  
                
  
                 Dimenticare il lavoro 
                   
 
Perché lavorare? Per guadagnarsi da vivere, certo, ma come? Per quanto tempo ancora possiamo praticare la politica dello struzzo, quando la maggior parte degli impieghi che ci vengono proposti dall'Impresa sono nocivi per la società o pericolosi per gli stessi lavoratori o inquinanti o, ancora, degradanti – fabbricare armi è un lavoro degradante perché implica il coinvolgimento nella morte di altri esseri umani. La maggior parte dei lavoratori è ridotta a inventarsi giustificazioni che, come sappiamo, non sono veramente tali: lavorano perché hanno una famiglia da mantenere, o perché non sanno fare altro che lavorare. E infatti non è la scuola che ci insegna a sottrarci all'Impresa, ma proprio il contrario, perché questa è sempre di più una specie di centro di apprendistato per futuri adulti, nel quale le opzioni sono scelte dagli allievi in funzione dell'accesso a un lavoro che, così si pensa, tali opzioni possano facilitare in un futuro prossimo (e allora via il greco antico e la geografia, evviva l'informatica e il cinese!). La crisi che sta vivendo questo pianeta e le nostre società non è dunque soltanto la crisi dell'Impresa e del Potere, è anche la crisi del Lavoro che ci porta in un vicolo cieco. 
                  Alle ortiche le false critiche del sistema! 
                Scriviamo con la maiuscola Impresa perché, come lo Stato, ha diritto a essere scritta così: infatti, è la forma che ben presto prenderà il posto dello Stato, almeno negli auspici dei neoliberisti, tanto più che, impegnati da due decenni in questo senso, ottengono un successo dopo l'altro. Spetta a noi quindi capire la logica dell'Impresa, perché noi sudiamo sangue a lavorare per Lei. Capirla per spaccarla, se non addirittura per portarla alla rovina. 
                  Le cosiddette leggi dell'economia fanno a gara per mostrare 
                  che la logica industriale – ivi compresa l'agroindustriale 
                  – come quella finanziaria è di andare verso il 
                  sempre più: mercato più esteso, lavoratori più 
                  produttivi, imprese più redditizie, profitti più 
                  consistenti ecc. Non serve a niente discutere questo punto, 
                  evidenziato sia dagli adepti al sistema sia dai suoi critici. 
                  Il problema si pone con i “falsi critici” del sistema, 
                  che si limitano a criticare le forme assunte da questi “più”. 
                  Essi si pongono nell'ambito di una critica superficiale, che 
                  suppone che le imprese dovrebbero trattare meglio i lavoratori 
                  perché rientrerebbe nei loro interessi, in particolare 
                  perché i lavoratori sarebbero più felici e in 
                  migliore salute, dunque lavorerebbero meglio – un'idea 
                  del tutto ridicola in una fase in cui i tassi di disoccupazione 
                  sono elevati e in cui un vero e proprio esercito di riserva 
                  è completamente a disposizione dell'Impresa, che dunque 
                  non ha bisogno di prendersi la briga di vezzeggiare i suoi “protetti”. 
                  Queste false critiche fanno appello a una migliore distribuzione 
                  delle risorse, tramite diversi tipi di tassazione, le cui percentuali 
                  sono talmente ridicole, anche in questo caso, che ci si chiede 
                  come una simile polvere negli occhi riesca ancora ad abbagliare 
                  alcuni di noi. La Tobin tax è l'incarnazione della inanità 
                  di tali proposte, nel momento in cui i debiti accumulati dagli 
                  Stati, dalle Imprese e dalle famiglie sono quasi il triplo del 
                  prodotto lordo planetario, vale a dire 200.000 miliardi di dollari 
                  nel 2014.1 Ebbene, questa cifra, 
                  che non osiamo neppure definire astronomica, indica una duplice 
                  realtà. 
                  I due segreti del sistema economico 
                In primo luogo, questo sistema funziona perché la stragrande maggioranza di noi non sa come funziona, e perché coloro che lo capiscono ne sono quasi sempre i beneficiari, i complici o delle persone ciniche – degli “avidi”, direbbe l'economista Joseph Stiglitz. 
                  In secondo luogo, riprendiamo quanto diceva lo storico Marc 
                  Bloch:2 questo sistema funziona 
                  perché ci sono sempre dei crediti in corso e si sovrappongono 
                  gli uni agli altri. Sono questi che fanno vivere l'economia, 
                  che fanno vivere l'Impresa, come lo Stato, come le famiglie. 
                  Infatti, e prima di tutto, constatiamo che già da decenni 
                  le banche centrali non possiedono più le riserve in oro 
                  corrispondenti al valore facciale del denaro che emettono; ebbene, 
                  esse continuano a emettere miliardi di dollari, di euro o di 
                  yen senza che le monete perdano valore, come dovrebbe accadere 
                  se la legge “più ce n'è, meno vale” 
                  fosse vera. Purtroppo, la Vera Legge è: “Più 
                  ci si crede, più il sistema funziona”, e poiché 
                  abbiamo tutti interesse a credere nel valore del denaro, allora 
                  possiamo indebitarci, inventare della moneta che non ha un controvalore 
                  né in oro né in qualsiasi altra cosa, a parte 
                  dei pixel su dei monitor. Non dobbiamo far altro che fare affidamento 
                  sul nostro... lavoro per rimborsare alla banca i nostri debiti. 
                  Le imprese, invece, funzionano su un modello più complesso, 
                  perché sono tentate di fare soldi speculando, e qui non 
                  possiamo approfondire oltre questa tentazione che pure è 
                  decisiva agli effetti delle cause della crisi attuale. Torniamo 
                  dunque all'Impresa in rapporto con i lavoratori. 
Questi ultimi le sono necessari perché producono e consumano ciò che hanno prodotto. Più contraggono crediti, più si fanno schiavi del proprio lavoro, poiché il lavoro resta l'unica fonte della loro “ricchezza” pecuniaria, e quindi l'unica loro possibilità di rimborsare il loro “debito”. Questo circolo “virtuoso” dal punto di vista dell'Impresa porta a produrre sempre di più per soddisfare sempre meglio dei lavoratori... sempre più alienati dai prodotti che producono e che, in ultima analisi, hanno solo lo scopo principale di applicarsi, mani e piedi legati, alla sopravvivenza del sistema, quindi dell'Impresa, quindi del padrone che fornisce loro il famoso Lavoro... che però li distrugge in quanto esseri umani pensanti, che si ritengono liberi e che dovrebbero adoperarsi per l'emancipazione di tutti gli esseri umani. Il cerchio è, al tempo stesso, vizioso e oliato. [...] 
                  Obiettivo: l'abolizione del lavoro 
                Non pensiamo che il rifiuto di essere distrutti da un sistema, 
                  nel 2015, sia qualcosa di diverso da una tensione, anche se 
                  tale tensione potesse sfociare, molto velocemente grazie a un 
                  qualche movimento, per reazione a questa o quella evoluzione 
                  politica, in un rifiuto del lavoro di ampio respiro – 
                  in quello che, in linguaggio politico-sindacale, viene chiamato 
                  uno sciopero, e che noi preferiamo definire qui un tentativo 
                  di stare insieme. 
                  Il lavoro non è sostenibile e non è costitutivo 
                  dell'essere umano. Noi siamo gli unici animali che lavorano 
                  – alcuni animali possono dare l'impressione di lavorare, 
                  come il castoro, ma in realtà, la sua attività 
                  di costruttore ha scopi diversi da quello di trarre profitto... 
                  Eppure, la maggior parte di noi affermerebbe che il lavoro è 
                  tipico dell'essere umano. Ma perché? Anche l'arte, per 
                  fare solo questo esempio, è uno degli elementi “tipici” 
                  dell'essere umano. E la creatività vale assai di più 
                  del lavoro! Dopo tutto, anche l'estetica è una spiegazione 
                  del mondo: potremmo decidere di fare questo invece di quello, 
                  perché questo è bello e quello è brutto, 
                  anche se quello è più redditizio di questo! 
                  Infine, nel lavoro, ci sono numerose categorie di attività. 
                  Non dovremmo far rientrare in questo stesso termine la persona 
                  che coltiva il proprio orto per nutrirsi e nutrire la propria 
                  famiglia con sistemi naturali,3 
                  e l'agricoltore industriale che coltiva distese immense per 
                  trarre profitto, mediante macchine agricole, pesticidi, fertilizzanti... 
                  Non bisogna agire contro ciò che ci permette di vivere, 
                  è un totale non-senso. Il capitalismo è un sistema 
                  produttivo fondato sulla distruzione: tramite le guerre e tramite 
                  proprio il suo sistema di produzione. 
                  Questa evoluzione si produce “disobbedendo” alle 
                  ingiunzioni dell'Impresa – che, con Lewis Mumford, possiamo 
                  anche chiamare la “Megamacchina”. Si rifiuta un 
                  po', poi un po' di più e così via. E in tal modo 
                  si costruisce la propria liberazione – che, naturalmente, 
                  non può essere totale né perfetta nel quadro di 
                  questo sistema, ma, di fronte alle catastrofi attuali o future, 
                  la costruzione di alternative concrete e credibili, benché 
                  modeste, e la riflessione che collega tra loro tutte le pratiche 
                  emancipatrici e contestatarie ci permetterà di andare 
                  verso il non-agire, nel senso di smettere di agire contro gli 
                  altri e contro questo pianeta e, in ultima analisi, contro noi 
                  stessi. 
                 Philippe Godard 
                  Francia 
                Note 
                 
