Con gli occhi della patata 
                  
                del Centro Studi Canaja con uno scritto di Felice Accame 
                    
                Dai primi insediamenti nel Nuovo Mondo ai giorni nostri, la storia dell'occidente analizzata attraverso le vicende di questo tubero. Sull'argomento è uscita tempo fa una pubblicazione densa e originale di cui pubblichiamo ampi stralci. 
                 
                  Osservando un tubero di patata si notano delle infossature dette “occhi” in ognuna delle quali è inserita una gemma dormiente. Da ciascuna di esse, nell'anno seguente, spunterà una nuova pianta. Infatti, quando l'agricoltore “semina” le patate, mette nel terreno un tubero o, più spesso, una sua parte, munita di una o più gemme.  
                 
                  E se fosse la patata ad osservare noi con i propri occhi? 
                  Se potesse severamente guardarci? 
                  Se, spalancando gli occhi sulla miseria del nostro quotidiano 
                  volesse raccontarci la propria storia? 
                  Ci parlerebbe degli altopiani delle Ande, dove migliaia di anni 
                  fa viveva in simbiosi con i cacciatori-raccoglitori di quelle 
                  terre. 
                  Di rituali religiosi e mistici che la vedevano protagonista. 
                  Di uomini armati e coperti di ferro che, venuti dalla Spagna 
                  in cerca dell'oro, massacrarono senza pietà i suoi primi 
                  amici. 
                  Di viaggi interminabili nelle stive di grandi navi dove vi era 
                  finita casualmente. 
                  Del rifiuto e della diffidenza che l'accompagnò per oltre 
                  duecento anni in Europa, dove i rappresentanti di un'altra religione 
                  per il semplice fatto di crescere sottoterra, lontano dalla 
                  luce, la consideravano nemica del loro Dio. 
                  Se gli uomini delle Ande la chiamavano “papa”, i 
                  sacerdoti europei scandalizzati dal fatto che quel tubero, così 
                  simile ad un testicolo, portasse lo stesso nome del loro capo 
                  la chiamarono “radice del Diavolo”, la accusarono 
                  di essere la responsabile della trasmissione di terribili epidemie, 
                  si rifiutarono di mangiarla e la diedero in pasto ai maiali. 
                  Come ogni migrante povero, conobbe la discriminazione, il pregiudizio, 
                  l'intollerabile situazione del capro espiatorio, la condizione 
                  di ultimo della terra. Tutto questo fino a quando qualcuno non 
                  scoprì le sue potenzialità e quanto poteva rendere 
                  in termini di profitto. 
                  Il suo consumo e la sua coltivazione si diffusero in tutta Europa, 
                  dalla Spagna al Portogallo, dall'Italia alla Francia, dal Belgio 
                  alla Polonia, dall'Austria alla Germania, dall'Ungheria alla 
                  Russia, dalla Svezia alla Norvegia. 
                  Si mise l'elmetto e accompagnò i soldati degli eserciti 
                  delle potenze europee per tutto il settecento, sostentò 
                  militari e prigionieri delle guerre di successione. 
                  Appassionò gli illuministi francesi, divenne argomento 
                  di discussione per gli economisti al servizio della rivoluzione 
                  industriale e metro di paragone per chi iniziava a denunciare 
                  lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo. 
                  Venne coltivata per la prima volta in maniera intensiva nei 
                  campi d'Irlanda, divenne praticamente l'unico prodotto agricolo 
                  di quella nazione e quando, verso la metà dell'ottocento 
                  un fungo micidiale, la peronospora, ne decimò il raccolto, 
                  un milione di irlandesi morì di fame. Altri due milioni 
                  e mezzo presero la via del mare e si spersero in ogni angolo 
                  del pianeta. 
                  Lo stesso destino che era toccato a lei nei secoli precedenti, 
                  riempiendo ancora una volta le stive delle navi che battevano 
                  bandiera delle nazioni colonizzatrici. Accompagnò i francesi, 
                  i belgi, i tedeschi nelle loro conquiste in Africa. Gli olandesi 
                  a Giava e nel Giappone. Gli inglesi in India, in Tibet e in 
                  Persia. Ritornò in America, nelle Bermude, in Virginia, 
                  nel New Hampshire a bordo delle navi dei colonizzatori inglesi. 
                  Religione e guerra e, quando fu il caso, guerra di religione, 
                  accompagnarono l'odissea della patata nei secoli XVIII e XIX. 
                  Nata in trincea, si adattò senza problemi a riempire 
                  gli stomaci di quei poveri cristi che in trincea ci lasciavano 
                  la pelle per soddisfare le brame dei loro padroni durante le 
                  prima guerra mondiale, sfamò anche i loro famigliari, 
                  poveracci più di loro. 
                  Sulla tavola dei proletari non mancò mai per tutto il 
                  periodo tra le due guerre e accompagnò, fatta a fettine, 
                  surgelata e pronta per essere fritta l'avanzata dell'Esercito 
                  degli Stati Uniti d'America in Europa e in Giappone durante 
                  la seconda guerra mondiale. 
                  Così, come spesso succede, la tecnologia applicata in 
                  campo militare si trasferì al cosiddetto mondo civile 
                  e le patatine fritte, targate McDonald piantarono e continuano 
                  a piantare la loro bandiera in mezzo mondo. 
                  Oggi la patata è il quarto prodotto agricolo a livello 
                  mondiale, è coltivata in tutto il mondo, il maggior produttore 
                  è la Cina e gli Stati Uniti sono il maggior consumatore. 
                  Compagna delle fortune e delle sventure dell'umanità 
                  non poteva rimanere indenne dalle attenzioni dei modificatori 
                  genetici di organismi e così è proprio una patata 
                  prodotta dalla BASF, Amflora, il primo prodotto OGM sdoganato 
                  dalla Commissione Europea... la storia continua! 
                
                   
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                    |   Vincent Van Gogh, I mangiatori di patate, 1885,  Museo 
                  Van Gogh (Amsterdam)  | 
                   
                 
                 
