  
                
  
                 Dibattito 
                  ricerca scientifica.3/ La scienza è legata ai sistemi 
                  di dominio 
                   
                  Allo scopo di precisare alcuni punti del dibattito sulla ricerca 
                  scientifica e su quella che potrebbe essere una prospettiva 
                  anarchica (“Facciamola finita con la ricerca scientifica”), 
                  emersi dalla lettura degli interessantissimi contributi di Lorenzo 
                  Coniglione (“A” 401, “Dibattito 
                  ricerca scientifica.1/ Appropriarsi della scienza”) 
                  e Massimiliano Barbone (“A” 401, “Dibattito 
                  ricerca scientifica.2/ Ma la scienza va socializzata”), 
                  ecco alcune riflessioni che vanno a completare il mio articolo 
                  pubblicato sul numero 397 di “A”, dal titolo: “Basta 
                  con la ricerca scientifica!”. 
                  In effetti si può sostenere che la scienza non sia “legata 
                  in modo inestricabile ad un sistema di dominio”, come 
                  fa Coniglione. È difficile contestare quell'“inestricabile”... 
                  Tuttavia, internet, il web e gli algoritmi attuali, solo per 
                  fare tre esempi che si basano su uno sfruttamento tecnico diretto 
                  di scoperte scientifiche come la cibernetica di Norbert Wiener, 
                  sono stati proprio pensati e realizzati da entità che 
                  discendono da un sistema di dominio: l'esercito statunitense 
                  per internet, il Centro europeo per la ricerca nucleare per 
                  il web, le banche d'affari e gli Stati (tra gli altri) per gli 
                  algoritmi più potenti. I contributi della teoria critica 
                  dopo Auschwitz e Hiroshima, in proposito, mi sembrano incontrovertibili: 
                  dal 1945 la scienza si è posta quasi integralmente al 
                  servizio di ciò che ci opprime (la filiale tedesca della 
                  IBM aveva preso parte alla “gestione amministrativa” 
                  dei deportati nei campi di concentramento e di sterminio...). 
                  Propongo di dire più precisamente che “Fino 
                  ai giorni nostri, la scienza è stata legata in modo 
                  inestricabile ad un sistema di dominio”. Il che non significa, 
                  naturalmente, che sarà sempre così, ma bisogna 
                  inevitabilmente chiedersi perché, fino a questo momento, 
                  la scienza impernia le proprie ricerche più sul versante 
                  di ciò che ci opprime che sul versante di ciò 
                  che ci libera... 
                  Nel mio articolo pubblicato 
                  sul n. 397 di “A”, ho fatto riferimento alla 
                  tesi di Lewis Mumford di una Megamacchina come sistema di dominio 
                  fondato sulla scienza. Il che non impedisce che si possa impostare 
                  un approccio scientifico e al tempo stesso non dominatore, se 
                  non addirittura antiautoritario; ma allora il dilemma è 
                  politico: se una simile scienza può esistere o esiste 
                  già, com'è possibile che essa sia così 
                  marginale, e che solo la scienza legata agli apparati di dominio 
                  monopolizzi i contributi alla ricerca? (Così vanno le 
                  cose in Francia e mi sembra che negli Stati Uniti sia ancor 
                  peggio...). Perché viene investito tanto denaro negli 
                  OGM, nel nucleare (in Francia il nuovo reattore di Flamanville 
                  costerà miliardi di euro...), negli algoritmi finanziari, 
                  e niente nella ricerca per migliorare i recipienti che utilizzano 
                  l'energia solare per trasformarla in energia termica, per esempio? 
                  Perché gli scienziati che lavorano all'elaborazione di 
                  una scienza non dominatrice non sono maggiormente presenti e 
                  ascoltati? 
                  Il rischio che si corre nel non fornire risposte soddisfacenti 
                  a tutte queste domande non rivela forse che si crede in una 
                  futura età dell'oro, nella quale la scienza sarebbe interamente 
                  al servizio del non-dominio, una scienza anarchica e un'età 
                  dell'oro che non abbiamo alcuna probabilità di vedere 
                  un giorno realizzate nella misura in cui il primo nodo da sciogliere 
                  è proprio quello del dominio? Mi sembra che sia la questione 
                  cui giunge anche Coniglione, ma attraverso vie differenti. Ma 
                  allora, rispondiamo a questo quesito scomodo: siamo condannati 
                  a pensare che oggi serve il dominio, e dunque ivi comprese 
                  la scienza e le sue applicazioni tecnologiche; di conseguenza, 
                  invece di rifiutare semplicemente in modo astratto il dominio, 
                  potremmo porci nella prospettiva che tende all'anarchia 
                  e lavorare nella direzione di un cambiamento di ciò che 
                  ci opprime nel senso di una minore oppressione, il che implica 
                  il fatto che non dobbiamo illuderci sulla natura della scienza 
                  oggi, che è uno strumento al servizio della dominazione. 
                  Potremmo costruire, dunque, una teoria che rifiuti e respinga 
                  la scienza dominatrice, e metterla in pratica rifiutando ciò 
                  che ciascuno di noi si sente in grado di rifiutare e respingere, 
                  dai telefoni cellulari fino al cibo geneticamente modificato, 
                  dai farmaci allopatici ai treni ad alta velocità. In 
                  sintesi, indirizzare la tecnoscienza verso la rottura di ciò 
                  che la lega all'apparato di dominio. Una moratoria, auspicata 
                  da David Watson, o la fine della ricerca scientifica (se ciò 
                  si verificasse) aiuterebbero enormemente! È un punto 
