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				 armeni 
                  
                Un genocidio dimenticato 
                  
                di Luigi Rigazzi 
                    
                Negati dal governo turco, i due stermini del popolo armeno (1894-1896 e 1915-1918) sembrano essere ignorati anche dalle diplomazie occidentali. A causa di interessi geopolitici. 
                 
                  Occuparsi del genocidio del popolo armeno – a un secolo dalla tragedia immane che si è perpetrata ai confini della nostra realtà europea - è una necessità, un modo di allargare l'orizzonte della sua ricerca e soprattutto di sensibilizzare l'opinione pubblica sia italiana che internazionale sull'argomento, ancora poco conosciuto e studiato. Si tratta del secondo evento che ha avuto questa denominazione, dopo il genocidio degli Herero per mano dell'esercito tedesco al comando del generale Lothar von Trotha tra il 1904 e il 1907 in Namibia. Ma il termine genocidio è stato coniato per la prima volta da un giurista ebreo polacco, Raphael Lemkin nel 1944 (che nella Sho'à aveva perso 49 familiari), per designare il massacro del popolo armeno. 
                  Più o meno tutti hanno sentito parlare dei “Giusti 
                  per Israele”, cioè quanti vengono riconosciuti 
                  tali, perché si sono prodigati a rischio della loro vita 
                  per salvare gli ebrei durante il regime nazi-fascista: essi 
                  vengono ricordati allo Yad Vashem di Gerusalemme con la posa 
                  di un albero. A pochissimi è noto che dal 1996 esiste 
                  a Yerevan, capitale dell'Armenia, il Muro della Memoria, 
                  sulla “Collina delle rondini”, dove vengono poste 
                  le lapidi con i nomi dei “Giusti per gli armeni” 
                  e tumulate le ceneri o la terra delle tombe di tutti coloro 
                  che hanno testimoniato o denunciato la pianificazione e l'esecuzione 
                  del genocidio del popolo armeno da parte dei Giovani Turchi. 
                  È stata istituita anche la Giornata della Memoria 
                  che cade il 24 aprile di ogni anno, a ricordare la stessa data 
                  del 1915 legata al cosiddetto “Grande Male (Metz Yeghèrn)”. 
                  In verità lo sterminio del popolo armeno ha avuto luogo 
                  in due fasi, di cui la prima tra il 1894 e il 1896 sotto il 
                  sovrano Abd ul-Hamid. Egli decise di scaricare sugli armeni 
                  la colpa dei fallimenti dell'operato suo e dei suoi predecessori, 
                  ed emanò alcune leggi per isolarli dalla vita civile 
                  e renderli reietti dell'impero, un'anticipazione di quello che 
                  avrebbero fatto con gli ebrei negli anni '30 del '900 i nazisti 
                  in Germania e i fascisti in Italia. 
L'immane carneficina, iniziata alla fine dell'ottocento, diventò il problema principale dei Giovani Turchi, un movimento politico nato alla fine del XIX secolo con il nome di Giovani Ottomani, che si ispiravano alla Giovine Italia di Giuseppe Mazzini, desiderosi di trasformare l'Impero Ottomano ormai in decomposizione in una monarchia costituzionale moderna. I loro primi obbiettivi erano liberali e costituzionali, infatti collaborarono alla stesura della costituzione del 1876. Ma nella volontà di creare uno stato nazionale turco, che comprendesse tutte le popolazioni turcofone, sul modello degli stati europei, il problema delle varie etnie (l'armena, la greca, la curda, e quella assira), fu da loro risolto con la decisione di sterminarle. 
I Giovani Turchi iniziarono a mezzo stampa una campagna sistematica di diffamazione e di odio, considerando la popolazione armena come una quinta colonna al servizio del nemico, perciò una minaccia per la sicurezza nazionale. Ancora una volta dopo quelli di fine '800 vi furono massacri sistematici, fatti passare come condanne per alto tradimento. 