                Storia di paura e di masticatori di foglie 
                È impossibile trattare in maniera esauriente 
                  la storia della patata senza menzionare i primi agricoltori 
                  che la conquistarono e la “modellarono”, ma è 
                  altrettanto inammissibile ignorare il particolare ambiente nel 
                  quale la pianta e l'uomo svilupparono la loro reciproca conoscenza. 
                  Redcliffe N. Salaman, Storia sociale della patata (Garzanti, 
                  1989) 
Arrivarono forse duemila anni prima della “conquista”, forse arrivarono dal nord, dalla via che da Panama porta alla Colombia e all'Equador, forse arrivarono dal mare, forse risalirono il fiume Magdalena o l'Orinoco o il Rio delle Amazzoni, gli altri grandi fiumi che sfociano sulla costa orientale del continente latino-americano, forse arrivarono dal Venezuela. 
Da ovunque arrivassero, i primi uomini che si insediarono negli altipiani che circondano il Lago Titicaca, il “mare interno” sul confine tra la Bolivia e il Perù, quell'enorme distesa d'acqua a forma di puma, scappavano ed erano affamati. 
Scappavano dalla giungla fitta, impenetrabile, carica di umidità, brulicante di insetti insidiosi, dove il cammino era minacciato dal boa conscrictor e dal giaguaro (la panthera onca), dove l'unico punto di riferimento erano i corsi d'acqua, infestati da coccodrilli e da pesci voraci. 
Scappavano da altri uomini, forse più abili di loro nell'uso di archi e frecce e che avevano l'insana abitudine di non limitarsi a farne uso per uccidere pesci e tartarughe per sfamarsi, cominciarono a prendere di mira anche loro e se ne cibarono... 
Insomma, per farla breve, il mondo che li circondava era veramente infame! 
Non è che l'altipiano fosse il paradiso in terra...Battuto da piogge violente, caldissimo quando il sole è alto, freddissimo durante la notte, non crescono alberi, il terreno, quando non è avvelenato dal borace è coperto dall'ispida erba Stipa. 
La religione che si erano tramandati di generazione in generazione insegnava il timore e il sospetto nei confronti della crudeltà della natura e l'atteggiamento che dominava il loro carattere era la rassegnazione. 
E allora rassegniamoci, caldo e freddo si potevano sopportare, dalla pioggia ci si poteva proteggere, non erano niente nei confronti delle ferite che avrebbero potuto infliggere ai loro corpi le frecce nemiche e gli artigli del puma o del giaguaro. 
Scappavano ed erano affamati ed infreddoliti, trovarono il porcellino d'india e se ne cibarono, trovarono il lama e l'alpaca e ne usarono la lana per proteggersi dal freddo e, una volta domati sarebbero potuti diventare animali da soma e rendere meno complicata e faticosa un'altra migrazione. 
In questo nuovo mondo le fonti alimentari che li avevano sostentati da sempre non erano più disponibili, troppo freddo per la manioca e il mais che avevano portato con sé non ne voleva sapere di crescere, volenti o nolenti dovettero rassegnarsi ad assaggiare le foglie di quelle strane piante che crescevano un po' ovunque. 
Le masticarono e provarono piacere, la fatica e la paura diventavano più sopportabili, avevano incontrato la coca. 
Ingenuamente masticarono anche altre foglie e l'effetto fu devastante, vomito, diarrea, dolori addominali e terribili emicranie, avevano incontrato la patata. 
Certo non potevano sapere che qualche parallelo più a nord, superato l'equatore, esisteva già qualcuno o qualcosa che invece di quelle foglie era ghiotto, sarebbero passati molti secoli prima che uomo e dorifora avrebbero fatto la reciproca conoscenza... 
Chissà, forse fu la rabbia o un senso di primitiva prevenzione che li spinse a sradicare quelle disgustose piante e a scoprire quelle strane radici cariche di palline multicolore. 
Sarà stato il fatto che lama, alpaca e porcellino d'india se ne mostrarono subito attratti, le assaggiarono e si abituarono a mangiare patate e, passo dopo passo, a scoprirne le inimmaginabili qualità. 
Pacha mama (la Terra Madre) era venuta in loro soccorso, gli aveva regalato una pianta che quasi magicamente si seminava e si raccoglieva eseguendo le stesse operazioni, gliene aveva regalato una varietà incredibile e loro seppero coltivarle e selezionarle a seconda del gusto e delle loro necessità. 
La patata, una volta cotta, era buona, riempiva la pancia ma, come qualsiasi altra pianta, seguiva rigidamente i ritmi della natura, i raccolti, anche se abbondanti, erano limitati ai periodi di maturazione. 
Ancora una volta la natura venne in loro aiuto e ben presto si accorsero che le patate congelate durante le gelide notti, di giorno, battute dalle piogge torrenziali, ritrovavano, miracolosamente la loro consistenza, avevano “inventato” il Chuno. 
Mangiare, si mangiava, il porcellino d'india si serviva con un buon contorno, oltre alla patata scoprirono la quinoa, l'oca, l'ulluco e via di zuppa. 
Lama, alpaca e vigogna fornivano la lana per confezionare meravigliosi poncho con cui proteggersi dal freddo. 
La fuga dai pericoli della foresta era riuscita, la lotta per la sopravvivenza era vinta, e allora...fiesta! 
Già, ma che festa sarebbe stata senza bevande? Da sempre sapevano distillare il mais, provarono a fare altrettanto con la quinoa e la patata. 
Ne uscì una particolare birra, la Chicha. 
I più bravi ne ricavarono una vera bomba alcolica, la Chata. 
Chicha, Chata, Coca, capaci di intorpidire i sensi dei primi coltivatori di patate e di allontanarli periodicamente dagli orrori del suo mondo spirituale e dalle tante difficoltà materiali furono elementi fondamentali perché insediamenti umani si potessero affermare in condizioni, altrimenti insopportabili. 
                  Storia di navi, d'oro, d'argento, di sacrifici, di nodi e cordelle 
                Di loro, invece, sappiamo con precisione da dove venivano e perché. 
                  Anche loro scappavano ed erano affamati. 
                  Erano affamati di gloria e di ricchezze, cercavano una mitica 
                  città dove le strade erano lastricate d'oro, cercavano 
                  una immaginaria montagna d'argento, scappavano dalla misera 
                  vita che conducevano in Spagna o in Portogallo, per molti di 
                  loro i rischi della traversata dell'Oceano Atlantico erano stati 
                  una facile via di fuga dai roghi dell'inquisizione. 
                  Quando Pizarro e suoi scagnozzi giunsero sugli altipiani andini, 
                  l'impero Inca si era imposto da oltre trecento anni, si estendeva 
                  dall'Ecuador al Cile e i contadini Quechua avevano imparato 
                  a coltivare e a selezionare settecento varietà di patata. 
                  Per arrivare ai tremila e settecento metri di altitudine del 
                  Lago Titicaca quegli uomini vestiti di ferro, in sella ai loro 
                  cavalli, armati di archibugio, avevano utilizzato le strade 
                  che solcavano le Ande e che avevano permesso l'interscambio 
                  di prodotti dalla costa alla montagna, garantendo al mais e 
                  alla patata di arrivare ai quattro angoli dell'impero. 
                  Avevano attraversato canyon paurosi ed apparentemente invalicabili, 
                  grazie ai ponti sospesi sopra ai fiumi, fatti di corda ricavata 
                  intrecciando erba secca, solitamente usati dai chaskic, 
                  i messaggeri imperiali che annunciavano il loro arrivo soffiando 
                  dentro il pututu, una tromba ricavata da una conchiglia 
                  e che con un sapiente gioco di staffette riuscivano a raggiungere 
                  Quito, partendo da Cuzco, in meno di una settimana. 
                  Non poterono non notare il sistema di acquedotti che permetteva 
                  l'irrigazione di terre altrimenti sterili e che, grazie al controllo 
                  delle acque, aveva avuto una parte non indifferente nell'espansionismo 
                  Inca. 
                  Quelli tra di loro che erano stati poveri contadini in Castiglia 
                  o in Aragona, probabilmente avranno deriso i loro “colleghi” 
                  che aravano il terreno armati di ”Taclla”, 
                  poco più di in bastone, e che in gruppo, cantando, preparavano 
                  il terreno per la semina delle patate. 
                  Abituati a piegare la schiena per qualche latifondista prima 
                  di indossare un'armatura, li avranno guardati con disprezzo 
                  quando si accorsero che a mettere le patate per terra, a raccoglierle, 
                  a riempire sacchi e a caricarseli sulla schiena erano le donne! 
                  Li disprezzarono, ignorando il valore simbolico che i contadini 
