  
                
  
                 Fogli 
                  e foglie per sentire il profumo dell'anarchia 
                   
                  Accaniti stampatori intemperanti, gli anarchici, le anarchiche, 
                  con tutta una loro punteggiatura particolareggiata d'A cerchiata, 
                  son sempre stati autodidatti contro gli Stati del comune senso 
                  del pudore editoriale. Editavano schizzando temerari inchiostro 
                  intemperante. Macchiavano di nero con vecchie macchine il destino 
                  clandestino degli ultimi arrivati. Sperimentavano Altre e Alte 
                  Libertà accendendo le micce dell'autoproduzione popolare, 
                  costruendo la costituzione incostituzionale del nuovo Libro 
                  Orizzontale. 
                  È per questo che l'aria della microeditoria, oggi, profuma 
                  d'anarchia! 
                  Prendete fogli, foglie, timbri e stampe, prendete i libri truccati 
                  e manipolati, strappati e ricuciti, scolpiti di collage, bucati 
                  e bruciacchiati ad arte dall'affascinante folgore dell'autonomia 
                  e, di nuovo, sentirete il profumo dell'anarchia. Uno sventagliar 
                  di pagine particolari, un vento leggero e libero di libri che 
                  si librano. 
                 Troglodita Tribe 
                  Serrapetrona (Mc) 
                  troglotribe@libero.it 
				   
				 
                    
                  Expo 2015 / Alla Fiera dell'Ovest 
                   
                  Quando Letizia Moratti convocava conferenze stampa per parlare 
                  dell'impegno profuso a favore di Expo 2015 a Milano, veniva 
                  presa sottogamba. 
                  Appena qualche anno più tardi, l'esercizio delle conferenze 
                  stampa a favore di Expo veniva svolto con la medesima dedizione 
                  da Enrico Letta. Non gli andò meglio. Forse l'ex Presidente 
                  del Consiglio immaginava di potersi godere la ribalta mediatica 
                  da premier in carica, al momento dell'esposizione universale. 
                  Non ce l'ha fatta: tradito dai suoi vecchi compagni. Lo hanno 
                  scaricato appena un competitore più forte s'è 
                  fatto avanti. 
                  Le dichiarazioni di Letta sull'Expo venivano, ovviamente, cestinate 
                  nello spazio di una notizia. Nessuno poteva prendere sul serio 
                  le promesse di una grande fiera, dalla quale sarebbero discesi 
                  a ruota gli aumenti del PIL, il drastico calo della disoccupazione 
                  e lo spettacolare rilancio dell'immagine turistico-commerciale 
                  e socio-culturale dell'Italia nel mondo. 
                  Già queste premesse basterebbero a non prendere sul serio 
                  quando previsioni simili vengono ripetute dall'attuale Presidente 
                  del Consiglio. La sorpresa è che queste dichiarazioni 
                  vengono riportate molto più frequentemente dagli organi 
                  di stampa al gran completo e prese sul serio da uno squadrone 
                  di analisti (economisti, politologi, sondaggisti e immancabili 
                  soubrette), che nemmeno i famigerati plastici del servizio radiotelevisivo 
                  pubblico sui delitti irrisolti di casa nostra. 
                  Come si può prendere sul serio cose di questo tipo? La 
                  gran parte della forza lavoro cooptata per Expo non riceverà 
                  alcun compenso (e ne riparleremo a brevissimo). L'allestimento 
                  dei padiglioni ha scontato ritardi mostruosi e ancor più 
                  mostruose inchieste su presunta sottrazione di denaro pubblico. 
                  Non aiuta, poi, che lo scenario trionfante di questa esposizione 
                  sia quello di un Paese che viene da otto anni di profondissima 
                  crisi economica. Se nel 2007 ci avessero trasportato su un altro 
                  pianeta, impossibilitati ad aver notizie del Bel Paese, tornando 
                  oggi ci chiederemmo: ma che diavolo c'è da festeggiare? 
                  Tutto il battage mediatico su Expo ha dell'incredibile. 
                  La maggior parte delle imprese coinvolte ha scelto, facilitata 
                  da un tessuto normativo ormai inaridito, un'opzione di reclutamento 
                  delle lavoratrici e dei lavoratori davvero intrigante: stage, 
                  o forme varie di tirocinio, assolutamente non retribuiti, come 
                  grande opportunità formativa. Siamo all'assurdo. 
                  Appena entrato in vigore il Jobs Act, siamo già al Jobs 
                  Act 2.0. Non solo il tirocinante svolge a tutti gli effetti 
                  delle normali mansioni lavorative (per la cui retribuzione sarebbe 
                  bastato ricorrere a “normali” contratti di lavoro 
                  a tempo determinato), non solo non viene pagato, ma gli si dice, 
                  col sereno atteggiamento didascalico del caso, che è 
                  un miracolo dell'intelligenza italica che non debba essere lui 
                  a pagare l'impresa. Eh già... e quando ricapita una così 
                  bella offerta formativa a costo zero? Con tutto quello che costano 
                  i master, gli studi, i molteplici corsi di specializzazione? 
                  Questo tirocinante è a tutto voler concedere un lontano 
                  nipote del leggendario Charlie Chaplin di Modern Times: si sobbarca 
                  una trasferta inaudita per poter lavorare; gli sono date mansioni 
                  ripetitive, inumane e standardizzate sotto la soglia della sopportazione; 
                  non riceve in massima parte compenso alcuno. Ma una bella pacca 
                  sulla spalla e l'implicita richiesta di dover ringraziare. 
                  Il lettore davvero smaliziato, gufo e cattivone, noterà 
                  che: a) se lo scopo dell'attività di formazione è 
                  abituare il soggetto che viene formato a ciò che farà 
                  nella vita, non c'è da stare allegri; b) Modern Times 
                  è un film del 1936, sebbene i distratti possano dimenticare 
                  cosa casualmente successe esattamente tre anni dopo l'uscita 
                  della pellicola. Sì, non c'è da stare allegri. 
                  L'Expo si svolge, per altro verso, in un periodo di grandi difficoltà 
                  civili e sociali per l'Italia. Il termine “difficoltà” 
                  è certamente più neutro di “tensione”. 
                  Ed è sinceramente anche più appropriato e preciso: 
                  nonostante quanto sia successo in Italia perlomeno nell'ultimo 
                  quinquennio, non si è ancora delineata una vera organizzazione 
                  del disagio. Ne abbiamo due spie rivelatrici. 
                  Tanto per cominciare, i diversi esecutivi succedutisi continuano 
                  a riproporre, su molti punti qualificanti, le stesse politiche: 
                  la corda viene tirata, non si vede all'orizzonte il momento 
                  del suo spezzarsi. Il potere ha certo perso pudore, ma costitutivamente 
                  il potere non fa da sé ciò che lo pone in una 
                  condizione di minaccia e perdita di se stesso: si può 
                  proseguire, finché non giunge l'altolà di una 
                  pugnace opposizione. In secondo luogo, serpeggia in Italia una 
                  certa fatalistica acquiescenza. Le cose così vanno (male) 
                  perché così devono andare. 
                  La dinamica della comunicazione politica industriale sta finalmente 
                  realizzando il suo scopo fondativo, la ragion d'essere della 
                  propria esistenza. Un potere paternalistico può limitarsi 
                  a dire con sufficienza: le cose così vanno perché 
                  così devono andare. Già il potere post-democratico 
                  da Colin Crouch in poi si misurava e si misura con un altro 
                  tipo di informazione: le cose così vanno (male) perché 
                  così devono andare. Ora è in atto la terza fase: 
                  le cose così vanno perché così devono andare 
                  e si sappia che stanno andando bene, alla grande. Hegel, nelle 
                  retrovie, è in gran fermento, perché alla fine 
                  questo potere somiglia alle più distorte interpretazioni 
                  della sua concezione idealistica. 
                  Ciò che è razionale è reale, e ciò 
                  che è reale è razionale. Il potere versione “Expo 
                  2015” può conservare la stessa struttura grammaticale, 
                  la stessa analisi del periodo. Ciò che è deciso 
                  è ottimo, e ciò che è ottimo è ottimo 
                  perché è in questo modo che è stato deciso. 
                  Raccapricciante... 
                 Domenico Bilotti  
                  Rende (Cs) 
				   
				 
                    