                  - Cfr., per esempio: http://www.economiematin.fr/news-dette-mondiale-augmentation-remboursement-pays-PIB-crise-bulle-sannat. 
                  
 - Su questo argomento fondamentale cfr. Massimo Amato, 
                    Il luogo dell'economia? Il debito, in “Libertaria”, 
                    ottobre-dicembre 2007. 
                  
 - Cfr. l'edificante e magnifica Lettre aux paysans sur 
                    la pauvreté et la paix, di Jean Giono, éditions 
                    Héros-Limite, Genève 2013; tr. it. Lettera 
                    ai contadini sulla povertà e la pace, Ponte alle 
                    Grazie, Milano 1997. 
                
  
                   
				 
                    
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                  Una delle caratteristiche più conosciute (e dileggiate) 
                  dell'anarchia è che essa presuppone che l'uomo, per costituzione, 
                  sia buono, o meglio che sia empatico, che per natura si interessi 
                  del benessere degli altri. 
                  Questa sorta di ottimismo connaturato alla teoria anarchica 
                  è uno dei motivi per cui l'anarchia viene considerata 
                  come utopistica, irrealizzabile. Il tutto sulla base della constatazione 
                  che l'uomo non sembra affatto buono per natura, anzi più 
                  conosciamo i nostri simili meno affidamento tendiamo a fare 
                  sulle loro capacità empatiche. 
                  Eppure... 
                  Un anarchico direbbe però che basta poco per dimostrare 
                  la natura empatica dell'uomo. 
                  Pensate di stare uscendo di casa e, dalla porta di fronte, esce 
                  un vostro vicino che si sente male. La grande, stragrande maggioranza 
                  di noi non volterebbe la faccia dall'altra parte, ma al contrario 
                  chiamerebbe l'ambulanza, cercherebbe di portare un piccolo aiuto, 
                  quasi certamente rimarrebbe il tempo dell'arrivo dei medici. 
                  E cosa ancora più importante, dopo si sentirebbe bene, 
                  in pace con se stesso, nella coscienza di avere fatto qualcosa 
                  per qualcun altro disinteressatamente. 
                  Quand'è casomai che la naturale propensione all'empatia 
                  può venir meno? Immaginate di uscire dalla porta e trovarvi 
                  non un vicino che sta male, ma tutti gli abitanti dell'intero 
                  quartiere che stanno male. A quel punto vi trovereste in una 
                  situazione in cui non potete dare una mano a tutti, anzi addirittura 
                  non potete nemmeno dare retta a tutti; in quel caso le reazioni 
                  possibili sono varie, dal panico fino all'ostilità nei 
                  confronti di tutti i vicini, “rei” di essere malati. 
                  Grandi numeri 
                Sono i grandi numeri a renderci disumani, come ben sapevano 
                  i nazisti. Un malato, uno straniero non suscita il nostro odio, 
                  ma tanti malati, tanti stranieri, tanti poveri ci creano diffidenza 
                  perché rappresentano qualcosa con cui è difficile 
                  relazionarsi singolarmente. 
                  Non è un caso che il rapporto uomo-massa sia stato alla 
                  base della riflessione filosofico/politica per un lungo periodo 
                  di tempo, diciamo dall'Umanesimo fino al XX secolo, tanto che 
                  uno dei principi della democrazia intesa in senso rappresentativo 
                  è che la guida della comunità sia scelta in base 
                  alle sue qualità nella gestione dello stress di doversi 
                  porre in rappresentanza di una massa di individui. 
                  Ma con la globalizzazione lo stesso rapporto uomo-massa è 
                  diventato obsoleto, e non sul piano filosofico, quanto su quello 
                  reale. 
                  Il “tempo zero” della comunicazione virtuale, priva 
                  di vincoli e di confini, ha permesso lo spostamento immediato 
                  di enormi quantità di denaro da una zona all'altra del 
                  globo, il che – sul piano sociale, nella vita di tutti 
                  i giorni per intenderci – ha comportato la possibilità 
                  di decidere della vita di un'enorme quantità di individui 
                  attraverso un semplice click. Basta un click per fare fallire 
                  un'azienda, per distruggere i risparmi di milioni di individui, 
                  per mandare sul lastrico l'economia di intere nazioni. Con un 
                  click, un atto che ciascuno di noi compie centinaia di volte 
                  al giorno. 
                  La globalizzazione ha generato una forma di alienazione, di 
                  spersonalizzazione di livello ancora più maestoso dei 
                  vari tipi di alienazione studiati nei due secoli precedenti: 
                  potere decidere della vita degli individui senza nemmeno doverli 
                  mai vedere in faccia, esercitando semplicemente il proprio diritto 
                  a spostare dei soldi da un posto all'altro. Se non sai cosa 
                  causerà un tuo semplice gesto, di cosa puoi essere accusato? 
                  Nell'era della globalizzazione finanziaria, il male non ha le 
                  mefistofeliche sembianze di un gerarca nazista, quanto di un 
                  impiegato grigio con gli occhi perennemente rivolti ad uno schermo 
                  pc: ci aveva visto giusto Hannah Arendt quando parlava di “banalità 
                  del male”. 
                  Anche se ci crediamo assolti 
                Beh, direte voi, chi muove le fila, chi materialmente ha il 
                  potere di disporre delle vite di migliaia di individui attraverso 
                  un click è soltanto una piccolissima parte della popolazione, 
                  quel famoso 1% cui fa riferimento un celebre slogan dei manifestanti 
                  di Occupy. 
                  Orbene, non è così semplice. 
                  Guardiamoci allo specchio, guardiamo cosa indossiamo, che prodotti 
                  mangiamo, dove lavoriamo. Indossiamo capi “made in China” 
                  perché sono tra i pochi che ci possiamo permettere, compriamo 
                  generi alimentari prodotti in Puglia e in Campania perché 
                  costano meno, lavoriamo per persone e istituzioni ai cui ideali 
                  mai e poi mai intenderemmo allinearci. E non stiamo, così 
                  facendo, nel nostro piccolo, supportando lo sfruttamento dei 
                  lavoratori cinesi o dei migranti schiavi nelle piantagioni pugliesi? 
                  Come il Jocker di Full metal jacket – che esponeva 
                  sul vestiario sia il simbolo della pace che la scritta “Born 
                  to kill” – tutti noi portiamo sul corpo i segni 
                  della nostra incongruenza, (in)consapevoli vettori di ideali 
                  che dovremmo combattere. Comprare prodotti creati attraverso 
                  lo sfruttamento non è come sfruttare direttamente le 
                  persone, ma ne siamo proprio certi? Anche operare in borsa non 
                  è come espropriare dei beni migliaia di persone, ma per 
                  molti versi lo è. 
                  La risposta dell'Anarchia 
                Le contraddizioni che caratterizzano la realtà odierna, 
                  che ci caratterizzano, finiscono per minare la stessa appartenenza 
                  ad ideali anarchici “classici”. 
                  Per questo è decisamente avvertita, oggi, la necessità 
                  di riconsiderare il pensiero anarchico utilizzando chiavi di 
                  lettura della realtà che siano compatibili con la situazione 
                  attuale, e che soprattutto permettano di opporsi al sistema 
                  dominante in maniera fattiva e proficua. 
                  Non mancano sicuramente studi teorici su tale tematica, e la 
                  stessa Rivista che ospita il presente intervento si è 
                  fatta spesso carico di affrontare tale tematica; manca casomai 
                  un quadro di insieme che permetta di individuare chiaramente 
                  le varie ipotesi formulate per dare concretezza all'azione anarchica 
                  nel mondo globalizzato. Come dimostra la nuova legge elettorale 
                  italiana e le dinamiche attuali che regolano il rapporto tra 
                  governo e cittadini, è assai complicato avere un peso 
                  tangibile sulla scena politica, e la cosiddetta società 
                  civile sembra completamente scollata e ininfluente non solo 
                  all'interno dell'agone politico, ma anche su quello che potremmo 
                  definire ideologico, o culturale. Non è un caso, quindi, 
                  che all'interno del movimento anarchico si rilevino posizioni 
                  che intendano affrontare la situazione in modo assai differente: 
                  da chi volge gli occhi verso l'ambito internazionale per prendere 
                  nota e far tesoro delle nuove forme di opposizione attiva e 
                  orizzontalmente organizzata a chi ipotizza la necessità 
                  di affiancare, dentro i confini nazionali, quelle forze politiche 
                  che in determinate battaglie presentano aspetti affini al pensiero 
                  anarchico; da chi, ancora, vuole preservare gli indirizzi del 
                  pensiero anarchico classico e intende muoversi lungo quella 
                  direttrice; a chi sposta il baricentro della lotta politica 
                  sul piano individuale, focalizzandosi più sul comportamento 
                  quotidiano che sulla militanza in senso stretto. 
                  Auspicio di questo intervento è, in conclusione, che 
                  si possa definire chiaramente tale quadro interpretativo dell'essere 
                  anarchici oggi, ed in tal senso si propone quale volano per 
                  una discussione chiara, priva di ambiguità (ma anche 
                  delle semplificazioni spesso poco efficaci sul piano concreto, 
                  quali ad esempio “stare dalla parte degli ultimi”) 
                  sull'argomento. 
                  L'Anarchia ha moltissimo da offrire nel mondo contemporaneo, 
                  ma perché questo sia possibile è soprattutto necessario 
                  che si palesi cosa voglia dire essere anarchici senza ricorrere 
                  a frasi fatte o principi ideali che poco si possono accordare 
                  con la concreta condizione esistenziale che ci troviamo a vivere. 
                 Igor Cardella 
                  Palermo 
				   
				 
                    
