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				 stili di vita 
                  
                Generazione siberiana 
                  
                di Stefano d'Errico 
                    
                La maleducazione è connaturata indissolubilmente alla sub-cultura del dominio, in tutte le sue varianti. La “buona educazione”, spesso giudicata una pratica conformista e quindi rifiutata soprattutto in campo giovanile, non potrebbe essere invece una parte significativa della nostra etica e del nostro progetto rivoluzionario, contro il Potere? 
                 
                  Il film di Salvatores sulla miglior 
                  “scoperta” letteraria di Saviano (Nicolai Lilin, 
                  Educazione siberiana, 2008) stimola molte riflessioni. 
                  Innanzitutto di stampo etico e sociologico rispetto alle trasformazioni 
                  intervenute con la globalizzazione (e non solo) nel mondo “marginale”. 
                  È evidente il significato indicato dai valori vissuti 
                  e trasmessi nella collettività siberiana degli “esclusi”: 
                  una comunità di fatto multietnica (e una morale) aventi 
                  come base quel Mir solidarista che studiarono Kropotkin e Marx, 
                  “ristrutturata” d'autorità in più 
                  di settanta anni di repressione sovietica verso una “devianza” 
                  non certo solo criminale. Ma, come mostra bene il film, anche 
                  quei valori sono oggi in via di estinzione (in particolare a 
                  causa di eroina e cocaina) con la mutazione genetica di una 
                  Russia passata molto in fretta dal capitalismo tecnoburocratico 
                  di stato al liberismo mafioso. Un liberismo nudo, scoperto e 
                  arrembante, assolutamente “all'occidentale”. 
                  Ma i parallelismi con l'Italia vanno ricondotti a molti decenni 
                  fa. Da noi, il processo di “standardizzazione della delinquenza” 
                  è assai più datato, e va ricondotto agli anni 
                  '70, all'esplosione della rivolta giovanile, studentesca, proletaria 
                  e sottoproletaria: all'emergere di ciò che venne definito 
                  il fenomeno delle “due società”. 
                  La diffusione delle droghe pesanti (parallela alla criminalizzazione 
                  di quelle leggere), fu il primo e principale veicolo usato dal 
                  dominio per fiaccare i movimenti e inquinare in profondità, 
                  proprio sotto il profilo connettivo e culturale, le periferie 
                  urbane e metropolitane, fin nei più sperduti paesi di 
                  provincia. 
                  Il welfare mafioso precede e fa strada al liberismo e 
                  alla successiva, conclamata, privatizzazione. Parliamo della 
                  scomparsa graduale dell'assistenza e della presenza pubblica, 
                  della quale le mafie inizialmente s'appropriano in sinergia 
                  con il ceto politico prevalente, in un legame strategico e strutturale. 
                  Era già successo negli Stati Uniti, innanzitutto col 
                  proibizionismo sugli alcolici, poi con quello sulla droga, e 
                  proprio grazie alla cosiddetta (iperliberista) “tolleranza 
                  zero”. 
                 La sub-cultura del dominio 
                 Esiste però anche una versione “politicamente 
                  corretta” e di “sinistra” che si sovrappone 
                  all'immagine della piccola malavita: quella del minculpop antagonista. 
                  Ciò che (con molta enfasi e pari esagerazione) veniva 
                  definito “proletariato giovanile” venne profondamente 
                  assimilato alla causa della marginalità. Ha assunto abiti 
                  e maschere indotti, ha acquisito uno stile di vita specificamente 
                  (e volutamente) altro, in omaggio ai diktat di 
                  parametri ideologici inquinati a tal punto da risultare palesemente 
                  innocui per gli equilibri di potere. 
                  Veri e propri cavalli di Troia “spacciati” nei quartieri 
                  insieme a droga, ottusità, violenza e intolleranza (anche 
                  politica): e fra questi il mito della maleducazione. 