                  Quando il denaro non è più lo sterco del diavolo 
                   
                  Dal 20 al 26 agosto 2015 si è svolto l'annuale meeting 
                  di CL che si tiene a Rimini, polo turistico e del divertimento 
                  senza freni, da 35 anni a questa parte. 
                  E già ci si potrebbe chiedere il perché di una 
                  location così tanto antinomica rispetto al messaggio 
                  cattolico, dietro il quale la nota organizzazione nasconde il 
                  suo operato. 
                  Comunione e Liberazione è un movimento patrocinato da 
                  Don Giussani che nasce da una costola dell'Azione Cattolica, 
                  nelle aule del liceo classico Berchet a Milano, nel 1969. 
                  Essa in nuce aveva un orizzonte di azione fortemente contrapposto 
                  rispetto all'idea di rivoluzione social-comunista, ipotizzando 
                  il raggiungimento della “liberazione” – ossia 
                  la salvezza – tramite la comunione con Cristo. 
                  Il 24 e il 25 agosto mi sono dunque recato al raduno, con l'obiettivo 
                  di carpire il significato proprio di questa esperienza cristiana 
                  secondo i giovani che la animano e di farne un reportage video. 
                  I ragazzi e ragazze, tra i 16 e 22 anni, erano all'incirca tremila, 
                  provenienti soprattutto dal Nord Italia. 
                  Nonostante i continui tentativi di ostruzionismo da parte degli 
                  organizzatori, affinché i volontari non rispondessero 
                  alle mie domande – a loro detta – scomode e provocatorie, 
                  sono riuscito comunque nel mio intento di inchiesta. 
                  Il volontario ciellino deve tutto al movimento e ha cieca fede 
                  in esso. 
                  Quest'occasione rappresenta per lui un'enorme esperienza di 
                  vita in cui cementifica il suo legame con gli altri militanti 
                  – cosa che potrebbe poi tornargli utile in futuro. 
                  Egli è smisuratamente coinvolto nel suo impiego, tanto 
                  da non essere in grado di riconoscere la natura dello stesso, 
                  equiparandolo a un comune servizio svolto a favore dei bisognosi. 
                  Nonostante la quantità di denaro impiegata nel meeting, 
                  di circa 8 milioni, all'organizzazione non basta solo sfruttare 
                  il suo lavoro, ma per giunta non gli fornisce nemmeno vitto 
                  e alloggio. 
                  Sorprendente è stato il fatto che alla domanda su cosa 
                  fosse la Compagnia delle Opere, nessuno degli intervistati sia 
                  stato in grado di rispondere. Nessuno. 
                  Mi sono quindi sentito in dovere, forse peccando di superbia, 
                  di spiegare loro di cosa si occupasse quest'organizzazione con 
                  la forza di una lobby e un peso economico superiore a quello 
                  dell'Opus Dei. 
                  Il CdO è una rete che comprende 36mila imprese con un 
                  fatturato annuo pari a 70 miliardi. 
                  Tale ente non può non intaccare il tessuto economico-finanziario 
                  del nostro Paese, andando a inserirsi all'interno del sistema 
                  politico e ponendo personaggi di rilievo del movimento in ruoli 
                  chiave. 
                  Dietro al finanziamento a sei zeri del meeting, troviamo le 
                  più importanti aziende italiane e alcune note multinazionali: 
                  Trenitalia, Fiat, Finmeccanica, Eni e Enel, Nestlè, Sky, 
                  Gioco del Lotto e la Compagnia delle Opere sopracitata. 
                  Tramite il ministro Mauro, alla difesa e il ministro Lupi, alle 
                  infrastrutture, entrambi ciellini, per esempio Finmeccanica 
                  e la Compagnia delle Opere, hanno ricevuto agevolazioni per 
                  ciò che concerne la costruzione di armamenti militari 
                  l'una e appalti pubblici l'altra. 
                  Troviamo poi Intesa San Paolo, nota finanziatrice dell'industria 
                  bellica. 
                  Eni invece, multinazionale del petrolio, che ha costruito negli 
                  anni la sua fortuna corrompendo i governi degli stati africani 
                  produttori di greggio. 
                  Scorrendo si arriva poi a Nestlé, condannata per sfruttamento 
                  minorile e la commercializzazione di prodotti non idonei al 
                  commercio nei paesi in via di sviluppo. 
                  Gioco del Lotto infine, a cui è stata condonata un'evasione 
                  fiscale per la pantagruelica somma di 7 miliardi. 
                  Se durante la prima giornata di meeting mi sono occupato prevalentemente 
                  della fenomenologia del volontario, la seconda ha coinciso con 
                  il Renzi Day. 
                  Seguendo il flusso di giornalisti veniamo rinchiusi e ghettizzati 
                  all'interno di un'area transennata e sorvegliati a vista da 
                  una coppia di militanti ottuagenaria. 
                  Da sottolineare l'intransigenza delle due, che non permettevano 
                  il deflusso dalla zona da loro supervisionata, per metà 
                  coperta da una tettoia. 
                  Ferve l'attesa e la tensione è palpabile, i volontari 
                  si caricano a vicenda dandosi continuamente il cinque, mentre 
                  i giornalisti divorano nicotina. 
                  All'improvviso, il miraggio: “Matteo è fra noi!”. 
                  La macchina – rigorosamente blu – scorta in lontananza 
                  si fa sempre più vicina nel preciso momento in cui inizia 
                  a diluviare. Gli operatori tutti fuggono dalla postazione esterna 
                  ammassandosi al coperto per evitare di rompere le attrezzature. 
                  Prontamente estraggo l'ombrello rosso datomi in dotazione da 
                  mia madre e lo porgo al mio operatore di ripresa: siamo stati 
                  dunque gli unici a riprendere l'arrivo dell'attesissimo Premier, 
                  con grande invidia delle più grandi emittenti italiane. 
                  Prontamente i volontari, stringendosi le mani, fanno cordone 
                  insieme ai carabinieri, affinché “Matteo, Matteo!” 
                  possa arrivare illeso alla sua destinazione. La calca è 
                  asfissiante. È guerra: cameramen e giornalisti si azzuffano 
                  alla ricerca di un'immagine o di una parola del “Nostro”. 
                  Renzi invece sta sereno e continua a salutare: saluta, saluta, 
                  saluta, ma chi saluta? Sorrideva e salutava persino verso il 
                  muro, come fosse matto, ma lo spettatore a casa non se ne accorgerà. 
                  Si avvicina verso me e abbraccia un signore, che scopro poi 
                  non abbia mai incontrato in vita sua: per le telecamere questo 
                  e altro. 
                  La mia voce viene timidamente sopraffatta, nel tentativo di 
                  chiedergli se fosse venuto a caccia di voti, dalle grida osannatrici. 
                  Una ragazzina mi si para davanti e, con voce rotta dall'emozione 
                  esclama: “Mi ha toccato la mano” e si allontana 
                  piangendo; una scena al confine del biblico, in cui Renzi non 
                  può che interpretare Gesù Cristo. 
                  Procedendo per sillogismi appare dunque evidente il significato 
                  di tale comportamenti; Renzi rappresenta il potere, CL lo brama, 
                  i ciellini adorano Renzi – forse non solo metaforicamente. 
                  Il vero volto di Comunione e Liberazione si cela dunque dietro 
                  un crocifisso. 
                  L'interesse – in primis quello economico – è 
                  il fondamento sul quale si basa la rete di scambi di favori 
                  di questo sistema, le cui sfumature ricalcano non poco quelle 
                  di una cosca. Viene inoltre abbandonato il principio di carità 
                  a favore del profitto, facendo circolare cifre esorbitanti tanto 
                  che “se Gesù Cristo fosse vivo si vergognerebbe 
                  delle tonnellate d'oro e delle loro banche”. 
                  Dice Papa Francesco – Papa Francesco I per l'esattezza 
                  – : “La logica del profitto è come un brutto 
                  virus che colpisce la testa.” 
                 Tommaso Proverbio 
                  Milano 
				   
				 
                    
                  Ma gli anarchici devono essere liberisti? 
                   
                  Cari compagni, scrivo per esprimere un'insoddisfazione, 
                  che mi coglie ogni qualvolta il nostro giornale parla di temi 
                  economici. Mi pare infatti che faccia difetto una critica anarchica 
                  dell'economia dominante, e che si esprimano sempre posizioni 
                  subalterne rispetto a quelle della sinistra statalista. Mi riferisco 
                  in particolare alla polemica nei confronti del cosiddetto “neo-liberismo”. 
                  Premetto che, a mio avviso, un anarchico, indipendentemente 
                  dalla scuola di appartenenza, non può che essere “liberista”, 
                  ossia favorevole alla libertà in ogni campo, e quindi 
                  anche in campo economico. Tertium non datur, o si ritiene 
                  che ognuno sia libero di intraprendere come vuole, anche a livello 
                  di comunità, ovvero si ammette che vi sia un'autorità, 
                  la quale sia incaricata di stabilire quando si possa intraprendere 
                  e quando no. 
                  Lungi da me difendere gli attuali capitalisti, soprattutto quelli 
                  di grande dimensione. Solo che mi aspetterei che, in una rivista 
                  anarchica, si mettesse di più in luce come tale grande 
                  capitale sia in primo luogo complice del gigantesco potere dello 
                  Stato per accumulare ingiusti profitti. 
                  Non v'è oggi grande impresa che non sia ammanicata, 
                  in un modo o nell'altro, con lo Stato. Si pensi all'industria 
                  degli armamenti, all'energia (trilioni di dollari di 
                  sussidi alle industrie petrolifere, con ogni conseguenza in 
                  termini di attentato all'ambiente), alla grande finanza 
                  too big to fail, ai grandi concessionari di opere pubbliche, 
                  ma anche alle industrie statualmente protette da brevetti, marchi 
                  e copyright. 
                  Esiste poi la questione del monopolio della moneta; questione 
                  tanto più attuale alla luce delle vicende relative allo 
                  strapotere della BCE e di altre banche centrali. Che cosa hanno 
                  da dire gli anarchici su questo argomento? Marx ha scritto migliaia 
                  di pagine sul denaro senza accorgersi che stava trattando un 
                  monopolio statale e non un prodotto del mercato, mentre invece 
                  Proudhon, Warren e Tucker se ne erano accorti. Perché 
                  non valorizzare tale filone? Del resto, anche nel più 
                  estremo dei comunismi vi sarà libertà di concorrenza, 
                  perché gli uomini sono ontologicamente divisi, anche 
                  se interagenti in una Terra comune. L'opposto di comunismo non 
                  è capitalismo, ma monopolio. Il capitalismo è 
                  la fase di passaggio tra il monopolio e il comunismo, e questo 
                  Marx l'aveva appena intuito negli accenni “anarco-capitalisti” 
                  dei Grundrisse. 
                  Oggi non vige nulla di tutto ciò, non abbiamo alcun liberismo, 
                  vecchio o nuovo, ma solo idiocrazia (da “idion”, “privato” in greco), ossia il dominio di signori 
                  privati che usano la forza per sottrarsi alla concorrenza. 
                  Saluti libertari. 
                 Fabio Massimo Nicosia 
                  Milano 
				   
				 
                    
                  Dibattito ricerca scientifica.1/ Appropriarsi della scienza 
                   
                  All'articolo di Philippe Godard sul tema della scienza (“Basta 
                  con la ricerca scientifica!”, “A” 397, 
                  aprile 2015) è già seguita una risposta di Marco 
                  Cappato (“Ricerca scientifica. Altro che bloccarla, lottiamo 
                  per la sua libertà”, “A” 399, giugno 
                  2015). Ospitiamo qui di seguito altri due interventi su questo 
                  argomento.  
                   