                  dell'antico Perù davano al fatto che solo chi genera 
                  vita può fecondare la terra e raccoglierne i frutti. 
                  Cercavano l'oro e lo trovarono, ne trovarono una quantità 
                  incredibile, cercavano l'argento e lo trovarono, ne trovarono 
                  una montagna. 
                  Cercavano le mitiche Amazzoni, si “accontentarono” 
                  delle Vergini del Sole, che trovarono rinchiuse dentro 
                  le Mamakuna, specie di conventi dove venivano educate 
                  le bambine consacrate a diventare concubine dell'Inca. 
                  Altri di loro, senza armature ma coperti da un saio, avevano 
                  il compito di cercare ben altro, cercavano l'anima nascosta 
                  dentro gli Indios e, come vuole la tradizione, gliela 
                  cercarono a forza di botte! 
                  È anche grazie alla furia evangelizzatrice di queste 
                  bestie e alla loro maniacale abitudine a catalogare tutto ciò 
                  che, dal loro punto di vista, puzzava di demoniaco, utile a 
                  realizzare dei veri e propri manuali da destinare ai nuovi missionari, 
                  che oggi siamo a conoscenza di tutta una serie di riti che, 
                  basandosi su di una concezione animista della religione Inca, 
                  ponevano al centro animali, astri e piante tra cui anche la 
                  nostra amica patata. 
                  Cieza de Leon, nelle sue Cronache del Perù, ricorda 
                  questo fatto, raccontatogli da un frate, avvenuto nel 1547: 
                  “A Lampa, nel Collao; si era svolto un grande raduno di 
                  Indios chiamati a raccolta dal rullo dei tamburi. 
                  Quando i capi, nei loro abiti più belli, si furono seduti 
                  su stoffe riccamente ricamate, entrò una processione 
                  di giovanetti vestiti con sfarzo; ognuno di questi ultimi stringeva 
                  un'arma con una mano e con l'altra un sacco di coca; erano accompagnati 
                  da un gruppo di giovanette con vesti altrettanto lussuose e 
                  lunghi strascichi sostenuti da donne più anziane. 
                  Le fanciulle portavano dei sacchi contenenti ricche vesti, oro 
                  e argento. 
                  Seguivano poi i contadini locali con l'aratro sulle spalle, 
                  a loro volta scortati da sei giovani ognuno dei quali portava 
                  un sacco di patate; venne quindi introdotto un lama di un anno, 
                  col vello “di un unico colore”, che venne ucciso 
                  davanti a uno dei capi; le sue interiora furono consegnate agli 
                  stregoni, poi alcuni Indios raccolsero quanto più sangue 
                  poterono e lo versarono nei sacchi di patate.” 
                  Purtroppo un catecumeno eccessivamente zelante, dopo aver severamente 
                  rampognato i presenti disperse il raduno... 
                  Giovani uomini e giovani donne, coca, oro e argento, sangue 
                  e patate. 
                  L'insieme di questi elementi, presenti in un rito celebrato 
                  quando gli spagnoli erano già padroni del Perù 
                  e 300 anni dopo che gli Inca avevano cancellato con la forza 
                  ogni presenza delle civiltà andine precedenti, spinsero 
                  gli archeologi, molto tempo più tardi, a sviluppare interessanti 
                  teorie sul significato di numerosi vasi ritrovati che avevano 
                  come soggetto dominante la patata. 
                  Se la maggior parte delle sculture ritrovate appartenenti alle 
                  civiltà Chimu e Nazca erano rappresentazioni terrificanti 
                  del loro mondo spirituale che riproducevano i vecchi nemici, 
                  il boa e il giaguaro, trasfigurati in divinità dai mille 
                  piedi e dotati di artigli mostruosi, fu immediato ipotizzare 
                  che mais, manioca, fagioli e patate, spesso presenti sui vasi, 
                  avevano cessato di essere semplici prodotti alimentari ed erano 
                  entrati a pieno titolo nel pantheon andino. 
                  Patate gemelle, simbolo di fertilità, patate che assumevano 
                  forme umane, intrecci con espliciti rimandi sessuali fra uomo 
                  e patata, ma soprattutto patate che diventavano volti umani 
                  con evidenti menomazioni sono il “catalogo” che 
                  possiamo ancor oggi ammirare. 
                  Oggi, chiamiamo “occhi” le gemme dormienti da cui 
                  si svilupperanno le nuove piante di patata, è presumibile 
                  ipotizzare che i nativi andini li chiamassero “bocche” 
                  e che, di conseguenza, le posizionassero sotto il naso del volto 
                  dell'uomo patata, 
                  Le bocche spesso venivano rappresentate con le labbra tagliate 
                  e i nasi mozzati. 
                  Testimonianza brutale di un rito che, a fronte di un raccolto 
                  andato male, prevedeva il sacrificio di labbra e bocche visti 
                  come possibili ostacoli affinché i denti della patata 
                  potessero arrivare facilmente a nutrirsi della terra madre. 
                  Tutto fa supporre, inoltre, che il lama sacrificato nel '500 
                  non fosse nient'altro che un innocuo surrogato di giovani e 
                  giovanette che vedevano il loro sangue sparso sui campi di patate... 
                  Prima di abbandonare il Perù, per accompagnare nel suo 
                  viaggio verso l'Europa la patata, è utile fare una riflessione 
                  che, solo apparentemente ci porterà fuori tema. 
                  Centinaia di libri, addirittura migliaia di siti internet, oggi 
                  possono essere consultati nel tentativo di approfondire la conoscenza 
                  della civiltà incaica e tutti, almeno quelli più 
                  seri, concordano nell'assegnare alla statistica un ruolo centrale 
                  nell'amministrazione dello Stato. 
                  I peruviani non conoscevano un sistema di scrittura ma avevano 
                  sviluppato un metodo ingegnoso per registrare le informazioni: 
                  era un sistema di cordicelle annodate chiamate Quipu 
                  che avevano alla base un sistema decimale. 
                  Ogni singola attività veniva registrata e ogni necessità 
                  veniva calcolata matematicamente, la suddivisione delle terre, 
                  il loro rendimento, i calcoli necessari per progettare e costruire 
                  i canali di irrigazione, le armi necessarie per intraprendere 
                  una guerra di conquista o per sedare una rivolta interna, tutto 
                  passava attraverso i nodi e le cordelle del Quipu. 
                  Persino quando gli spagnoli, forse per curiosità, forse 
                  per dimostrare in Europa di aver assoggettato un grande Impero, 
                  si posero il problema di ricostruire la storia dei popoli che 
                  avevano sterminato, avendo tagliato la gola a tutti i cantori 
                  che insieme alle lodi al sole le cantavano anche ai loro imperatori 
                  ricordandone le gesta, avendo distrutto tutti gli strumenti 
                  musicali che gli facevano da sottofondo, fu necessario interrogare 
                  i quipu-kamayoc, detentori della conoscenza di quell'intreccio 
                  di corde e nodi. 
                  Qualcuno interpretò questo fatto con la possibilità 
                  che dietro quello strumento si nascondesse una forma misteriosa 
                  di scrittura, la realtà era un'altra, il Quipu era lo 
                  strumento migliore che quegli “storici” conoscevano 
                  per aiutare la loro memoria a non perdere la conta degli Inca 
                  che si erano succeduti e i fatti che erano accaduti nel passato. 
                  Anche se sottomessi, la storia che raccontarono era una storia 
                  vista con gli occhi dei vincitori e cancellarono ogni traccia 
                  delle civiltà che le precedettero e da cui tanto avevano 
                  imparato come se la conquista del sapere fosse nata con gli 
                  Inca. 
                  Si comportavano, inconsapevolmente, come gli spagnoli che nel 
                  giro di quarant'anni, dal rango di divinità li avevano 
                  ridotti a quello di selvaggi. 
                