                  Indisciplina etica per definizione, la maleducazione è 
                  connaturata indissolubilmente alla sub-cultura del dominio, 
                  in tutte le sue varianti. A partire dalla diseducazione politica, 
                  che insegna a confondere giudizi di fatto e giudizi di valore 
                  (quella del “tanto peggio – tanto meglio”), 
                  per arrivare fatalmente alla più generica diseducazione 
                  sociale e individuale. 
                  Viene sdoganata così la condanna del mondo valoriale 
                  in quanto tale, semplicisticamente ridotto alla stregua di vieto 
                  moralismo, nonché del rispetto stesso (e del confronto), 
                  parificati a debolezza. Il tutto tramite la parificazione della 
                  solidarietà a mera dinamica di gruppo (o branco), ma 
                  a patrocinio individuale. In una confusione più unica 
                  che rara, le regole non scritte del socialmente “deviante” 
                  (tout court) assurgono al rango di comportamento rivoluzionario 
                  e anti-sistema: un infingimento davvero micidiale proprio nella 
                  fase del maggior assorbimento della devianza stessa ai sub-valori 
                  del consumismo dominante. 
                  Non è per nulla sovversivo, infatti, tagliare con l'accetta 
                  i giudizi politici. Ciò succede quando, ad esempio, vediamo 
                  la critica allo stato di Israele diventare implacabilmente antisemitismo 
                  di sinistra e parallela acriticità assoluta rispetto 
                  all'operato delle fazioni palestinesi o, peggio, di quelle dell'integralismo 
                  islamico. 
                  Oppure quando nelle nuove generazioni l'alcool si sostituisce 
                  alla droga pesante, nella medesima operazione volta a ricondizionare 
                  gli individui in un autismo di fatto (solo apparentemente edonistico), 
                  nell'egoismo spicciolo del mors tua, vita mea, dello 
                  “sfangare la giornata” (un tempo la dose) senza 
                  riguardo per nulla e per nessuno, senza progetti, senza impegno, 
                  senza solidarietà e sensibilità sociale e sindacale 
                  organizzata, a mo' d'anestetico a “lenire” il mercato 
                  del non lavoro e il precariato strutturale (accettato 
                  di fatto quasi senza colpo ferire). 
                  Che dire poi della zona grigia di certi patetici residui di 
                  una generazione che fu giovane per definizione, oggi alle prese 
                  ancora con una marginalità ostentata a mo' di divisa? 
                  Anche qui l'alcool ha spesso preso il posto della droga e (di 
                  sovente) i “mi piace” di Facebook (con i suoi post 
                  e improperi, frizzi e lazzi rigidamente anti-qualcosa – 
                  Berlusconi, ad esempio) quello dell'impegno sociale e politico 
                  diretto. 
                  L'educazione è parte integrante (basilare) di qualsiasi 
                  processo etico, perché in sua assenza non si sarebbe 
                  data alcuna forma di convivenza. Il corto circuito in certa 
                  “sinistra”, deriva, fra gli altri, dalla volgarizzazione 
                  del dogma leninista secondo il quale la libertà sarebbe 
                  un “concetto borghese”. Quindi lo diventano automaticamente 
                  anche le sue forme, in primis il rispetto: del pensiero 
                  divergente, prima, quindi dell'altro da sé (se soggetto 
                  estraneo rispetto al branco e alla sua tenuta disciplinare e 
                  conformistica). 
                  Miriadi di piccolo-borghesi hanno funto da apripista a un processo 
                  di adeguamento che avrebbe fatto inorridire Pasolini: la mimesi 
                  sull'immagine (peraltro becera e standardizzata) del sottoproletariato 
                  urbano. 
                  Emblematico, ad esempio, il linguaggio di quanti, magari figli 
                  di medici o professionisti, credevano di arringare gli operai 
                  fuori dalle fabbriche della capitale con espressioni in romanesco 
                  per sembrare “dell'ambiente” (e come se l'espressione 
                  linguistica avesse una collocazione ideologica). 