                  Ben volentieri recepiamo l'invito al dibattito apparso su A 
                  Rivista numero 397 in merito all'articolo di Philippe Godard 
                  sulla ricerca scientifica. Da tempo pensiamo che sia necessario 
                  avviare una riflessione in campo anarchico in merito alla questione 
                  della scienza e della tecnica, sia nei risvolti applicativi 
                  della metodologia scientifica, le tecnologie, che nel merito 
                  della metodologia scientifica in sé e per sé. 
                  È oramai fatto accertato che l'ultimo secolo e mezzo 
                  di storia umana abbia visto una profonda accelerazione sia delle 
                  scoperte scientifiche “di base” che dell'invenzione 
                  di tecnologie basate sulle scoperte stesse. Questa accelerazione, 
                  riscontrabile in più campi, si è sviluppata insieme 
                  all'attuale sistema sociale, basato su determinati rapporti 
                  di produzione, ma al contempo mostra i limiti dell'ambiente 
                  stesso in cui si è sviluppata. 
                  Al contrario di Godard noi non crediamo che la “scienza” 
                  sia legata in modo inestricabile ad un sistema di dominio. Intanto 
                  bisogna capire di che cosa stiamo parlando: la scienza non è 
                  un oggetto, o meglio una collezione di oggetti-nozioni, ma bensì 
                  è un metodo. La metodologia scientifica è, a nostro 
                  modo di vedere, una metodologia intrinsecamente libertaria: 
                  l'onere della prova, la falsificabilità, la verificabilità, 
                  la riproducibilità, ovvero i capisaldi dei modelli di 
                  spiegazione scientifici, hanno sostanzialmente permesso di strappare 
                  dalle mani dei sacerdoti la spiegazione del mondo eliminando 
                  l'autoritaria dimostrazione per ipso-dixit e facendo 
                  stracci dei modelli finalisti e teologici cari alla tradizione 
                  cristiana e in generale alle tradizioni trascendentali. 
                  Se pensiamo alla storia del pensiero umano come ad una storia 
                  di successioni di diversi modelli di spiegazione del mondo non 
                  possiamo non notare quella gigantesca linea di frattura, frastagliata 
                  certo, che separa l'epoca medioevale in cui tutto veniva ricondotto 
                  all'azione divina dall'epoca moderna in cui i modelli di spiegazione 
                  del mondo devono essere continuamente rimessi in discussione 
                  e non peccano di una visione finalistica e antropocentrica. 
                  È caratteristica intrinseca della scienza stessa il mettersi 
                  continuamente in discussione da un punto di vista dialettico. 
                  Basti pensare all'evoluzione delle teorie in campo fisico: dal 
                  modello meccanicista-classico newtoniano alle formalizzazioni 
                  dell'elettromagnetismo di Maxwell alla formulazione della teoria 
                  della relatività alla fisica quantistica. O ancora ai 
                  diversi modelli di spiegazione dei fenomeni biologici che si 
                  sono susseguiti dall'inizio dell'età moderna ad ora, 
                  dalla teoria degli umori alle più recenti scoperte nel 
                  campo della genetica e al legame tra genetica e stimoli ambientali. 
                  Ogni teoria scientifica, invero, contiene il germe del suo stesso 
                  superamento dialettico. Nei fatti anche i modelli più 
                  formalizzati da un punto di vista logico-matematico sono per 
                  loro stessa natura incompleti o incoerenti (semplificando fino 
                  alla brutalizzazione il teorema dell'incompletezza di Goedel) 
                  e quindi destinati ad essere superati. 
                  Quindi la scienza è neutrale? No, affatto, anzi: la scienza 
                  è di parte in quanto per sua natura mistifica e supera 
                  modelli di spiegazione non più atti allo scopo. E in 
                  questo contiene anche le possibilità di superare un modello 
                  di organizzazione sociale basata sul dominio. 
                  Ma la ricerca scientifica avviene ovviamente all'interno di 
                  una società che, al momento attuale, ha trai suoi principi 
                  cardine quello del dominio dell'uomo sull'uomo e dell'uomo sull'ambiente. 
                  Chi si occupa di ricerca vive all'interno di un certo zeitgeist 
                  ed è attraversato da certe strutture sociali e tenderà 
                  a riprodurle. 
                  Ma questo non elimina un fatto fondamentale: la tecnologia e 
                  la scienza hanno un immenso potenziale di emancipazione che 
                  è al momento posto sotto sequestro dal capitalismo. Sulla 
                  scorta di svariati pensatori possiamo tranquillamente affermare 
                  che le storture sociali che viviamo sono dovute al permanere 
                  di una condizione di scarsità, per quanto sempre più 
                  artificiosa rispetto al passato, dovuta a dei particolari rapporti 
                  di produzione. Liberare le forze emancipatrici della tecnologia 
                  e indirizzarle verso un uso liberatorio significa liberare l'uomo 
                  dalla schiavitù del lavoro salariato e dalla schiavitù 
                  derivata dal mancato soddisfacimento dei propri bisogni primari. 
                  Nei fatti la questione non è bloccare o meno la ricerca 
                  scientifica ma strappare la ricerca scientifica dalle mani dei 
                  detentori dei mezzi di produzione. 
                  Una società anarchica che voglia essere includente e 
                  universabilizzabile non potrà basarsi su paradigmi primitivisti: 
                  tornare ad un presupposto stato di natura per liberarsi dalle 
                  catene del capitale significa solamente incatenarsi ad un modello 
                  di vita meschino, abbruttito e, in ultima analisi, non desiderabile. 
                  Il primitivismo è, a nostro parere, un paradigma estremamente 
                  autoritario in quanto è vivibile solamente da quegli 
                  individui che hanno la ventura di nascere sani. E non raccontiamoci 
                  che un principio di solidarietà farebbe in modo che questi 
                  individui vivrebbero protetti dalle proprie comunità: 
                  con certe malattie, senza un adeguato supporto medico, semplicemente 
                  muori. Soffrendo. Dovrebbe essere quindi una forma passivizzata 
                  e artificiosamente naturale di eugenetica la nostra proposta? 
                  Tra le spire del capitale e fuori 
                Il vero limite, come già ricordato, risiede nelle strutture 
                  sociali all'interno delle quali si ritrova ingabbiata la ricerca 
                  scientifica e non in un problema epistemologico. 
                  L'attuale modo di produzione e i rapporti di produzione hanno 
                  relegato le applicazioni della scienza alla progettazione e 
                  alla realizzazione di beni di consumo di massa o di beni di 
                  distruzione, intrappolando la tecnologia all'interno di cicli 
                  di distruzione-produzione tipici del modo di produzione capitalista. 
                  Appropriarsi dei saperi tecnici e della metodologia scientifica 
                  significa dotarsi di un potentissimo strumento e privare il 
                  nemico dei vantaggi derivanti dalla detenzione di certe tecnologie 
                  strappandole al monopolio delle strutture sociali autoritarie. 
                  Ora, intendiamoci, uno dei maggiori volani delle scoperte scientifiche 
                  dalla fine del XIX secolo è stato il complesso militare-industriale 
                  in quanto è quello che detiene le risorse necessarie 
                  a finanziare la ricerca scientifica. Ma, attenzione, le strutture 
                  autoritarie hanno dovuto inventarsi una serie di escamotage 
                  per ingabbiare un metodo che non è loro. Si pensi ai 
                  vari metodi per bloccare la libera diffusione di informazione 
                  e applicazioni tecnologiche, anche fondamentali per la sopravvivenza 
                  delle persone come i farmaci, tramate l'apparato di brevetti, 
                  copyright, imposizioni di segretazioni sulle ricerche. 
                  Il metodo scientifico è anche quello che ha permesso 
                  l'aumento della qualità della vita per miliardi di persone, 
                  debellato epidemie, ridotto le carestie, creato infrastrutture 
                  resilienti alle calamità; il metodo scientifico è 
                  ciò che permette di individuare in modo preciso l'orrore 
                  della società capitalista: si pensi al ruolo delle scienze 
                  sociali nel denunciare l'orrore di una società basata 
                  sull'accumulazione di denaro o al ruolo delle scienze naturali 
                  nel denunciare la distruzione dell'ecosistema. 
                  A meno che non si preferisca credere alle panzane delle scie 
                  chimiche e dimenticarsi dell'effetto serra e del global warming 
                  è evidente che la prospettiva politica dell'anarchismo 
                  deve necessariamente legarsi all'uso di metodologie scientifiche. 
                  E non affermiamo di certo una novità in campo anarchico 
                  e libertario: si pensi a figure come Reclus o alla formazione 
                  scientifica di un Kropotkin o a pensatori come Bookchin. 
                  La vera questione è: perché in un secolo e mezzo 
                  di movimenti sociali organizzati non siamo stati in grado di 
                  strappare la ricerca scientifica dalle mani del nemico? Per 
                  quale motivo, al posto di usare la tecnologia per meccanizzare 
                  i lavori ripetitivi e pesanti e liberare il tempo per individui 
                  e comunità, permettiamo che questa tecnologia venga usata 
                  per asservire e disciplinare la forza lavoro o per estromettere 
                  milioni di individui nei vari momenti di ristrutturazione del 
                  capitale? 
                  Per quale motivo, al pari della volpe di fedriana memoria davanti 
                  all'uva troppo alta, abbiamo preferito raccontarci la storiella 
                  autoconsolatoria, vero vessillo di impotenza, della scienza 
                  costitutivamente cattiva al posto di riflettere seriamente sulle 
                  modalità di azione da adottare davanti alla barbarie 
                  dello stato e del capitale? 
                 Lorenzo Coniglione 
                  Reggio Emilia 
				   
				 
                    