                  che vorrei sviluppare in un prossimo articolo per “A”, 
                  sul matematico anarchico Alexandre Grothendieck. 
                  Inoltre tengo a precisare che, come ha detto bene Coniglione, 
                  non sono affatto un primitivista, proprio perché, nutrendomi 
                  per lo più dei prodotti del nostro orto e della raccolta 
                  di piante selvatiche locali, sono consapevole del fatto che, 
                  in caso di un cataclisma industriale globale, per esempio, il 
                  primitivismo porterebbe a una violenza devastante per accaparrarsi 
                  il cibo disponibile. Pierre Clastres, che spesso viene citato 
                  in questa rivista, in Archéologie de la violence, 
                  ha ampiamente dimostrato che il paleolitico non è certamente 
                  una soluzione emancipatrice. 
                  Quanto poi a ciò che rileva Barbone, in effetti si può 
                  pensare che una scienza unificata, su cui in particolare è 
                  imperniata oggi la ricerca degli astrofisici, non impedirebbe 
                  altri modi di spiegazione del mondo. Ma purtroppo la sua ipotesi 
                  è arbitraria: è evidente come la spiegazione scientifica 
                  dell'universo ha letteralmente spazzato via qualsiasi altra 
                  spiegazione, in particolare quella religiosa, nel corso del 
                  XX secolo, provocando, come reazione, l'attuale ritorno alla 
                  religione nelle peggiori forme di fanatismo (dai cattolici e 
                  protestanti statunitensi all'islam e al giudaismo). La questione 
                  vera è: gli scienziati sono disposti a capire e accettare 
                  spiegazioni del mondo diverse dalle loro? La lettura approfondita 
                  di Stephen Hawking, astrofisico iperpresente sui media, tra 
                  gli altri, mi ha convinto del contrario, così come ne 
                  era stato convinto Grothendieck dagli anni settanta in poi. 
                  Precisiamo qualcosa sull'autonomia della scienza. Lo stesso 
                  Stephen Hawking spiega che oggi, una persona molto colta non 
                  può sperare di abbracciare tutte le conoscenze umane, 
                  mentre, all'epoca di Newton, ciò era ancora possibile. 
                  Il che significa, secondo lo stesso Hawking, che ogni scienziato 
                  può, al massimo, conoscere alcuni campi di ricerca, e 
                  non può più avere l'ambizione di trasmettere le 
                  proprie conoscenze a una parte significativa della popolazione. 
                  (Sottolineiamo che Hawking compie un grande sforzo in questa 
                  direzione.) Gli scienziati più brillanti operano ormai 
                  in un ambito che li rende di fatto autonomi a livello della 
                  loro scienza. Grothendieck era convinto che al massimo dieci 
                  persone al mondo erano in grado di capire le sue ricerche negli 
                  anni sessanta-settanta. È anche in questo senso che la 
                  scienza è diventata autonoma dagli essere umani, ormai 
                  incapaci di capire a fondo le ricerche in campo astrofisico, 
                  genetico o in materia di algoritmi matematici, senza dimenticare 
                  la fisica nucleare e certe forme di medicina, solo per fare 
                  gli esempi più eclatanti. 
                  Io non credo che la scienza debba preoccuparsi soltanto di sapere. 
                  Anche in questo caso, la lettura di Hawking potrebbe convincere 
                  qualsiasi persona con un briciolo di sapienza che, se questo 
                  astrofisico è rappresentativo della casta cui appartiene, 
                  e purtroppo sembra che lo sia, allora significa che queste persone 
                  sono già da adesso su un pianeta diverso dal nostro. 
                  Tra le altre stranezze sulle quale lavorano in parecchi, Hawking 
                  chiede: “Perché ci ricordiamo del passato e non 
                  del futuro?” A dimostrazione di quanto ciò sia 
                  assurdo, di quanto significhi ignorare il significato delle 
                  parole (passato, futuro, ricordo) e la dialettica più 
                  elementare, è il fatto che gli odierni scienziati, o 
                  meglio una parte di essi, sono assolutamente privi di sapienza. 
                  La scienza dovrebbe invece preoccuparsi di valutare se sta producendo 
                  sapienza, e la risposta, attualmente, è no. 
                  Infine, la scienza attuale non può più essere 
                  olistica proprio in ragione della complessità. Ma 
                  Barbone dice bene: la scienza, di per sé, dovrebbe esserlo. 
                  Anche per me è una cosa evidente. Tuttavia resta da sapere 
                  se può diventarlo prima dell'età dell'oro dell'anarchia, 
                  ma io non lo credo. Di qui la tesi di una vita protesa 
                  verso l'anarchia, e allora tutti insieme, sì proprio 
                  tutti, mettiamoci al lavoro per indirizzare la scienza 
                  verso una politica di non-dominio. 
                  Fermare la ricerca scientifica non significa gettare la scienza 
                  alle ortiche – anch'io utilizzo la scienza così 
                  com'è attualmente – ma arrestare la sua folle corsa 
                  verso la complessità, l'iperspecializzazione e l'autonomia 
                  dei percorsi di ricerca, in relazione ai bisogni reali dei bambini, 
                  delle donne, degli uomini e degli esseri viventi di questo pianeta. 
                  E tentare di tornare a una scienza dedicata unicamente ai bisogni 
                  degli esseri umani e alla loro emancipazione. 
                 Philippe Godard 
                  Francia 
                   
                  traduzione di Luisa Cortese 
				   
				 
                    
                  Come possiamo concepire un ordine libertario? 
                   
