. 
                  E La Cecla vive sempre fuori, come ne danno testimonianze le 
                  belle descrizioni di città intercalate al testo più 
                  propriamente di critica all'urbanistica. Città che pur 
                  essendo concrete e ben vive nelle sue descrizioni, da Yojakarta 
                  a Taskent o Shangai, passando per Istambul e Milano riecheggiano 
                  le atmosfere delle Città invisibili di Calvino 
                  o spesso come in maniera più trasparente in Falsomiele 
                  un affinità con la mitica città di Kalhesa del 
                  Progetto Kalhesa bellissimo racconto che ha pubblicato 
                  Giancarlo De Carlo con lo pseudonimo di Ismé Gimdalcha. 
                  Nel Progetto Kalhesa alla fine Ismé si chiede: 
                  “dove mai è Kalhesa? [...] Kalhesa non c'è, 
                  e anche che è dappertutto. Forse come tutte le città 
                  di valore inestimabile, Kalhesa ha la prerogativa di essere 
                  allo stesso tempo unica e universale”. 
                  Khalesa, in modo trasparente è Palermo, la città 
                  di Franco La Cecla, la città dalla quale non esce mai 
                  nel suo Falsomiele pur intrecciando rapporti e avventure 
                  in tutto il mondo. La sua dannazione e la sua salvezza sta in 
                  una frase finale del libro: “che senso ha perdersi se 
                  poi uno torna sempre indietro”. Perdersi, sottotitolato 
                  l'uomo senza ambiente è a mio parere uno dei libri 
                  più belli di Franco insieme a Mente Locale, lo 
                  stare in un luogo col corpo e l'essere altrove pienamente, i 
                  due poli tra i quali La Cecla continua a oscillare e che tenta, 
                  ubiquamente di conciliare attraverso tutti i suoi libri e i 
                  suoi innumerevoli viaggi di studio. Franco venderebbe l'anima 
                  - o l'ha già fatto? - per poter essere contemporaneamente 
                  in tutte le città del mondo che ama o che desidera ancora 
                  scoprire, di persona, con il proprio corpo, mentre prende un 
                  gelato nella sua Palermo, “al Foro Italico, sul fronte 
                  di una Marina in cui il Mediterraneo è invisibile”, 
                  per avere il dono dell'ubiquità, come candidamente confessa 
                  nel suo romanzo Falsomiele. Franco sa benissimo che “Le 
                  guide mentono: I veri posti non ci sono mai.” Come recita 
                  l'incipit di Falsomiele. “E poi nelle guide di 
                  Palermo, Falsomiele non c'è mai. Nessuno che ci sia mai 
                  andato: No Falsomiele non c'è ed è per questo 
                  che Caruso ci va.” 
                  Caruso alter-ego dell'autore finirà per accettare il 
                  dono del misterioso Gaetano Volpes, novello Mefistofele che 
                  regala la merce più preziosa oggi, l'ubiquità, 
                  l'essere ovunque, la “reductio ad unum” di un pianeta 
                  che il neo-liberismo vuole trasformare in un'unica enorme “città 
                  furbetta”, traduzione letterale di smart city, 
                  in realtà un'unica omnicomprensiva mart's city, 
                  luogo in cui trionfa il mart, un bel centro commerciale. 
                 Franco Bunuga 
                     Antispecismo e pensiero queer/ 
                  Percorsi per un'autodeterminazione 
                 Se 
                  d'improvviso immaginassimo di trovarci al centro di uno dei 
                  capannoni in cui si allevano polli broiler, o di venire catapultati 
                  a bordo di un peschereccio industriale al termine della sua 
                  giornata di strascico, di fronte a quelle distese di innumerabili 
                  forse un brivido ci suggerirebbe che cosa significa per un corpo 
                  non contare nulla. 
                  Corpi che non contano. Judith Butler e gli animali (Mimesis, 
                  Milano, 2015, pp. 108, € 10,00) è un titolo che 
                  può essere letto in molte direzioni. Gli animali “da 
                  reddito” nella nostra società sono corpi che non 
                  contano. Ed è per questo che molto spesso i loro 
                  cadaveri sono tanti che non si contano. Ma è anche 
                  un modo per interloquire con una delle più importanti 
                  filosofe del nostro tempo, Judith Butler (che ha scritto un 
                  testo famoso dal titolo Corpi che contano. I limiti discorsivi 
                  del “sesso”), e provocarne il pensiero verso 
                  nuovi orizzonti di senso. 