                  Dibattito ricerca scientifica.2/ Ma la scienza va socializzata 
                   
                  L'articolo di Philippe 
                  Godard (“A” 397, aprile), anche a prescindere 
                  dalla specifica proposta di arrestare la ricerca scientifica, 
                  mi sembra inserirsi in una diffusa atmosfera di diffidenza, 
                  quando non addirittura avversione, nei confronti della scienza 
                  e, soprattutto, della tecnologia. Una tale atmosfera è 
                  chiaramente avvertibile anche all'interno del movimento anarchico, 
                  come dimostra, solo per portare un esempio recente, l'accesa 
                  polemica sulla vaccinazione che ha avuto luogo nelle scorse 
                  settimane sulle pagine di Umanità Nova. 
                  Vorrei quindi partire da alcuni specifici aspetti dell'articolo 
                  di Godard (che sintetizzerò in corsivo all'inizio di 
                  ogni sezione) per proporre alcune considerazioni personali di 
                  carattere più generale. 
                  – La scienza è una spiegazione astratta del 
                  mondo reale. La scienza si basa effettivamente sull'astrazione, 
                  cioè prescinde da una serie di caratteristiche concrete 
                  ed individuali che giudica (magari a torto: da ciò la 
                  possibilità di errore) irrilevanti per la comprensione 
                  dei fenomeni. Si concentra, invece, su altre caratteristiche, 
                  per lo più di natura quantitativa (donde l'importanza 
                  della matematica), che ritiene più adatte ad individuare 
                  la costanza o la regolarità dei fenomeni studiati oppure, 
                  cosa altrettanto rilevante, le connessioni con altri fenomeni 
                  apparentemente diversi o relativi ad ambiti distinti. L'astrazione, 
                  quindi, è in realtà solo un mezzo per elaborare 
                  generalizzazioni corrette; prescinde dagli aspetti individuali, 
                  ma senza per questo necessariamente svilirli. 
                  Di per sé, infatti, la scienza non esclude altri tipi 
                  di approcci, incentrati sulla comprensione concreta, particolareggiata, 
                  del singolo evento e, ancor più, della singola persona. 
                  Non si tratta di approcci che si autoescludono, ma che al contrario 
                  si completano: lo stesso fenomeno può essere analizzato 
                  sia da un punto di vista astratto e generalizzante che da uno 
                  mirato all'individualizzazione e alla ricerca del particolare. 
                  Nel primo caso andranno perse moltissime sfumature, magari anche 
                  fondamentali; nel secondo caso andrà persa invece la 
                  possibilità di individuare relazioni e costanti. 
                  Ora, se uno scienziato nega la validità di ogni altra 
                  spiegazione che non sia quella prevista dalla scienza (o, peggio 
                  ancora, dalla sua particolare disciplina scientifica), ciò 
                  rivela un suo personale limite intellettuale, non un limite 
                  intrinseco della scienza come disciplina rivolta all'acquisizione 
                  di uno specifico tipo di conoscenza. Singolare che proprio Godard 
                  assuma (probabilmente solo a scopo polemico) il punto di vista 
                  di questo ipotetico scienziato di corte vedute, quando sostiene 
                  che, se ci fosse davvero una teoria unificata, non potremmo 
                  più pensare al di fuori dei canoni scientifici. E perché? 
                  Cosa lo impedirebbe? 
                  – La scienza ha acquisito autonomia rispetto ad ogni 
                  altro ambito umano. In primo luogo, questa è, a sua 
                  volta, proprio un'affermazione astratta, che fa della 
                  scienza una sorta di entità indipendente, autonoma rispetto 
                  agli esseri umani reali che la praticano e la sviluppano quotidianamente. 
                  In secondo luogo, è un'affermazione scorretta. Il vero 
                  problema (riconosciuto del resto anche da Godard nel suo scritto 
                  e nella sua risposta a Marco Cappato in “A” 399, 
                  giugno), semmai, è proprio che la ricerca scientifica 
                  è ormai completamente asservita alle esigenze del sistema 
                  di dominio e di sfruttamento e non è mai lasciata libera 
                  di perseguire il proprio autentico intento conoscitivo, anche 
                  a prescindere dall'eventuale utilità o profitto immediato 
                  che le classi dominanti possano trarne. È tale sistema, 
                  non la scienza in sè, a sostenere la tecnologia nucleare 
                  e la produzione di OGM. 
                  Nel capitalismo ogni cosa viene mercificata, cioè prodotta 
                  non tanto per soddisfare un bisogno quanto per realizzare un 
                  profitto. Ciò vale per qualsiasi attività e tuttavia 
                  non possiamo certo pensare di bloccare, per esempio, la produzione 
                  di abiti e rinunciare a vestirci, solo perché questi 
                  vengono prodotti al fine primario di realizzare un profitto 
                  e perché l'industria dell'abbigliamento è in grado 
                  di condizionare con le mode milioni di persone, inducendo falsi 
                  bisogni funzionali all'incremento di tale profitto. Possiamo 
                  invece pensare ad un nuovo modo di produrre e distribuire abiti, 
                  in un contesto sociale dove il primo obiettivo sia soddisfare 
                  un bisogno, non vendere l'ennesimo paio di scarpe. 
                  Anche la scienza, in questo sistema sociale, deve produrre le 
                  sue particolari “merci”, cioè scoperte e 
                  relative applicazioni remunerative. Le ricerche fini a se stesse 
                  o senza un'immediata ricaduta applicativa, la cosiddetta “ricerca 
                  pura”, vengono pesantemente sfavorite in termini di finanziamento 
                  e riconoscimento sociale di chi le svolge, come possono confermare 
                  migliaia di ricercatori condannati al precariato e a remunerazioni 
                  ridicole. Oppure basta pensare, per fare un esempio che rasenta 
                  il luogo comune, all'abbandono in cui versano le ricerche di 
                  terapie per malattie che interessano le popolazioni più 
                  povere del pianeta, non in grado di pagare i farmaci eventualmente 
                  derivati da tali ricerche. 
                  Oltre a ciò, esiste un altro fattore che determina la 
                  perdita di autonomia della scienza e che potrebbe condizionarla 
                  anche in una società non più asservita al profitto: 
                  ormai la ricerca è impossibile senza una strumentazione 
                  tecnologica sofisticata ed enormemente costosa. Tale dotazione 
                  tecnologica può essere finanziata solo dalle istituzioni 
                  pubbliche o da grandi consorzi privati. È questo che 
                  lega la scienza al potere ed al denaro, non la sua particolare 
                  strategia conoscitiva. 
                  L'obiettivo da perseguire, quindi, è la socializzazione 
                  del patrimonio tecnologico per impiegarlo secondo le esigenze 
                  dell'uomo, non secondo i dettami del capitale. Auspico una società 
                  nella quale gli scienziati autogestiscano i propri “mezzi 
                  di produzione” (i laboratori) e contrattino con gli altri 
                  corpi sociali il finanziamento, le condizioni e, soprattutto, 
                  gli orientamenti della ricerca. 
                  L'autonomia della scienza è, quindi, non un male, ma, 
                  al contrario, un obiettivo da perseguire. Forse che l'arte, 
                  la letteratura, l'etica non rivendicano anch'esse (e giustamente!) 
                  la propria autonomia rispetto alle pressioni sociali? E proprio 
                  per essere più autentiche? 
                  – La scienza non mira più alla felicità 
                  e all'emancipazione, ma solo al sapere e al potere. 
                  La scienza deve mirare solo al sapere (al suo peculiare tipo 
                  di sapere, s'intende). Sta poi alla saggezza dell'uomo, 
                  e alla sua organizzazione sociale, orientare tale sapere in 
                  vista della felicità e dell'emancipazione e non 
                  in vista del dominio e dello sfruttamento. 
                  In questo senso la proposta di fermare la ricerca mi pare inutile. 
                  In primo luogo, non sarebbe veramente realizzabile senza un 
                  radicale cambiamento della struttura sociale attuale. D'altro 
                  canto, se si riuscisse a cambiare tale struttura, fermare la 
                  ricerca sarebbe irragionevole, dal momento che potrebbe essere 
                  finalmente indirizzata a scopi socialmente utili. 
                  – Alla scienza occorre contrapporre una visione olistica. 
                  Non c'è bisogno di contrapposizione. La scienza 
                  deve essere integrata con una visione olistica del mondo, che 
                  non si limiti all'analisi di ambiti sempre più 
                  ristretti e, soprattutto, sappia meglio rendere conto del dinamismo 
                  intrinseco della realtà, che nella sua complessità 
                  sfuggirà sempre, almeno in parte, a qualunque teoria 
                  scientifica. Bisogna, però, anche riconoscere che oggi 
                  una tale visione olistica rimane ancora solo allo stato di aspirazione, 
                  soprattutto se si rifiuta (come giustamente fa Godard) ogni 
                  soluzione misticheggiante o New Age; ed in ogni caso, anche 
                  una visione olistica deve affrontare la verifica, la smentita 
                  o, più modestamente, l'approssimazione ai fatti. 
                  Un conto è contestare la limitatezza (e, spesso, la presunzione 
                  e mancanza di umiltà) degli specialisti, che rinchiudono 
                  il mondo negli schemi della loro, spesso ristrettissima, disciplina. 
                  Ben altro è però contestare la specializzazione 
                  stessa in quanto strumento intellettuale utile per incrementare 
                  l'efficacia conoscitiva della scienza: il problema, ancora una 
                  volta, non è l'esistenza di un limite (l'astrattezza, 
                  la specializzazione o quant'altro) di un qualsiasi approccio 
                  al mondo, ma l'assenza di consapevolezza di tale limite, che 
                  inevitabilmente induce a creare una gabbia mentale, anche al 
                  di là delle intenzioni individuali. 
                  Oltre alla visione olistica, non bisognerebbe poi dimenticare 
                  la filosofia; sono esistite diverse scuole filosofiche (lo scienziato 
                  anarchico Kropotkin, per esempio, aderiva ad una di queste) 
                  che, in vario modo, hanno considerato compito precipuo della 
                  filosofia proprio la ricerca di quegli elementi (sia formali 
                  che sostanziali) comuni alle più diverse attività 
                  umane (fra cui, ovviamente, anche la scienza), al fine di elaborare 
                  una visione del mondo coerente ed armonica, per quanto sempre 
                  suscettibile di modifica e perfezionamento in corrispondenza 
                  alle dinamiche della realtà naturale e sociale. L'approccio 
                  filosofico è, anch'esso, limitato nella misura in cui 
                  presuppone che esista veramente una tale coerenza razionale 
                  del mondo, cosa improbabile; ma la sua capacità di elaborare 
                  un'immagine complessiva, in grado di ridimensionare ogni pretesa 
                  egemonica di un singolo approccio particolare, non va comunque 
                  svalutata. 
                  – La scienza mira solo al dominio del mondo e, quindi, 
                  non può essere utilizzata in un percorso di emancipazione. 
                  La scienza offre strumenti e tecniche che possono essere 
                  diversamente utilizzati in relazione allo scopo che si persegue. 
                  Non è una forma di conoscenza inevitabilmente condannata 
                  a rafforzare le strutture di dominio. Per esempio, il movimento 
                  No Tav, fin dalla sua nascita, accompagna alle mobilitazioni 
                  di massa anche un'analisi prettamente scientifica sull'inutilità 
                  e nocività dell'alta velocità (il cosiddetto 
                  “dissenso esperto”). Tali analisi, riconosciute 
                  come di elevata qualità anche dagli avversari in buona 
                  fede, sono svolte proprio da fisici, geologi ed ingegneri (per 
                  lo più del Politecnico di Torino, cioè una delle 
                  strutture accademiche più direttamente sottoposte alla 
                  pressione per ricerche orientate esclusivamente al profitto). 
                  Al di là della specifica proposta, comunque, mi sento 
                  di contestare proprio l'assunto di fondo della tesi di Godard. 
                  La scienza, insieme naturalmente alla socializzazione delle 
                  sue applicazioni tecnologiche, non ostacola ma favorisce un 
                  reale percorso di emancipazione: non solo dal dominio e dallo 
                  sfruttamento, ma anche (per quanto possibile) dalla fatica, 
                  dalla malattia e dal dolore. 
                  Non la scienza da sola, naturalmente; la stessa libertà 
                  della ricerca scientifica va inserita in un più complessivo 
                  processo di emancipazione umana. Ma su questo, credo, non ci 
                  sono divergenze. 
                 Massimiliano Barbone 
                  Bergamo 
                  emmebi@inventati.org 
				   
				 
                    
                  L'anarchia contro il digitale: mini-manifesto per la ricerca 
                  futura 
                   
                  Affinché il movimento sia pieno di naturalezza, pur 
                  nell'artificio di un linguaggio raffinato che si protende al 
                  sublime, è necessario coinvolgere i differenti piani 
                  dell'essere (fisico, emotivo, mentale) per ottenere con fluidità 
                  un'unità olistica di cui spesso neanche si è del 
                  tutto consapevoli.  
                  Fabio Grossi (ballerino) 
                   
