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				 Ecuador 
                  
                Quelle estrazioni devastanti 
                  
                testo e foto di Orsetta Bellani 
                    
                Sono quelle petrolifere della Texaco iniziate decine di anni fa, che hanno devastato e stravolto l'ambiente (e non solo) di tante popolazioni indigene. 
Le quali hanno detto basta e proclamato lo stato di “massima allerta”. 
                 
                  
                 Il Sote (Sistema de Oleoducto 
                  Transecuatoriano) serpenteggia tra le vallate dell'Ecuador. 
                  L'oleodotto di 530 km attraversa una geografia di fiumi e ruscelli, 
                  costeggia montagne di 3mila metri e scende fino a toccare la 
                  selva tropicale. Nella sua pancia porta il petrolio estratto 
                  dai pozzi della foresta amazzonica fino alle raffinerie di Esmeraldas, 
                  sulla costa del Pacifico, attraversando le Ande. 
                  Il Sote si nasconde sottoterra per lunghi tratti, ma per buona 
                  parte del suo viaggio resta sospeso a meno di un metro d'altezza. 
                  La legge prevede che intorno all'oleodotto non si possa costruire 
                  nulla, ma i coloni che nei decenni scorsi si sono trasferiti 
                  nell'Amazzonia hanno edificato case a pochi metri dal tubo, 
                  che viene utilizzato come stendino per il bucato, come panchina 
                  nella fermata dell'autobus e come riscaldamento di un pollaio, 
                  visto che la temperatura del crudo raggiunge i 37 gradi. 
                  L'oleodotto è stato finanziato nel 1972 dalla compagnia 
                  petrolifera statunitense Texaco-Gulf, che sborsò 140 
                  milioni di dollari alla William Brothers perché lo costruisse. 
                  Per erigere il Sote, Texaco si vide costretta a costruire anche 
                  la strada che unisce la capitale Quito a Lago Agrio, città 
                  di 30mila abitanti nella provincia del Socumbíos. La 
                  strada corre parallela all'oleodotto e attraversa un paesaggio 
                  di rara bellezza. 
                
                   
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                    |   Ermel Chávez del Frente de Defensa de la 
                  Amazonía  mostra un bastone dopo averlo immerso in una piscina  | 
                   
                 
                 
                
                   
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                    |   El Sote, l'oleodotto che corre da Lago Agrio sino 
                  alle  raffinerie di Esmeraldas, sulla costa del Pacifico  | 
                   
                 
                 