                   
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                    |   Stati Uniti d'America, 1884 - Vendita per corrispondenza  
                  delle gemme (“occhio”) della patata  | 
                   
                 
                 
                  Storia di guerre ammantate di religione, di solchi tracciati dal passaggio degli eserciti, di piedi scalzati 
                La Guerra di successione bavarese combattuta a cavallo tra il 1778 e il 1779 
                  è passata alla storia come Kartoffelkrieg ovvero 
                  “guerra delle patate”. 
                  Diverse sono le teorie sostenute a spiegazione di questo nome, 
                  la prima si basa sul fatto che le truppe prussiane e austriache 
                  trascorsero molto tempo a compiere manovre militari in Boemia 
                  per cercare di ottenere il cibo dal nemico, privandolo del principale 
                  sostentamento della regione, le patate appunto. 
                  La seconda prende spunto semplicemente dal fatto che la terra 
                  di Boemia era disseminata di un gran numero di campi coltivati 
                  a patate. 
                  La terza, infine, quella a cui diamo maggior credito, sostiene 
                  che ad un certo punto in mancanza di rifornimenti, si usassero 
                  anche le patate nei cannoni a sostituire le palle in ferro. 
                  Al di là di questo episodio, è strettissimo il 
                  legame che intercorse tra guerra e diffusione della patata in 
                  Europa nei due secoli precedenti e anche in quelli successivi. 
                  La più terribile di tutte le guerre di religione europee 
                  è quella che scoppia nel ´600 in Germania, nota 
                  come la guerra dei 30 anni - dal 1618 al 1648. 
                  Si scatena a causa della politica di Ferdinando II d'Asburgo, 
                  che unisce in sé molti titoli e poteri: è signore 
                  delle terre d'Austria, che costituiscono i beni di famiglia 
                  della dinastia asburgica, è anche re di Boemia ed Ungheria 
                  ed inoltre, come da secoli è prerogativa degli Asburgo, 
                  è imperatore di Germania. 
                  Ferdinando è un cattolico convinto, educato dai Gesuiti, 
                  che sono uno degli ordini più attivi ed impegnati nella 
                  riscossa del cattolicesimo contro quella che viene considerata 
                  l´eresia protestante. 
                  I progetti politici di Ferdinando II mirano a creare una forte 
                  monarchia nel centro dell´Europa e di tenerla saldamente 
                  unita sotto un´unica religione, quella cattolica, che 
                  dall´Austria dovrebbe estendersi a tutta la Germania. 
                  Questa politica provoca una forte reazione antiasburgica e infatti, 
                  nonostante le iniziali vittorie, il progetto degli Asburgo fallisce 
                  dopo trent´anni di lotte dure, rese ancora più 
                  sanguinose dagli odi religiosi che contrappongono cattolici 
                  e protestanti. 
                  Sono gravissime le conseguenze pagate dalla Germania, che viene 
                  percorsa e saccheggiata da numerosi eserciti: austriaci, bavaresi, 
                  spagnoli, danesi, svedesi, francesi. 
                  Oltre alle devastazioni proprie di ogni guerra, la lotta religiosa 
                  conosce le più dure forme di violenza: massacri perpetrati 
                  dai cattolici contro i protestanti e massacri perpetrati dai 
                  protestanti contro i cattolici. 
                  Basti ricordare il saccheggio della città di Magdeburgo, 
                  compiuto dall´esercito cattolico nel maggio del 1631: 
                  i protestanti sono vittime di uno dei massacri più atroci 
                  e brutali che la storia ricordi. 
                  Dopo saranno gli eserciti protestanti degli svedesi che risponderanno 
                  al sacco di Magdeburgo con altre atrocità: questa volta 
                  contro i cattolici. 
                  Fra le tante sofferenze inflitte al popolo della Germania vi 
                  sono anche migrazioni forzate di popoli da una regione, posta 
                  sotto una fede, ad un´altra soggetta all´altra confessione 
                  religiosa. 
                  Così avviene con una legge imperiale, l´editto 
                  di restituzione del 1629, che accorda a chi governa uno stato 
                  cattolico di cacciare i sudditi protestanti, causando esodi 
                  di masse disperate e miserabili. 
                  Molte terre restano spopolate ed in più bisogna aggiungere 
                  la desolazione provocata dalle carestie e dalle epidemie, che 
                  sono il lascito inevitabile del passaggio di eserciti dediti 
                  al saccheggio. 
                  Paradossalmente è proprio questa continua migrazione 
                  che contribuirà notevolmente alla diffusione della coltivazione 
                  della patata nell'Europa centrale. Infatti nessun altro prodotto 
                  agricolo, grazie al fatto di crescere sottoterra, si dimostrò 
                  più resistente alla devastazione provocata dal passaggio 
                  di interi eserciti 
                  I contadini erano consapevoli che le principali vittime di guerra 
                  e carestia sarebbero stati loro, fossero stati cattolici o protestanti. 
                  Questi ultimi, però, avevano già assaggiato sulla 
                  loro pelle la durezza della repressione e dell'esilio quando 
                  negli anni a cavallo tra il 1524 e il 1526 osarono insorgere 
                  ed allungarono le mani sulle proprietà della nobiltà 
                  e del clero. 
                  La Guerra dei Contadini tedeschi, analizzata da Engels e raccontata 
                  da Luther Blisset, in Alto Adige venne chiamata la “Guerra 
                  rustica” e costò la vita a 100.00 persone. 
                  Fonte di ispirazione fu il movimento insurrezionalista denominato 
                  “Bundschuh” (Lega della scarpa) che scoppiò 
                  in varie riprese in Germania tra il 1443 e il 1522. 
                  Il “Bundschuh” che inizialmente stava a indicare 
                  la scarpa dei contadini tenuta da legacci, in contrasto con 
                  gli stivali dei signori e cavalieri, divenne poi simbolo del 
                  partito contadino, talvolta grido di guerra delle fanterie e 
                  finalmente segno di reciproco aiuto contro gli oppressori dei 
                  contadini e di tutta la povera gente senza diritti. 
                  Con altri intenti e in tutt'altra parte d'Europa ci fu chi delle 
                  scarpe decise di farne proprio senza e che ebbe un ruolo non 
                  indifferente nella diffusione della patata. 
                  I primi tuberi di patata arrivarono in Spagna, a Siviglia, il 
                  solo porto spagnolo al quale, per disposizione regale, dovevano 
                  approdare tutti i navigli provenienti dal Nuovo mondo, per poterne 
                  meglio controllare i carichi di oro e di altre possibili merci 
                  preziose e non certo per sorvegliare i traffici di patate, ancora 
                  del tutto sconosciute: queste vi arrivarono quasi clandestinamente, 
                  alla spicciolata. 
                  E infatti non si sa chi ve le abbia introdotte né, con 
                  esattezza, quando ciò sia avvenuto. Ma proprio a Siviglia, 
                  nel 1576, abbiamo le prime notizie su di esse dai registri dell'Hospital 
                  de la Sangre della città, gestito, come tante altre opere 
                  caritative, dall'ordine religioso dei Certosini. 
                  Con certezza non sappiamo nemmeno perché acquistarono 
                  un carico di patate, l'ipotesi più accreditata fa supporre 
                  che le utilizzassero per preparare zuppe per i ricoverati ma 
                  non è escluso che le utilizzassero come alimento per 
                  i maiali che allevavano all'interno dell'ospedale. 
                  Di sicuro sappiamo, invece, che nel 1578, con una lettera, nientepopodimeno 
                  che Teresa D'Avila, una delle figure di spicco della Chiesa 
                  cattolica, ringraziava la superiora del monastero di Toledo 
                  per aver ricevuto in dono alcune patate. 
                  Teresa è una donna, a dir poco, particolare. Giovanissima 
                  fuggì due volte da casa, la prima, con un fratello, la 
                  motivò con l'intenzione di andare nella “terra 
                  dei mori” per sacrificare la propria vita in continuità 
                  con i martiri cristiani. La seconda quando decise di farsi monaca 
                  carmelitana. 
                  Donna intelligente ma integralista integerrima, condusse una 
                  durissima battaglia all'interno del suo ordine per attuare una 
                  riforma che lo riportasse all'ispirazione originaria che si 
                  basava sull'estrema povertà. 
                  Inizialmente ignorata e considerata poco più che pazza, 
                  fu guardata con sospetto d'eresia e accusata di essere posseduta 
                  dal demonio quando raccontò al suo confessore lo stato 
                  d'estasi che raggiungeva quando si congiungeva in preghiera 
                  con il Signore: 
                  “Gli vedevo nelle mani un lungo dardo d'oro, che sulla 
                  punta di ferro mi sembrava avere un po' di fuoco. Pareva che 
                  me lo configgesse a più riprese nel cuore, così 
                  profondamente che mi giungeva fino alle viscere, e quando lo 
                  estraeva sembrava portarselo via lasciandomi tutta infiammata 
                  di grande amore di Dio. Il dolore della ferita era così 
                  vivo che mi faceva emettere dei gemiti, ma era così grande 
                  la dolcezza che mi infondeva questo enorme dolore, che non c'era 
                  da desiderarne la fine, né l'anima poteva appagarsi che 
                  di Dio. Non è un dolore fisico, ma spirituale, anche 
                  se il corpo non tralascia di parteciparvi un po', anzi molto. 
                  È un idillio così soave quello che si svolge tra 
                  l'anima e Dio, che io supplico la divina bontà di farlo 
                  provare a chi pensasse che io mento.” 
                  Sottoposta a processo ne uscì completamente assolta a 
                  tal punto che riuscì a portare a termine la sua idea 
                  di riforma e chiamò “scalzi” i frati e le 
                  monache che aderirono al nuovo ordine. 
                  Mistica, sì, ma anche ottima organizzatrice pratica, 
                  si fece promotrice della fondazione di numerosi monasteri in 
                  Spagna dove, inevitabilmente, vennero realizzati degli orti 
                  dove la patata faceva bella figura di sè, e quando decise 
                  di espandere la sua visione in Italia individuò nel suo 
                  confratello padre Nicolò Doria la persona più 
                  adatta allo scopo, per le sue buone capacità imprenditoriali. 
                  Costui, infatti, di chiara origine genovese, si era straordinariamente 
                  arricchito in Spagna come banchiere, al punto da poter concedere 
                  prestiti allo stesso re, ed era passato poi alla vita monastica 
                  con il nome di Nicolò di Gesù Maria. 
                  Egli iniziò la sua opera partendo proprio da Genova, 
                  dove la Repubblica gli concesse una chiesetta dedicata a sant'Anna, 
                  ai margini della città, che divenne così il primo 
                  convento riformato in Italia. 
                  E se egli qui gettò il seme della riforma teresiana, 
                  che poi condusse con successo contro la resistenza dei confratelli 
                  romani (che, di riforme, non ne volevano sapere), contemporaneamente 
                  nell'orticello di cui la chiesetta era dotata vennero piantate 
                  anche le prime patate in suolo italico; forse non proprio da 
                  lui, incaricato di ben altri problemi, ma dai due fratelli che 
                  lo accompagnarono nell'impresa, i quali magari se n'erano portati 
                  qualche tubero nelle bisacce. 
                