                  L'anarchia, qualsiasi forma prenda, non può sposarsi 
                  con il lavoro: è sempre una disgiunzione “anarchia 
                  o lavoro” e mai una congiunzione “anarchia e lavoro”. 
                  Se una congiunzione è vera quando lo sono entrambi i 
                  congiunti... beh, allora dimentichiamoci questo sodalizio. Sappiamo 
                  perché, dopo infinite ricerche sul tema, e ormai non 
                  ha più senso ricordarlo: ma ha invece senso riaffrontare 
                  il discorso in chiave “digitale” - vengo e mi spiego. 
                  Gli anarchici contemporanei hanno visto nell'era digitale, se 
                  usata con le giuste precauzioni, una grande risorsa: le analisi 
                  di Colin Ward hanno fatto scuola in tal senso, ma pensiamo anche 
                  più in generale a come la comunità anarchica abbia 
                  sempre considerato positivamente tentativi open source, per 
                  non parlare di Linux. Il motivo è nobile: il dono attraverso 
                  il web che consente di sperimentare economie alternative, comunità 
                  in dialogo, resistenza al dominio dei colossi informatici (che 
                  oggi sono, senza mezzi termini, i centri nevralgici del potere 
                  organizzato). Eppure ciò che i primi anarchici dell'era 
                  digitale non potevano vedere è come l'epoca contemporanea 
                  sia riuscita, de facto, a compiere l'assoluta dittatura del 
                  lavoro anche quando non si lavora. 
                  Byung-Chul Han ha sostenuto che attraverso il digitale cade 
                  completamente la distinzione tra luogo di lavoro e di non lavoro: “ciascuno si trascina appresso il posto di lavoro come 
                  un campo di lavoro. Così, non possiamo più sfuggire 
                  al lavoro”. Hanno reso possibile la mobilitazione totale 
                  tanto auspicata durante il nazismo. 
                  L'anarchia si trova dinnanzi a una sfida che è, addirittura, 
                  più complessa di quelle che ha dovuto affrontare nel 
                  passato: il web, con la sua emancipazione parziale, in realtà 
                  esalta ed estende la mercificazione del nostro tempo. Lavoriamo 
                  ovunque, e dunque anche gli spazi anarchici residuali - quelli 
                  che Gilles Clément definisce “Terzi paesaggi” 
                  - vengono a mancare, perché il luogo del potere, ovvero 
                  dello Stato, non ci lascia mai, viene insieme a noi: c'è 
                  campo ovunque (e se non c'è è una tragedia), i 
                  telefonini sono ovunque, la rete è appunto “una 
                  rete”: intrappola. Basterebbe scollegarsi? Teoricamente 
                  si, in pratica è verso l'impossibilità di scollegarci 
                  che stiamo andando: orologi digitali (tipo Apple Watch), occhiali 
                  (tipo Google Glass), innesti biomeccanici postumani, sono ciò 
                  che rende la vita umana un “apparato umano” da cui 
                  è impossibile scindersi. 
                  Ora, diciamolo senza girarci attorno, più Homo Sapiens 
                  evolve, più diventa improbabile l'anarchia: globalizzazione 
                  e digitale sono, congiuntamente, dei nemici (quasi) imbattibili. 
                  L'anarchia con il suo sogno di micro-comunità 
                  organizzate cade dinnanzi all'enormità della statalizzazione 
                  al di là dello Stato, dell'economia a sistema 
                  nervoso decentralizzato, della perdita di ogni specificità 
                  in favore di un'omologazione dell'umano planetaria. 
                  Sulla soglia del digitale come lavoro totalizzante si innesta 
                  un nuovo campo di ricerca per i teorici dell'anarchia 
                  che è, onestamente, ancora tutto da esplorare - eppure 
                  dobbiamo cominciare subito, nessun lusso al rimandare. Si potrebbe 
                  pensare a un “principio Thoreau” tale per cui 
                  lo scollegamento totale (un ritorno alla lentezza) sia l'unica 
                  possibilità adesso, qui e ora, prima che il collegamento 
                  coatto di cui dicevo prenda il sopravvento accelerazionismo 
                  scia di Noam Chomsky o Robert Paul Wolf, se l'anarchia 
                  sia possibile o quanto tale modello politico sia aderente alla 
                  natura umana. Si tratta di capire quali siano le differenze 
                  tra movimento e nomadismo: pensare il nostro futuro, il futuro 
                  anarchico, comincia proprio da qui. 
                 Leonardo Caffo 
                  Torino 
				   
				 
                    
                  Podemos/Botta... Ma i pregiudizi non servono 
                   
                  Il panorama politico e sociale della Spagna è cambiato 
                  parecchio in meno di un lustro. Bastano due fotografie per rendersene 
                  conto. Prima fotografia: maggio 2011, le piazze spagnole sono 
                  invase da migliaia di persone che pacificamente chiedono un 
                  cambiamento politico, sociale e culturale. È il movimento 
                  del 15-M, internazionalmente noto come movimento degli indignados. 
                  Non sventolano bandiere di nessun tipo, al massimo quelle della 
                  Seconda Repubblica spagnola. Ci sono solo cartelli fatti a mano 
                  con le scritte più disparate. Lo slogan più gridato 
                  è “No nos representan” (“Non ci 
                  rappresentano”). Si condanna il sistema politico che 
                  ha portato alla crisi economica, alle misure di austerità, 
                  al dramma degli sfratti, alla mancanza di prospettive per le 
                  nuove generazioni. Non a caso uno dei movimenti che convocò 
                  le prime acampadas nella madrilena Puerta del Sol si 
                  chiama Juventud Sin Futuro (Gioventù Senza Futuro). 
                  Seconda fotografia: giugno 2015, migliaia di persone si raccolgono 
                  spontaneamente nelle piazze di molte città della penisola 
                  iberica e festeggiano la formazione di alcune delle nuove giunte 
                  comunali. Si tratta di comuni che, dopo i risultati delle elezioni 
                  amministrative del 24 maggio, iniziano ad essere governati da 
                  liste civiche formate da movimenti sociali, partiti di sinistra 
                  e semplici cittadini: Ahora Madrid e Barcelona en 
                  Comú nelle due metropoli della Spagna, Por Cádiz 
                  Sí Se Puede a Cadice dove il tasso di disoccupazione 
                  è superiore al 40%, Zaragoza en Común a 
                  Saragozza, la Marea Atlántica, Compostela Aberta, 
                  Ferrol en Común nelle città galiziane di La 
                  Coruña, Santiago de Compostela e El Ferrol... In 
                  molti casi, poi, si tratta di comuni che erano stati governati 
                  per vent'anni o più dalla destra neoliberista 
                  e turbocapitalista del Partito Popolare di Aznar e Rajoy. Nelle 
                  piazze c'è allegria, c'è speranza. 
                  Lo slogan più gridato in questo caso è “Qué 
                  sí que nos representan” (“Sì che 
                  ci rappresentano”). E le persone, in molti, moltissimi 
                  casi, sono le stesse che erano nelle piazze in quella calda 
                  primavera del 2011. 
                  Le fotografie colgono un momento – un cambiamento senza 
                  dubbio epocale per la Spagna –, ma non riescono a spiegare 
                  quel che c'è stato nel mezzo. In questi quattro anni 
                  c'è stato il riflusso del movimento degli indignados. 
                  Un movimento che non poteva continuare nella modalità 
                  dell'occupazione sine die delle piazze e che si è 
                  radicato nei quartieri portando avanti lotte quotidiane e concrete, 
                  in modo simile, con tutte le differenze del caso, a quanto successo 
                  negli Stati Uniti con Occupy Wall Street. C'è 
                  stato il rafforzamento della lotta contro gli sfratti per mutui 
                  ipotecari (oltre 500 mila dal 2007 al 2013 in Spagna) con la 
                  Plataforma de Afectados por la Hipoteca. Ci sono state 
                  le mareas, quella bianca della sanità pubblica, quella 
                  verde della scuola, quella azzurra in difesa dell'acqua pubblica, 
                  quella gialla in difesa del sistema biblitoecario... Di tutto 
                  questo ne avevamo parlato in un articolo pubblicato su questa 
                  rivista nell'estate del 2013 (“Spagna. 
                  Due anni dopo” in “A” 382, estate 2013). 
                  C'è stato anche l'approfondimento di una crisi che ha 
                  colpito duramente una popolazione di oltre 47 milioni di abitanti: 
                  la disoccupazione ha superato il 25%, pari a quasi sei milioni 
                  di persone, e ora si attesta su un drammatico 23,4%. C'è 
                  stata la morsa del governo di Rajoy, che dispone dal novembre 
                  del 2011 della maggioranza assoluta in Parlamento, con dosi 
                  massicce di austerità – sempre secondo il lemma 
                  dell'”avete vissuto al di sopra delle vostre possibilità” 
                  – unite a dosi sempre maggiori di repressione, culminata 
                  con la recente approvazione della Riforma del Codice Penale 
                  che punisce duramente qualunque minimo tentativo di proteste 
                  e financo di libertà di espressione. C'è stato 
                  poi l'emergere della questione catalana con le grandi manifestazioni 
                  dell'11 settembre degli ultimi anni che hanno portato nelle 
                  strade di Barcellona oltre un milione di persone che hanno chiesto 
                  a gran voce l'indipendenza della Catalogna. C'è stato 
                  a inizio del 2014 la nascita di Podemos, partito che si è 
                  proposto come erede delle rivendicazioni del movimento del 15-M 
                  e delle differenti lotte in difesa del Welfare: alle elezioni 
                  europee del maggio 2014 Podemos ha raccolto oltre un milione 
                  di voti, a inizio 2015 i sondaggi lo consideravano il primo 
                  partito in intenzione di voto e alle elezioni amministrative 
                  di maggio ha ottenuto buoni risultati, attestandosi come terza 
                  forza nella maggior parte delle regioni (alle comunali non si 
                  presentava in solitario, ma solo in alcuni casi all'interno 
                  di liste civiche di confluenza). 
                  Il panorama, insomma, è cambiato velocemente. E continua 
                  a cambiare molto velocemente. Provare ad immaginare cosa succederà 
                  nei prossimi mesi può essere paragonabile al tentativo 
                  di fare tredici alla schedina o di vincere all'enalotto. Il 
                  tutto, spesso, si converte in uno scetticismo assoluto o in 
                  un atto di fede, a seconda delle idee che si professano. Credere 
                  o non credere alla possibilità di un cambiamento, in 
                  fin dei conti. A che prezzo, però? Con quali metodi? 
                  Con quali fini? Su Podemos si è scritto molto ultimamente, 
                  anche in Italia. Cos'è Podemos, in realtà? Niente 
                  di più di un nuovo progetto riformista e socialdemocratico? 
                  O è piuttosto una reale possibilità di cambiare 
                  le cose, di maggiore giustizia sociale, di una società 
                  più libera e egualitaria? È un progetto aperto, 
                  basato sulla democrazia diretta, dove i cittadini possono prendere 
                  la parola e partecipare o è un partito novecentesco guidato 
                  da un “leader” e con una burocrazia di partito che 
                  vuole semplicemente sostituire quelle esistenti nell'amministrazione 
                  della cosa pubblica? Insomma, in cosa si convertirà Podemos? 
                  Ci sono opinioni diverse al riguardo, come è normale 
                  che sia. Opinioni, spesso, preconcette. Il che è lecito, 
                  sia chiaro, ma è poco utile. È ancora troppo presto 
                  per poter dare una risposta a queste domande: sarà il 
                  futuro a fornircele ed allora ci saranno le schiere di saggi 
                  e provvidi opinionisti che ci diranno “ve l'avevamo detto”. 
                  Quello che molto umilmente si può fare è osservare 
                  criticamente, cercando, quando e se possibile, di agire nel 
                  presente per fare in modo che le cose vadano in una direzione 
                  e non in un'altra. È fatica sprecata? È lo sforzo 
                  inutile di Sisifo? Potrebbe esserlo, come spesso lo è 
                  stato nella storia delle classi sfruttate. Ma potrebbe non esserlo 
                  e, se così fosse, con questo nostro “rifiuto a 
                  prescindere” ci porteremmo sulla coscienza la responsabilità 
                  di non aver dato il nostro appoggio per spingere quel masso 
                  sulla cima del monte e per fare in modo che non rotoli un'altra 
                  volta a valle. Sfidare gli dei è sempre stata un'ardua 
                  e difficile impresa. E ha spesso voluto dire scendere a compromessi, 
                  perché da soli, checché se ne dica, non ce la 
                  si può fare. Per bloccare l'avanzata del fascismo, la 
                  CNT è entrata nel governo della Seconda Repubblica spagnola 
                  dopo lo scoppio della Guerra Civile e ha deciso coraggiosamente 
                  di difendere una repubblica “borghese”. Per sconfiggere 
                  il nazifascismo, molti militanti anarchici e libertari italiani 
                  hanno lottato nelle montagne con i partigiani comunisti, socialisti, 
                  azionisti, liberali e anche monarchici. Per sconfiggere il neoliberismo, 
                  l'austerità e il dominio dei mercati – che sono 
                  il fascismo del XXI secolo – non varrebbe la pena, almeno, 
                  porsi la questione della possibilità di appoggiare, per 
                  quanto criticamente e senza assegni in bianco, chi dice di promuovere 
                  una società più giusta e egualitaria? 
                 Steven Forti 
                  Barcellona (Spagna) 
				   