                  Valsusa/Critical Wine No Tav 
                   
                  Nei giorni 8-9-10 maggio, si è svolta a Bussoleno, nel 
                  cuore della Valle di Susa, la quarta edizione di Critical Wine 
                  No Tav. 
                  È una iniziativa nata quattro anni fa, raccogliendo lo 
                  slogan Terra è libertà, che dà il nome 
                  alla manifestazione, per coniugare la lotta contro il tav con 
                  l'esperienza concreta di piccoli produttori di vino, che vogliono 
                  realizzare un rapporto diverso con la terra e la natura che 
                  ci circonda. In questo modo, si cerca di portare a conoscenza 
                  di un pubblico più ampio le ragioni e le proposte delle 
                  nostre lotte; non solo: il ricavato del critical wine no tav, 
                  dedicato ad alcuni compagni che non ci sono più, sarà 
                  devoluto alla cassa di resistenza per le spese legali. 
                  Quest'anno l'iniziativa ha avuto un grande successo, soprattutto 
                  nella giornata di sabato. Erano presenti 22 produttori di vino, 
                  provenienti da tutta Italia, accompagnati da stand gastronomici 
                  e di piccoli artigiani in proprio; musica di strada, concerti 
                  popolari, canzoni degli Anonimi Coristi e del Coro di Micene, 
                  mostre fotografiche, teatro per le vie della città, hanno 
                  completato la manifestazione in cui erano presenti anche banchetti 
                  informativi di vari comitati no tav. 
                  Stiamo già pensando alla prossima edizione, la quinta, 
                  che si svolgerà presumibilmente nel maggio 2016, sempre 
                  in Valle di Susa. 
                  Invitiamo altri produttori di vino, che condividono le nostre 
                  motivazioni, a contattarci, c'è spazio per tutti. 
                  Per informazioni: tlcwbussoleno@gmail.com 
                 Ugo Viretta Usseglio 
                  Giaveno (To) 
				   
				 
                    