Il massacro iniziò la notte del 24 aprile del 1915, a Costantinopoli, con l'arresto e l'uccisione di 500 intellettuali armeni. Quel giorno a Costantinopoli 500 esponenti del Movimento armeno vennero incarcerati e poi strangolati col filo di ferro. Il piano fu ben escogitato, colpendo prima gli intellettuali, i politici, i giornalisti, poi reclutando nell'esercito i giovani che, dopo aver prestato servizio nella campagna del Caucaso, vennero disarmati dai turchi e spediti in catene a Kharput col pretesto di utilizzarli per la costruzione di una strada. Ma appena giunti vennero giustiziati a colpi di arma da fuoco, e tutti i cadaveri vennero gettati in una grotta. Infine la località di Deir al-Zor, desolata e desertica regione della Siria, vide la deportazione di oltre 1.200.000 persone: vecchi, donne e bambini, che con marce forzate, senza acqua, senza viveri, iniziarono a morire di stenti, di malattie e i cui sopravvissuti alla fine vennero trucidati. Lo sterminio era stato pianificato, con uno studio puntuale e una programmazione in ogni sua fase, a partire dalla primavera del 1914. Allo scopo fu istituita una commissione di tre elementi composta dal segretario Nazim, da Behaettin Shakir e dal Ministro della Pubblica Istruzione Shoukri, sotto il controllo di Taalat Pascià. 
                  “Tanto non interverrà nessuno” 
                È interessante ascoltare cosa scrive il segretario Nazim, nella sua relazione che chiude una riunione segreta del comitato di Unione e Progresso: “Siamo in guerra; e non potrebbe verificarsi un'occasione migliore per sterminare tutta la popolazione armena. In un momento come questo è estremamente improbabile che vi siano interventi da parte delle grandi potenze e proteste da parte della stampa; e se anche ciò accadesse tutti si troverebbero di fronte ad un fatto compiuto”. Un altro membro della commissione, Hassan Fehmin, affermò: “Siamo nelle condizioni ideali per spedire sul fronte caucasico tutti i giovani armeni ancora in grado di imbracciare un fucile. E una volta là, possiamo intrappolarli e annientarli con facilità, chiusi come saranno tra le forze russe che si troveranno davanti e le forze speciali che piazzeremo alle loro spalle” . 
Da una stima approssimativa, si presume che nel massacro morirono circa 1.500.000 persone, ma il governo turco non ha mai voluto riconoscere il misfatto e nega che sia mai stato perpetrato un simile delitto. Durante il suo mandato come presidente della Turchia, Sami Suleyman Demirel, non ricordando quanto avevano accertato e documentato le commissioni d'inchiesta del 1918, ha sostenuto che “gli armeni non hanno mai subito un genocidio, ma che sono stati vittime di una punizione meritata''. Questa presa di posizione ebbe conseguenze nefaste anche in tempi successivi. 
                  Dopo la grande guerra 
                Alla fine della prima guerra mondiale, il sultano Mehmed VI, 
                  per paura di rappresaglie da parte delle potenze vincitrici, 
                  insediò due commissioni d'inchiesta, una parlamentare 
                  per ascoltare e giudicare ministri, funzionari e alti dignitari 
                  dello stato coinvolti nel massacro del popolo armeno, l'altra 
                  con un decreto del gennaio 1919 che consentì alla Corte 
                  Marziale di giudicare gli autori di “disposizioni e massacri”. 
                  Il 13 gennaio 1921 le Corti Marziali furono sciolte senza che 
                  avessero terminato i loro lavori. Lo stato turco smise di perseguitare 
                  i massacratori degli armeni facendo cadere il silenzio su tutta 
                  la storia, con un negazionismo ad oltranza sui fatti che avevano 
                  portato alla quasi totale eliminazione del popolo armeno. I 
                  tre principali imputati condannati in contumacia furono raggiunti 
                  da sicari del Partito Federazione Rivoluzionaria Armena, conosciuto 
                  anche come Dashnak. Il 15 marzo del 1921 Soghomon Tehlirian, 
                  a Berlino in pieno centro, assassinò Talaat Pasha, ma, 
                  dopo essere stato arrestato e processato, fu assolto dal giudice 
                  tedesco. 