                  Butler negli ultimi venti anni ha offerto alcuni dei contributi 
                  più interessanti per la filosofia contemporanea, in cui 
                  l'analisi della performance di genere e il riconoscimento del 
                  lutto come questione intrinsecamente biopolitica articolano 
                  una riflessione sui processi di costituzione del soggetto e 
                  sul suo posizionamento nella struttura simbolica della nostra 
                  società. Butler ha risposto con interesse alla provocazione 
                  con cui i curatori Massimo Filippi e Marco Reggio la intervistano 
                  a proposito della questione animale. E ciò è forse 
                  potuto accadere perché il pensiero queer e femminista, 
                  in quanto tenacemente fedele alla problematica dei corpi, ha 
                  per lunghi anni affilato gli strumenti più efficaci a 
                  decostruire la violenza strutturale su determinate categorie 
                  di viventi, e i binarismi normativi che sono capaci di “tagliarli 
                  fuori” dalla comunità morale. 
                  I contributi che accompagnano l'intervista rafforzano il ponte 
                  con il pensiero antispecista e ci aiutano a rileggere, radicalizzandolo, 
                  il dibattito contemporaneo sul biopotere, sulle “vite 
                  precarie” e sulla vulnerabilità intesa non come 
                  limite ma come fondamento della comunità dei viventi. 
                  Filippi, Stanescu, Reggio, Iveson e Zappino partono dal confronto, 
                  appassionato e irriverente al tempo stesso, con i testi di Butler 
                  per parlare della necessità di riconoscerci “vite 
                  precarie”, corpi vulnerabili, “carne del mondo”, 
                  insomma in definitiva animali. 
                  Al termine della lettura l'animalità si delinea come 
                  la soglia imprescindibile per capire i processi di distribuzione 
                  del potere, del privilegio, del riconoscimento morale, finanche 
                  della vita e della morte. Come suggerito da Massimo Filippi 
                  nell'Introduzione, «la definizione ontologica di 
                  che cosa sia una vita non può essere sganciata da una 
                  discussione squisitamente biopolitica». Impianto teorico 
                  che ci permette di individuare chiaramente nella questione “che 
                  cos'è la vita?” il problema fondamentale della 
                  nostra epoca, problema che non a caso è allo stesso tempo 
                  d'ordine metafisico, scientifico e politico. 
                  È a partire da qui che si può cominciare a rintracciare, 
                  attraverso i diversi autori della raccolta di saggi, una tessitura 
                  nuova sul tema della vita e dei viventi, che sfida il paradigma 
                  moderno della Persona e della Vita, sacre e continuamente sacrificabili, 
                  e sviluppa arditamente tutte le possibilità dei concetti 
                  butleriani. Segue dunque al momento decostruttivo l'immaginazione 
                  di nuove forme etiche e sociali, «indispensabili per una 
                  politica che si fondi sulla corpeazione condivisa, una politica 
                  capace di metterci nella condizione di affrontare la realtà 
                  violenta della contemporaneità». Il lutto è 
                  il perno su cui si articola questo movimento in avanti: la consapevolezza 
                  della comune vulnerabilità dei viventi è portatrice 
                  di intenzionalità politica nel momento in cui, per dirla 
                  con le parole di Marco Reggio, «desidera che il proprio 
                  dolore per un evento ormai passato si rivolga al presente e 
                  al futuro, nella forma di una rivendicazione politica radicale». 
                  Ecco dunque che quello tra pensiero antispecista e pensiero 
                  queer si fa uno scambio assolutamente biunivoco di strumenti 
                  concettuali. Se la “norma eterosessuale” sarà 
                  uno strumento utile agli animalisti per capire come funzionino 
                  i dispositivi di naturalizzazione delle performance sociali, 
                  è la questione animale che, secondo Federico Zappino 
                  può inquadrare anche il regime politico dell'eteronormatività 
                  in un dispositivo più ampio e che egli definisce “norma 
                  sacrificale”. 