                Frente de Defensa de la Amazonia 
                 Il vero nome della città amazzonica è Nuevo 
                  Loja ma tutti (mappe comprese) la chiamano Lago Agrio, “spagnolizzando” 
                  l'inglese Sour Lake, città texana in cui ebbe inizio 
                  la lunga storia della Texaco. Infatti, proprio come Sour Lake, 
                  Lago Agrio è cresciuta intorno ai pozzi petroliferi di 
                  Texaco: fra il 1964 e il 1990 la compagnia ne perforò 
                  più di 300 nell'Amazzonia ecuadoriana. Quando abbandonò 
                  il paese Texaco – che nel 2001 si fuse con Chevron – 
                  lasciò un disastro ambientale più grave di quello 
                  causato dalla British Petroleum nel 2010 nel Golfo del Messico. 
                  E non si trattò di un incidente, ma fu un disastro intenzionale. 
                  “Sono nato a duecento metri dal pozzo petrolifero, cresciuto 
                  in mezzo a questo disastro che per me era la normalità. 
                  Solo quando mi sono trasferito altrove ho capito che a Lago 
                  Agrio la vita è differente”, racconta Donald Moncayo, 
                  cresciuto vicino a una delle 880 “piscine” che Texaco 
                  ha creato intorno ai suoi pozzi petroliferi. Come spiega Ermel 
                  Chávez, dirigente del Frente de Defensa de la Amazonía 
                  (Fronte di Difesa dell'Amazzonia), “La compagnia gettava 
                  rifiuti tossici nelle piscine. Ha versato intorno ai 68 miliardi 
                  di litri di acqua tossica e 680mila barili di petrolio che sono 
                  filtrati fino ai fiumi e alle falde acquifere, visto che le 
                  piscine non sono rivestite”. 
                  Quelle che nel Socumbíos chiamano “piscine” 
                  non sono altro che grandi pozzanghere di crudo in piena foresta 
                  Amazzonica. Intorno a loro giocano i bambini che vivono nelle 
                  case vicine, mentre le famiglie si fanno il bagno nei fiumi 
                  e utilizzano l'acqua per irrigare e lavare i panni. Forse non 
                  è un caso se in questa zona si registrano i tassi più 
                  alti di cancro, leucemia infantile e aborti spontanei del paese. 
                  “Negli Stati Uniti Texaco non ha fatto lo stesso”, 
                  denuncia Pablo Fajardo, coordinatore del gruppo di avvocati 
                  della parte civile. “Qui in Ecuador ha avuto questo comportamento 
                  criminale sia per risparmiare soldi sia per razzismo, perché 
                  considera che la vita dei popoli indigeni vale meno della vita 
                  di un qualsiasi statunitense”. Infatti, il disastro ambientale 
                  ha anche causato lo sfollamento dei popoli indigeni di questa 
                  parte di Amazzonia, compromettendo la loro identità e 
                  integrità culturale che è fortemente associata 
                  alla salute del territorio. 
                  Nel 1993, un gruppo di persone che l'anno successivo creò 
                  il Frente de Defensa de la Amazonía (a cui hanno aderito 
                  circa 30mila persone) fece causa a Texaco presso un tribunale 
                  di New York, ma l'impresa riuscì a trasferire il processo 
                  in Ecuador. Nel 2011 è arrivata la sentenza storica: 
                  un tribunale della provincia del Socumbíos ha condannato 
                  Texaco-Chevron a pagare 9,5 miliardi di dollari e a presentare 
                  pubbliche scuse. Le scuse non sono mai state presentate e, come 
                  previsto dalla sentenza, la multa è stata raddoppiata: 
                  19 miliardi di dollari, è la cifra più alta chiesta 
                  a una transnazionale per disastro ambientale. Pablo Fajardo, 
                  che all'inizio del processo era un giovane avvocato alle prime 
                  armi, insieme ai suoi colleghi è riuscito ad avere la 
                  meglio sull'equipe di avvocati di un gigante come Chevron. Ancora 
                  una volta Davide ha vinto Golia. 
                  L'iter giudiziario non è però concluso: il processo 
                  si trova ora in cassazione e la compagnia sta cercando in tutti 
                  i modi di non pagare la multa. Il 15 ottobre 2013 è iniziato 
                  a New York un processo in cui Texaco-Chevron accusa la parte 
                  civile di aver corrotto i giudici. “Il danno ambientale 
                  è talmente evidente che non è necessario corrompere 
                  nessun giudice. Vedremo se Chevron dimostrerà di non 
                  aver inquinato”, ha dichiarato l'avvocato Pablo Fajardo. 
                
                   
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                    |   Viaggio sul fiume Napo 
                  in una piccola imbarcazione  che da Francisco de Orellana va 
                  fino a Nuevo Rocafuerte,  nei pressi del Parco Nazionale Yasuní  | 
                   
                 
                
 
                   
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                    |   Il 
                        fiume Napo nel porto della città di Francisco de 
                        Orellana  | 
                   
                 
                 