                  Dal 1927 in Turchia è ancora in vigore una legge che 
                  vieta l'ingresso nel paese degli armeni e soprattutto l'art. 
                  301 del codice penale che riguarda “l'attentato all'integrità 
                  turca”. Ne ha fatto le spese per primo lo storico e sociologo 
                  turco Altug Taner Akcam, uno dei primi accademici turchi a riconoscere 
                  e a discutere apertamente il genocidio armeno del 1915: arrestato 
                  nel 1976, fu condannato a dieci anni di reclusione per i suoi 
                  scritti. 
                  Poi toccò al grande saggista e scrittore turco premio 
                  Nobel per la letteratura, Orhan Pamuk, che venne incriminato 
                  nel 2005, in base al medesimo art. 301, a seguito di alcune 
                  dichiarazioni fatte a una rivista svizzera riguardanti il massacro, 
                  da parte dei turchi, di un milione di armeni e trentamila curdi 
                  in Anatolia durante la prima guerra mondiale. Va notato che 
                  gran parte dell'opinione pubblica turca si schierò contro 
                  il poeta. 
                  Altro martire è stato il giornalista e scrittore turco 
                  di origine armena Harant Dink. Nel 2005 fu condannato a sei 
                  mesi di reclusione per suoi articoli dove descriveva i fatti 
                  avvenuti tra il 1890 e il 1917, apparsi sul suo giornale bilingue 
                  Agos. I tribunali avevano ritenuto i suoi scritti un 
                  insulto all'identità turca secondo l'articolo 301 del 
                  codice penale turco. Nonostante questa condanna fosse fortemente 
                  criticata dall'Unione europea, H. Dink venne a più riprese 
                  minacciato di morte per le sue prese di posizione su quanto 
                  subito dagli armeni negli ultimi anni dell'Impero Ottomano. 
                  Infine fu assassinato il 19 gennaio del 2007 a Istanbul, davanti 
                  alla sede del suo giornale, con tre colpi di pistola alla gola. 
                  Oltre al negazionismo assoluto del governo turco, quello che 
                  è più grave è stato il silenzio assordante 
                  di tutte le diplomazie occidentali, che per puri interessi di 
                  geopolitica hanno girato la testa dall'altra parte, nonostante 
                  conoscessero sin dall'inizio ciò che stava succedendo 
                  e ciò che alla fine fu realizzato. Infatti le testimonianze 
                  di eminenti personaggi erano già a disposizione di tutte 
                  le cancellerie. 
                  Ad oggi, nell'anno di grazia 2014, solo 21 paesi hanno ufficialmente 
                  riconosciuto il genocidio: Argentina, Belgio, Canada, Cile, 
                  Cipro, Francia, Grecia, Italia, Lituania, Libano, Paesi Bassi, 
                  Polonia, Russia, Slovacchia, Stati Uniti d'America, Svezia, 
                  Svizzera, Uruguay, Vaticano, Venezuela. 
                
                   
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                    |   Il mutamento e la progressiva riduzione dei territori armeni  | 
                   
                 
                L'orrore in prima persona 
                Tanti furono i testimoni oculari dell'immane eccidio: uno dei 
                  primi a denunciare all'opinione pubblica mondiale quanto aveva 
                  visto fu Rafael de Nogales Mendez (1879-1936), ufficiale di 
                  origine venezuelana, che aveva prestato servizio nell'esercito 
                  ottomano, e al rientro in patria pubblicò il libro “Quattro 
                  anni sotto la mezzaluna”. Secondo Mendez l'ordine dei 
                  massacri fu dato dal ministro degli Interni Taalat Pascia direttamente 
                  ai governatori delle provincie, e scrive: “[...] 
                  di oltre 10.000 tra armeni, cristiani nestoriani e giacobiti, 
                  lasciarono i corpi ignudi in pasto agli avvoltoi e ai cani randagi”. 