                  Primo maggio.1/Alcune considerazioni 
                   
                  “Devastazione e saccheggio”, parole forti, parole 
                  da quindici anni di galera per chi viene beccato con la mazzetta 
                  in mano, per chi è stato preso nel mucchio del riot cittadino, 
                  nei pressi di una vetrina infranta o di un auto in fiamme o, 
                  a posteriori, ne verrà riconosciuta la presenza attraverso 
                  analisi fotografiche e video. Chi ci sta lo sa. 
                  A chi devasta territori e ambiente, a chi saccheggia le risorse 
                  comuni, a chi ci fa morire di amianto, d'inquinamento, di discariche 
                  abusive, a chi ha un altro tipo di “mazzette” in 
                  mano, sappiamo bene che lo Stato e i suoi apparati repressivi 
                  (polizieschi, giudiziari e carcerari) non riserva altrettanto 
                  trattamento. E non potrebbe essere altrimenti: Stato e Capitale, 
                  nella loro complice e collusa alleanza, non possono certo “accusarsi 
                  e arrestarsi” a vicenda. E anche questo noi lo sappiamo. 
                  A Milano, il Primo maggio, una grande manifestazione di oltre 
                  trentamila persone, in maggioranza di giovani, donne e uomini, 
                  sia del luogo che provenienti da varie parti del paese e d'Europa, 
                  ha animato le vie della città percorrendo, in vario modo, 
                  i pochi chilometri di strade 'concessi' dalle Autorità 
                  locali sotto stretto controllo dei vertici nazionali. L'obiettivo 
                  era quello di disvelare il reale significato di quel baraccone 
                  fieristico rappresentato da Expo 2015; di denunciare che quanti 
                  hanno contribuito al disastro alimentare ed agricolo di paesi 
                  e di parti consistenti di interi continenti non possono ora 
                  presentarsi come paladini della lotta della fame nel mondo, 
                  del rispetto delle biodiversità e della vita e del lavoro 
                  di che la terra la lavora; di accusare il sistema di malaffare, 
                  di corruzione, di speculazione selvaggia che ha regnato su Expo 
                  e che regnerà sulle aree del sito alla conclusione dell'evento; 
                  di opporsi ad un modello di sviluppo basato sul lavoro precario, 
                  gratuito e sulla pauperizzazione del paese. 
                  Un corteo di meno di quattro chilometri ottenuti a fatica, dopo 
                  il divieto, giunto a pochi giorni dalla manifestazione, di passare 
                  per il centro città, trasformata in una sorta di zona 
                  rossa, una sorta di provocazione in una giornata che è 
                  sempre stata simbolo della lotta per la liberazione dalla schiavitù 
                  del lavoro salariato, in una città che ha visto negli 
                  anni lo svolgimento di grandi e partecipate May Day. 
                  Un corteo composito ed eterogeneo, che raccoglieva il lavoro 
                  svolto nel tempo dai comitati No Expo e lo sforzo organizzativo 
                  di rappresentare sul campo le diverse anime e sensibilità 
                  che sul terreno della lotta a quel modello di società 
                  e di sviluppo si muovono. Un corteo costruito assemblearmente 
                  dopo diversi mesi di riunioni, di confronti, di decisioni costruite 
                  sul consenso e sull'accordo. In testa più di duecento 
                  musicisti, appartenenti a bande di vari paesi d'Europa, reduci 
                  dalla cena serale d'accoglienza presso la sede della FAI di 
                  Milano curata dalla Banda degli Ottoni, a dare un segnale di 
                  festa e di calore, a seguire i comitati No Tav, No Muos, No 
                  Expo, la rete 'Genuino clandestino', quelli di lotta sul territorio 
                  e per la casa, il sindacalismo di base della CUB e dell'USB, 
                  lo spezzone rosso nero con lo striscione 'Expropriamo Expo', 
                  dietro cui sfilavano circa duecento compagni e compagne tra 
                  FAI, il Circolo anarchico di Via Torricelli 19, l'USI e Iniziativa 
                  Libertaria di Pordenone con i loro striscioni, oltre a diverse 
                  individualità. A seguire, e a chiudere il corteo, il 
                  SI.COBAS, il 'Sindacato è un'altra cosa', e infine vari 
                  partiti, da Rifondazione al PCL. 
                  Imponente lo schieramento di polizia, con mezzi blindati e reticolazioni 
                  semoventi, a chiusura delle varie possibilità d'accesso 
                  al centro città; anche se rimane 'curioso' il fatto di 
                  aver lasciato parcheggiare le auto lungo il percorso del corteo, 
                  così come il fatto che siano rimasti al loro posto i 
                  cestini per i rifiuti ed altre suppellettili cittadine che generalmente 
                  vengono rimosse in previsione di cortei 'caldi e vivaci' come 
                  ci si aspettava che fosse, soprattutto dopo la campagna mediatica 
                  preventivamente criminalizzatrice e le conseguenti perquisizioni 
                  e sgomberi delle giornate immediatamente precedenti. 
                  La formazione del corteo è stata lentissima anche perchè 
                  si partiva dalla grande piazza di Porta Ticinese per imboccare 
                  lo stretto omonimo Corso, ma senza grossi problemi perchè 
                  il posizionamento dei vari spezzoni era stata concordato da 
                  tempo. Quello che non poteva essere concordato era il posizionamento 
                  di quanti, provenienti da fuori Milano e da fuori Italia, non 
                  avevano partecipato al percorso organizzativo e che si presumeva 
                  si potessero posizionare alla coda del corteo. Nei fatti quello 
                  che è successo è che queste realtà si sono 
                  posizionate all'interno degli spezzoni a loro più affini, 
                  soprattutto nella parte centrale del corteo dove si è 
                  evidenziato un comportamento assolutamente refrattario al rispetto 
                  degli accordi presi precedentemente. Volontà politiche, 
                  sicuramente autoritarie e prevaricatrici, ed in/sofferenze sociali 
                  si sono mischiate dando origine ad uno spezzone che ha cercato 
                  un suo protagonismo attivistico prima nella contrapposizione 
                  con le forze di polizia, poi con quelli che sono stati identificati 
                  con i simboli del potere capitalistico. Ma chi cerca di trovare 
                  un nesso unico, una regia unica, in quello che è successo 
                  sbaglierebbe. 
                  Lasciando alla destra tradizionale e a quella renziana le urla 
                  di sdegno e gli editti accusatori, la minaccia di rappresaglie 
                  ed i progetti di leggi liberticide, quello che ci interessa 
                  mettere a fuoco è come il Primo maggio a Milano si sia 
                  messo in scena non tanto una replica di quanto già visto 
                  a partire da Seattle in poi, quanto una prima concretizzazione 
                  di quello che le politiche di austerità, di impoverimento 
                  sociale, di rafforzamento autoritario, di restringimento degli 
                  spazi di espressione e di organizzazione, stanno producendo: 
                  una espressione, fluida, anche contraddittoria, di un malessere 
                  sociale ed esistenziale, che nel conflitto, nelle sue varie 
                  forme possibili, cerca uno sbocco. 
                  Così, alcune centinaia di manifestanti si sono misurati 
                  prima con la polizia che, con un numero spropositato di lacrimogeni 
                  urticanti (si dice più di 400) e con l'uso degli idranti, 
                  li ha respinti, per rivolgere poi la loro attenzione alle vetrine 
                  di banche, negozi di vario tipo, auto, pensiline dei mezzi pubblici, 
                  semafori, ecc., mischiando le banche, simboli classici del sistema 
                  di sfruttamento capitalistico con attività generiche 
                  (un barbiere, un ottico, un ortofrutta...). Insomma tanto lavoro 
                  per assicurazioni ed artigiani mentre Maroni e Pisapia hanno 
                  già offerto rimborsi e organizzato manifestazioni: il 
                  2016 con le elezioni della nuova giunta non è poi così 
                  lontano. 
                  Trovandosi al centro del corteo il rischio del coinvolgimento 
                  dell'intera manifestazione è stato ovviamente molto alto 
                  – è stato avanzato anche il sospetto che alcuni 
                  all'interno di quello spezzone lavorassero per trasformare tutto 
                  il corteo in un terreno di scontro complessivo – ma se 
                  così non è stato è grazie alla determinazione 
                  delle componenti iniziali organizzatrici della manifestazione 
                  che hanno tenuto fede agli impegni presi assemblearmente sia 
                  mantenendo le posizioni, sia concludendo il percorso tra i fumi 
                  dei lacrimogeni e delle auto incendiate. In questo contesto 
                  non si può tacere delle tattiche poliziesche tese da 
                  una parte a contenere i danni tra i 'suoi' e dall'altra ad evitare 
                  che ci fossero delle vittime tra i manifestanti, tali da 'sporcare' 
                  l'inaugurazione di Expo. Del 'buon cuore' ipocrita del Ministro 
                  degli Interni non sappiamo che farcene. 
                  Detto questo rimangono sul tappeto alcune considerazioni da 
                  fare. 
                  La crisi sta scavando sempre di più nel corpo sociale 
                  del paese, le politiche riformistiche non hanno più gambe 
                  né fiato né sirene da suonare, la disoccupazione 
                  cresce e soprattutto quella giovanile, non c'è uno straccio 
                  di politica industriale all'orizzonte, le rappresentanze politiche 
                  più o meno tradizionali si sono dissolte, le divaricazioni 
                  sociali crescono così come cresce il controllo sociale 
                  fino a prefigurare scenari di militarizzazione sociale complessiva, 
                  leggi sempre più autoritarie e restrittive sono all'orizzonte 
                  sia sul campo degli scioperi dove si vuole imporre un criterio 
                  maggioritario alla tedesca, sia nel campo delle manifestazioni 
                  di piazza. Non ci vuole molto a capire che, in mancanza di una 
                  capacità politica rivoluzionaria in grado di costruire 
                  uno sbocco praticabile e condiviso alla situazione che stiamo 
                  vivendo e che andrà sempre più aggravandosi, la 
                  violenza acefala diventerà l'unica forma di espressione 
                  possibile. Esorcizzare quanto è successo non ci aiuta, 
                  il moralismo perbenista nemmeno, il settarismo autoreferenziale 
                  men che meno. C'è da rimboccarsi le maniche, sempre più 
                  e sempre meglio, sulla strada della lotta quotidiana, dell'autorganizzazione, 
                  del duro lavoro di costruzione di un movimento libertario che 
                  sappia essere agente reale e concreto della trasformazione sociale. 
                 Le compagne e i compagni della Federazione 
                  Anarchica Milanese 
				   
				 
                    
                  Primo maggio.2/Le distanze dalla violenza 
                   
                  Ciao, leggo assiduamente A-rivista, su internet. 
                  Ho letto il volantino di No-Expo, e concordo in parte con questo 
                  documento. Sono anarchico, individualista. Boicottare l'Expo 
                  è giusto, ma la violenza fa soltanto male agli ideali 
                  anarchici, mi piacerebbe prendeste le distanze dalla violenza, 
                  rispetto molto il vostro lavoro e leggo davvero con interesse 
                  la maggior parte di quello che scrivete, credo altresì 
                  che anarchia non voglia per forza dire sindacato, che anarchia 
                  possa voler dire anche individualismo, con tutto il rispetto 
                  per ogni singola individualità. credo sarebbe meglio 
                  mostrare che si può coltivare, piantare, fare agricoltura 
                  diversamente da come vorrebbe farci credere Expo, e credo che 
                  sarebbe meglio farlo all'interno di Expo. È solo la mia 
                  opinione certo, ma spaccare un'Audi del 2004 non significa colpire 
                  i padroni, ma un povero cristo che se l'è comprata usata, 
                  magari a rate. 
                  Ecco solo questo. Un caro saluto. 
                 Maurizio Caggiano 
                  Potenza 
				   