                Ma il governo ha un “piano B” 
                 Malgrado Texaco-Chevron abbia abbandonato l'Ecuador da più 
                  di vent'anni, a Lago Agrio le trivelle continuano a funzionare 
                  e nel Sote il petrolio non smette di correre. Non è raro 
                  che l'oleodotto si danneggi nel lungo viaggio che dall'Amazzonia 
                  lo porta all'Oceano Pacifico: secondo il ministero dell'ambiente, 
                  tra il 2000 e il 2010 si sono registrati in media cinquanta 
                  guasti l'anno. L'ultimo è avvenuto il 31 maggio 2013 
                  nella zona del Reventador e ha causato la fuoriuscita di 11.480 
                  barili di petrolio, che hanno creato una macchia di 400 km nel 
                  fiume Coca. La chiazza di crudo è arrivata fino al fiume 
                  Napo compromettendo la salute di trentadue comunità indigene 
                  e l'integrità del Parco nazionale Yasuní, una 
                  magnifica porzione di Amazzonia che rappresenta il secondo luogo 
                  al mondo per ricchezza di biodiversità. Il disastro causato 
                  dal guasto all'oleodotto non è l'unica minaccia a questo 
                  paradiso: dagli anni '80 si stanno sfruttando sei blocchi petroliferi 
                  all'interno dello Yasuní, e a metà agosto il governo 
                  ha deciso di autorizzare la perforazione di un giacimento all'interno 
                  della sua zona “intangibile”, che ospita il 20 per 
                  cento delle riserve del paese. 
                  Nel 2007 il governo di Rafael Correa, che fa parte della corrente 
                  socialista latinoamericana nota come “Socialismo del XXI 
                  secolo”, aveva lanciato l'innovativa Iniziativa Yasuní-Itt 
                  per preservare la zona intangibile del parco. “Con questa 
                  iniziativa il governo ecuadoriano ha promesso di non toccare 
                  il petrolio presente nella zona intangibile in cambio di denaro 
                  da parte della comunità internazionale”, spiega 
                  Osvaldo León, coordinatore dell'ecuadoriana Agencia Latinoamericana 
                  de Información (Alai). “Il governo ha detto: non 
                  estrarremo il petrolio ma abbiamo bisogno di soldi per finanziare 
                  strade, scuole e ospedali. L'iniziativa è stata accolta 
                  con molto favore soprattutto in Europa, ma a causa della crisi 
                  economica alcuni paesi si sono tirati indietro”. 
                  L'Iniziativa Yasuní-Itt avrebbe permesso di mantenere 
                  nel sottosuolo del parco 848 milioni di barili di petrolio, 
                  preservando l'integrità di un luogo fondamentale per 
                  la salute dell'ecosistema a cambio di un investimento da parte 
                  della comunità internazionale di 3 miliardi e 600 milioni 
                  di dollari, cifra che equivale al 50 per cento degli introiti 
                  che l'Ecuador avrebbe percepito dall'estrazione del petrolio. 
                  Nell'agosto 2013 il governo ha ammesso di aver raccolto poco 
                  più di 13 milioni di dollari (0,37 per cento della cifra 
                  obiettivo), dando tutta la colpa ai paesi maggiormente responsabili 
                  del cambiamento climatico, che accusò di ipocrisia. Correa 
                  ha quindi deciso di mettere fine all'Iniziativa Yasuní-Itt, 
                  autorizzando lo sfruttamento del campo Tiputini che si trova 
                  all'interno della zona intangibile, anche se un sondaggio dell'istituto 
                  Perfiles de Opinión mostra che il 92,7 per cento della 
                  popolazione è contraria alla decisione. 
                  La scelta di Correa non dovrebbe sorprendere più di tanto, 
                  se si considera che nel marzo 2007 aveva firmato un memorandum 
                  con le imprese Petrobras (Brasile), Sinopec (Cina) e Enap (Cile) 
                  sul possibile sfruttamento del Itt. Già dal principio, 
                  quindi, il progetto contemplava la “opzione B”, 
                  che prevedeva lo sfruttamento del campo Itt nel caso in cui 
                  l'iniziativa non avesse raggiunto la quantità di denaro 
                  stabilita. 
                  “La politica del governo è confusa: parla di conservazione 
                  della natura e allo stesso tempo vuole approvare nuove concessioni 
                  petrolifere dicendo che utilizzerà tecnologie all'avanguardia 
                  che non inquineranno, quando sappiamo che è impossibile 
                  estrarre petrolio senza inquinare. E poi, secondo noi, la conservazione 
                  della natura dovrebbe essere una politica senza condizioni”, 
                  spiega Ermel Chávez del Frente de Defensa de la Amazonía. 
                
                   
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                    |   L'entrata del Parco nazionale Yasuní  | 
                   
                 
                 
                
                   
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                    |   La 
                        laguna di Tambococha, nel Parco nazionale Yasuní  | 
                   
                 
                 