                  La contraddizione con Educazione siberiana salta immediatamente 
                  agli occhi. Se nella periferia dell'impero sovietico emergeva 
                  il tentativo di far crescere valori contrapposti a quelli (dominanti) 
                  del fascismo rosso, nelle periferie occidentali segnate dall'egemonia 
                  di una certa “sinistra”, si faceva esattamente il 
                  contrario: i miti del comunismo da caserma venivano presi a 
                  modello (in particolare quella che Camillo Berneri definì 
                  “operaiolatria”, ma con qualche riserva opportunistica 
                  verso lo stakanovismo), con tutto il relativo corollario folkloristico, 
                  per un ennesimo risultato di omologazione. In questo calderone 
                  di cibo esistenziale e ideologico edulcorato, scomponendo gli 
                  “addendi”, si può ben analizzare come costoro 
                  siano passati dall'operaiolatria (di stampo marxiano) alla sottoproletariolatria 
                  (che non è neanche marxista)… 
                  Il jeans bucato non è più il prodotto estemporaneo 
                  d'una caduta dalla moto, bensì il segno distintivo di 
                  un'antitesi alla cravatta (molto fascista e/o molto borghese), 
                  anche se oggi i pantaloni con gli strappi vengono venduti a 
                  peso d'oro anche dalle grandi griffe. Trasandato, e poi 
                  “confuso” e “instabile” (e con licenza 
                  d'imbecillità e deresponsabilizzazione): così 
                  si battezza il “bello” in regime conformista. 
                  Avere (oggi) la fortuna di un lavoro garantito non spinge costoro 
                  (vecchi che fanno i giovani e giovani che copiano quei 
                  vecchi) alla sindacalizzazione e alla lotta per opporsi alle 
                  privatizzazioni e ai danni che complessivamente vengono fatti 
                  alla società civile, quanto all'ideologia del “lavorare 
                  stanca”. Diventa rivoluzionario persino farsi pignorare 
                  lo stipendio perché non si paga il condominio. 
                 La società impersonale 
                 La stessa vita quotidiana riflette lo stereotipo: rivoluzionario 
                  sarà quindi ciondolare per la strada, magari alticci 
                  dalla mattina, come se quel lavoro non esistesse, con un bicchiere 
                  o una bottiglia in mano. Rivoluzionaria sarà anche l'adesione 
                  femminile a un lessico sguaiato e l'assorbimento dei valori 
                  maschilisti della rozzezza e della violenza. 
                  Non esiste estetica senza senso etico (e il branco ha un'estetica 
                  unicamente antitetica). 
                  Tipico della società impersonale sviluppatasi a Occidente 
                  è un'omologazione costruita sollecitando l'individualismo 
                  (l'egoismo, l'esteriorità e il narcisismo), ma per abbattere 
                  l'individualità. 
                  Naturalmente esiste persino un amore politicamente corretto: 
                  così la diseducazione dell'intimo fa credere normale 
                  l'instabilità come sale dei rapporti. 
                  L'alternanza fra noia, consumo dell'altro, sballo, divengono 
                  normali “contraddizioni del vivere”. 
                  Il (malinteso) mito della spontaneità (parificata all'assenza 
                  di ragionamento), diviene semplicismo e superficialità, 
                  e con sé porta quello della diseducazione. Così 
                  si passa la vita come uno scontro con la quotidianità 
                  (e non certo con il potere). 
                  La durezza viene preferita all'educazione perché sarebbe 
                  più “spontanea” e “diretta”: 
                  così, soprattutto, è l'orizzonte della problematicità 
                  a essere espunto dalla vita sociale come dalla sfera interiore. 