				 
                    
                  Podemos/...e risposta Un errore grave fiancheggiarli 
                   
                  Il dilemma sull'atteggiamento di fronte a Podemos posto da Steven 
                  non è del tutto nuovo. Nella storia dell'anarchismo, 
                  italiano e non solo, ci sono stati frangenti in cui il tema 
                  si è posto con urgenza e drammaticità. Lui ricorda 
                  la classica Spagna del 1936-39 e la Resistenza del 1943-45. 
                  Evidentemente il paragone parte da qualche tratto di similitudine, 
                  ma ricorda di più elementi di differenziazione e incomparabilità. 
                  In entrambi i casi siamo all'interno di una guerra vera con 
                  morti e distruzioni enormi e con il rischio costante e quotidiano 
                  della vita individuale e collettiva. L'urgenza e il senso di 
                  responsabilità (eccessiva secondo alcuni compagni) spinse 
                  la CNT-FAI verso la collaborazione con gli ex nemici e repressori 
                  repubblicani in una sorta di tregua imposta dall'emergenza golpista. 
                  Va tenuto conto che il movimento anarchico e libertario aveva 
                  una forza e un radicamento tali da poter determinare, soprattutto 
                  nei primi mesi, l'agenda politica del governo antifascista spagnolo. 
                  Quindi la soluzione del problema si poneva, come sa bene Steven, 
                  fra un isolamento dal contesto bellico, che aveva scarse possibilità, 
                  e una partecipazione, via via meno riluttante, alla gestione 
                  del potere sul piano militare oltre che politico. La scelta 
                  della collaborazione bellica e istituzionale era quasi obbligata 
                  (l'ipotesi della rivoluzione in solitario, che l'ineffabile 
                  García Oliver definì come “dittatura anarchica”) 
                  fu accettata da buona parte della militanza anche se alquanto 
                  diffidente. Uno dei motivi di fondo di tale posizione, incoerente 
                  con l'Ideale e la storia anarchica spagnola, fu quello di difendere 
                  l'esperienza della rivoluzione sociale in corso nelle campagne 
                  e nelle città. Nessuna possibilità di sviluppo 
                  rivoluzionario libertario sarebbe stata possibile, anche secondo 
                  Helmut Rudiger esponente dell'AIT attivo in terra iberica, in 
                  caso di vittoria di Franco. 
                  Nell'ambito della Seconda Guerra Mondiale l'opzione di combattere 
                  con altri antifascisti, superando perfino l'odio per la repressione 
                  bolscevica del maggio 1937 a Barcellona, fu seguita da gran 
                  parte dei militanti con alcune importanti eccezioni. Ad esempio, 
                  Umberto Tommasini si astenne dal prendere le armi nell'Appennino 
                  bolognese pur avendo lottato concretamente e duramente contro 
                  il regime fascista, come dimostra la partecipazione all'attentato 
                  di Gino Lucetti a Mussolini nel 1926 e all'analogo progetto 
                  del 1937. Il compagno triestino tenne conto delle minacce ricevute 
                  per le sue proteste contro l'assassinio di Berneri e delle esplicite 
                  indicazioni del PCI di eliminare gli estremisti, sia libertari 
                  che marxisti, in quanto “nemici del popolo”. Altri 
                  invece, come l'emiliano Enrico Zambonini, pur essendo stato 
                  ferito da fucilate comuniste nella Barcellona del 1937, entrò 
                  nella Resistenza e finì con l'essere fucilato con un 
                  gruppo di antifascisti, tra cui un prete. Laddove i compagni 
                  avevano la forza (Carrara, Piacenza, Milano...) costituirono 
                  formazioni proprie oppure preferirono collaborare con le bande 
                  non comuniste. Anche in questo caso il contesto non permetteva, 
                  o quasi, di mantenersi estranei alla guerra guerreggiata. 
                  Il ragionamento di Steven può essere comparato, secondo 
                  me, con due esperienze vissute nell'Italia degli anni Settanta: 
                  la candidatura Valpreda alle elezioni del maggio 1972 col Manifesto 
                  e il referendum sul divorzio del 1974. Nella prima circostanza, 
                  che rievocava le candidature-protesta promosse da socialisti 
                  e repubblicani tra fine Ottocento e primi Novecento, ben pochi 
                  furono coloro che accettarono quello che fu definito un “ricatto”: 
                  l'uscita di prigione del principale detenuto della montatura 
                  statale (di cui si voleva da anni la liberazione con una campagna 
                  di controinformazione che ha avuto pochi pari nella recente 
                  storia italiana) in cambio dello snaturamento della mobilitazione 
                  sempre crescente che stava “processando” lo Stato. 
                  Il movimento anarchico, quasi al completo e malgrado le tradizionali 
                  divisioni interne, rifiutò la proposta elettoralistica 
                  e potenziò le agitazioni contro la Strage di Stato nelle 
                  piazze, nelle scuole e università, nei luoghi di lavoro. 
                  E Valpreda restò in galera ancora per qualche mese: nel 
                  dicembre del 1972 venne varata una legge per cui anche gli imputati 
                  di reati che prevedevano l'ergastolo potevano andare in libertà 
                  vigilata. Fu definita pubblicamente, con ironia, la “legge 
                  Valpreda”. Si dimostrò con fatti concreti che la 
                  via parlamentare non apparteneva all'anarchismo e ai movimenti 
                  di base che pullulavano in ogni contrada d'Italia. Si confermò 
                  come, a volte, una grande protesta extraistituzionale potesse 
                  risultare vincente. 
                  Un paio di anni più tardi il dibattito sulla partecipazione 
                  al referendum indetto dalla chiesa cattolica contro il divorzio 
                  fu più articolato e animato. I compagni che sostenevano 
                  l'utilità della scheda referendaria puntavano sulla necessità 
                  di battere la sfida clericale anche recandosi alle urne. Essi 
                  ritenevano che la consultazione non prevedesse alcuna forma 
                  di delega a un partito con lo scopo di insediarsi al governo 
                  e quindi esercitare il dominio statale. Al contrario, la tendenza 
                  astensionista sosteneva che si trattasse di “refreghendum”, 
                  un tranello della competizione tra partiti laici e cattolici 
                  che avrebbe comunque demandato allo Stato la facoltà 
                  di regolare con apposite norme obbligatorie le relazioni sessuali 
                  e familiari. L'alternativa vera sarebbe stata quella di emanciparsi 
                  dalla tutela legale e realizzare invece libere unioni di liberi 
                  esseri umani fondate sull'accordo paritario e solidale. Alla 
                  vittoria, per molti sorprendente nelle proporzioni, della linea 
                  divorzista ci furono in ambito anarchico poche esaltazioni del 
                  risultato che mostrò comunque che il clerico-fascismo 
                  (solo la DC e il MSI pretendevano di abolire il divorzio) non 
                  era maggioritario nella società italiana. 
                  Evidentemente le due scadenze elettorali degli Anni Settanta 
                  si svolgevano all'interno di comportamenti sociali che andavano 
                  ben al di là delle contese politiche e mentre si respirava 
                  un'aria di imminenti e profondi cambiamenti a tutti i livelli. 
                  In questo contesto di grande e duraturo fermento, le aspirazioni 
                  rivoluzionarie e libertarie erano spesso viste con simpatia 
                  da chi scendeva in strada e si opponeva all'autoritarismo e 
                  allo sfruttamento. 
                  Senza entrare troppo nel merito della situazione spagnola di 
                  oggi, di certo la scena non può essere assimilata a quella 
                  spagnola del 1936-39 o a quella italiana del 1943-45. L'uso 
                  del termine “guerra”, a cui fa ricorso Steven, appare 
                  troppo semplicistico e generico. Ciò non vuol dire sottovalutare 
                  la posta in gioco, non solo in Spagna, con l'inasprimento del 
                  controllo statale e il deterioramento, indotto dal neoliberalismo, 
                  delle condizioni di vita dell'umanità e della natura. 
                  Forse è inevitabile che si riproponga il miraggio della 
                  soluzione elettorale agli angoscianti problemi attuali e alle 
                  prospettive negative che si intravedono. Non è inutile 
                  ricordare che queste proposte “alternative” ai governi 
                  puramente conservatori hanno radici lontane (socialisti di fine 
                  Ottocento, comunisti post 1945,...) e relativamente vicine 
                  (radicali dei primi anni Settanta, grillini di qualche anno 
                  fa...). L'esperienza dimostra l'involuzione di questi 
                  e altri movimenti-partiti man mano che essi sono entrati nei 
                  meccanismi istituzionali burocratici. 
                  Qualcuno potrebbe sperare che Podemos, in quanto erede del movimento 
                  degli indignados che nel 2011 aveva entusiasmato anche 
                  ambienti libertari al punto di suscitare nella madrilena Plaza 
                  del Sol la commossa adesione di un filosofo anarchico di antica 
                  data quale Agustín García Calvo, (assemblee costanti, 
                  solidarietà popolare alle vittime del sistema bancario, 
                  slogan come “i nostri sogni non entrano nelle vostre urne”, 
                  ...), sia diverso dai precedenti movimenti-partiti. Logicamente 
                  saranno i fatti, nudi e crudi, prodotti dall'esercizio del potere, 
                  al momento solo municipale, a dare gli elementi per una valutazione 
                  fondata e convincente che vada al di là delle, comunque 
                  utili, chiavi di lettura fornite dalla teoria e dalla storia 
                  antiautoritaria. I segnali in corso non sono favorevoli ad una 
                  rottura definitiva col potere del passato fatto di clientelismo 
                  e di pura propaganda, oltre che di controllo e di impoverimento 
                  sociale. 
                  Sarebbe quindi, dal mio punto di vista, un errore grave fiancheggiare 
                  la sfida elettorale e filo istituzionale di Podemos, mentre 
                  credo sia più produttivo osservare, con critica e disincanto, 
                  l'evoluzione di tale tendenza politica, culturale e sociale. 
                  Essa rappresenta ad ogni modo una certa novità di cui 
                  tener conto, ma senza farsi risucchiare in una logica che non 
                  può appartenere alla speranza e alla lotta per un mondo 
                  di liberi/e ed uguali. 
                 Claudio Venza 
                  Trieste 
				   
