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				 magistratura 
                  
                Ma D'Ambrosio  è uomo d'onore 
                  
                di Enrico Maltini 
                    
                È stato il geniale inventore del “malore attivo”, formula con cui nel 1975 si pose una pietra tombale sull'assassinio in Questura del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli. Lo ricorda qui un militante (con Pinelli e pochi altri) nella Crocenera Anarchica nel 1969, autore di recente di un importante libro su quella pagina drammatica della storia italiana. 
                 
                   Gerardo 
                  D'Ambrosio è morto il 29 marzo scorso e ai morti si deve 
                  rispetto, dunque staremo attenti con le parole. Parlare di lui 
                  non è facile, perché nella sua vita di magistrato 
                  ci sono molte luci tra le quali le indagini sul famigerato Banco 
                  Ambrosiano e sul banchiere Roberto Calvi, la stagione di “mani 
                  pulite” e di tangentopoli ...e altre indagini che hanno 
                  “fatto luce” su molti di quei pezzi della nostra 
                  buona società che, infrattati tra le pieghe di mille 
                  poteri, rubano, corrompono, comprano e si vendono. 
                  Ma nel suo prestigioso curriculum c'è anche quell' ombra 
                  nerissima, che ci ha riguardato molto da vicino e che non è 
                  il non aver fatto luce sulle ragioni e i modi della morte 
                  di Pinelli, cosa ammissibile, ma di averla attivamente spenta, 
                  la luce, concludendo l'istruttoria con la sentenza di archiviazione 
                  dell'ottobre 1975, quella passata alla storia come del “malore 
                  attivo”. Un malore su cui si è detto e scritto 
                  molto: Adriano Sofri ne ha scritto un libro, i linguisti ne 
                  hanno notato l'evidente caratteristica di “ossimoro”, 
                  tutti l'hanno inteso come un compromesso. 
                   
                  ossimoro 
                  - Figura retorica che consiste nell'unione sintattica di due 
                  termini contraddittori, in modo tale che si riferiscano a una 
                  medesima entità, per es.: lucida follia; tacito 
                  tumulto (G. Pascoli); convergenze parallele (A. Moro); 
                  insensato senso (G. Manganelli) e ottenendo spesso sorprendenti 
                  effetti stilistici. (Enciclopedia Treccani). 
                  - Gli gnostici parlavano di una luce oscura; gli alchimisti 
                  di un sole nero (Jorge Luis Borges). 
                  - Qualcuno ha anche parlato di suicidio passivo... (anonimo, 
                  n.d.r). 
                   
                  È giusto però ricordare che la locuzione “malore 
                  attivo”, come tale, non è mai stata né scritta 
                  né detta da D'Ambrosio. Le esatte parole da lui usate 
                  nella sentenza sono infatti dapprima queste: 
                   
                  “alterazione del centro di equilibrio cui non segue 
                  perdita di tono musclare e cui spesso si accompagnano movimenti 
                  attivi e scoordinati”  
                   
                  e poche righe sotto: 
                   
                  “L'interrogatorio è terminato e nulla è 
                  emerso contro Pinelli, ma lo stato di tensione per lui non si 
                  allenta. 
                  Il commissario Calabresi si è allontanato senza dire 
                  una parola. Cosa deciderà di lui il dott. Allegra? Finirà 
                  a San Vittore con l'infamante marchio di complice di uno dei 
                  più efferati delitti della storia d'Italia o tornerà 
                  finalmente libero a casa? Pinelli accende la sigaretta che gli 
                  offre Mainardi (uno dgli agenti presenti n.d.r.).L'aria della 
                  stanza è greve, insopportabile. Apre il balcone, si avvicina 
                  alla ringhiera per respirare una boccata d'aria fresca, una 
                  improvvisa vertigine, un atto di difesa in direzione sbagliata, 
                  il corpo ruota sulla ringhiera e precipita nel vuoto. Tutti 
                  gli elementi raccolti depongono per questa ipotesi”. 
                    