                   
                     | 
                   
                   
                    |   Irlanda, 1845 - Una famiglia di contadini consuma  il proprio 
                  pasto a base di patate  | 
                   
                 
                 
                  Storia irlandese, di sfruttamento, di fame, di miseria, di migrazione 
                Se in tutta l'Europa continentale la patata stentò ad affermarsi, se 
                  quasi ovunque la sua coltivazione fu conseguenza di editti imperiali 
                  che minacciavano pesanti sanzioni nei confronti dei contadini 
                  che si fossero rifiutati di farlo, se altrove permaneva la diffidenza 
                  nei confronti di questo nuovo tubero, se la sua appartenenza 
                  alla famiglia della velenosa Belladonna la faceva guardare con 
                  sospetto, se il fatto che non fosse menzionata nella Bibbia 
                  la faceva diventare causa della diffusione della lebbra, perché 
                  nella cattolicissima Irlanda le cose andarono diversamente? 
                  L'Irlanda adottò la patata subito dopo la sua introduzione 
                  a tal punto che contribuì non poco a consolidare l'identità 
                  di questo paese, ancora incerta nella cultura inglese. 
                  Rimane avvolta nel mistero la storia della prima introduzione 
                  della patata in Irlanda, la più intrigante racconta di 
                  un galeone spagnolo, carico di tuberi, che naufragò sulla 
                  costa nel 1588. 
                  Comunque sia andata, l'ambiente politico, culturale e biologico 
                  dell'Irlanda non avrebbe potuto adattarsi meglio alla nuova 
                  pianta. I cereali crescevano male sull'isola e, nel XVI secolo, 
                  i puritani dell'esercito di Cromwell confiscarono le poche terre 
                  arabili per consegnarle ai latifondisti inglesi. 
                  Costretti a fare i conti con un suolo avaro e zuppo di pioggia 
                  dove praticamente non cresceva nulla, i contadini irlandesi 
                  scoprirono che pochi acri di terra producevano patate sufficienti 
                  a sfamare una famiglia numerosa e il suo bestiame. Inoltre si 
                  resero conto che potevano coltivarle con un investimento minimo 
                  di lavoro e attrezzatura. 
                  I tuberi venivano distesi al suolo in un rettangolo, poi, con 
                  la vanga, il contadino scavava una trincea di drenaggio lungo 
                  entrambi i lati del letto di patate, ricoprendole con il terriccio, 
                  le zolle o la torba provenienti dalla trincea. 
                  Niente terra da arare e niente filari! 
                  Certo, anche niente bei campi ordinati, ma chi ha fame può 
                  perdere tempo con l'estetica? 
                  Ora potevano sfamarsi liberi dalla morsa economica degli inglesi 
                  e non dovevano preoccuparsi troppo per il prezzo del pane o 
                  dell'entità della paga. 
                  Una dieta a base di patate e latte bovino era completa dal punto 
                  di vista nutrizionale. Le patate erano facili da coltivare e 
                  anche da cucinare, bastava bollirle o gettarle sulla brace ed 
                  erano pronte da mangiare. 
                  La fortuna della patata in Irlanda e il suo pericoloso ruolo 
                  in termini di potenziale fattore di indipendenza economica dai 
                  “padroni” inglesi divenne argomento di acceso dibattito 
                  in Inghilterra, quando nel 1794 il raccolto di frumento venne 
                  a mancare ed il prezzo del pane bianco divenne inavvicinabile 
                  per le classi povere. 
                  Scoppiarono rivolte per il cibo e non furono pochi gli agronomi 
                  che proposero l'intensificazione della coltivazione della patata 
                  in Inghilterra come valida alternativa ai cereali. 
                  Ci fu anche chi, però, con intelligente lungimiranza, 
                  metteva in evidenza i pericoli legati alla dipendenza di un 
                  unico alimento per garantire la sopravvivenza di un'intera nazione. 
                  William Cobbet, un giornalista radicale, di ritorno da un viaggio 
                  in Irlanda, negli appezzamenti di terreno coltivati a patate 
                  non vide uno strumento di “autonomia”, ma solo dipendenza 
                  e miserabile sussistenza. 
                  Il suo ragionamento è questo: se è vero che la 
                  patata sfama gli irlandesi, allo stesso tempo li impoverisce, 
                  incrementando la popolazione rurale e diminuendone i salari. 
                  La generosità della patata diventava una sventura! 
                  Nei suoi articoli Cobbet descriveva questa “dannata radice” 
                  come una sorta di forza gravitazionale, che allontanava gli 
                  irlandesi dalla civiltà ricacciandoli nella terra, vanificando 
                  la distinzione tra uomo e bestia, e perfino tra uomo e radice. 
                  Descrive un pasto consumato in una povera capanna dove non esistono 
                  pavimento né camino e dove a tavola mangia tranquillamente 
                  un maiale che si serve direttamente dalla pentola contendendo 
                  il cibo ai bambini che, seminudi, mangiano con le mani. 
                  La patata si era disfatta della civiltà, restituendo 
                  l'uomo al controllo della natura. 
                  Il fatto che la patata venisse consumata senza nessun intervento 
                  da parte dell'uomo se non il semplice bollirla in acqua o cuocerla 
                  sulla brace, divenne argomento di dibattito filosofico e religioso. 
                  Si arrivò a sostenere che la patata non poteva reggere 
                  il confronto con il pane di frumento in quanto questo era frutto 
                  di un elaborato intervento culturale grazie al quale una massa 
                  informe di acqua, lievito e farina, si trasformava in un gradito 
                  alimento e non a caso si identificava con il corpo di Cristo. 
                  Anche gli economisti entrarono nel dibattito e, seppur con argomentazioni 
                  scientifiche, non si allontanarono dalla preoccupazione che, 
                  attraverso la patata, la natura potesse prendersi una rivincita 
                  sulla civiltà. 
                  Malthus, Smith e Ricardo pur con sfumature differenti consideravano 
                  il mercato un meccanismo sensibile, capace di adeguare la numerosità 
                  della popolazione alla domanda di lavoro, e il regolatore di 
                  tale meccanismo era il prezzo del pane. Quando il prezzo del 
                  frumento aumentava, il popolo era costretto a reprimere i suoi 
                  appetiti animali e così nascevano meno bambini. 
                  Lo scambio capitalista era assimilabile alla panificazione, 
                  poiché costituiva un modo per civilizzare la natura anarchica, 
                  sia delle piante che del popolo. Senza la disciplina del mercato 
                  delle merci, un uomo è costretto a fare ritorno ai propri 
                  istinti: cibo e sesso senza limiti conducono inesorabilmente 
                  alla sovrappopolazione e alla miseria. 
                  La patata, ai loro occhi, divenne il simbolo di questa regressione, 
                  al contrario del frumento non poteva essere immagazzinata, non 
                  poteva trasformarsi in merce e in conseguenza denaro e minacciava 
                  di vanificare il progresso compiuto da un'economia avanzata 
                  nel liberare il genere umano dalla dipendenza dalla natura infida. 
                  Con tutte le critiche possibili ed immaginabili, dobbiamo ammettere 
                  che questi galantuomini non avevano tutti i torti. 
                  Gli irlandesi si sarebbero presto resi conto che la benedizione 
                  con cui accolsero la patata si sarebbe presto rivelata un'illusione 
                  crudele. La dipendenza dalla patata li avrebbe resi un popolo 
                  estremamente vulnerabile, se non alle vicissitudini dell'economia, 
                  certo a quelle della natura. 
                
                   
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                    |   Felipe Guaman Poma de Ayala, cronista indigeno della conquista 
                  del Perù,  riporta alcune scene di vita contadina dove 
                  fa la sua comparsa la patata  | 
                   
                 
                 