				 
                    
                  Primo maggio.3/Mario Calabresi, i black bloc e la polizia 
                   
                  “Dal G8 di Genova si discute solo delle violenze e degli 
                  errori della polizia, mai delle devastazioni dei manifestanti: 
                  chiaro il risultato”. Cosa può avere spinto Mario 
                  Calabresi a uscirsene con una frase del genere, su Twitter, 
                  il primo maggio, dopo le ignobili azioni dei Black Bloc per 
                  le strade di Milano? La frase è infelice per diversi 
                  motivi, alcuni più attuali, alcuni meno. Lo è, 
                  ad esempio, perché offre il fianco a una cupa - e facile 
                  - ironia, provenendo da chi ahimè vede il proprio cognome 
                  legato a uno dei più terribili casi di “errore” 
                  della Polizia nella storia del nostro Paese. Ma lo è 
                  anche perché definire “errori” i crimini 
                  commessi dai poliziotti in occasione del G8 di Genova, che la 
                  Corte europea dei diritti dell'uomo ha recentemente condannato 
                  come gravi violazioni, è una forma sottile di negazionismo: 
                  quel negazionismo travestito da moderazione, che modifica la 
                  storia piano piano, una parola alla volta, quasi a mezza voce. 
                  Si potrebbe indugiare a lungo sul primo punto. Notare come, 
                  al primo tweet (condiviso più di seicento volte), ne 
                  sia seguito a stretto giro un secondo, in polemica con coloro 
                  che avevano fatto battute richiamando l'affare Pinelli. Notare 
                  come a questo secondo tweet (anch'esso condiviso centinaia di 
                  volte) siano arrivate risposte cariche di ossequioso sostegno 
                  da parte di commentatori di passaggio, di quelli sempre pronti 
                  a sedersi dov'è più comodo: “Direttore ... 
                  non badi agli idioti ... chissà se l'hanno mai letta 
                  davvero, la storia di suo padre”. Notare quindi che “la 
                  storia di suo padre”, vittima del terrorismo, scritta 
                  proprio dal giornalista e diffusa da un grande editore e quindi 
                  da canali di comunicazione di massa, è abbastanza accessibile 
                  al grande pubblico, mentre per il ferroviere anarchico nessuno 
                  ha davvero spinto la notte più in là. 
                  Si potrebbe indugiare anche sul secondo punto: cosa significa 
                  parlare di “errori” della Polizia rispetto ai fatti 
                  di Genova? Significa certamente ridimensionarli, e in qualche 
                  modo umanizzarli. Difficile però pensare che davvero 
                  Mario Calabresi volesse umanizzare gli orrori della Diaz: è 
                  un giornalista preparato, intelligente, e anche una buona penna 
                  - cosa che non si può dire di tutti i grandi nomi della 
                  carta stampata al giorno d'oggi. E allora quale poteva essere 
                  lo scopo di un tweet del genere, di una simile dichiarazione, 
                  che offriva il fianco a così tante polemiche, facili 
                  e meno facili secondo i punti di vista? 
                  Lo scopo era, probabilmente, proprio quello di provocare queste 
                  polemiche. Aspettare al varco quelli che avrebbero nominato 
                  Pinelli, tacciare di mala fede quelli che avrebbero, con altri 
                  argomenti, contestato il lessico e il senso dell'affermazione. 
                  Litigare, ribattere, nel limitato spazio di colpi e contraccolpi 
                  lunghi 140 battute, dove prolifera lo slogan e non c'è 
                  spazio per l'approfondimento che sarebbe necessario quando si 
                  commentano cronache di violenza politica e civile. Probabilmente, 
                  lo scopo di quel tweet, con le sue più di 600 condivisioni, 
                  e le circa 200 risposte (in polemica o in accordo), era esattamente 
                  quello di provocare una piccola bagarre. Sembra purtroppo che 
                  sia diventato un principio cardine della comunicazione, nella 
                  piazza virtuale come in quella reale, seminare un po' di rissa. 
                  Altrimenti non ti ascolta nessuno. 
                  A me, leggendo la frase di Mario Calabresi su Twitter, era venuta 
                  voglia di rispondere. Ma quello che ho scritto, pacificamente, 
                  in queste righe, giusto o sbagliato che sia, in un tweet non 
                  ci sarebbe stato. Per farcelo stare, avrei dovuto limitarmi 
                  a qualche battuta secca, che sarebbe suonata faziosa, aggressiva, 
                  come le parole di tutti quelli che, su quel social, hanno reagito. 
                  Insomma, partecipare a quella piccola polemica online mi sarebbe 
                  parso un atto di violenza. E allora, anche se non sono certo 
                  di potermi definire anarchico, mi sono riletto proprio una frase 
                  di Giuseppe Pinelli, tratta da una sua lettera: “l'anarchismo 
                  non è violenza, la rigettiamo, ma non vogliamo subirla”. 
                  Ho chiuso Twitter, e ho scritto questo pezzo. 
                 Federico Giusfredi 
                  Pavia 
				   
				 
                    