                  Ed è infine grazie a questa nuova amicizia che il movimento 
                  per la liberazione animale può abbandonare una volta 
                  per tutte la posa virile del protettore e quella eroica del 
                  salvatore, e interpretare il proprio agire politico come una 
                  forma di sostegno a una resistenza che viene innanzitutto dagli 
                  animali stessi, veicolo quindi di “solidarietà 
                  politica” alla loro autodeterminazione, in quella che 
                  «è già una società multispecifica». 
                  Intorno alla voce di Butler i curatori costruiscono così 
                  un canto a più voci, che è quasi un requiem perché 
                  testimonia del lutto per gli esclusi, e quasi un canto di protesta 
                  attorno a cui si raccolgono le forze per sfidare il potere. 
                 Benedetta Piazzesi 
                     La bambina 
                  invisibile 
                 L'infanzia 
                  possiede risorse segrete per superare le difficoltà della 
                  vita. Lo testimonia una bambina senza stella, che conosce fin 
                  dalla nascita la disperazione dell'abbandono. Ma imparerà 
                  prima degli altri a fare ricorso alle proprie risorse interiori. 
                  Silvia Vegetti Finzi, (Una bambina senza stella, Rizzoli, 
                  Milano, 2015, pp. 229, € 18,50) padre ebreo e madre cattolica, 
                  appartiene alla generazione di famiglie e bambini travolta, 
                  il secolo scorso, dalla catastrofe della guerra. 
                  “La nostra vita non è tanto quella vissuta, quanto 
                  quella narrata, che non cessa mai di ricercare il senso del 
                  nostro destino”, scrive nella sua memoria autobiografica. 
                  L'autrice guarda alla grande storia dal basso, con gli occhi 
                  dell'infanzia. La prospettiva sulla realtà si arricchisce 
                  dello sguardo di bambina. Mette al centro bambine e bambini, 
                  da sempre esclusi e muti. Un'infanzia invisibile, taciuta anche 
                  nella famiglia, insieme a molte altre testimonianze. 
                  La bambina, ora adulta, raccoglie frammenti di ricordi per intravvedere 
                  un ordine. Vince il pudore della parte più intima e segreta, 
                  spesso sepolta sotto i sedimenti della memoria, là dove 
                  si dischiude il nocciolo dell'identità di ognuno. Così, 
                  allo stesso tempo, infrange un'omertà che ha impedito 
                  a generazioni di ricordare. La scoperta delle fotografie dei 
                  campi di sterminio nascoste sotto una pila di lenzuola rivelano 
                  il “non detto”, pesante più delle parole. 
                  Nomi di luoghi lontani e sconosciuti come Mauthausen, Auschwitz, 
                  origliati dietro la porta, insieme alla storia del nonno e degli 
                  zii scomparsi, emergono dal silenzio e infrangono un'omertà 
                  che ha impedito a una generazione ferita di ricordare. 
                  Portata ad un precoce pensiero introspettivo a disvelare le 
                  proprie forze interiori, trarrà dal limite e dalla sofferenza 
                  per l'abbandono motivazione in età adulta per dedicarsi, 
                  come psicoterapeuta, proprio a quei problemi dell'infanzia, 
                  sofferti in prima persona. La narrazione autobiografica - a 
                  tratti una prosa poetica - si alterna a un'altra voce dialogante, 
                  più riflessiva. Questo bel libro dalla lettura piacevole 
                  rappresenta il frutto del sapere donato all'autrice, nella sua 
                  professione, dall'ascolto e dalla cura dei bambini. 
                  Lasciata a venti giorni ad una giovane balia, proprio quando 
                  nel '38 in Italia vengono emanate le leggi razziali, la bambina 
                  conoscerà la mamma e il fratello maggiore cinque anni 
                  dopo. Per sfuggire alle persecuzioni che investono anche i figli 
                  di genitori misti, infatti, raggiungeranno il padre in Abissinia. 
                  Lo conoscerà solo dopo sette anni, al rimpatrio. 