                  1. Come possiamo concepire un ordine libertario? Il suo primo 
                  requisito è che non deve avere natura coercitiva. Ma 
                  può, questo requisito, estendersi ai comportamenti umani 
                  che, per essere liberi, non sopportano alcun limite? In altri 
                  termini: può esistere un ordine libertario che, senza 
                  scivolare nel caos, eviti la repressione dei comportamenti più 
                  sfrenati? Come caso esemplare di comportamenti privi di limite 
                  o sfrenati, consideriamo le passioni umane. Qualcuno efficacemente 
                  ha detto: Tutte le passioni esagerano, e sono passioni perché 
                  esagerano. Una relazione umana può essere innescata 
                  da passioni quali aggressività, ambizione, avidità, 
                  gelosia o invidia, non meno che da passioni quali amore, gioco 
                  o immaginazione. Sarebbe insensato provare a controllare la 
                  direzione dei flussi, poiché anche le passioni che alcuni 
                  giudicano viziose, pericolose o perfino distruttive, conferiscono 
                  significato alla nostra vita e motivazione alle nostre azioni. 
                  Inoltre, ovviamente, una società libertaria non può 
                  controllare le passioni; deve aprirsi alla vertigine (pericolosa 
                  e talvolta spiacevole) della libertà. 
                  2. La domanda posta all'inizio può ricevere una risposta, 
                  che illustro mediante due metafore. Un'automobile può 
                  lanciarsi in una corsa “selvaggia”, che trascura 
                  limiti e vincoli, anche non avendo un assetto meccanico equilibrato 
                  e un impianto di freni funzionante. Ma per raggiungere un'elevata 
                  velocità, l'automobile deve mantenersi sulla strada 
                  asfaltata; e se desidera prolungare la corsa, accelerando dopo 
                  la curva, deve ricorrere ai freni. Ne segue che la sua 
                  corsa non è mai del tutto “selvaggia”: al 
                  contrario, è proprio il controllo su strada che le permette 
                  di proseguirla e di accentuarne la velocità. Allo stesso 
                  modo una passione richiede, per esprimersi pienamente e per 
                  durare, meccanismi omeostatici: essa è sì sfrenata, 
                  ma non perché priva di freni. Le passioni capaci 
                  di attraversare l'intera vita sono quelle che si autolimitano, 
                  non perché subiscono qualche vincolo esterno, ma al 
                  contrario per meglio esprimersi. Una passione può 
                  scatenarsi ed essere distruttiva, ma non fino al punto da distruggere 
                  il soggetto e il gruppo sociale: se così facesse, distruggerebbe 
                  in effetti se stessa. Nessun potere l'addomestica; è 
                  il suo stesso “correre” che la fa stare sulla strada 
                  e le fa usare i freni. 
                  3. Sto dunque descrivendo un meccanismo grazie al quale le passioni 
                  si autolimitano senza subire repressione o imbrigliamento. Esse 
                  contengono non i propri eccessi, ma la loro distruttività 
                  personale e sociale, senza usare le briglie della coercizione 
                  oppure quelle della persuasione. Ma vi un'ulteriore difficoltà: 
                  in molti casi, le passioni contrastano l'una con l'altra. Se 
                  esse “cozzano” l'una con l'altra, come può 
                  mantenersi un ordine libertario? Per rispondere introduco un'altra 
                  analogia con la circolazione stradale.1 
                  Negli ultimi anni, in numerosi paesi la regolazione del traffico 
                  misto (autoveicoli, motoveicoli, biciclette e pedoni) ha visto 
                  il declino dei semafori agli incroci e la diffusione delle rotatorie. 
                  La gestione dei flussi di traffico da parte dei semafori è 
                  basata su una logica binaria: con il verde si transita, con 
                  il rosso si aspetta. Piuttosto, le rotatorie funzionano come 
                  i pattinatori che su una pista affollata coordinano le rispettive 
                  traiettorie per non urtarsi: ogni guidatore, percependo il pericolo, 
                  è vigile e pragmatico; non passa quando gli spetta, bensì 
                  quando è sensato farlo (il pedone o la bicicletta procedono 
                  con cautela, anche quando sarebbe il loro turno). Il risultato 
                  non è soltanto una drastica riduzione degli incidenti, 
                  ma pure una ridefinizione dell'idea stessa d'incidente: di solito, 
                  se due pattinatori si toccano, nessuno concepisce l'episodio 
                  come uno scontro per verificare chi prevale; in modo analogo, 
                  i tamponamenti stradali appaiono errori bilaterali di coordinamento 
                  delle traiettorie. Mentre dunque lo scontro frontale oppone 
                  chi vince e chi perde, il conflitto è un problema di 
                  coordinamento. Allo stesso modo, le passioni non si scontrano 
                  l'una contro l'altra, bensì confliggono entro un complessivo 
                  campo di forze. Il conflitto, correndo lungo una molteplicità 
                  di dimensioni, non ha fine: nessuna passione elimina mai l'altra, 
                  nessuna ottiene mai una vittoria definitiva, poiché tutte, 
                  in un insieme di processi intrecciati, costituiscono il carattere 
                  della persona. Dentro la persona ciascuna passione rinvia a 
                  ogni altra mentre confligge con essa: di più, proprio 
                  perché confligge. Quale unione e contesa di singolarità, 
                  il conflitto non è dunque una guerra totale, bensì 
                  autolimita la propria carica distruttiva per riprodursi, ossia 
                  per non avere mai soluzione. È questo il meccanismo endogeno 
                  che regola le passioni sfrenate: vi è una rotatoria intorno 
                  alla quale tanti veicoli diversi si mantengono alla giusta distanza. 
                  4. È importante mettere a fuoco meccanismi di comportamento 
                  come quelli descritti: la passione che cerca un proprio limite 
                  per meglio scatenarsi, oppure il conflitto che – senza 
                  annullare l'avversario, né ridurre se stesso – 
                  si ridisloca in un campo di molteplici contrapposizioni. Sono 
                  meccanismi che aiutano a capire come una società libertaria 
                  possa essere non coattiva nel trattare i comportamenti umani 
                  meno addomesticabili, e allo stesso tempo possa essere un ordine. 
                 Nicolò Bellanca 
                  Firenze 
                 1. James C. Scott, Elogio dell'anarchismo 
                  (2012), Elèuthera, Milano, 214, pp.109-111. 
				   