                  Si conosce pure il dispaccio inviato da Taalat Pascia al Governatore 
                  di Aleppo il 15 settembre 1915: “Siete già stato 
                  informato del fatto che il Governo ha deciso di sterminare l'intera 
                  popolazione armena [...] Occorre la vostra massima collaborazione 
                  [...] Non sia usata pietà per nessuno, tanto meno 
                  per le donne, i bambini, gli invalidi [...] Per quanto tragici 
                  possano sembrare i metodi di questo sterminio, occorre agire 
                  senza alcuno scrupolo di coscienza e con la massima celerità 
                  e efficienza”. 
Una toccante testimonianza è stata quella di Mesrop Minassian, che all'epoca dei fatti aveva quattro anni ed è uno dei pochi sopravvissuti al genocidio: “Nel 1914, quando ebbe inizio la prima guerra mondiale, i turchi vennero nel nostro villaggio, radunarono gli uomini armeni e li portarono via per arruolarli nell'esercito ottomano. Ma ci fu poi chi portò la notizia che, lungo la strada, li avevano uccisi tutti a colpi di accetta. Tra quegli uomini c'era anche mio padre. [...] Arrivarono - continua Mesrop – e ci fecero uscire tutti dalle case. Ragazze, donne, bambini: ci portarono tutti nel deserto. Così, come un agnellino, mi hanno strappato da mia madre. Mi misero sottoterra, mi seppellirono lasciando fuori solo la testa e si allontanarono dicendo “Domani uccidiamo anche questo qui”. Poi se ne andarono a scegliersi le ragazze più belle: quelle brutte le uccidevano o le gettavano nel fiume. Aprivano la pancia alle donne incinte, per vedere se il figlio era maschio o femmina. Alle ragazze vergini tagliavano i capezzoli, mentre alle donne tagliavano i seni e glieli mettevano sulle spalle. Io, dal buco dove ero interrato, vedevo tutto con i miei occhi”. 
Il piccolo Mesrop, dopo aver assistito alla carneficina, fu salvato grazie a un rapimento: “Un turco che passava da quelle parti sentì i miei lamenti. Venne, mi tirò fuori e mi portò a casa sua; poi mi condusse dal mullah e mi fece circoncidere. Mi fecero stendere per strada, in mezzo al paese, in modo che chi passava vedeva che c'era un musulmano in più. Io rimasi con il mio padrone turco, badavo alle sue pecore [...] e mi utilizzava come servo”. 
                  Un altro grande divulgatore del genocidio armeno fu lo scrittore 
                  ebreo Franz Werfel, che con il suo romanzo: “I quaranta 
                  giorni di Musa Dagh” scritto nel 1929 a Damasco e pubblicato 
                  nel 1933, affronta e racconta dello sterminio degli armeni da 
                  parte dei turchi. Il libro poi ispirò la resistenza e 
                  la rivolta del ghetto di Varsavia, ed è ancora oggi una 
                  delle migliori testimonianze sul genocidio del popolo armeno. 
                  Il testimone oculare più importante del genocidio fu 
                  senz'altro Armin Theolphil Wegner (Wuppertal 1886 -Roma 1978). 