                  Accudita da bonari anziani parenti a Villimpenta, tra le risaie 
                  mantovane, nell'autunno del '43, proprio quando la campagna 
                  antisemita passa dalla discriminazione alla persecuzione, sarà 
                  costretta a trasferirsi in treno con la mamma-maestra a Manerbio, 
                  nella bigotta provincia bresciana. La bambina dall'identità 
                  espropriata e mai consolidata non sarà marchiata con 
                  la stella gialla cucita sugli abiti. Così, proprio durante 
                  il viaggio, dovrà pronunciare all'ufficiale nazista un 
                  nome e cognome che non le appartengono. E nel suo ulteriore 
                  peregrinare dalla campagna bresciana alla città, senza 
                  che nessuno le spieghi le ragioni, si percepirà come 
                  un'apolide, una senza luogo, lontana senza sapere da dove. Loro 
                  sono “i forestér”. E la conferma: il non 
                  esserci corrisponde alla sua collocazione nel mondo. 
                  La bambina invisibile, non esistendo, si sente al sicuro. Sceglierà 
                  l'esilio volontario nel pianeta dell'immaginazione. Altera, 
                  corpo asciutto, zeppe di sughero, labbra rosso carminio, un 
                  aspetto da cinema, antifascista e miscredente, vedrà 
                  la mamma per la prima volta con gli occhi del paese, con la 
                  stessa estraneità e la stessa diffidenza. 
                    
                  La sente del resto come una non-mamma, dal cuore secco, nervosa, 
                  aggressiva, maschile. Fuma, legge il giornale, viaggia, ascolta 
                  i comunicati di radio Londra. Tuttavia, garantisce alla famiglia 
                  il necessario: spezza la legna per la stufa, fa il pane, il 
                  burro, prepara il sapone, tratta con il padrone di casa e i 
                  carabinieri. 
                  Nell'autunno del '44, l'inizio della scuola con la mamma-maestra, 
                  ancora più rigida con la figlia per dimostrare a tutti 
                  che non le concede preferenze, toglie alla piccola ogni speranza 
                  di rinnovamento: non completerà la quinta elementare, 
                  per accudire la sorellina. 
                  Intanto, gli stereotipi ingabbiano l'infanzia. Vaga, imprecisa, 
                  distratta, dicono assomigli alla nonna. 
                  Una spilla in regalo con raffigurata un'oca - invece per il 
                  fratello geniale un libro - le varrà l'epiteto di piccola 
                  guardiana d'oche. Il burattinaio e l'asino stampati sulla cartella 
                  di cartone annunciano il suo insuccesso scolastico, mentre comincia 
                  a sentirsi cattiva come Pinocchio ed esposta alla vergogna come 
                  l'asino. 
                  Ma la bambina con le antenne annusa il pericolo incombente. 
                  In assenza di presenze affettive, anche se dimenticata, scopre 
                  il bisogno di essere accudita e si cura da sé. Ama il 
                  bambolotto brutto, non piace a nessuno, e perciò le assomiglia: 
                  l'accudimento alla bambola è un accudimento di sé. 
                  Esce dall'autoesilio nel quale si è rifugiata con l'immaginazione. 
                  Capisce che il gioco solitario in presenza di un'amica comprende 
                  la solitudine. Così si apre agli altri. 
                  A Brescia, la maestra non sarà più la mamma. Per 
                  la bambina, l'occasione di riprendere gli studi interrotti è 
                  l'inizio di una rivoluzione interiore. La vera accoglienza da 
                  parte della nuova insegnante, l'apprezzamento della sua intelligenza, 
                  l'orgoglio di imparare, il gusto della lettura dischiudono una 
                  vitalità tenuta troppo a lungo compressa. La bambina 
                  ha scoperto la sua stella, e si apre alla vita. 
                  “Senza rischi non si cresce e chi non ha mai affrontato 
                  il dolore non ha potuto produrre anticorpi che difendano dallo 
                  sconforto e dalla disperazione”. 
                  Un invito a leggere e ascoltare il bambino che è in noi, 
                  per capire, con partecipazione empatica, chi ci sta accanto, 
                  ma senza impedire a bambine e bambini di confrontarsi con le 
                  difficoltà del mondo reale. 
                  Come in una lunga lettera rivolta a lettrici e lettori, l'autrice 
                  sollecita gli adulti a guardare all'infanzia come un'opportunità: 
                  nonostante tutto, sa trovare le risorse interiori per rafforzarsi 
                  e crescere forte e libera. Bambine e bambini sanno capire come 
                  attrezzarsi per sfidare la precarietà del vivere. E questa, 
                  per gli adulti, è proprio una bella confortante notizia. 
                 Claudia Piccinelli 
                 |