				 
                    
                  Antispecismo e anarchismo: un nesso inscindibile 
                   
                  L'antispecismo, quella forma di lotta per la liberazione animale, 
                  rappresenta un argomento che nel corso degli anni ha sollevato 
                  accese discussioni all'interno dei gruppi anarchici. In particolare 
                  ci si chiede se l'antispecismo rappresenta o meno una lotta 
                  insita nell'anarchismo. Cos'è che differenzia lo specismo 
                  dal razzismo o dal sessismo? Non è forse lo specismo 
                  una delle varie strutture gerarchiche di dominio al pari delle 
                  altre? Può parlarsi di anarchismo senza antispecismo? 
                   
                  Un chiarimento terminologico 
                  All'interno del movimento anarchico globale, da decenni, si 
                  porta avanti la discussione intorno all'antispecismo e, in particolare, 
                  di come il movimento libertario dovrebbe approcciarsi ad esso. 
                  Nello specifico, ci si chiede se l'antispecismo dev'essere o 
                  meno considerata una componente essenziale nella definizione 
                  di anarchismo e di anti-autoritarismo. 
                  Com'è noto, l'antispecismo, rappresenta quella corrente 
                  filosofica, culturale e politica per cui nessuna specie animale, 
                  sia essa umana che non-umana, è considerata al di sopra 
                  e/o superiore alle altre. Per questo, è antispecismo, 
                  quell'insieme di pratiche quotidiane volte all'abbattimento 
                  dello sfruttamento delle specie animali, e che a queste provocano 
                  danno e sofferenza, per trarre esclusivo vantaggio e godimento 
                  a favore di un'altra. Alla base di ciò, c'è il 
                  pieno riconoscimento del diritto alla vita e alla non-sofferenza 
                  di tutti gli esseri animali. Di contro, ovviamente, c'è 
                  lo specismo che considera una specie come superiore alle altre 
                  e, pertanto, si accaparra, in maniera del tutto autoritaria, 
                  il diritto di disporre della vita delle altre specie. L'antispecismo 
                  quindi, si batte per la liberazione totale degli esseri animali, 
                  senza distinzioni alcune rispetto alla specie di appartenenza. 
                  È bene precisare che nella discussione in oggetto, sarebbe 
                  del tutto irragionevole adoperare la distinzione tra specie 
                  umane e non-umane, in quanto si porrebbe inevitabilmente anch'essa 
                  come una differenziazione specista. Infatti, la divisione tra 
                  animali umani e non-umani, andrebbe a considerare l'umano come 
                  fulcro per la distinzione di questo rispetto alle altre specie 
                  animali con un approccio chiaramente gerarchico. L'umano, secondo 
                  l'approccio antispecista, è considerato solo come una 
                  delle milioni di specie presenti sulla Terra, avente così 
                  pari dignità e diritto alla vita riconosciuti a tutte 
                  le altre specie animali. Pertanto, in questo contesto, se non 
                  rappresenta significato alcuno la differenziazione specista 
                  tra animali umani e non-umani, se non al fine di favorire una 
                  discussione terminologica e dialettica più lineare e 
                  fluida, allo stesso modo in assoluto non viene riconosciuta 
                  la divisione antropocentrica e comunemente accettata tra umani 
                  e animali come appartenenti a due mondi diversi e distanti. 
                  Ad ogni modo, va detto che l'antispecismo è una corrente 
                  culturale e politica nata per contrastare il dominio dell'animale 
                  umano sulle altre specie animali e che, per questo, la pratica 
                  della liberazione animale che viene messa in atto è prettamente 
                  umana. Perciò, laddove la distinzione tra animale umano 
                  e animale non-umano potrebbe essere considerata legittima in 
                  senso antispecista, è solo a condizione che questa non 
                  venga inquadrata come differenziazione naturale e assoluta, 
                  ma bensì, come il riscontro di un volontario e meccanico 
                  sganciamento del vivere umano rispetto alle società non-umane, 
                  ossia rispetto alla restante società naturale - ed è 
                  qui che va a concrettizzarsi l'antropocentrica e specista distinzione 
                  finora discussa - la quale include le società animali, 
                  l'ambiente, e l'interazione tra queste due. 
                   