                  Primo maggio.4/Il conflitto e la sua rappresentazione 
                   
                  L'agire rivoluzionario, nell'attraversare un percorso di trasformazione 
                  radicale delle relazioni politiche e sociali, è, costitutivamente, 
                  anche narrazione. 
                  La diffusione e l'accessibilità pressoché universale 
                  di strumenti di comunicazione ha enormemente amplificato il 
                  carattere discorsivo dell'azione di piazza. 
                  Sottile è il confine tra rappresentazione e rappresentanza. 
                  Su questo confine si giocano partite di egemonia, che spesso 
                  sfuggono all'analisi e al controllo di chi partecipa alle iniziative, 
                  pur avendo contribuito a costruirle. 
                  Il dibattito/scontro sul Primo Maggio milanese si inceppa su 
                  una faglia solida ma prismatica, dove si intrecciano più 
                  piani. 
                  Uno è quello dei media, che, come cinicamente rilevava 
                  qualche amante del “realismo”, fanno la loro partita 
                  e contribuiscono a costruire una narrazione difficile da ignorare, 
                  perché spesso costituisce e costruisce una parte dell'opinione. 
                  Nel dibattito di queste settimane non è mancato chi – 
                  leggete l'ultimo editoriale su infoaut - pur rivendicando il 
                  “riot”, lo avrebbe preferito più “civile”, 
                  più forte nel proporre una comunicazione dove l'atto 
                  distruttivo fosse immediatamente leggibile dal filtro dei media. 
                  Pur condividendo l'aspirazione ad una comunicazione che sappia 
                  farsi opinione più allargata, dubitiamo che i media siano 
                  governabili dai movimenti. 
                  Quest'analisi della giornata mette in scena una rappresentazione 
                  della piazza, disegnata da chi vorrebbe farsene “rappresentante”, 
                  ben al di là dello spazio di una may day milanese, in 
                  cui le anime scisse della post autonomia, si sono contese il 
                  monopolio della visibilità. 
                  Al di là della trasparente rabbia di chi pensava di condurre 
                  il gioco ma non ha portato a casa il risultato pieno, colpisce 
                  che il concetto sensato della chiarezza degli obiettivi, venga 
                  delegato allo specchio dei media. Ci permettiamo di immaginare 
                  che se il “riot” avesse colpito solo banche e auto 
                  di lusso, la narrazione mediatica non sarebbe cambiata. 
                  Parte di chi ha agito il “riot” ha affidato ai graffiti 
                  la propria narrazione. Un cuore intorno al foro di una vetrina 
                  infranta, una scritta su un negozio aperto il Primo Maggio, 
                  allusioni poetiche ad una narrazione rivolta ai propri affini, 
                  che raramente riesce a farsi opinione condivisa al di fuori 
                  di chi ha la chiave di decodifica culturale del messaggio. 
                  Scartiamo intenzionalmente il concetto di “opinione pubblica”, 
                  perché l'epoca in cui la diffusione aurorale della stampa 
                  quotidiana produceva “opinione pubblica” è 
                  tramontata e i piani su cui si costruiscono le narrazioni condivise 
                  sono molteplici, a volte intersecati ma non sempre comunicanti. 
                  La giornata delle spugnette dove la sinistra Mastrolindo è 
                  scesa in strada per ripulire la città è frutto 
                  della proposizione della tematica del bene comune in chiave 
                  nazional-popolare. Quella giornata, ben più degli scontri 
                  del Primo Maggio, ha messo in secondo piano la devastazione 
                  e saccheggio rappresentati dal modello Expo. L'appannata amministrazione 
                  Pisapia ha recuperato punti, l'Expo probabilmente meno. 
                  Nelle prime ore dopo la manifestazione milanese i social media 
                  pullulavano di complottisti che ripetevano la noiosa litania 
                  sugli infiltrati nero vestiti: fortunatamente in meno di 24 
                  ore questo argomento buono per tutte le stagioni è stato 
                  riassorbito in un dibattito meno banale. Il ricorrente comparire 
                  di queste tesi afferisce all'incapacità di confrontarsi 
                  con pratiche eccedenti la normalità: se c'è la 
                  lunga mano della questura tutto va a suo posto, non c'è 
                  lacerazione, non c'è divaricazione, non c'è conflitto, 
                  non c'è divisione tra buoni e cattivi, perché 
                  i “cattivi” sono ridotti al rango di burattini. 
                  È un'interpretazione intrinsecamente rassicurante. Niente 
                  dibattito, niente confronto. I buoni sono buoni e i cattivi 
                  sono finti. Una favola triste e inutile. 
                  Una favola che fa sempre meno presa sull'immaginario. 
                  La narrazione sconfitta è stata quella delle assemblee 
                  che hanno costruito le giornate No Expo, il cui punto di arrivo 
                  e ri-partenza avrebbe dovuto essere il Primo Maggio milanese. 
                  Un corteo comunicativo e conflittuale era la proposta per una 
                  may day che mettesse insieme, nello stesso spazio, una rappresentazione 
                  plurale dove l'agire comunicativo fosse condiviso da tutte le 
                  anime del corteo. Una scommessa che il “riot” ha 
                  fatto saltare, svuotando di senso la giornata dei “blocchi” 
                  del 2 maggio e portando alla cancellazione dell'assemblea finale. 
                  Il No Expo proseguirà, ma il momento magico della rappresentazione 
                  corale non potrà essere recuperato. 
                  Forse era una scommessa impossibile, forse la rete No Expo ha 
                  tentato la quadratura del cerchio. Di certo sullo sfondo c'era 
                  un'aspettativa non detta ma sussurrata di bocca in bocca: il 
                  primo maggio a Milano il “riot” avrebbe riempito 
                  la scena. Forse era una storia già scritta. Forse. 
                  Lo abbiamo messo con le virgolette “riot”. Lo abbiamo 
                  scritto in inglese perché se avessimo scritto sommossa, 
                  o rivolta sarebbe stata chiara a tutti la distanza tra 