				 
                    
                  Un racconto/ Esami di terza media 
                   
                  Su una terrazza del meridione, una pianta grassa, nata al nord, 
                  è fiorita dopo oltre dieci anni di vita e, nel vaso di 
                  una pianta rampicante, un uccellino ha fatto il nido e vi ha 
                  deposto alcune uova. Venere e Giove sono allineati. 
                  I miei alunni agli scritti dell'esame di terza media si sono 
                  difesi egregiamente. Alla quinta prova nazionale hanno avuto 
                  dei risultati corrispondenti alle fasce di livello in cui sono 
                  collocati. In sostanza hanno ottenuto un pareggio. E un pareggio 
                  contro l'Invalsi equivale a una vittoria. Quindi III W batte 
                  Invalsi 20 (il numero degli alunni) a zero. All'orale hanno 
                  travolto la commissione esaminatrice. 
                  Lo studente G. si è seduto di fronte a noi, ha abbracciato 
                  la fisarmonica e chiuse le palpebre ci ha trascinato sulle note 
                  di Children's suite n. 1 del musicista sovietico Vladislav Zolotaryov. 
                  I suoni hanno distratto, dalle scartoffie, la presidente di 
                  commissione che si è precipitata in classe proprio mentre 
                  i nostri timpani venivano investiti dalle note più roboanti 
                  del brano... al termine dell'esibizione eravamo tutti in piedi 
                  ad applaudire... 
                  La presidente di commissione ha abbracciato G. Gli applausi 
                  hanno cominciato a scemare. Quando noi insegnanti abbiamo smesso 
                  completamente di battere le mani le alunne, che assistevano 
                  all'esame, hanno ripreso gli applausi con più vigore 
                  di prima. Io, capita l'antifona, mi sono rimesso ad applaudire. 
                  Poi G. ha sorriso alla presidente di commissione e, facendo 
                  cenno di smettere, ha spiegato: «Mi stanno aiutando a 
                  introdurre un brano tratto da Arcipelago Gulag di Solženicyn, 
                  in cui si racconta che, in epoca stalinista, dopo una conferenza, 
                  approvato un messaggio di fedeltà a Stalin, tutti si 
                  alzano ad applaudire... ma nessuno vuole essere il primo a smettere, 
                  potrebbe sembrare un atto di critica e dissenso che porta diritto 
                  all'arresto». 
                  La studentessa M. ha iniziato a pizzicare le corde delle sua 
                  chitarra. S'interrompe, abbassa la testa e lascia che i capelli 
                  le nascondano il volto... chiede scusa, poi riparte... e fa 
                  scaturire nitido l'arpeggio di Stairway to Heaven, dei Led Zeppelin... 
                  There's a lady who's sure all that glitters is gold... tira 
                  fuori una voce con dei toni così ignoti e profondi che 
                  non so da quale anfratto dell'universo li abbia scovati... una 
                  ragazzina di tredici anni. Orfana di padre, morto in un incidente 
                  stradale, alle elementari scrisse una lettera a suo papà 
                  e con le maestre andò a depositarla sulla tomba. 
                  «Ma è commovente! Commovente!», esclama la 
                  presidente... Io non trattengo le lacrime... e mi sfugge una 
                  parola: «Resilienza...». 
                  «Che cosa porti in italiano?...», le chiede la presidente. 
                  «Non si è accontentata», intervengo io, «di 
                  portare un semplice brano, ha portato un libro... la biografia 
                  di Jim Morrison!». 
                  Credo che la presidente abbia fatto un faccia un po' stupita 
                  perché M. si è voluta giustificare: «Il 
                  professore mi ha detto che la potevo portare all'esame». 
                  «Certo!», esclamo io rivolto alla presidente, «un 
                  giorno, durante la lezione, la sorpresi con quel libro aperto 
                  sul banco... “ah, bene! Vorrà dire che lo porterai 
                  all'esame!”». E tra me rifletto che M., in quell'occasione, 
                  mi aveva chiesto: «Ma... si può? Si può 
                  portare all'esame la biografia di Jim Morrison?». 
                  M. racconta la vita del Re lucertola, di quando attraversando 
                  il deserto, in auto, con i genitori, vide degli indiani che 
                  giacevano sull'asfalto sanguinanti e moribondi, dopo che il 
                  loro autocarro era andato a sbattere contro un macchina e Jim 
                  era solo un bambino “e un bambino”, scrive Morrison, “è come un fiore con la testa scossa dal vento”. 
                  «In The end, ci sono dei versi che potrebbero suscitare 
                  scandalo... se vuoi puoi dirceli... magari in inglese, così 
                  ci togli dall'imbarazzo...». 
                  «Jim elabora il complesso di Edipo», risponde M. 
                  «Benissimo... ma, le parole scandalose?». 
                  «Father... I want to kill you... Mother, I want to... 
                  fuck you». 
                  «Come possiamo interpretare queste parole?». 
                  «Kill your father... significa, elimina le idee non tue, 
                  che ti sono state inculcate... Fuck your mother... significa, 
                  prendi cura di te stesso...». 
                  «Qual è il libro che ha cambiato il modo di essere 
                  di Jim Morrison?». 
                  «Così parlò Zarathustra di Nietzsche». 
                  «No! Non è possibile!», sbotta la presidente, 
                  «adesso non mi venite a dire che una ragazzina di tredici 
                  anni conosce Nietzsche! Sa che esiste Così parlò 
                  Zarathustra!». 
                  «Ha anche provato a leggerlo», dico io, «ma 
                  per ora lo ha accantonato». 
                  Guardo M. in viso e sommessamente le dico: «Tu sei oro... 
                  oro che ha riacquisito la forma originaria dopo essere stato 
                  deformato...». 
                  Faccio una pausa. 
                  «Anzi! Dimmi qual è l'unità di misura che 
                  indica la quantità di oro puro in un gioiello?». 
                  «Il carato». 
                  «Brava! In questi tre anni i tuoi carati sono aumentati... 
                  ma è anche merito delle tue compagne e dei tuoi compagni 
                  di classe... sei tu che poco fa mi hai cantato “when all 
                  are one and one is all”... come avresti fatto senza le 
                  silenziose, i casinisti e le casiniste? e senza G., fisarmonicista 
                  magico, che ha attirato qui la nostra ospite e ti ha preparato 
                  il palcoscenico?». 
                  Mentre dei docenti pensavano di fare uno sciopero della fame 
                  contro la riforma della scuola di Renzi e la gioventù 
                  greca si apprestava a dire oxi, ho fatto la gratificante fatica 
                  di salire a piedi sul cratere dello Stromboli. 
                  Osservando e ascoltando le eruzioni laviche che illuminavano 
                  la notte, ho preso consapevolezza del ribollire del magma che 
                  mette in tensione la crosta terrestre. 
                 Ermanno Battaglini 
                  Oria (Br) 
				   
				 
                    