                  Specismo come categoria di dominazione 
                  Lo specismo altro non rappresenta che una delle varie forme 
                  di dominio dell'essere umano sulle società non-umane. 
                  O meglio, lo specismo, è solo la gerarchia imposta dall'animale 
                  umano nell'interazione con gli animali non-umani. In effetti, 
                  a ben guardare, le società strutturate in maniera verticistica 
                  e gerarchica, impongono la subordinazione di uno o più 
                  individui a vantaggio di altri. Così, ad esempio, il 
                  razzismo impone la subordinazione di alcuni individui rispetto 
                  ad altri sull'errata considerazione della differenza biologica 
                  su base razziale; allo stesso modo il sessismo in base all'identità 
                  sessuale, così come il maschilismo e l'omofobia; ancora, 
                  il classismo, impone la subordinazione di alcuni individui rispetto 
                  ad altri in base all'appartenza ad una determinata classe sociale; 
                  l'etnocentrismo su base etnica impone la supremazia di un'etnia 
                  sulle altre o il nazionalismo su base nazionale. Lo specismo 
                  così, impone la subordinazione di tutte le specie animali 
                  non-umane agli interessi dell'unica specie animale umana. 
                  L'anarchismo, che nasce proprio dalla lotta per la distruzione 
                  del dominio, del potere, dell'autorità e delle gerarchie, 
                  non può non prendere in considerazione l'antispecismo 
                  al fianco dell'antisessismo, dell'antirazzismo, dell'antiautoritarismo 
                  per la costruzione di una società libertaria. Infatti, 
                  la supremazia umana rispetto agli animali non-umani, è 
                  imposta sulla mera appartenenza degli uni e degli altri a specie 
                  diverse tra loro, così come ogni gerarchia sociale nasce 
                  dall'appartenenza a gruppi sociali portatori di interessi diversi 
                  tra loro. Le gerarchie quindi cadono e vengono abolite laddove 
                  la distinzione di appartenenza non si pone come limite, ma quando 
                  c'è il riconoscimento della diversità utile solo 
                  per il perseguimento di interessi differenti. Se questo riconoscimento 
                  vale ed è valso in passato nel rapporto tra umani, l'anarchismo 
                  dovrebbe riconoscere le differenze tra animale umano e animale 
                  non-umano come delle caratteristiche peculiari ma non limitanti 
                  e legittimitanti lo sfruttamento dei secondi ad opera dei primi. 
                  A tal proposito, basti pensare ad esempio che lo schiavismo, 
                  sin dalle civiltà antiche fino all'età moderna, 
                  è stato giuridicamente regolamentato fino alla sua abolizione 
                  (su questo bisognerebbe ragionare se lo schiavismo ha semplicemente 
                  cambiato forme rispetto al passato) avvenuta quando, giusto 
                  per esemplificare, il colore nero della pelle è stato 
                  riconosciuto come caratteristica dovuta alla melanina e non 
                  per identificare un'inferiorità. Stesso discorso può 
                  farsi rispetto al colonialismo o alle leggi razziali. 
                  Ciò che non va dimenticato, è che l'evoluzione 
                  delle specie in base alle proprie necessità, ha portato 
                  queste a sviluppare caratteristiche diverse tra loro le quali 
                  non possono in alcun modo essere considerate come grado di valutazione 
                  di inferiorità e superiorità e, di conseguenza, 
                  per il loro sfruttamento, ma bensì come semplici differenze 
                  evoluzionistiche. 
                  Da parte di chi scrive non c'è la volontà di porsi 
                  come giudice giudicante la condotta altrui, né la volontà 
                  di stilare una sorta di “costituzione anarchica” 
                  da cui far emergere i princìpi dell'anarchismo. Personalmente 
                  però, il mio approccio all'anarchismo, prevede anche 
                  la distruzione dello specismo inquadrato come gerarchia dominatrice 
                  e sfruttatrice, al pari di altre strutture gerarchiche e con 
                  le quali lo specismo condivide la stessa comune radice. A tal 
                  proposito credo che lo specismo si sviluppi nello stesso modo 
                  in cui si sviluppa il razzismo, il sessismo, il classismo, il 
                  patriarcato, il maschilismo, l'omofobia, lo schiavismo, l'antropocentrismo, 
                  l'etnocentrismo, il colonialismo, il nazionalismo, il capitalismo 
                  e tutte quelle forme di dominio economico, sociale, culturale, 
                  di appartenenza e di identità. Pertanto, la lotta per 
                  la liberazione totale, non potrebbe essere considerata compiuta 
                  fin quando anche lo specismo non verrà sdradicato e distrutto. 
                 Nicholas Tomeo 
                  Vasto (Ch) 
				   
				 
                    
                  Botta.../ Ma quando parlate dei rom, non dite mai che... 
                   