                  L'arrivo della peronospora 
                Lo scoprirono bruscamente quando nella tarda estate del 1845 la peronospora 
                  della patata arrivò in Europa e nel giro di qualche settimana 
                  condannò la patata e coloro che se ne nutrivano. 
                  “Il 27 luglio andai da Cork a Dublino, e questa pianta 
                  dal destino segnato prosperava in pieno rigoglio promettendo 
                  un abbondante raccolto. Tornando indietro il 3 agosto vidi con 
                  dolore una vasta distesa di vegetazione in putrefazione. In 
                  ogni dove la povera gente era seduta sulle recinzioni di campi 
                  marcescenti torcendosi le mani, e piangeva amaramente la distruzione 
                  che l'aveva lasciata senza cibo”.Questa lettera scritta 
                  da padre Mathew, un sacerdote cattolico, nel 1846 ci dà 
                  un quadro preciso di ciò che avvenne in quegli anni in 
                  terra d'Irlanda. 
                  L'arrivo della peronospora fu annunciato dal fetore delle patate 
                  marce, che era ovunque nella tarda estate del 1845, e poi anche 
                  nel 1846 e nel 1848. Con il vento che ne trasportava le spore, 
                  il fungo faceva la sua comparsa nei campi letteralmente da un 
                  giorno con l'altro: alle macchie nere sulle foglie seguivano 
                  le macchie cancrenose che si diffondevano lungo tutto lo stelo 
                  della pianta; poi si annerivano i tuberi, che si trasformavano 
                  in poltiglia maleodorante. Bastavano pochi giorni a distruggere 
                  un campo, che da verde diveniva nero; persino le patate nelle 
                  dispense non avevano scampo. 
                  La ruggine della patata colpì tutta l'Europa, ma solo 
                  in Irlanda causò una catastrofe. Altrove, quando il raccolto 
                  era distrutto, la popolazione poteva ricorrere ad altri alimenti 
                  base, ma i poveri d'Irlanda, che si cibavano di patate e non 
                  partecipavano all'economia del lavoro, non avevano alternative. 
                  Come spesso capita in caso di carestia, il problema non si limitava 
                  alla scarsità di cibo. Al culmine della crisi, nei porti 
                  irlandesi erano ammassati sacchi di grano assegnati all'esportazione 
                  in Inghilterra. Ma il grano era una merce, destinata ad andare 
                  dove c'era denaro; dato che i mangiatori di patate non avevano 
                  denaro per pagare il grano, questo veniva inviato in un paese 
                  più ricco. 
                  La carestia delle patate fu le peggiore catastrofe ad abbattersi 
                  sull'Europa dopo la peste nera del 1348. La popolazione irlandese 
                  fu letteralmente decimata: in tre anni un irlandese su otto 
                  (un milione di persone) morì di fame; altre migliaia 
                  divennero cieche o malate di mente per mancanza di vitamine. 
                  Poiché le leggi sui poveri stabilivano che chiunque possedesse 
                  più di un quarto di acro di terra non avesse diritto 
                  ai sussidi, milioni di irlandesi furono costretti a cedere la 
                  loro fattoria per mangiare; sradicati e disperati, quelli dotati 
                  di mezzi ed energia emigrarono. 
                  Le cronache dei tempi della carestia riportano visioni infernali: 
                  pile di corpi per le strade che nessuno aveva la forza di seppellire, 
                  eserciti di mendicanti seminudi che avevano impegnato i vestiti 
                  per un po' di cibo, case abbandonate, villaggi spopolati. Alla 
                  carestia seguirono le malattie: tifo e colera si diffusero a 
                  macchia d'olio tra la popolazione indebolita. La gente mangiava 
                  erba, animali domestici, carne umana... 
                  Le cause del disastro furono molteplici e complesse, e includevano 
                  il criterio di distribuzione della terra, la brutale economia 
                  di sfruttamento degli inglesi, un'opera di soccorso insensibile 
                  e i consueti fattori determinati dal clima, dalla geografia 
                  e dalle abitudini culturali. 
                  Non fu la patata, quanto piuttosto la monocultura della patata 
                  a gettare il seme della catastrofe in Irlanda. Qui si sperimentò 
                  la follia della monocultura che portò l'agricoltura e 
                  la dieta degli irlandesi a dipendere interamente non solo dalla 
                  patata, ma addirittura da un unico tipo di patata. 
                  Nell'Irlanda sotto il dominio inglese la logica dell'economia 
                  decretò la monocultura della patata; nel 1845, la logica 
                  della natura esercitò il proprio veto, e un milione di 
                  persone morirono di fame 
                  Anche gli Inca costruirono la loro civiltà sulla patata, 
                  ma ne coltivarono una tale varietà che nessun fungo avrebbe 
                  mai potuto farla crollare. 
                
                   
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                    |   Copertina e controcopertina della dispensa realizzata dal 
                  Centro Studi Canaja  | 
                   
                 
                 
                  Storia di narratori di cibo e di cibo che manca 
                Il grido d'allarme lanciato dalla tragedia irlandese, le sue nefaste conseguenze, 
                  anche se può sembrare paradossale, servirono da formidabile 
                  stimolo alla diffusione della patata nel mondo. Migrando negli 
                  Stati Uniti e in Australia, gli irlandesi, portarono con loro 
                  la cultura della coltivazione della patata che, intercettata 
                  da imprenditori milionari, divenne produzione su scala industriale. 
                  Oggi la patata è la quarta coltura al mondo, è 
                  coltivata in oltre cento Paesi, 18 milioni di ettari sono destinati 
                  alla sua coltivazione, nel 2008 la produzione totale ha raggiunto 
                  326 milioni di tonnellate. 
                  La patata ha smesso i poveri panni di cibo per gli ultimi della 
                  terra ed è diventata business, le sue qualità, 
                  l'amido in particolare, sono sfruttate dall'industria farmaceutica 
                  e da quella della cosmesi, da quella della carta a quella dei 
                  collanti, la patata si è trasformata in bio-plastica, 
                  in bio-carburante e, inevitabilmente, è diventata oggetto 
                  di ricerca per le multinazionali dell'agro-alimentare e della 
                  trasformazione genetica. 
                  Scrivendo questa dispensa, inconsapevolmente, siamo andati a 
                  vestire i panni di “narratori di cibo”, quei panni 
                  che proprio con questa definizione, in modo sprezzante, i sostenitori 
                  accaniti degli OGM lanciano come accusa nei confronti di chi 
                  continua a combatterli. 
                  E “narratori di cibo” vogliamo e dobbiamo continuare 
                  ad esserlo, vogliamo continuare a pensare che dentro al piatto 
                  debba trovare spazio la politica, l'etica, la sociologia, la 
                  solidarietà, le migrazioni bibliche e le soluzioni per 
                  fermare queste migrazioni, la gestione delle risorse idriche. 
                  Vogliamo continuare a pensare che la gestione del nostro frigorifero 
                  e della spesa che facciamo abbia una valenza politica e sociale. 
                  Vogliamo continuare a stare dalla parte dei “polverosi 
                  intellettuali europei” che si ostinano a pensare che debbano 
                  e possano esistere dei vasi comunicanti tra i piatti ricolmi 
                  di prelibatezze dei cittadini del nord del mondo con le ciotole 
                  semi-vuote dei cittadini del sud impoveriti da politiche esproprianti. 
                  Vogliamo continuare a pensare che un sistema che condanna alla 
                  morte per fame milioni di uomini e donne è un sistema 
                  da ribaltare perché è lo stesso sistema che condanna 
                  alla povertà dieci milioni di uomini e di donne in Italia. 
                  Vogliamo continuare a gridare con forza che a “sfamare 
                  il pianeta” non saranno le multinazionali che riempiranno 
                  i padiglioni della prossima Esposizione Universale ma la forza, 
                  la coscienza e la determinazione dei prossimi “beati costruttori 
                  di barricate”. 
                   
                  La Dispensa è dedicata a Mario Martinelli 
                  Compagno camminante, 
                  camminando, camminando... 
                  E noi, siamo qui seduti nella nebbia 
                  a mangiare acqua 
                  la mente aperta 
                  decantiamo... 
                 Centro Studi Canaja 
                 Bibliografia: 
                  Redcliffe N. Salaman – Storia sociale della patata 
                  – Garzanti, 1989 
                  David Gentilcore – Italiani mangia patate – 
                  Il Mulino, 2013 
                  Michael Pollan – La botanica del desiderio Il mondo 
                  visto dalle piante – Il Saggiatore, 2013 
                   
                   
                  
                 
                   
                    Sorel, Marx e la patata 
                      In 
                        una conferenza tenuta lo scorso novembre al Circolo ARCI 
                        Scighera di Milano, un'analisi originale del tubero e 
                        del suo “uso” politico. 
                         
                        Premessa 
                        Come risulta ovvio consultando gli itinerari coloniali 
                        e mercantili del Cinquecento, giungendo dall'America, 
                        la patata approda in Spagna prima di diffondersi nel continente 
                        europeo. Che si sia diffusa – e parecchio – 
                        lo sappiamo. Meno si sa degli ostacoli che questa diffusione 
                        ha incontrato sulla propria strada. 
                         
                        1.  
                        Dopo una vita a dir poco avventurosa e prima di un'altra 
                        vita a dir poco avventurosa – scienziato, fisico, 
                        inventore di cucine, spia degli inglesi in America, spia 
                        dei tedeschi in Inghilterra e, presumibilmente, spia degli 
                        inglesi in Baviera –, Benjamin Thompson conte di 
                        Rumford (1753-1814) giunge al servizio del principe palatino, 
                        l'elettore Carlo Teodoro, sovrano della Baviera negli 
                        ultimi anni del Settecento. Ivi, dimostrando ulteriormente 
                        il proprio eclettismo, si occupa di riforme sociali – 
                        dall'istituzione di scuole pubbliche all'alimentazione 
                        dei poveri che, all'epoca, in Baviera, costituivano il 
                        5% della popolazione. Inventa, allora – in tutta 
                        segretezza –, la zuppa Rumford, necessaria e sufficiente 
                        per il pranzo del nullatenente e dell'operaio. Tenendo 
                        presente che un'oncia vale suppergiù 28 grammi, 
                        potrebbe tornare utile conoscerne la ricetta: 1 oncia 
                        di orzo perlato, 1 oncia di piselli, 3 once di patate, 
                        un quarto di oncia di pane (abbrustolito prima perché 
                        ci si impiegasse più tempo per masticarlo – 
                        più tempo ci impieghi, più ti sembra di 
                        aver mangiato), un quarto di oncia di sale, mezza oncia 
                        di aceto e 14 once d'acqua. Il tutto a cuocere per due 
                        ore a fuoco lento. 
                        Alludo al fatto che la ricetta fosse segreta perché, 
                        all'epoca, in Baviera, la patata non era considerata commestibile. 
                        Come parecchi altri alimenti nella storia dell'alimentazione 
                        umana ha dovuto superare un tabù. 
                         