                  Il resto della sentenza è una minuziosissima ricostruzione 
                  di tutta la dinamica della caduta, dei tempi delle chiamate 
                  del pronto soccorso di... mille particolari grandi e piccoli, 
                  con frequenti contraddizioni che alla fine non portano a nulla 
                  di preciso, o meglio che portano secondo D'Ambrosio a tre possibilità: 
                  suicidio, omicidio o il malore prima descritto, quello che passerà 
                  alla storia come “malore attivo”. 
                  È lecito pensare che le parole con cui descrive l'evento 
                  cruciale siano state pesate dal giudice con estrema attenzione, 
                  calibrate una ad una con grande cura, data la cruciale importanza 
                  che rivestono, costituendo il vero “cuore” della 
                  sentenza. Proprio per questo dobbiamo considerarle anche noi 
                  con la massima cura e con l'attenzione che meritano: 
                   
                  Apre il balcone, si avvicina alla ringhiera per respirare 
                  una boccata d'aria fresca, una improvvisa vertigine, un atto 
                  di difesa in direzione sbagliata, il corpo ruota sulla ringhiera 
                  e precipita nel vuoto.  
                  Tertium non datur 
				  In queste due righe e mezzo sta la conclusione dell'istruttoria e, come si è detto, il cuore della sentenza: fino alla boccata d'aria fresca può essere un'ipotesi da prendere in considerazione, ma “un'improvvisa vertigine” “un atto di difesa in direzione sbagliata...” sono due cose diverse, che D'Ambrosio mette insieme e unisce con una virgola quasi fossero due modi di dire la stessa cosa, cioè quasi fosse indifferente usare il primo termine, o il secondo, o tutti e due... ed è qui che non ci siamo. Un magistrato attento e colto come D'Ambrosio, che sta scrivendo la parte più delicata di una sentenza di per sè delicata su una vicenda che l'opinione pubblica segue con attenzione, che coinvolge le massime istituzioni dello Stato in un momento di alta tensione politica e sociale, non può ricorrere a significati approssimativi. Se lo fa è perchè non trova altre vie d'uscita, fa quel che può, perchè vi è costretto. In effetti, detta così, l'espressione lascia tre possibilità: primo, c'è solo la vertigine, secondo: la vertigine segue a un atto di difesa, terzo: c'è solo l'atto di difesa. Bene: se si è trattato di una vertigine è un conto, ma se la vertigine segue un atto di difesa in direzione sbagliata, tutto cambia: un atto di difesa con o senza vertigine, lo si voglia o no, può essere solo la risposta ad un atto di offesa. Tertium non datur. 
 
                  Volendo essere precisi e qui occorre esserlo, il “malore 
                  attivo” è allora una semplificazione giornalistica, 
                  presumibilmente derivata dal titolo del bel libro di Adriano 
                  Sofri*, di una sentenza che ci dà 
                  due alternative: a) Pinelli è precipitato davvero per 
                  un malore (attivo o passivo che sia è solo un dettaglio) 
                  e, b) si è trattato di una forma di aggressione fisica 
                  dalla quale Pinelli ha tentato inutilmente di difendersi, non 
                  riuscendovi ed essendo spinto fuori con o senza perdita 
                  dell'equilibrio. Nel primo caso si configura un incidente, nel 
                  secondo un omicidio. 
Peccato però che la prima ipotesi venga recisamente negata dallo stesso Giudice, in seguito a una complicata serie di ragionamenti intorno alla dinamica dei corpi solidi, che qui tralasciamo, per cui in caso di semplice malore il corpo sarebbe caduto all'interno dlla stanza. 
Potremmo allora dire che nella sua sentenza D'Ambrosio ipotizza che qualcuno dei presenti abbia usato violenza ad un Pinelli che compie in risposta un atto di difesa e precipita. Ma lo dice in modo che sembra non averlo detto, confondendo tra loro tutte le ipotesi. 
 
Ma D'Ambrosio è uomo d'onore, 
 
                  direbbe l'Antonio della tragedia di Shakespeare e certamente 
                  D'Ambrosio non è uomo di poco conto. Ma allora, perchè 
                  usare frasi e termini tanto ambigui? Non certo per leggerezza, 
                  né tanto meno per fare un favore a poliziotti o questori, 
                  ci deve essere una ragione più seria. 
Infatti c'è, a nostro avviso e la possiamo anticipare con una frase di Oreste Scalzone, che definì quella sentenza “il frutto del compromesso storico ante litteram”. 
 