                  Seguo con attenzione ciò che scrivete; su molti argomenti 
                  mi trovo in sintonia con gli autori degli articoli. Ma c'è 
                  qualcosa che mi spinge a dissentire da coloro che scrivono sui 
                  rom. Vengono trattati come se questi fossero dei santi, senza 
                  peccati. Ho il timore che attorno ai rom sia stato creato un 
                  mito... Sono tre le cose che mi lasciano perplesso: 
                  1) non parlate mai dello sfruttamento delle donne e dei bambini 
                  da parte degli uomini; 
                  2) non evidenziate mai l'organizzazione gerarchica della comunità 
                  rom; 
                  3) non parlate mai dell'atteggiamento criminale di alcuni rom, 
                  che nulla hanno da invidiare ai criminali più efferati. 
                  Cordialmente, 
                 Giuseppe Decleva 
                  Trieste 
				   
				 
                    
                  ...e risposta/ I pregiudizi sono duri a morire 
                   
                  Abbiamo chiesto una risposta a Giorgio Bezzecchi, rom harvato 
                  (di provenienza croata), figlio di un internato ad Auschwitz, 
                  da lungo tempo attivo – nell'Opera Nomadi e non solo – 
                  in difesa dei diritti negati al suo popolo. Attualmente è 
                  consulente del Consiglio d'Europa per il programma ROMACT 2. 
                  Bezzecchi una ventina d'anni fa collaborò con Fabrizio 
                  De André nella traduzione di parti della canzone Khorahanè. 
                  A forza di essere vento (nell'LP “Anime salve”, 
                  1996). Ha già collaborato in altre occasioni con noi 
                  di “A”. 
                   
                  Caro Giuseppe, 
                  purtroppo, il mito/leggenda creato sul popolo rom (del quale 
                  faccio parte), ieri e oggi, è basato sulla presunta e 
                  innata tendenza a delinquere, che non è da santi ma da 
                  peccatori. 
                  In molti viviamo in appartamenti e perfettamente componenti 
                  della comunità locale, soprattutto da quando le nostre 
                  storiche professioni sono venute meno. 
                  È ormai superata la vecchia concezione che ci associava 
                  alle comunità nomadi, con un'organizzazione gerarchica 
                  propria, termine superato sia da un punto di vista linguistico 
                  che culturale e che quindi non fotografa correttamente la situazione 
                  attuale che vede solo la famiglia allargata come organizzazione 
                  sociale. 
                  Oggi siamo in prevalenza famiglie sedentarizzate, in gran parte 
                  di nazionalità italiana e di antico insediamento. Le 
                  famiglie appartenenti ai gruppi nomadi sono pochissime. 
                  Secondo il ministero dell'interno, nel nostro paese le famiglie 
                  che ancora viaggiano rappresentano il 2 o 3% del mio gruppo. 
                  Ma il pregiudizio rimane, alimentato dai media attraverso la 
                  generalizzazione, creando una politica di segregazione. 
                  Come saprai, il danno arrecato da improprie associazioni di 
                  notizie continua ad alimentare allarmi ingiustificati. Il rischio 
                  di generalizzazioni e di infondati allarmismi ci vede vittime 
                  istituzionali, frequentemente. In questo difficile momento, 
                  la divulgazione di notizie vede l'accostamento generalizzato 
                  e senza distinzione alcuna di un intero gruppo etnico con determinati 
                  fenomeni di criminalità, come nel nostro caso. 
                  Troppo insistentemente i media citano i comportamenti incivili 
                  e i furti di alcuni rom e sinti senza fornire alcun elemento 
                  di riscontro e dipingendo la mia comunità come un gruppo 
                  incline alla delinquenza. L'accostamento generalizzato e senza 
                  distinzione alcuna di un intero gruppo etnico a determinati 
                  fenomeni di criminalità è perseguibile. 
                  La responsabilità dei comportamenti devianti è 
                  e deve rimanere individuale. Nei diversi casi di denuncia di 
                  sfruttamento e altri atti criminali di alcuni rom e sinti, che 
                  ci sono, si sono giustamente avviate le indagini e prese le 
                  adeguate misure giudiziarie a loro carico. 
                  I pregiudizi e la discriminazione, comunque, persistono, sintomo 
                  che le credenze che si sono trascinate per secoli sono dure 
                  a morire. 
                  Mi sembra quindi doveroso ed opportuno un richiamo forte, a 
                  quanti operano nel mondo dell'informazione, a raccontare la 
                  realtà nel rispetto di tutti, evitando di alimentare 
                  un clima di tensione sociale. 
                  Cordiali saluti. 
                 Giorgio Bezzecchi 
                  Milano 
				   
				 
                    