                Colpevoli di “ecologia infantile” 
                 Lo sfruttamento del Itt non causerà solo danni ambientali, 
                  visto che la pressione delle imprese che stanno sfruttando i 
                  giacimenti presenti nel Yasuní, esterni alla zona intangibile, 
                  è il motivo principale del conflitto che dal 2003 sta 
                  insanguinando il parco. Da quando le compagnie petrolifere si 
                  sono installate nel Yasuní, i popoli indigeni vengono 
                  spinti verso nuovi territori a causa dell'inquinamento acustico 
                  e della contaminazione della terra e dei fiumi, che creano difficoltà 
                  all'agricoltura, alla caccia e alla pesca. Inoltre, mentre alcuni 
                  popoli come i tagaeri e taromenane hanno deciso di vivere in 
                  isolamento volontario – senza avere, cioè, contatti 
                  con la “civiltà” – per preservare la 
                  propria identità e cultura, altri accettarono la presenza 
                  delle transnazionali petrolifere. Secondo Napoleón Saltos, 
                  direttore della Escuela de Sociología de la Universidad 
                  Central del Ecuador, una sparte dei waoranis si sono venduti 
                  alle compagnie e appoggiano i loro interessi. Il conflitto tra 
                  i popoli che vivono nel parco ha causato numerosi morti. 
                  Il sacerdote cappuccino Miguel Ángel Cabodevilla, studioso 
                  dei popoli indigeni che vivono nel parco, ricorda che il governo 
                  ecuadoriano è responsabile delle “Politiche di 
                  protezione dei popoli in isolamento”, e che dovrebbe vigilare 
                  sul rispetto dell'art. 57 della Costituzione, il quale afferma: 
                  “i territori dei popoli in isolamento volontario sono 
                  di possesso ancestrale, irriducibile e intangibile, e in essi 
                  sarà proibita ogni tipo di attività estrattiva”. 
                  Correa, da parte sua, sostiene che non si può “essere 
                  mendicanti mentre si sta seduti su un sacco d'oro”, e 
                  ha bisogno di entrate per finanziare il welfare e i cantieri 
                  che in Ecuador spuntano come funghi. Il governo socialista sudamericano 
                  promuove la nazionalizzazione delle risorse naturali e la redistribuzione 
                  della ricchezza tra la popolazione, ma non ha creato un modello 
                  di sviluppo differente a quello delle amministrazioni precedenti. 
                  Il consenso popolare continua a essere alto visto che, con il 
                  5,5 per cento del pil, il paese sta vivendo un boom economico 
                  superiore a quello brasiliano. Chi invece si oppone alle politiche 
                  della Revolución Ciudadana (Rivoluzione cittadina) correista 
                  viene accusato di essere un “ecologista infantile”, 
                  e può finire in carcere. 
                
                   
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                    |   Pescatori nel Parco nazionale Yasuní  | 
                   
                 
                 
                Sfruttamento e compensi 
                 Lo sfruttamento dell'oro nero sta minacciando altri popoli 
                  indigeni dell'Ecuador. Con la XI Ronda Petrolera, che terminerà 
                  il prossimo novembre, il governo sudamericano vuole dare in 
                  concessione altri Pastaza e Morona Santiago. Il governo ha realizzato 
                  un tour per presentare l'offerta in Colombia, Stati Uniti, Francia, 
                  Canada e Cina, paese con cui l'Ecuador ha un debito di più 
                  di 9 miliardi e mezzo di dollari e che rappresenta il suo principale 
                  socio commerciale. 
                  Secondo Osvaldo León dell'Alai, le negoziazioni hanno 
                  caratteristiche differenti da quelle portate avanti dai governi 
                  precedenti. “Correa cerca di rafforzare le relazioni sud-sud”, 
                  spiega León. “Ad esempio, si privilegiano gli accordi 
                  con imprese di paesi del Sud a maggioranza statale e per questo 
                  alcune transnazionali petrolifere sono ricorse al Icsid (istituzione 
                  della Banca mondiale nata per risolvere conflitti riguardanti 
                  gli investimenti esteri). Ora, quando c'è un concorso, 
                  le imprese a maggioranza statale hanno un livello preferenziale 
                  nella misura in cui garantiscano trasferimento di know-how, 
                  mentre i contratti precedenti non prevedevano nessun trasferimento 
                  di sapere tecnologico. Ad esempio, una delle relazioni chiave 
                  del governo ecuadoriano è con l'impresa petrolifera brasiliana 
                  Petrobras, di cui il 51 per cento appartiene allo stato. È 
                  una relazione molto strategica se si considera che il Brasile 
                  ha un grande peso specifico nella regione: la Banca nazionale 
                  di sviluppo brasiliano ha più del 55 per cento degli 
                  investimenti in sviluppo in Sud America”. 
                  Inoltre, secondo il quotidiano governativo El Ciudadano, le 
                  imprese che otterranno la concessione di sfruttamento dei nuovi 
                  blocchi dovranno realizzare investimenti obbligatori minimi 
                  per lo sviluppo economico e sociale delle comunità che 
                  si trovano nell'area. Questo denaro non sarebbe gestito dalle 
                  compagnie petrolifere ma dallo stato, che lo dovrebbe investire 
                  in progetti concertati con le comunità che vivono intorno 
                  ai blocchi. 
                  Tuttavia, le nazioni indigene ecuadoriane non credono che le 
                  opere promesse possano davvero compensare i danni che lo sfruttamento 
                  petrolifero causerebbe. Cristóbal Jimpikit, presidente 
                  della Federación Shuar de Pastaza (un'organizzazione 
                  indigena del sud del paese) ha dichiarato: “Abbiamo deciso 
                  di non permettere l'ingresso delle imprese di estrazione, dichiariamo 
                  lo stato di massima allerta di fronte ai piani delle imprese 
                  che vogliono entrare nelle nostre comunità”.
                  Orsetta Bellani
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