                  Herbert Pagani e il suo sogno sionista 
                   
                  Un plauso, ancora una volta, più che meritato, ad Alessio 
                  Lega, che, oltre che cantautore (anche quando propone brani 
                  non suoi, li reinterpreta), è ormai un validissimo critico 
                  musicale e studioso di musica. Un plauso per aver ricordato 
                  uno chansonnier (lo definirei così, anche se forse 
                  è limitativo) come Herbert Pagani, ingiustamente dimenticato, 
                  come Lega ricorda. 
                  Questa non è una excusatio non petita, premetto, 
                  ma solo una premessa (repetita juvant? Non sempre, anzi 
                  me ne scuso) per fare una precisazione ed esprimere un'opinione 
                  un po' diversa: la precisazione è nel fatto che 
                  Pagani era Ebreo libico, ma non di origini italiane, bensì 
                  un Ebreo libico cui il cognome italiano fu attribuito per motivi 
                  coloniali, di imposizione colonialista-nazionalista. 
                  L'opinione divergente: “uomo dalle incrollabili convinzioni 
                  umanitarie e internazionaliste, ma legato a un impossibile sogno 
                  sionista” (cito ovviamente dal testo 
                  su Pagani, p. 59 del numero di “A” 400, estate 
                  2015). D'accordissimo sulla prima parte, mentre sul sionismo 
                  e il suo “impossibile sogno”, no. Chi ha detto che 
                  sia un “sogno impossibile”? Finora non realizzato, 
                  certo, ma in futuro, chissà. 
                  Il sionismo all'inizio, quello di Theodor Herzl, era tollerante, 
                  umanitario, “internazionalista”, poi, con e dopo 
                  Ben Gurion, si lega a uno Stato, quello d'Israele, costantemente 
                  minacciato, però, e memore dello sterminio, della Shoah. 
                  Chiunque sia anche vagamente di origini ebraiche (io da parte 
                  della nonna paterna, dall'inequivocabile cognome di città 
                  italiana, per la precisione toscana) sente la minaccia, il ritorno, 
                  strisciante o meno, della Bestia (sarò biblico-apocalittico, 
                  ma mi va benissimo) - non credo che il nazismo (non nazionalsocialismo! 
                  Dopo l'espulsione dei fratelli Strasser, di socialista il nazismo 
                  non ha più nulla!) si possa definire altrimenti. 
                  Ma, tornando a Herbert, vorrei segnalare alcune cose: scrivendo 
                  il testo dell'inno del Partito socialista francese (PSF), 
                  musica di Mikis Theodorakis, Pagani (era il 1977, quando si 
                  preparava il ritorno al potere della “Gauche”, 
                  dopo anni di gaullismo e di... peggio, era il socialismo a suo 
                  modo libertario di François Mitterand, era lontana la 
                  svendita attuale al neoliberismo con Hollande & Co), diceva-cantava: 
                  “Changeons la vie ici et maintenant/C'est aujord'hui 
                  que l'avenir s'invente” (Cambiamo la via 
                  qui e adesso/È oggi che l'avvenire s'inventa”). 
                  Siamo, volendo, allo “changer la vie et changer le monde” 
                  (cambiare la vita e il mondo) che il surrealismo ricavava dalla 
                  sintesi tra Rimbaud (changer la vie) e Marx (changer 
                  le monde). Due anni prima e qui forse qualche problema si 
                  pone, Herbert aveva scritto e detto (recitativo con musica) 
                  il suo “Pladoyer pour ma terre. Terre d'Israel” 
                  (“difesa della mia terra”. Il resto è molto 
                  chiaro). In esso lo chansonnier (nonché attore, 
                  pittore, scultore, scrittore, poliglotta perfetto), diceva che 
                  sì, “siamo dei rompiscatole” (noi Ebrei), 
                  “è nella nostra natura”, “Abramo 
                  (rompeva, e.g.) con il suo Dio unico, Mosé con le tavole 
                  della Legge, Gesù con l'altra guancia sempre pronta 
                  a ricevere il secondo schiaffo”. 
                  Poi rivendicava Freud, Marx, Einstein e qui credo siamo tutti/e 
                  d'accordo, rivendicandoli come “rivoluzionari, nemici 
                  dell'ordine” (costituito, diremmo magari in italiano). 
                  Qualche più che giustificata riserva da parte mia su 
                  Henry Kissinger, certo persona intelligente e grande diplomatico, 
                  ma coautore (è ormai ampiamente dimostrato) del golpe 
                  pinochetiano in Cile. Ma il resto è vero, che i Patriarchi 
                  biblici, a suo modo, anche Cristo (per quanto ne sappiamo, stanti 
                  i travisamenti e le interpolazioni dei Vangeli), il fondatore 
                  della psicoanalisi, Marx, con le contraddizioni che volete/vogliate 
                  evidenziare, il rifondatore della fisica moderna e non solo, 
                  fossero dei rivoluzionari. È questo, credo, che Pagani 
                  voleva evidenziare. 
                  E lasciamo da parte, senza dimenticarlo, lo scivolone su Kissinger. 
                  Nessuno è perfetto. 
                 Eugen Galasso 
                  Firenze 
                
  
                
                   
                    Reggio Emilia / “A'' in centro 
                      Reggio 
                        Emilia, Libreria del Teatro - Nell'imminenza della festa 
                        per i 400 numeri di “A” svoltasi a Massenzatico 
                        (Re) nel corso dell'ultimo fine settimana di giugno, la 
                        storica Libreria del Teatro, in pieno centro, si è 
                        così addobbata per “salutare” l'evento 
                        e la nostra rivista. Ci fa piacere pubblicare questa foto 
                        e cogliamo l'occasione per salutare il vecchio Nino Nasi, 
                        grazie al quale “A” è reperibile lì 
                        fin dal primo numero (febbraio 1971). 
                        
                      
  | 
                   
                 
                 
                   
                   
                 
                 
                  
                     
                      |    I 
                          nostri fondi neri 
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                           Sottoscrizioni. Angelo Pagliaro (Paola – 
                            Cs) per “A” 400, 10,00; a/m Fausto Saglia, 
                            Luciano Scarpa (Cassio – Pr) 30,00; Libreria 
                            San Benedetto (Sestri Ponente – Ge) 4,70; Ugo 
                            Usseglio Viretta (Giaveno – To) 40,00; Gabriella 
                            Ciancimino (Palermo) per versione PDF, 10,00; a/m 
                            Errico Alfonso, Centro sociale occupato e autogestito 
                            Scuria (Foggia) 25,00; Claudia Pinelli (Milano) 10,00; 
                            Antonio Cecchi (Pisa) 10,00; Davide Andrusiani (Castel 
                            Verde – Cr) 10,00; Nicolò Comotti (Londra 
                            – Gran Bretagna) 115,00; Antonio Abbotto (Sassari) 
                            10,00; Jonatha Trabucco (Pisa) 10,00; Luca Magni (Monza) 
                            in memoria di Mikhail Bakunin, 75,00; Enrico Calandri 
                            (Roma) 100,00; Angelo Roveda (Millano) 50,00; a/m 
                            Claudio Mazzolani, Paolo Mazzolani (Imola – 
                            Bo) 10,00; Rino De Michele (Zero Branco – Ve) 
                            50,00; Gianlorenzo Pignatti (Barberino del Mugello 
                            – Fi) 30,00; Peter Sheldon (Sydney – Australia) 
                            250,00; Davide Giovine (Luserna San Giovanni – 
                            To), 15,00; Giuseppe Galzerano (Casalvelino Scalo 
                            – Sa) 40,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando 
                            Federico Arcos, 500,00; ricavato dalla festA 400 a 
                            Massenzatico (Reggio Emilia) il 27–28 giugno, 
                            414,00; Enrico Moroni (Settimo Milanese – Mi) 
                            10,00; Giuseppe De Vincenti (Brescia) 10,00; Biblioteca 
                            Franco Seranrini (Pisa) 100,00; Giuseppe De Vincenti 
                            (Brescia) 10,00; Alberto Ciampi (Sam Casciano Val 
                            di Pesa – Fi) “Magnifico 400”, 20,00; 
                            Orazio Gobbi (Piacenza) 10,00; a/m Nicola Zamagna, 
                            dalla festa del 1° maggio dell'ANPI – Associazione 
                            Nazionale Partigiani d'Italia – di Santarcangelo 
                            di Romagna, 50,00; Luciano Collina (Sala Bolognese 
                            – Bo) 10,00; Monica Bagnolini e Enrico Torriani 
                            (Bologna) in memoria di tutti i migranti naufragati 
                            nel canale di Sicilia, 10,00; Sante Cutecchia, 10,00; 
                            Roberto Colombo (Boffalora Ticino – Mi) 50,00; 
                            Giulio Spiazzi (Verona) 50,00; Giorgio Bigongiari 
                            (Lucca) per “A” 400, 20,00; Francesco 
                            Vendrame (Ponte San Pietro – Bg) 10,00; a/m 
                            Angelo Roveda, Francesco Roveda (Milano) 50,00; Rino 
                            Quartieri (Zorlesco – Lo) “auguri alla 
                            redazione e... 400 di questi numeri”, 100,00; 
                            Fondazione Giorgio Gaber (Milano) quale contributo 
                            per la collaborazione nell'organizzazione della sera 
                            “Pietro Gori, anarchia, resistenza” al 
                            teatro Garibaldi di Carrara il 2 agosto scorso, 500,00; 
                            a/m Giovanni Stiffoni, Caflo Romani (Rio de Janeiro 
                            – Brasile) 100,00; Mauro Tassetto (Milano) 30,00; 
                            Laura Cipolla (Casalmaiocco – Lo) 30,00; Libreria 
                            San Benedetto (Sesri Ponente – Ge) 3,70; Diego 
                            Razzitti (Angolo Terme – Bs) 20,00; Davide Foschi 
                            (Gambettola – Fc) 10,00; Roberto Ceruti (Albissola 
                            Marina – Sv) 10,00; Roberto Palladini (Nettuno 
                            – Rm) 20,00; Ugo Fortini (Signa – Fi) 
                            ricordando Milena e Gasperina, 30,00; ; Robeto Solati 
                            (Venezia) 50,00; Lorenzo Partesana (Sondalo – 
                            So) 10,00; Angelo Del Boca (Torino) 10,00; Davide 
                            Foschi (Gambettola – Fc) 10,00; Pino Fabiano 
                            (Cotronei – Kr) 10,00; a/m Danilo Sidari, Jack 
                            Grencharoff (Quama – Australia) 100,00; Luca 
                            Magni (Monza) in memoria di Pëtr Kropotkin, 35,00. 
                            Totale € 3.317,40. 
                          Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti 
                            specificato, trattasi di euro 100,00). Paola 
                            Mazzaroli (Trieste); Luca Vitone (Berlino – 
                            Germania); Sergio Santoni (Monte San Vito – 
                            An); Andrea Albertini (Merano – Bz) 150,00; 
                            Donata Martegani (Milano); Fernando Ainsa (Saragozza 
                            – Spagna); Antonio Squeo (Catania) 150,00; Roberto 
                            Di Giovannantonio (Roseto degli Abruzzi – Te); 
                            Battista Saiu (Biella); Nuccia Pelazza (Milano); Giorgio 
                            Bixio (Sestri Levante – Ge); Domenico Gavella 
                            (Camerlona – Ra); Angelo Carlucci (Taranto); 
                            Carmelo Goglio (Olmo al Brembo – Bg); Giancarlo 
                            Tecchio (Vicenza) 200,00; Giovanni D'Ippolito (Casole 
                            Bruzio – Cs); Giuseppe Gessa (Gorgonzola – 
                            Mi) 200,00; Benedetto De Paola (Prato Perilli di Teggiano– 
                            Sa) 200,00; Gianluca Botteghi (Rimini); Vittorio Catani 
                            (Bari); Gianfranco Cutillo (Bari); Augusto Piccinini 
                            (Ravenna); Lucia Sacco (Milano); Marco Galliari (Milano); 
                            Rodolfo Altobelli (Canale Monterano – Rm); Tommaso 
                            Bressan (Forlì); Giovanni Baccaro (Vittorio 
                            Veneto – Tv); Danilo Sidari (Lalor Park – 
                            Australia). Totale € 3.200,00. 
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