                  Ma la violenza, comunque, è prevaricazione 
                   
                  Quando l'ormai lontana scorsa estate a Londra ho visto questi 
                  due volantini, sono rimasta così colpita dall'esplicita 
                  mistica della distruzione che li ho fotografati. Non sapevo 
                  ancora chi fosse Mauricio Morales detto Punky Mauri e francamente 
                  non ho pensato di usare il mio smartphone per cercare chi fosse. 
                  Invece della curiosità, nella mia testa si stava formando 
                  la lista di autori che negli anni hanno alimentato, secondo 
                  me, il pensiero e la pratica dell'anarchismo, insomma quasi 
                  tutto il campionario di Elèuthera e non solo. Via via 
                  si succedevano le idee su cosa penso sull'uso della violenza. 
                  Immediatamente il mio pensiero va all'impegno quotidiano di 
                  Emma Goldam, per deviare su Paul Goodman e arrivare alla pratica 
                  della libertà di Colin Ward, o allo spazio politico dell'anarchia 
                  di Eduardo Colombo. 
                  Poi penso che basterebbe semplicemente insistitere su Godwin 
                  che riteneva fondamentali l'educazione e la persuasione razionale, 
                  come strumenti di elevazione della società umana o su 
                  Proudhon, anzichè porre l'accento su Bakunin e su Kropotkin! 
                  Ma forse per interessare i giovani (ma son solo giovani che 
                  hanno voglia di distruggere?) che scrivono e credono nella distruzione 
                  come unica soluzione, ho pensato che avrei potuto invece raccontare 
                  di Tolstoj. Un bel racconto sul grande scrittore per il quale 
                  erano false sia l'idea di poter spezzare la violenza con la 
                  violenza, sia l'idea che l'unica possibile soluzione fosse quella 
                  delle riforme: trattare un accordo con il governo facendo concessioni 
                  sperando di liberare il popolo a piccoli passi. 
                  L'unica possibile via a cui pensò Tolstoj è affidata 
                  alla coscienza dei singoli individui, e si fonda sul rifiuto 
                  della violenza e della menzogna, sul pensiero indipendente e 
                  libero, e sulla non collaborazione. Insomma si combatte con 
                  la sola arma del pensiero, della parola, dell'esempio di vita, 
                  senza fare concessioni al governo, senza entrare nelle sue file, 
                  senza contribuire all'aumento della sua forza. 
                  “Se c'è qualche possibilità [...] c'è 
                  solo grazie agli sforzi dei singoli individui” così 
                  scriveva Tolstoj nei sui diari e io sono completamente d'accordo 
                  con lui. 
                  A questo punto sottolineo: Malatesta sosteneva che la violenza 
                  fosse una necessità, non l'ha mai considerata un mezzo. 
                  Secondo lui gli anarchici erano dei liberatori e non dei giustizieri. 
                  Dunque se anche sosteneva che ricorrere alla violenza fosse 
                  un espediente obbligato per piegare l'ostinata resistenza del 
                  potere, non vi sarebbero dovute essere “vittime inutili, 
                  nemmeno tra i nemici”, rimanendo “buoni e umani 
                  anche nel furore della battaglia”. 
                  Ma forse invece di concentrarmi sulla giustificazione intellettuale 
                  del NON usare la violenza come mezzo, dovrei capire meglio chi 
                  è Mauricio Morales detto Punky Mauri. 
                  Era un giovane anarchico cileno. È morto trasportando 
                  un ordigno rudimentale, probabilmente destinato a far saltare 
                  la Scuola di Gendarmeria del Cile, verso cui si stava dirigendo. 
                  Dunque chiamare a raccolta in suo nome è espressione 
                  di uno stato di malessere e di oppressione che determina una 
                  risposta spontanea di tipo violenta? 
                  Come si rapporta il pensiero e la pratica anarchica alla sua 
                  morte che dai suoi compagni viene definita da combattente? Come 
                  si concilia con la mia (e non solo) idea che la via sia quella 
                  della pratica quotidiana della democrazia diretta in forma di 
                  assemblee territoriali, di consigli, di insiemi collettivi, 
                  che si tratti anche solo di un Gruppo di Acquisto Solidale, 
                  tutte cose che rappresentano la via della costruzione di una 
                  società solidale, autogestionaria e federalista, ove 
                  sia affermato finalmente il principio “a ognuno secondo 
                  i suoi bisogni, da ciascuno secondo le sue capacità”? 
                  Bisogna tener presente che la violenza, qualsiasi essa sia, 
                  è una forma di prevaricazione di un individuo su un altro 
                  individuo. Com'è possibile costruire una società 
                  di liberi e di eguali, e contingente instaurazione di un ordine 
                  sociale in cui ogni potere, e quindi ogni violenza, sia estirpata? 
                  E ancora, perché ci sono anarchici che alimentano il 
                  pregiudizio che anarchia significa violenza ed è quasi 
                  solo sinonimo di dinamite? 
                  Certo non contesto il diritto di negare la forza con la forza. 
                  Mio padre è stato partigiano e poi la stessa dichiarazione 
                  dell'ONU sui diritti degli esseri umani prevede il ricorso all'insurrezione 
                  contro regimi liberticidi ed autoritari. Dunque la questione 
                  vera è piuttosto quella dell'utilità della violenza 
                  nel processo di costruzione della forza da opporre alla violenza 
                  dello Stato. E per quanto riguarda l'utilità degli attentati 
                  individuali, del ricorso alle armi, fuori di un eventuale contesto 
                  di “rivoluzione in opera” bisogna riconoscere che 
                  non hanno mai giovato, anzi come è accaduto anche dopo 
                  la morte di Punky Mauri, hanno fornito alla polizia valide motivazioni 
                  per una repressione ancora più dura e sempre più 
                  generalizzata, e senza che qualcuno sia riuscito a far veicolare 
                  il messaggio anarchico. 
                  Per concludere: l'abbinamento anarchia/violenza fa il gioco 
                  del potere e depotenzia la proposta sociale anarchica, screditandola 
                  e riducendola a puro fenomeno ribellistico. 
                  Averne coscienza vuol dire non offrire al potere occasioni per 
                  leggittimare e incrementare la sua oppressione e la sua violenza, 
                  ma lavorare per la costruzione di quell'unità e di quella 
                  forza sociale che uniche possono abbattere il sistema classista 
                  e autoritario. Oppure qualcuno mi spieghi il contrario! 
                 Eugenia Lentini 
                  Milano 
                