                  le parole e le cose. 
                  “Riot” ha invece in se la potenza semantica dell'immagine 
                  stereotipa che si riproduce di piazza in piazza, di continente 
                  in continente. Ragazzi mascherati, lacrimogeni, polizia, auto 
                  in fiamme e banche sfondate. Roba che ritorna a tutte le latitudini, 
                  tanto che qualcuno sta teorizzando il ritorno delle rivolte, 
                  senza accorgersi, che non hanno mai smesso di esserci. 
                  L'immagine iconizzata del lancio della boccia parla la lingua 
                  del conflitto, racconta quello che ogni giorno non accade: è 
                  innegabilmente seduttiva per tanti, perché narra l'immediatezza 
                  di un agire che non rimanda ad altro, che si concreta nel subito, 
                  che ha in se il proprio fine: comincia e finisce con la vetrina 
                  infranta. A due passi dagli scontri i supermercati erano aperti, 
                  un gelataio spalmava coni con un occhio alla strada, a Rho migliaia 
                  di volontari lavoravano per l'illusione di salire il mezzo scalino 
                  che divide i sommersi dai salvati. 
                  La stessa retorica sulla distruzione dei simboli del potere 
                  e del capitalismo, la narrazione di alcuni settori di movimento, 
                  ha una logica debole, vista l'incomparabile distanza tra le 
                  infinite macerie del capitalismo e i vetri infranti nel centro 
                  di Milano. 
                  La seduzione è nel gesto, non nella sua rappresentazione 
                  politica. 
                  Su questo sentire che ha una propria intrinseca onestà 
                  c'è chi ha provato a giocare il vecchio gioco dell'egemonia. 
                  Ma è una tela dalla trama logora, che gioca sporco con 
                  i propri stessi compagni di “riot”, perché 
                  nega loro dignità politica, relegandoli nella sfera della 
                  spontaneità. Una spontaneità che non escludiamo 
                  si sia data in qualche occasionale processo imitativo ma è 
                  improbabile che sia appartenuta ai più. 
                  Diciamolo chiaro: Milano non è Baltimora o Istanbul. 
                  A Milano non c'è stata una sommossa ma un settore della 
                  piazza che per un'ora e mezza ha messo in scena la sommossa. 
                  Lo diciamo con rispetto. Il rispetto dovuto a chi rischia, a 
                  chi è stato arrestato, a chi potrebbe perdere la propria 
                  libertà per anni. La vendetta dello Stato affina i propri 
                  strumenti e sarà segno della maturità dei movimenti 
                  che nessuno sia lasciato solo, che chi è nel mirino abbia 
                  sostegno attivo, perché nelle Procure stanno tessendo 
                  la rete delle prossime operazioni repressive. 
                  Eravamo al corteo del Primo Maggio a Milano. E non siamo pentiti 
                  di esserci stati, anche se avevamo creduto alla scommessa di 
                  un corteo conflittuale e, insieme, comunicativo. Eravamo in 
                  coda. Dietro a tutti, rioter compresi, e siamo arrivati sino 
                  in fondo. 
                  Un corteo è un corteo. Doveva essere la rappresentazione 
                  collettiva delle lotte che in ogni dove danno corpo al mondo 
                  nuovo che vogliamo e che stiamo già costruendo, nel conflitto 
                  e nell'autogestione. Non lo è stato. Ci saranno altre 
                  occasioni, se sapremo costruirle. 
                  Non ci interessano le vetrine rotte, ci interessa la storia 
                  che raccontano. Il fatto, nudo e crudo, è che quel settore 
                  della piazza milanese non era lo specchio di lotte reali ma 
                  il loro sostituto. Lo diciamo con l'umiltà di chi sa 
                  quanto sia arduo un percorso di lotta radicale, un percorso 
                  che osi mantenere chiara all'orizzonte l'urgenza dell'anarchia, 
                  l'urgenza di un mondo senza servi né padroni. Senza stati, 
                  né eserciti. 
                  Lo diciamo con la chiara consapevolezza che quanto avvenuto 
                  ci interroga tutti sull'efficacia del nostro agire, sulle prospettive 
                  di lotta. Dobbiamo registrare un'assenza. Un'assenza pesante 
                  come un macigno, un'assenza che abbiamo visto evocare in questi 
                  anni da tanti compagni e compagne, intelligenti e generosi. 
                  Un'assenza che non possiamo ignorare. Manca la proiezione rivoluzionaria, 
                  manca la tensione a credere possibile un mondo realmente diverso 
                  da quello in cui siamo forzati a vivere. La precarietà 
                  iscritta nella materialità del vivere quotidiano, diviene 
                  condizione esistenziale, chiusura prospettica. Senza tensione 
                  ad un mondo altro, senza una rottura quotidiana dell'ordine 
                  imposto, il sasso che spezza il vetro, la molotov che brucia 
                  il macchinone bastano a se stessi. 
                  Il problema non è il volo ma l'atterraggio: le lotte 
                  sui territori solo occasionalmente riescono a coniugare radicalità 
                  e radicamento. 
                  Questa continua ad essere la nostra prospettiva, una prospettiva 
                  costitutivamente estranea a logiche egemoniche, perché 
                  allergica ad ogni forma di potere. E di contropotere. 
                  La strada da fare è tanta. Il conflitto, quello vero, 
                  lo agiamo giorno dopo giorno nei territori dove viviamo e che 
                  attraversiamo. E ne conosciamo la difficoltà. 
                  Il Primo Maggio sempre più gente va a lavorare. 
                  Questa è la vera sconfitta che noi tutti abbiamo patito 
                  quest'anno: pochi hanno scioperato, perché le reti di 
                  sostegno a chi lotta sono troppo deboli, perché la divisione 
                  tra sfruttati ha aperto solchi profondi, perché la rappresentazione 
                  di un altro futuro, come di un AlterExpo deve ancora fare breccia 
                  nei cuori e nelle menti di tanti con cui, nei nostri quartieri, 
                  facciamo un pezzo di strada insieme. 
                I compagni e le compagne della Federazione 
                  Anarchica Torinese 
                 