                  In effetti, è vero che un ossimoro può permettere 
                  di ottenere sorprendenti effetti stilistici, ma non sembra 
                  questo lo scopo cui mirava D'Ambrosio. Piuttosto si ha la forte 
                  impressione che ad un così abile e credibile giudice, 
                  uno di quelli “al di sopra delle parti” (si dà 
                  dunque per scontato che gli altri sono di parte) sia stata affidata 
                  una missione delicata e complessa: mettere una pietra sopra 
                  la vicenda Pinelli, chiudere un caso imbarazzante, con un omaggio 
                  all'anarchico innocente ma squilibrato dopodiché, come 
                  direbbero a Napoli “scurdammoce u'passato”. Se è 
                  giusta la definizione di Scalzone, che noi condividiamo, il 
                  futuro senatore (PD) Gerardo D'Ambrosio stava mettendo in atto 
                  una difficile strategia che il più forte partito di opposizione 
                  si trovava suo malgrado a dover seguire. Il PCI e i suoi soci 
                  di allora non avevano responsabilità dirette in stragi 
                  e omicidi, ma per denunciare chi quelle responsabilità 
                  le aveva, ovvero destra DC, PSDI e altre destre, le varie cosidette 
                  forze oscure (CIA, USA, Nato, Gladio, Stay behind, Ufficio 
                  Affari Riservati, altri servizi...) bisognava avere una forza 
                  che PCI e alleati non potevano (o non volevano?) avere. D'altra 
                  parte un venticello di centro-sinistra già spirava all' 
                  orizzonte. In questi casi è meglio fare come le scimmiette: 
                  non vedere, non sentire e non parlare ma anche, in questo caso, 
                  non indagare. 
                  Ma tre indizi fanno una prova 
				  
                Non abbiamo la pistola fumante ma, come si dice, tre indizi 
                  fanno una prova. Vediamo: 
                   
                  Il primo: sappiamo che Calabresi affermò di essere 
                  uscito dalla stanza prima della caduta, per portare i verbali 
                  al capo Allegra, sappiamo anche che l'anarchico Lello Valitutti 
                  che si trovava tra lo studio di Calabresi e quello di Allegra, 
                  ha sempre fermamente escluso di aver visto il commissario passargli 
                  davanti. Sulla presenza o assenza di Calabresi, cosa non secondaria, 
                  il G.I. D'Ambrosio ha interrogato tutti i poliziotti e il carabiniere 
                  ufficialmente presenti, tutti denunciati per omicidio e altro 
                  da Licia Pinelli, dunque tutti imputati che come tali hanno 
                  diritto di mentire. Perchè D'Ambrosio non ha mai voluto 
                  sentitire Lello, l'unico testimone “civile” presente 
                  sul luogo dei fatti, che non essendo imputato doveva deporre 
                  sotto giuramento? 
                    
                  Il secondo: negli archivi nascosti dall'Ufficio Affari 
                  Riservati (UAR) del ministero degli Interni, ritrovati 1996 
                  nella via Appia a Roma, vi erano molti documenti che attestavano 
                  della presenza di cinque alti funzionari dell'UAR (Russomanno, 
                  D'Agostino, Alduzzi, Carlucci e il direttore Catenacci) oltre 
                  a una dozzina di agenti, che circolavano in quei giorni e quella 
                  notte nei (pochi) locali dell'Ufficio Politico al quarto piano 
                  della questura milanese. Questi personaggi, dei quali la magistratura 
                  non seppe nulla fino al ‘96 e noi fino a pochi anni fa, 
                  interrogavano, conducevano indagini all'insaputa degli inquirenti,“erano 
                  i padroni delle indagini” come disse uno di loro, erano 
                  considerati gerarchicamente superiori da parte di tutti 
                  i funzionari delle squadre politiche e furono coloro che fecero 
                  i nomi di Valpreda e Pinelli già dalla notte del 12. 
                  D'Ambrosio ha detto a proposito dell'ipotesi di omicidio: “Facemmo 
                  mille accertamenti, cercammo tutti i riscontri possibili ma 
                  gli indizi, vennero meno uno dopo l'altro....”. Bene, 
                  ma è possibile che tra i mille accertamenti e riscontri 
                  effettuati nulla sia emerso rispetto a quelle ingombranti presenze? 
                  Non uno che abbia suggerito qualcosa? È vero che i funzionari 
                  venuti da Roma dichiaravano esplicitamente di voler “restare 
                  riservati”, ma è assai strano che D'Ambrosio 
                  non ne abbia saputo proprio nulla, che nessuno abbia detto qualcosa, 
                  che a nessuno degli agenti interrogati sia sfuggita una parola... 
                  E che nemmeno abbia saputo della dichiarazione di Giuseppe Mango, 
                  alto funzionario UAR, verbalizzata dal suo collega Carlo Mastelloni 
                  il 30 aprile 1997, che dice: 
                   