                   
                     | 
                      | 
                   
                   
                    |   Ecco la traduzione del volantino 
sopra riprodotto che, insieme a quello accanto, ha  suscitato l'intervento di Eugenia Lentin: “Armati e sii violento, meravigiosamente  
violento, finché tutto non brucerà. Perché ricordati che ogni azione 
violenta contro  i promotori di disuguaglianza è chiaramente giustificata dai secoli di infinita  violenza 
a cui ci hanno sottoposto. (Mauricio Morales, Punky Mauri). Mauri,  sei presente in ogni attacco 
del conflitto contro l'autorità, in ogni tentativo di  distruggere questa società, 
in ogni meraviglioso atto di solidarietà  coi prigionieri”. “Fatemi un favore, fate in 
modo che l'anarchia viva”  | 
                   
                   
				 
                    
                  Contro il materialismo, per il margine umano. Anche nel porno 
                   
                  Vi scrivo in merito all'interessante presentazione di diversi 
                  punti di vista sul tema della pornografia. Quando Monica Lanfranco 
                  parla (in “A” 
                  401, ottobre 2015) della finta strada per la liberazione 
                  argomentando che: “Alcune femministe italiane hanno sostenuto 
                  che la libertà femminile si esprime e si legittima anche 
                  nella scelta di vendersi, di farsi comprare, così come 
                  di comprare, consumare o essere soggetto/oggetto di pornografia. 
                  In questa certezza si lascia, però, di sfondo, un dato 
                  non secondario: non si considera come queste scelte, propugnate 
                  come libere, sono rigorosamente dentro l'orizzonte del mercato, 
                  che non è per nulla libero, ma al contrario diventa l'unico 
                  elemento regolatore delle relazioni così come delle vite 
                  individuali e delle dinamiche collettive, causando la messa 
                  in secondo piano dei sentimenti e delle emozioni, centrando 
                  l'attenzione e la signoria sul denaro e il potere. Rendendoci, 
                  tutti e tutte, al servizio acritico di un pensiero unico, e 
                  non più libere e liberi”. 
                  Il suo ragionamento è troppo materialista per quel che 
                  credo, infatti un dato non secondario che la Lanfranco non considera, 
                  riducendo tutte le nostre scelte alle dinamiche del mercato 
                  che declinano le nostre vite come in un Matrix senza possibilità 
                  di intervento, è quello che Romain Gary chiamerebbe il 
                  nostro “margine umano”, quell'umanità che 
                  sfugge a queste interpretazioni che in Lui non hanno fiducia 
                  e che sviliscono la genuina irriducibilità di tutti noi, 
                  uomini e donne, fruitori/ produttori, soggetti/oggetti del mercato 
                  pornografico. 
                  Il margine umano è la nostra possibilità di rendersi 
                  conto di queste dinamiche e di combatterle in nome dell'Umano, 
                  il nostro sentire, il nostro essere consapevoli che se il pensiero 
                  unico acritico è la minestra più facile da ingoiare 
                  ci sono molte altre pietanze che la vita ci offre, basta essere 
                  curiosi, basta ricordarsi che ogni teoria che oggettivizza la 
                  nostra unicità non ne coglie che una sfaccettatura, nella 
                  misura e nella forma dei limiti stessi di ogni chiave interpretativa 
                  che si vuole ultima e quindi dogmatica. 
                  Una domanda proibiamo il porno e riapriamo le case chiuse? 
                 Fabrizio Dentini 
                  Marseille (Francia) 
                 
                   
                   
                   
                 
                 
                  
                     
                      |    I 
                          nostri fondi neri 
                             | 
                     
                     
                        
                           Sottoscrizioni. Fondazione Giorgio Gaber 
                            (Milano) quale contributo per la collaborazione nell'organizzazione 
                            della serata su Pietro Gori, il 1° agosto 2015 
                            a Carrara, 500,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando 
                            Miloud, 500,00; Arnaldo Androni (Vigolo Marchese – 
                            Pc) 10,00; Libreria San Benedetto (Genova Sestri Ponente) 
                            12,50; Enrico Calandri (Roma) 150,00; Marco Cressatti 
                            (Bari) 15,00; Giancarlo Nocini (San Giovanni Valdarno 
                            – Ar) 10,00; Rinaldo Manganelli (Villafranca 
                            in Lunigiana - Ms) per versione pdf, 10,00; Massimiliano 
                            Bonacci (Bologna) 20,00. Totale € 1.227,50. 
                          Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti 
                            specificato, trattasi di euro 100,00). Sergio 
                            Bissi (Mantova); Claudio Paderni (Bornato – 
                            Bs); Luigi Palladino (Torre del Greco – Na). 
                            Totale € 300,00. 
                          | 
                     
                   
                 
                 |