                  
                   
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                    |   Un nostro adesivo pubblicitario degli anni '70,  realizzato da Fabio Santin e Marina Padovese  | 
                   
                 
                 
                   
                   
                 
                 
                  
                     
                      |    I 
                          nostri fondi neri 
                             | 
                     
                     
                        
                           Sottoscrizioni. Modo Infoshop (Bologna), 
                            100,00; Anna Ubizzo (Marghera – Ve) 4,00; Giuseppe 
                            Idem (Forcoli – Pi) 5,00; Daniele Romagnoli 
                            (Sant'Olcese – Genova) 4,00; Roberto Angelini 
                            (Spoleto – Pg) 10,00; Enrico Calandri (Roma) 
                            150,00; Andrea Ronsivalle (Lodi) 10,00; Nuccia Pelazza 
                            (Milano) 100,00; Giovanna e Antonio Cardella (Palermo) 
                            40,00; Antonino Pennisi (Acireale – Ct) 20,00; 
                            Marco Bianchini (San Giuliano Milanese – Mi) 
                            10,00; Aldo Curziotti (Felegara – Pr) 10,00; 
                            Enrico Calandri (Roma) 100,00; Rino Quartieri (Zorlesco 
                            – Lo) 50,00; Carlo Ottone (Gattinara – 
                            Bi) in ricordo di Giuseppe Ruzza e Delfina Stefanuto, 
                            30,00; Piero Torelli (Sermoneta – Lt) 10,00; 
                            Aurora e Paolo (Milano) ricordando Attilio, Libera 
                            e Libero Bortolotti, 500,00; Libreria San Benedetto 
                            (Sestri Ponente – Ge) 1,70; Davide Giovine (Torre 
                            Pellice – To) 15,00; Marco Pandin (Montegrotto 
                            Terme - Pd) 30,00; Piero Torelli (Sermoneta - Lt) 
                            10,00. Totale € 1.209,70. 
                          Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti 
                            specificato, trattasi di euro 100,00). Lucia 
                            Zanardi (Genova); Maurizio Frongia (Busachi – 
                            Or); Agostino Perrini (Brescia) 110,00; Enzo Boeri 
                            (Vignate – Mi) 200,00; Misato Toda (Tokyo – 
                            Giappone) per dieci anni, 1.200,00; Gruppo Caos (Genova); 
                            Paola Mazzaroli (Trieste). Totale € 
                            1.910,00. 
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