                  «Circa il suicidio di PINELLI il D'AMATO esclamò, 
                  dopo il fatto, che ALLEGRA, Dirigente dell'Ufficio Politico, 
                  non aveva attuato le necessarie misure per impedire che l'anarchico 
                  si buttasse dalla finestra. “Ha ragione il Capo della 
                  Polizia” esclamò. Non si poteva trattenere una 
                  persona fermata di “quell'importanza” – visto 
                  il titolo del reato per il quale era indiziato – in quelle 
                  condizioni ambientali». 
                  «ALLEGRA fu convocato a Roma da D'AMATO ed entrambi si 
                  recarono da VICARI ma non si prese nei suoi confronti nessun 
                  provvedimento. Allegra sosteneva che PINELLI si era appoggiato 
                  di spalle alla finestra e che improvvisamente si era buttato 
                  giù. Tutto questo seppi dallo stesso D'AMATO dopo la 
                  convocazione di ALLEGRA da parte del Capo della Polizia». 
                  Di spalle! Dunque niente tuffi, niente balzi felini, 
                  slanci, ante che sbattono... tutte inutili le millimetriche 
                  misurazioni col famoso manichino! Di spalle si è buttato 
                  l'anarchico! Lo ha fatto apposta! Per intralciare la giustizia! 
                  E se davvero nulla di tutto ciò era giunto al suo orecchio, 
                  era una ragione di più per voler approfondire la cosa 
                  e chiedere conto del perché tutto gli era stato taciuto. 
                  Non solo perché chi tace ha qualcosa da nascondere, non 
                  solo perché c'è un evidente reato di falsa testimonianza, 
                  ma se non altro per orgoglio professionale. 
                   
                  Il lettore può decidere in che misura questi sono indizi 
                  e in che misura si avvicinano a prove, ma tutto questo si inquadra 
                  molto bene in quella ricostruzione storica ormai accettata, 
                  che colloca la bomba del 12 dicembre nel quadro esterno e internazionale 
                  della guerra fredda e in quello interno e nostrano del contrasto 
                  alle lotte operaie e studentesche dell'autunno caldo. 
                  Un “partito del golpe” (l'allora PSDI capeggiato 
                  da Giuseppe Saragat, con pezzi della Dc e altre formazioni di 
                  destra, con i servizi Usa e nostrani, i fascisti di Ordine Nuovo 
                  e le varie logge P2, Gladio, Mar ecc.) aveva pianificato la 
                  svolta autoritaria da compiersi in un Italia sconvolta dal terrore 
                  subito dopo la strage. Una svolta che non vi fu perché 
                  la massa composta, che in una cupa giornata e in un silenzio 
                  agghiacciante accompagnò le sedici bare sul sagrato del 
                  Duomo ai funerali delle vittime, spaventò talmente il 
                  presidente del consiglio Mariano Rumor che volle tirarsi indietro, 
                  facendo saltare il piano. e costringendo il presidente della 
                  Repubblica Giuseppe Saragat e gli altri “golpisti” 
                  a rinunciare al progetto. 
                  Contribuì alla rinuncia anche il poderoso servizio d'ordine 
                  che PCI e altre forze di sinistra avevano predisposto proprio 
                  in vista di un tentativo di svolta autoritaria. La rinuncia 
                  allo scioglimento delle camere e alla dichiarazione dello stato 
                  di emergenza non fu però gratuita, ma fu contrattata 
                  con il PCI che dovette accettare, o non potè rifiutare, 
                  delle condizioni, secondo le quali si rinunciava al colpo di 
                  stato, ma ci si impegnava a non perseguire legalmente i “congiurati”, 
                  (Stefano delle Chiaie e ON in particolare) e, in breve, a continuare 
                  a battere la pista anarchica con Valpreda, ecc. 
                  Una brutta storia, cui PCI e soci furono costretti ad aderire, 
                  non avendo la forza di denunciarla, e secondo non pochi storici, 
                  anche perché ricattati dai servizi (i finanziamenti da 
                  Mosca e altro) ed in particolare dall'UAR di D'Amato, uomo legato 
                  alla CIA. 
                  Un patto scellerato che dovette poi essere difeso per i decenni 
                  a seguire, un cadavere nell'armadio, una storia cui si doveva 
                  in qualche modo porre rimedio e chiudere definitivamente. 
                   