                  Ufficiale del servizio sanitario dell'esercito tedesco, fu inviato 
                  allo scoppio del prima guerra mondiale in seguito all'alleanza 
                  militare tra la Germania e la Turchia in Medio Oriente, come 
                  rappresentante del servizio sanitario tedesco al seguito del 
                  generale Von der Golz. Al giovane Wegner giunge voce di deportazioni 
                  e di massacri nei confronti della popolazione armena stanziata 
                  in Anatolia: notizie non nuove per lui, che ha sentito raccontare 
                  dal padre Gustav dei massacri degli armeni avvenuti sul finire 
                  dell'Ottocento. Volendo accertarsi di persona di cosa stia succedendo, 
                  si procura una macchina fotografica, e approfittando dei giorni 
                  di permesso raggiunge le zone della carneficina ed inizia a 
                  scattare fotografie, a raccogliere testimonianze, sapendo di 
                  trasgredire e venir meno ai suoi doveri di ufficiale dell'esercito 
                  tedesco, alleato dell'esercito turco. Tutto quello che ha visto 
                  e documentato sulle sofferenze del popolo armeno viene da lui 
                  descritto nelle lettere alla madre, che poi saranno raccolte 
                  nel libro “La via senza ritorno”. Il giovane ufficiale, 
                  incurante del divieto di avvicinarsi ai luoghi della deportazione 
                  e dell'eccidio, non solo prosegue la sua opera di documentazione 
                  ma la invia agli amici e alle autorità di tutta Europa. 
                  Scoperto, viene rimpatriato in Germania, dove continua la sua 
                  attività di divulgatore. Nel 1919 indirizza una lettera 
                  al presidente degli Stati Uniti d'America, dove descrive gli 
                  orrori a cui ha assistito: “Non chiuda le orecchie perché 
                  è uno sconosciuto che le parla [...] se Lei sfoglierà 
                  quei terribili scritti che hanno raccolto su questi avvenimenti 
                  Lord Bryce in Inghilterra e Johannes Lepsuis in Germania, Lei 
                  vedrà che non esagero [...] faccio questo con il diritto 
                  della comunità umana, con il diritto di promessa sacra. 
                  La voce della coscienza non potrà mai placarsi in me”. 
                  La lettera non ha avuto nessun esito. 
                  Non solo per gli armeni 
                Nel 1933, dopo la salita al potere di Hitler, e memore della 
                  sorte toccata agli armeni in Turchia, conoscendo la politica 
                  del Führer nei confronti degli ebrei, indirizza una lettera 
                  a Adolf Hitler e al popolo tedesco per denunciare i comportamenti 
                  anti-umani che il regime nazista ha iniziato ad attuare contro 
                  gli ebrei, denunciando tutta la sua indignazione. 
                  La risposta fu immediata: fu arrestato, torturato e internato 
                  in vari campi di concentramento a Orannienburg, Börgermoor 
                  e Lichtenburg, in fine venne scarcerato e si recò volontariamente 
                  in esilio, prima in Inghilterra, poi in Palestina con la moglie, 
                  la poetessa ebrea Lola Landau (1892 -1990). Infine nel 1936 
                  venne in Italia e visse prima a Positano, poi tra Stromboli 
                  e Roma, dove morì nel 1978. Il Wegner, nonostante soffrisse 
                  la lontananza dalle cose che aveva amato, non volle mai far 
                  ritorno in Germania. Per il ruolo che ha avuto nel diffondere 
                  e far conoscere la tragedia del popolo armeno è stato 
                  dichiarato “Giusto per gli armeni”; Wegner è 
                  stato il primo “giusto testimone” che ha ottenuto 
                  questo riconoscimento. Israele nel 1968 lo aveva insignito del 
                  titolo di “Giusto per Israele”, per l'impegno preso 
                  in tempi non sospetti a sostegno della causa degli ebrei. 
                  Voglio ricordare che, oltre alla Sho'à e al Genocidio 
                  del popolo armeno, il mondo ha assistito inerme e distratto 
                  a molti altri genocidi. Dopo tutto questo, penso che sia cosa 
                  importante far memoria di questi misfatti e vigilare, perché 
                  ciò che è accaduto non si ripeta più. 
                 Luigi Rigazzi 
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