                        2.  
                        Nel 1908, il teorico dell'anarco-sindacalismo Georges 
                        Sorel pubblica Le illusioni del progresso. Nel 
                        terzo capitolo – dedicato alla storia della scienza 
                        nel Settecento -, si sofferma anche sulla storia della 
                        patata, che definisce “brillante”. Racconta 
                        che l'economista Robert-Jacques Turgot cercò di 
                        diffondere la patata a Limoges già nel 1761 e che, 
                        nel 1765, il vescovo di Castres ne fa l'oggetto di una 
                        pastorale; che, prima del 1773, una nobildonna francese 
                        convince anche il re di Svezia a piantare patate; che 
                        lo stesso Luigi XIII interviene personalmente promuovendo 
                        invenzioni gastronomiche aventi la patata per oggetto 
                        preferenziale e che, infine, con il Traité sur 
                        la culture et les usages des pommes de terre, de la patate 
                        et du topinambour di Antoine-Augustin Parmentier, 
                        pubblicato nel 1778 e destinato a costituire una pietra 
                        miliare, si può considerare concluso il cammino 
                        trionfale della patata in Francia. “Dopo esser stato 
                        l'ortaggio filosofico” – è la conclusione 
                        di Sorel –, la patata, durante la Rivoluzione diventa 
                        “l'ortaggio patriottico”. (Questa distinzione 
                        meriterebbe un commento. Forse, Sorel attribuisce qui 
                        a “filosofico” il significato che, suppergiù, 
                        doveva avere all'epoca dell'Illuminismo in Francia, quando 
                        i “filosofi” venivano considerati fonte di 
                        possibili attentati contro l'ordine costituito, portatori 
                        di nuove idee e, pertanto, “rivoluzionari”. 
                        Che, con il conferimento del potere a Napoleone, il patriottico 
                        prenda il sopravvento sul rivoluzionario – e che, 
                        anzi, ne costituisca presto la tomba – è 
                        quasi ovvio).
  
                        3.  
                        Con metafora odierna, si potrebbe sostenere che, in Italia, 
                        la patata giunge già “sdoganata” dalla 
                        Francia. O, almeno, quasi sdoganata, perché fidarsi 
                        è bene, ma non fidarsi è meglio. 
                        Nel 1777, per esempio, la nobildonna Teresa Ciceri Castiglioni 
                        di Como – che aveva avuto delle dritte dalla Francia 
                        – pregò Alessandro Volta in procinto di partire 
                        per la Savoia di riportarne alcuni esemplari (gli appuntò 
                        sulle camicie un bigliettino con scritto “Ricordati 
                        di portare le patate”). L'idea, infatti, era già 
                        quella di coltivarle per darle da mangiare ai contadini. 
                        Più tardi, nel 1785, la Società Patriotica 
                        di Milano istituita da Maria Teresa d'Austria ne fece 
                        arrivare altre e si cominciò a coltivarle sperimentalmente 
                        in alcune zone della Lombardia – nella brughiera 
                        della Grovana, a Gallarate, a Somma, nella Valsassina 
                        e al Monte di Brianza. A Milano, le prime patate – 
                        questa volta di derivazione inglese – furono coltivate 
                        nell'orto Botanico del Ginnasio di Brera. 
                         
                        4.  
                        Karl Marx nasce nel 1818. Della sua vita faticosa e della 
                        famiglia numerosa – e difficile da mantenere – 
                        che formò si sa quasi tutto. Per sua fortuna, poteva 
                        contare sul suo amico Frederich Engels. Rifugiatosi a 
                        Londra, in una drammatica lettera del 27 aprile 1852, 
                        Marx informa Engels che “il fornaio da venerdì 
                        non ci darà più pane”. Qualche mese 
                        dopo racconta che: “Da otto giorni, ho nutrito la 
                        mia famiglia di pane e di patate e mi chiedo se potrò 
                        procurarmene oggi. Questa dieta, naturalmente, non è 
                        stata molto favorevole, data la temperatura attuale” 
                        (8 settembre 1852). In quegli anni, cattiva alimentazione, 
                        denutrizione portano a pessime conseguenze: lui, che già 
                        soffre di una fastidiosissima foruncolosi al sedere, si 
                        ammala agli occhi. La moglie Jenny, la figlia Eleanor 
                        e la figlia Jenny si ammalano. Il figlio Edgar (detto 
                        Musch) muore. 
                         
                        5.  
                        Torniamo a Sorel. In una nota delle sue Illusioni del 
                        progresso, Sorel parla anche dei pregiudizi che sono 
                        sopravvissuti riguardo la patata per tutta la prima metà 
                        dell'Ottocento. E qui, come esempio, tira in ballo Marx, 
                        che, nella Miseria della filosofia – scritta 
                        in francese fra il 1846 e il 1847 contro la filosofia 
                        di Proudhon –, accusa la patata di “aver provocato 
                        gli ascessi tubercolari”, ovvero la scrofola. E 
                        dice che il problema è stato trattato da Morel, 
                        nel 1857, nel suo trattato sulle degenerazioni. Qui Sorel 
                        dileggia Marx. Usa l'argomento della patata per dare consistenza 
                        all'impianto critico nei suoi confronti. Per Sorel, infatti, 
                        “il grande errore di Marx è stato di non 
                        rendersi conto dell'enorme potere che, nella storia, appartiene 
                        alla mediocrità; egli non ha sospettato che il 
                        sentimento socialista (così come lui lo concepiva) 
                        è estremamente artificiale”. Sorel, dunque, 
                        si scaglia contro la “mediocrità democratica” 
                        e, senza saperlo, diventa il teorico del fascismo. Non 
                        a caso, Mussolini lo citerà come propria radice 
                        culturale nella voce “Fascismo” dell'Enciclopedia. 
                        L'espediente critico, ovviamente, è ingeneroso, 
                        perché Marx – come ben sappiamo oggi - non 
                        ha tutti i torti. Anche “Virchow studiando le condizioni 
                        della popolazione della Slesia”, rilevò che 
                        “una dieta a base solo di patate produceva stati 
                        di denutrizione”, come ricorda Gilberto Corbellini 
                        nella sua storia del pensiero immunologico.
  