                  La vicenda di Pinelli era dentro questa storia. 
                   
                  Nel maggio 2009 il presidente Giorgio Napolitano ha rotto un 
                  silenzio istituzionale che durava da 40 anni con queste parole: 
                   
                  “Rispetto ed omaggio dunque per la figura di un innocente, 
                  Giuseppe Pinelli, che fu vittima due volte, prima di pesantissimi, 
                  infondati sospetti, poi di un'improvvisa, assurda fine”[...]“un 
                  uomo di cui va riaffermata e onorata la linearità, sottraendolo 
                  alla rimozione e all'oblio”. 
                   
                  Anche queste parole di Napolitano sono state certamente pesate 
                  con attenzione: innocente dunque estraneo a tutto; infondati 
                  sospetti: dunque accuse false; improvvisa assurda fine: 
                  qui qualcosa non va: un malore può essere una fine improvvisa, 
                  ma non assurda, è una “malattia” per così 
                  dire, mentre un'“alterazione del centro di equilibrio” 
                  è un incidente, ma non ha nulla di assurdo. 
                  Ma ci manca il terzo indizio 
				  
                Fatto 
                  La borsa inesplosa della COMIT, la banca commerciale italiana, 
                  aveva il cordino del prezzo legato intorno al manico. 
                  La fotografia della borsa con il cordino viene pubblicata da 
                  “Il Corriere della sera”. 
                  La borsa viene portata come reperto in questura e affidata ad 
                  Allegra. 
                  Il commissario Mento, dirigente del Gabinetto di Polizia Scientifica 
                  di Milano, intervenuto la sera del 12 Dicembre alla COMIT, si 
                  ricorda perfettamente di un cordino di cotone legato al manico 
                  della borsa e dichiara che il giorno successivo, quando l'Ufficio 
                  Politico che aveva in consegna il reperto glielo aveva riconsegnato 
                  per le fotografie, il cordino non c'era più. Infatti, 
                  nelle fotografie ufficiali fornite dalla questura il cordino 
                  non c'è. 
                  Sulla trentina di negozi che in Italia vendevano quelle borse, 
                  la maggior parte non mettevano il prezzo, altri usavano una 
                  targhetta, altri legavano il cartellino alle gambe del manico, 
                  altri usavano un cordino di diverso colore, spessore, natura 
                  merceologica, tipo di nodo...ecc. Con una simile casistica si 
                  poteva individuare il negozio che aveva venduto le borse in 
                  due giorni, anziché in quasi due anni come invece fu, 
                  e la commessa avrebbe riconosciuto senza difficoltà lo 
                  stano cliente (era Franco Freda) che aveva comprato quattro 
                  borse uguali pochi giorni prima. 
                   
                  Diritto 
                  Nella requisitoria del giudice Alessandrini a proposito della 
                  scomparsa del cordino si parla di “smarrimento”. 
                  Ora, è evidente che un cordino di cotone legato al manico 
                  di una borsa non si può smarrire, si può solo 
                  strappare o tagliare, come nota lo stesso Alessandrini quando 
                  scrive: “... è stato certamente necessario tagliarlo. 
                  Proprio da quel momento si perdono le tracce di questo corpo 
                  di reato”. I magistrati conoscono l'italiano: smarrimento 
                  colposo sarebbe pleonastico..., smarrimento doloso è 
                  un altro ossimoro e un nonsenso: c'è una sola alternativa 
                  possibile ed è sottrazione dolosa, un reato gravissimo 
                  in un caso di strage. 
                  Giustamente Alessandrini non ne sottovaluta la portata: “È 
                  semplicemente inconcepibile che un funzionario preposto alla 
                  direzione di un ufficio di polizia giudiziaria non predisponga 
                  gli opportuni accorgimenti. Né si dica che nella specie 
                  l'indagine ebbe proporzioni eccezionali. Quanto più ampia, 
                  grave e complessa è l'indagine, infatti, tanto più 
                  è rilevante l'esigenza di una immediata catalogazione 
                  e successiva conservazione dei corpi di reato”. 
                   