                  L'orizzonte dei supercafoni musicali, televisivi e digitali 
                  è oggi anche quello dei bamboccioni. Ma la colpa non 
                  è solo di ragazzi sempre dipendenti e mammoni, quanto 
                  di genitori eterni bambini, formatisi nell'assenza del senso 
                  del limite, tipico delle fasi estreme della contestazione giovanile 
                  del post '68, così che oggi, come scrive Massimo Recalcati, 
                  s'è passati dal complesso di Edipo al complesso di Telemaco, 
                  senza soluzione di continuità. 
                  L'esperienza (corretta) dell'autogestione è divenuta 
                  mito dell'autogenerazione: l'auspicato abbattimento del padre-padrone 
                  ha portato ben oltre, sino all'eliminazione manu militari 
                  della figura genitoriale in sé, interiorizzata come figura 
                  inappropriata alla quale padri e madri dovrebbero quindi sfuggire. 
                  Il taglio netto del legame con i valori del passato è 
                  diventato assenza totale di verifica dei modelli e della stessa 
                  funzione della trasmissione, appropriazione e ristrutturazione 
                  dell'esperienza pregressa. 
                  La vera eredità sociale diviene l'instabilità: 
                  quella precarietà (non solo economico-lavorativa) determinata 
                  in assenza del confronto (e anche del conflitto) genitori-figli, 
                  poiché non esistono più né gli uni né 
                  gli altri. 
                  Occorre quindi approfondire un minimo il discorso sulla libertà, 
                  che non è mai assoluta, perché deve contemperare 
                  il rispetto di precisi doveri verso gli altri. Perciò 
                  la libertà stessa ha una funzione sociale e a tal fine 
                  la collettività esprime una sua autorevolezza che è 
                  altra cosa rispetto all'autoritarismo. 
                 Il mito della diseducazione 
                 Sarà utile citare Camillo Berneri: “All'autorità 
                  formale del grado e del titolo anteponiamo l'autorità 
                  reale del valore e della preparazione individuali. Questo senza 
                  cadere in una dialettica fusione, o confusione, dei contrari”. 
                  La libertà non è nulla se non finalizzata, e non 
                  è possibile un'eguaglianza generale fra gli esseri umani 
                  raggiunta per diktat ideologico. Occorre partire da una 
                  comune acquisizione della necessità di un impegno 
                  sui valori (condivisi) e dell'impiego degli stessi come metro 
                  comune. 
                  La diseducazione, nutrita del suo proprio mito, diviene quindi 
                  l'ennesima incarnazione e mutazione dello stereotipo romantico. 
                  Diseducazione innanzitutto come esistenza virtuale, aliena dal 
                  reale, mito dell'artista quale essere altro, baciato 
                  quindi gratis dall'ispirazione, eroe e semi-dio mosso solo dalla 
                  fulminazione del suo genio, estraneo al lavoro, all'impegno, 
                  allo studio. 
                  Questo è il mito-archetipo romantico dell'arte, quando 
                  invece per gli antichi greci l'arte era soprattutto impegno, 
                  ingaggio artistico costante, essere capaci di produrre “per 
                  l'occasione” (come nel caso di praticamente tutte le tragedie), 
                  e non certo solo in via estemporanea. 
                  Ma era così anche per Baudelaire (il quale, contrariamente 
                  a quanto vulgata pretenderebbe, non può essere annoverato 
                  fra i romantici), che infatti scrisse: “L'ispirazione 
                  è sorella del lavoro giornaliero”. 
                  L'individuo diverrebbe quindi compiuto, per i moderni epigoni 
                  del cibernetico neo-romantic, solo perché stravagante, 
                  bastian contrario, senza nessi con il reale, perché così 
                  somiglierebbe all'artista. Per costoro l'imperativo è 
                  distinguersi per forza, e distinguersi dal reale. Una unicità 
                  artefatta. 
                  E non v'è neppure nulla di nuovo. Come scrisse 
                  ancora Berneri:“Il romantico ama i tempi remoti perché 
                  può metterli in cornice. Il nuovo gli sfugge e gli fa 
                  paura. Così il romantico ama gli eroi, perché 
                  può idealizzarli a suo piacimento”. 