                        Appendice 
                        A questo punto la conferenza sembrerebbe conclusa – 
                        ma soltanto per quel che concerne il significato proprio 
                        della patata. La vita di Marx ci porta anche alla considerazione 
                        di un aspetto metaforico che non va trascurato del tutto. 
                        A casa Marx operava, infatti, anche una domestica. Si 
                        chiamava Emma Demuth e, senza prendere il salario, si 
                        prendeva cura della famiglia Marx. Anche del capofamiglia. 
                        Dorme, infatti, nella stessa stanza dove Marx lavora fino 
                        alle tre di notte (la stesura del Capitale e delle 
                        altre opere marxiane merita ben il sacrificio di qualche 
                        ora di sonno nonché qualche momento di rilassatezza) 
                        – e rimane incinta. Per evitare lo scandalo – 
                        perché anche per i pensatori rivoluzionari in fin 
                        dei conti non è facile liberarsi dei pregiudizi 
                        borghesi –, il figlio viene riconosciuto da Engels. 
                        Manca ancora, però, un'osservazione di ordine linguistico. 
                        Nora Galli de' Paratesi, nel 1964, ha pubblicato Le 
                        brutte parole che, in origine, da sua tesi di laurea 
                        si intitolava Semantica dell'eufemismo. In quest'opera, 
                        la de' Paratesi registrava e indagava i processi metaforici 
                        cui sono stati sottoposti i designanti degli organi sessuali 
                        nel tentativo – sociologicamente necessario, politicamente 
                        discutibile – di non nominarli con quel che essendo 
                        sottoposto a tabù viene chiamato il “loro 
                        nome”. Bene, in quest'opera, non viene registrato 
                        “patata” come equivalente dell'organo sessuale 
                        femminile. E, tuttavia, nel 1982, nella versione italiana 
                        di Le sourire di Claude Miller, Emanuelle Seigner 
                        si dice certa che Jean-Pierre Marielle ha tutte le intenzioni 
                        di “sfondarle la patata” (che, presumibilmente, 
                        sarà stata la “patate” – patata 
                        dolce – e non “pomme de terre”). 
                        Per quanto potesse amare la patata metaforica, Marx questo 
                        non poteva saperlo. 
                        Nell'odio di Marx per la patata, allora, manca qualcosa. 
                        Manca la consapevolezza di un processo metaforico che 
                        l'avrebbe seguito – di là ancora da venire. 
                        E manca per forza di cose: perché per lui la patata 
                        ha valore negativo – non solo perché “causa” 
                        della scrofola, ma perché “causa” della 
                        stessa sopravvivenza del proletariato in quanto “esercito 
                        di riserva” del capitalismo. Se poi avesse saputo 
                        come il sesso sarebbe stato usato dal sistema capitalistico 
                        per assoggettare e opprimere le classi lavoratrici avrebbe 
                        detestato anche la patata metaforica. 
                      Felice Accame 
					  Nota 
                        Per la storia di Emma in casa Marx, cfr. P. Durand, Marx, 
                        l'amore e il matrimonio, Bertani editore, Verona 1971, 
                        pag. 60-61. Il nome della patata vien fatto derivare da 
                        “papa”, designante il tubero in quechua, e 
                        dall'haitiano “batata” (M. Cortellazzo e P. 
                        Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, 
                        Zanichelli, Bologna 1985). Va anche tenuto presente, inoltre, 
                        che la “patata dolce” in francese si chiama 
                        “patate” e che, in francese come in italiano, 
                        è stata presto metaforizzata per designare il “tonto”. 
                        Non ricorda forse, questo processo, il “mona” 
                        veneto! All'organo sessuale femminile – e non solo 
                        a quello femminile – vengono attribuiti disvalori 
                        e impersonificati negli stigmatizzati sociali. 
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                    Vedi alla voce patata 
                      Patata 
                        (fr. pomme de terre; sp. patata; ted. Kartoffel; ingl. 
                        potato). La patata (Solanum tuberosum L., della famiglia 
                        Solanacee) è pianta annuale, ha rami sotterranei 
                        chiamati “stoloni”, che ingrossano trasversalmente 
                        alla loro estremità, formando “tuberi” 
                        di varia forma e di varia colorazione, i quali tuberi 
                        costituiscono appunto la parte commestibile della pianta, 
                        e sono ricchi in amido e in sostanze azotate; le radici 
                        sono sottili e lunghe, e non tuberizzano. 
                        I fusti sono aerei, eretti, erbacei, ramosi con foglie 
                        bianchicce di sotto, pennato-partite con due-tre paia 
                        di segmenti grandi ovato-acuminati, alternati con segmenti 
                        più piccoli; i fiori in corimbi ascellari, con 
                        lunghi peduncoli, sono bianchi, rosei o violetti secondo 
                        la varietà; il frutto è una bacca globosa, 
                        verdastra, gialla a maturità, con parecchi semi 
                        minuti. La patata si moltiplica per tuberi; la riproduzione 
                        per semi si fa per avere tipi nuovi, provenienti dall'ibridazione 
                        di varietà diverse. 
                        Le patate, in relazione al periodo di maturazione, si 
                        classificano in: “precoci”, che sono le prime 
                        a maturare nel mese di marzo o di aprile; “medio-precoci”, 
                        che producono da 10 a 20 giorni dopo; “semi-tardive” 
                        o “medio-tardive”, che maturano da 25 a 40 
                        giorni dopo le precoci; “tardive”, a lungo 
                        ciclo vegetativo, maturanti da 40 a 60 giorni più 
                        tardi delle precoci. Per l'esportazione dall'Italia interessano 
                        le patate “precoci” e “medio-precoci”, 
                        perché trovano favorevoli mercati esteri in un 
                        momento in cui la produzione in quelle regioni è 
                        esaurita, e non è ancora pronta la nuova produzione. 
                      Enciclopedia italiana (1935)  | 
                   
                 
				 
                
                   
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                    |   Repubblica Democratica Tedesca (DDR), 1960 I bambini vengono 
                  istruiti a riconoscere  e distruggere la terribile dorifora  | 
                   
                 
                
                 
                   
                    La dorifora della patata 
                      Impossibile 
                        parlare di “Tuberosum Solanum'' (patata) senza imbattersi 
                        nella “Laptinotarsa Decemlineata'' (dorifora) ammorsicata 
                        com'è alla sua pianta e con le gialle uova deposte, 
                        come un racconto, sulle pagine inferiori delle foglie 
                        esposte ad est. 
                        Piscinin ma gnuch, tenace, testardo, vorace, senza 
                        vergogna, vendetta indiana e insetto “politico'' 
                        per eccellenza, usato in tempo di guerra come “arma 
                        biologica” reale o di propaganda. 
                        Con le sue orde ha ricolonizzato l'America, invaso il 
                        capitalismo come il comunismo, repubbliche e monarchie, 
                        dittature e democrazie, è accusato di acriticità 
                        verso il potere, in verità questo giallo Gengis 
                        Kan a strisce nere persegue un proprio disegno territoriale 
                        lungo 12 milioni di chilometri quadrati. La “Meridiana 
                        della Dorifora''. 
                        Storia di stalla, sacchi di juta e strada dei carri. Una 
                        lunga stalla piena di contadini dalle tinte e lingue diverse, 
                        come i molti colori delle tante varietà dei tuberi 
                        e i 10 racconti messi per la lunga sulla brillante livrea 
                        della Dorifora. 
                        Dedichiamo questa breve dispensa ai bambini di ieri, anziani 
                        di oggi, alle donne e uomini che sono andati, vanno, andranno, 
                        con tolle, barattoli e bottiglie nei campi di patate 
                        a raccogliere dorifore. 
                      Centro Studi Canaja  | 
                   
                 
                 
                 
                 
                   
                    Le canaje si presentano 
                      La 
                        muraille est le papier de la canaille 
                        Si sa solo che seduti in sella 
                        Su di una sola natica 
                        Come nei momenti di riposo 
                        Che colpiscono anche le avanguardie 
                        Essi guardavano il futuro grattandosi il mento 
                        E le file sopravvenienti sbattevano  
                        Bestemmiando su quelle che si arrestavano 
                        (G.L.P.) 
                       
                        Canaja, un nome che viene da lontano, da quel dialetto 
                        milanese con venature spagnole, che rimanda ad un'imprecazione 
                        da America Latina. 
                        Canaja nasce a metà degli anni '80 (D.C.-Dopo il 
                        Ciclostile) come rivista autoprodotta e fotocopiata in 
                        proprio, che si propose come progetto “Contenitore”, 
                        una pesca a strascico di quello che ancora restava e respirava 
                        in tempo di riflusso. 
                        14 numeri tra nullità e genialità, da ricordare 
                        il pluripremiato fotoromanzo “Due cuori e una traversa” 
                        pubblicato in occasione dei mondiali di calcio in Italia. 
                        A metà degli anni '90, preso atto della fine della 
                        sua spinta propulsiva, nel punto ristoro di Benzinopoli, 
                        davanti alla raffineria di Pero, la redazione decise di 
                        sciogliersi nell'aria morbata di fine secolo. 
                        Il giorno dopo nacque così il Centro Studi Canaja, 
                        con lo scopo di fronteggiare una realtà mutata 
                        e mutante sulle coordinate di “memoria e confine”. 
                        Nel 1998 esce il libro “C.T. L'Onda assassina”, 
                        un corto saggio su uno dei più importanti personaggi 
                        della cultura metropolitana. Un Nostradamus popolare, 
                        che scrisse le sue centurie sulle pagine d'asfalto dei 
                        marciapiedi di mezza Milano. 
                        Nel 2003 in piena colonizzazione fieristica (delle terre 
                        a Nord-ovest di Milano) pubblica “TIRritorio – 
                        La terra dei TIR”. Un foto saggio auto pagato che 
                        tutt'oggi rimane l'unica produzione indipendente. 
                        Con il Collettivo Oltre il Ponte mettono in piedi 2 monumentali 
                        esposizioni, una sulla civiltà contadina “Oh 
                        Signur di Puaritt, quell di Sciuri el gh'ha i Curnitt” 
                        e lo “Stabilimento”, sull'inciviltà 
                        industriale. Con la Compagnia musico teatrale Clerici-Ferrè 
                        collabora alla ricerca e alla stesura di “Sacro 
                        e Profano”, rappresentazione delle tradizioni popolari. 
                        Nel 2014, in collaborazione con il Circolo la Schigera 
                        della Bovisa, lancia il progetto “Mondo-IN.FAME”. 
                        L'altra Exposizione, accompagnandola con la pubblicazione 
                        della DISPENSA, dove l'infamità parte dal diritto 
                        al cibo per estendersi all'istruzione, al lavoro, alla 
                        salute... Dando seguito al progetto viene proposta a Rho 
                        un'iniziativa sull'amianto in quanto l'unica vera 
                        exposizione universale. 
                      Centro 
                        Studi Canaja  | 
                   
                 
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