                  Ed ecco la sentenza di D'Ambrosio: 
                   
                  “Poiché è certo che la dispersione avvenne 
                  nei giorni immediatamente successivi al 12 dicembre, l'azione 
                  non può più essere esercitata. Il reato è, 
                  infatti, estinto per amnistia”. 
                  Per confondere le idee qui si usa la parola dispersione 
                  che, come il verbo disperdere, non significa perdere 
                  ma frammentare in piccole parti (non si dice ho disperso 
                  il portafoglio, nè si dice mi sono disperso a 
                  Roma...) 
                  Abbiamo detto che rispettiamo la memoria di D'Ambrosio, ma quella 
                  sentenza ci pare davvero offensiva. E tali ci paiono anche le 
                  spiegazioni che il giudice adduce per giustificarla: 
                  “...riteniamo doveroso far rilevare le imperfezioni 
                  del nostro sistema processuale (poste chiaramente in evidenza 
                  nel corso del convegno sull'Istruttoria Formale tenutosi l'estate 
                  scorsa a Bologna), imperfezioni che, naturalmente, si esasperano 
                  e vengono messe a nudo proprio nelle indagini più gravi 
                  e clamorose”. L'amnistia per una sottrazione di prove 
                  in un caso di strage la chiama imperfezione? 
                   
                  Il secondo argomento che si riferisce più in generale 
                  alla mancata comunicazione alla magistratura della vendita delle 
                  borse di Padova da parte di Allegra e della questura di Milano, 
                  è ancor più stupefacente, una sorta di “tautologia 
                  giudiziaria”, impensabile da parte di un magistrato ritenuto 
                  tra i migliori. 
                  “Appare pure verosimile che essi (Allegra e soci 
                  n.d.r.) poterono ritenere non influente la circostanza accertata 
                  a Padova, sia perché in sostanza risultava che era stata 
                  impiegata dagli attentatori una sola borsa marrone (e non tre), 
                  sia perché le indagini avevano assunto ormai un indirizzo 
                  ben preciso (...) e limitato all'ambiente romano del circolo 
                  “22 marzo”. Cioè le indagini si erano 
                  già indirizzate verso Valpreda e gli anarchici, punto 
                  e basta. 
                  Ma c'è un quarto fatto, che è qualcosa di più 
                  di un indizio: 
                  Ha detto il giudice milanese Guido Salvini parlando della sua 
                  inchiesta su Piazza Fontana del 1991: “Quando ho riaperto 
                  il caso non ho avuto il minimo aiuto, si percepiva anzi il poco 
                  interesse e quasi il fastidio del procuratore D'Ambrosio. Come 
                  se non fosse gradito che qualcuno, tra l'altro un Giudice Istruttore 
                  e non l'ufficio della Procura, andasse oltre i risultati raggiunti 
                  negli anni '70 a cui la sua figura era legata. Non è 
                  più possibile nascondersi dietro i Servizi segreti, è 
                  stata la magistratura ad auto-depistarsi e su questo, per una 
                  ragion di Stato interna, si è sempre preferito tacere”. 
                  Nel 1997 sarà ancora D'Ambrosio ad attaccare Salvini 
                  quando con la sua inchiesta su destra eversiva e strategia 
                  della tensione aveva consentito, di fatto, la riapertura 
                  del fascicolo sull'attentato del 12 dicembre 1969. Un attacco 
                  rivolto sostanzialmente attraverso critiche di metodo, salvo 
                  poi utilizzare praticamente il frutto delle sue indagini. 
                  Per finire: nel maggio 2009 Napolitano ha definito D'Ambrosio 
                  un magistrato “di indiscutibile scrupolo e indipendenza”. 
                  Per quanto ci riguarda, e se le cose sono andate come abbiamo 
                  scritto, non è a questo punto il giudizio sull'uomo che 
                  ci interessa, forse D'Ambrosio ha pagato anche caro il dover 
                  scegliere tra la fedeltà al partito e la fedeltà 
                  alla sua coscienza. Ma come da 43 anni a questa parte, quello 
                  che ci interessa e che continuiamo a volere, è solo la 
                  verità. La stessa storia di questo paese ha bisogno di 
                  una verità ufficiale su Pinelli, sulla strage. Quella 
                  verità che una volta era rivoluzionaria (Gramsci) lo 
                  sarebbe ancora oggi e sarebbe la sola cura capace di estirpare 
                  quel tumore che la sua mancanza ancora coltiva nel corpo di 
                  questa società.
                  Enrico Maltini
                  * “Il malore attivo dell'anarchico 
                  Pinelli”. Adriano Sofri. Ed. Sellerio, 1996.
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