                  La diseducazione politica e i tanti sociologismi di maniera 
                  portano a credere che la responsabilità personale non 
                  esista, che tutto il male del mondo sia sempre cosa esterna 
                  e lontana che tutto giustifica e non “implica”. 
                  Come se la sola esistenza del dominio non consentisse che scelte 
                  obbligate e senza meta, senza soluzione di continuità, 
                  nella coscienza, nell'azione e nella responsabilità dell'individuo 
                  (anche nei rapporti più stretti). 
                  Così si costruisce la cultura marginale, si rinforzano 
                  i ruoli: mutatis mutandis si mantiene tutto come è 
                  sempre stato. Con la differenza che gli stessi che persistono 
                  in queste dinamiche, pur credendosi I dannati della terra 
                  di Frantz Fanon (o i “nuovi poveri”), ormai sono 
                  “garantiti”, sfoggiano cellulari stellari per connettersi 
                  a internet dalla strada e dal lavoro, hanno alle spalle famiglie 
                  sfasciate ma casa di proprietà. 
                  La marginalità ostentata ed esibita (quindi accettata) 
                  è il maggior risultato del (vero) relativismo etico: 
                  induce in politica il mito dell'estraneità a tutti i 
                  costi ('esistiamo solo noi'), e lo fa anche rispetto alla sfera 
                  personale ('esisto solo io'). 
                  L'abito mentale dell'“estraniato” si realizzerà 
                  nel rifiuto del confronto rispetto alle ragioni altrui, qualsivoglia 
                  esse siano. Nel vedere la dialettica come mero artificio retorico 
                  che non porterebbe in nessun luogo, fino al mitico, e invero 
                  demenziale, “sono tutti uguali”, arcano maggiore 
                  del qualunquismo nostrano. Solo che a mettere in atto un simile 
                  processo mentale non è più l'analfabeta, bensì 
                  laureati e quasi tali, perché innamorati del mito della 
                  marginalità e, soprattutto, per sfuggire la loro stessa 
                  ragione e, negli scambi interpersonali, l'eventuale sofferenza 
                  di aver torto. 
                  Si può intervenire solo a patto di rendersi interiormente 
                  modificabili, di esser capaci di pensiero divergente, sempre 
                  e comunque, in qualsiasi situazione, gruppo sociale o movimento 
                  politico: un pregio raro, specifico dell'umanità, che 
                  qualsiasi conformismo ingloba e annichilisce. È l'attitudine 
                  profonda, interiore, all'indipendenza e alla libertà 
                  ciò che conta davvero: “Non è dunque la 
                  cosa che si pensa che costituisce la libertà, ma il modo 
                  con il quale la si pensa” (Berneri, 1936). Essere diventati 
                  comunisti solo perché lo erano tutti equivaleva a non 
                  esserlo, e ciò spiega molto dei trasformismi che abbiamo 
                  sotto gli occhi tutti i giorni. 
                  Se si ragiona finalmente sul dato ormai indiscusso che la libertà 
                  non si può costruire con la dittatura, nondimeno l'equità 
                  resta necessaria, e libertà ed eguaglianza non sono in 
                  contrapposizione. Come ha sempre sostenuto il movimento libertario, 
                  trattasi semmai di sinonimi. Perché lo sforzo maggiore 
                  del neoliberismo imperante sta tutto nell'impedire che la storia 
                  (la cui “fine” non verrà mai) giunga a “maturazione”, 
                  che la gente capisca che se quelle ideologie erano fallimentari 
                  (ma non tutte), le si può abbandonare o modificare, mentre 
                  i valori primari sono sempre gli stessi. 
                  La rivoluzione o sarà umanista (e contro tutti i conformismi) 
                  o non sarà: l'educazione è sempre stata all'origine 
                  dell'umanesimo.
                  Stefano d'Errico
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